Amicizia e sinodalità
Nel libro di Robin Dunbar, Amici, Einaudi
2022, è esposto in forma divulgativa il risultato di anni di ricerche, insieme
ad altri studiosi, sul tema dell’amicizia.
Abbiamo una limitata capacità di farci degli amici. Li organizziamo per
cerchie: a quelli che collochiamo nelle più esterne dedichiamo meno tempo. Circa
5 sono i migliori amici. Circa 15 i buoni amici. Circa 50 gli amici.
Possiamo entrare in relazione, in modo da ricordarcene almeno il nome, con
circa 150 persone. Mantenersi degli amici richiede di prendersi cura della relazione con
loro, costa tempo. Le relazioni disinteressate sono limitate a coloro che
consideriamo amici. Al di là ci aspettiamo un contraccambio. Condividiamo
questa struttura amicale con gli
altri primati. Averla ci ha dato dei vantaggi competitivi. Abbiamo sviluppato
alcune aree del cervello che servono a quelle relazioni. Le più intense, quelle
alle quali dedichiamo più tempo, le abbiamo con circa cinque persone.
Com’è che nel mondo di oggi circa otto miliardi di persone sembrano
comporre un’unica società? E’ una rete in cui i piccoli gruppi sono
collegati agli altri per mezzo di mediatori, persone, miti, istituzioni. Anche
la religione fa la sua parte.
Non è detto che i migliori amici siano persone viventi nel nostro mondo. Nelle esperienze
religiose si vivono relazioni intensissime con persone immaginate, che non
si vedono. Possono farsi talmente
intense da escludere ogni altra. Più una relazione è intensa, meno tempo si ha
per le altre. Questo è un limite fisiologico, che deriva da come funziona la
nostra mente.
Di solito abbiamo un piccolo nucleo di
amicizie forti e un più vasto numero di altra amicizie o conoscenze. In certe
condizioni, ad esempio quando si arriva in una nazione straniera, si sta con i
propri simili e allora le amicizie forti aumentano, ma diminuiscono molto le
altre relazioni. Le sette religiose tendono a confinare le persone in un
nucleo di relazioni forti più ampie, ma così facendo esse non hanno più tempo
per tutto ciò che c’è intorno. Il piccolo gruppo, che è in genere la
dimensione in cui sperimentiamo le relazioni che danno senso alla vita, diviene
così una sorta di prigione. Ciò che c’è al di fuori viene vissuto come qualcosa
da cui difendersi, che mette in pericolo le relazioni, ricche di senso, che si
vivono dentro.
Nel corso dell’incontro sinodale sui compagni di viaggio, una
persona che partecipava al mio gruppo ha detto, quando si è discusso della
necessità di aprirsi al quartiere, che non ne aveva tempo, era tutto assorbita
dalla sua comunità.
Quando presentiamo la sinodalità come una amicizia dobbiamo essere consapevoli che non lo potrà
essere veramente senza l’ausilio
di mediatori, in particolare senza costruire delle strutture sociali,
delle reti, che ci consentano di superare i nostri limiti fisiologici. La
teologia è una di esse. Ma anche le istituzioni, vale a dire i sistemi di
relazioni formalizzate, come quando giriamo per strada in macchina e sappiamo
come si deve circolare.
Se vogliamo costituire una sinodalità che ci consenta di realizzare buone
relazione aperte alle circa
ottomila persone del quartiere per le quali la fede è importante, o anche alle
circa mille che frequentano la chiesa parrocchiale, o le circa duecento che
sono coinvolte in qualche altra attività svolta nei locali della parrocchia, non
dobbiamo illuderci di poterci affidare solo alle emozioni, quelle che
sperimentiamo nel gruppetto dei migliori amici, o anche solo in quello
dei buoni amici. Dobbiamo metterci d’accordo per istituire quella strutture,
ad esempio una rete di piccoli gruppi che lavorano senza ignorarsi, ma in modo
coordinato, avendo di mira obiettivi comuni e, soprattutto, che siano aperti a
creare contatti, collegamenti, con altri gruppi, senza temerli e senza
etichettarli con pregiudizi. Non basta vedersi ogni tanto.
Ed è molto importante coinvolgere le persone che abitano vicine: la parrocchia
dovrebbe essere appunto la comunità
costituita dalla persone che abitano vicine. Negli esperimenti sociali di
Dunbar è emerso che le amicizie sfumano quando ci si allontana fisicamente,
diventano più deboli a seconda dei chilometri di distanza, e anche quanto
minore è la frequentazione.
Se avete partecipato ad uno dei nostri gruppi sinodali parrocchiali, ricordate
il nome di qualcuno degli altri partecipanti che prima non conoscevate? Una
esperienza può veramente dirsi sinodale solo se, essendovi coinvolte, si allarga la
cerchia dei conoscenti e poi, man mano, alcuni di essi passano in quella degli
amici. Fermo restando che la nostra fisiologia non ci consentirà di avere veri conoscenti
oltre il numero di circa 150, che è detto numero di Dunbar, proprio
da Robin Dunbar, il quale ne ha ottenuta la conferma sperimentale.
Insomma, non basta l’emotività, ma occorre
costruire una apposita cultura sinodale e, in religione, ciò richiede di
pensare anche ad una teologia. La teologia sulla sinodalità che abbiamo
si basa su esperienze del passato in cui essa era limitata ai capi ecclesiali,
agli studiosi loro consiglieri, e, fino al Quattrocento, anche a certi capi
civili. Noi la vorremmo molto più aperta.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San
Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli