Una democrazia da amare?
«E la
storia dell’umanità è storia di relazioni di dominazione tra forti e deboli,
tra ricchi e poveri, tra uomini e donne, tra vecchi e giovani. La democrazia
non è una forma statica ma è un perenne sforzo di democratizzazione delle
relazioni sociali che costantemente tendono a
riprodurre al loro interno violenza e sopraffazione. La democrazia che noi
oggi abbiamo è lo sforzo di secoli di lotte per la democratizzazione. Per
secoli era considerato naturale che ci fossero schiavi. Era considerato
naturale che le donne fossero in posizioni subordinate. Che i poveri avessero
meno diritti. E così via. Non è un processo spontaneo il far sì che in una
comunità in cui ci sono patrimoni diversi, lavori diversi, intelligenze
diverse, ognuno abbia un uguale potere di determinare con il proprio voto la
vita della comunità. E il frutto di una scelta e di una scelta complessa e
impegnativa. E il frutto di innumerevoli lotte e sacrifici.»
[Dal testo della conferenza dal titolo Amare la democrazia nelle sfide del presente
tenuta dal prof. Michele Nicoletti il 4 luglio 2024 a Trieste, durante la 50º Settimana
sociale del cattolici in Italia sul tema Al cuore della democrazia [il
testo completo può essere letto a questo indirizzo WEB
https://acvivearomavalli.blogspot.com/2024/08/amare-la-democrazia-lintervento-del.html ]
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Quando si insegna la democrazia spesso la si
presenta secondo il proprio ideale di governo sociale e, in particolare, la si
spiega come legata alla giustizia, alla solidarietà nelle
avversità della vita e, in genere, alla realizzazione del bene in società,
in particolare di quel suo aspetto che viene definito bene comune. Se ne
parla quindi come di un organismo sociale in cui tutte le parti che lo compongono collaborano
stando al posto dove per natura sono state collocate e ciò secondo un’antica
tradizione culturale che trova anche riscontri evangelici. Ciò si fa
prescindendo dall’esperienza storica che ci parla della democrazia come di tutt’altro
ed esattamente come di quello descritto nel brano del testo della conferenza
del prof. Nicoletti alla Settimana sociale di Trieste sulla democrazia.
L’essenza della democrazia è la lotta
sociale nella quale si partecipa non da singole persone ma nel quadro di un
impegno sociale forte, al quale ci si determina a mantenere fede anche a costo
della vita. Questo risalta nettamente nella consapevolezza storica, che è
così difficile da ottenere nella formazione alla fede che in genere viene
impartita: ogni esperienza democratica è sempre originata e sempre si è evoluta,
e quindi è stata mantenuta, perché nessuna forma politica può mantenersi se non
evolvendo, mediante la lotta sociale.
Ma
lotta contro che cosa e per quali motivi?
Un processo democratico origina sempre per
contrastare un potere sociale, non solo politico, che preme sulle masse
rifiutando critica e limiti. L’obiettivo democratico è riformarne la struttura sottoponendolo
a limiti, ponendo le condizioni perché possa evolvere senza violenza e perché
non vi siano altri poteri che rivendichino sovranità, che significa rifiutare
qualsiasi limite.
Un centro di potere che rivendichi sovranità
è un assolutismo.
Nella
mitologia democratica la sovranità è attribuita ad un’entità mitica, il popolo, e a nessun altro reale centro di potere.
Nella realtà i popoli non esistono, esistono solo popolazioni.
Che cos’è un mito?
Una
definizione di mito che ho trovato molto completa è questa, che si trova
in Esodo dello storico ed egittologo tedesco Jan Assman,
Adelphi 2023 (l’originale in tedesco è del 2015), anche in e-book e Kindle, ed
è la seguente:
“E’
proprio dei miti essere raccontati di continuo e in sempre nuove versioni. Essi
hanno la capacità di fondare e di spiegare la vita, e gettano luce su
situazioni ed esperienze cui conferiscono senso e orientamento.
I
miti sono nuclei narrativi, la cui multiforme elaborazioni aiuta le società, i
gruppi e anche i singoli individui a costruirsi un’identità, ossia a capire chi
sono e qual è il loro mondo, così come a dominare situazioni complesse e crisi
esistenziali”.
[dall’Introduzione]
Nessuna società umana può essere governata
senza far ricorso ai miti e ciò per gli insuperabili limiti cognitivi legati
alla nostra biologia, che ci impediscono di comprendere veramente le moltitudini.
Il mito democratico del popolo è costruito sulla base dell’idea di gente
in lotta. Pensandosi parte di un organismo sociale in lotta, il popolo,
si accetta la relativa identità sociale e i ruoli che vi sono legati.
In genere quel mito si articola con altri
elementi mitici che fanno riferimento al popolo, come quello della nazione,
concepito pensandosi come appartenenti ad un’unica stirpe in senso biologico o a certe tradizioni culturali.
Al dunque queste ulteriori mitologie possono essere facilmente screditate, in
particolare per l’intensissima contaminazione etnica nella specie degli Homo
sapiens con le conseguenti contaminazioni culturali. Questo vale anche per
il mito di popolo in senso religioso, come quello di pensarsi fantasiosamente
discendenti del mitico Abramo delle Scritture. Il mito democratico del popolo
come gente in lotta resiste
invece alle confutazioni. Il suo corollario è che si diventa popolo impegnandosi
nella lotta, non l’inverso. La congiura (in senso etimologico, dal
latino coniūrāre,
che significa "giurare insieme": l’ accordo solenne tra più persone
con l'intento di perseguire un obiettivo comune) è all’origine del processo
democratico, quando lo scopo comune è quello di riformare un assolutismo o,
comunque, un sistema di limiti sociali costituito che si ritenga insufficiente,
e, insieme, del relativo mito politico di popolo.
Perché
è necessaria la lotta democratica?
Lo è perché la legge generale del potere
sociale, di ogni potere sociale, è che esso tende ad espandersi e a perpetuarsi
nel tempo finché non trova una valida resistenza. Questo si osserva anche nei
gruppi di animali sociali, ad esempio negli altri Primati.
In questo contesto il potere sociale è
legittimato solo dalla violenza sociale.
L’organizzazione sociale è divenuta essenziale
per la sopravvivenza degli esseri umani. E’ basata sulla collaborazione nel
contesto di un certo assetto sociale di potere. In presenza di centri di potere
che riescano a liberarsi di validi limiti derivanti dalla resistenza sociale, essi
sicuramente abuseranno del proprio dominio a spese dei più, costruendo
una propria legittimazione mitica, anche di tipo sacrale, per questo loro assetto
del potere. Un processo democratico sorge da una congiura collettiva, nel
senso che ho precisato, per la riforma degli abusi di potere. Si confida
che in massa si possa riuscire ad avere ragione del potere sociale che abusa.
Nei processi democratici che si sono
sviluppati in Europa e nelle altre zone del mondo di colonizzazione europea da
fine Settecento, la congiura democratica è stata anche legata al proposito di
instaurare un regime politico che riconoscesse alcuni diritti fondamentali di
libertà alle singole persone, senza distinzione riguardo alle loro posizioni
verso gli apparati politici di vertice. In ciò consiste, fondamentalmente, il
principio politico dell’eguaglianza tra i cittadini, che
differisce marcatamente dall’idea di eguaglianza che è sviluppata ad esempio in
filosofia, o in teologia. L’uguaglianza democratica è in genere espressa come eguaglianza dinanzi
alle legge.
Troviamo
espressa questa cultura democratica nel primo comma dell’art.3 della nostra
Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1 gennaio 1948 e mai riformata
su questo punto:
Art. 3
1. Tutti i
cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali.
La cultura democratica che si è sviluppata
nel Secondo dopoguerra conduce ad una concezione più ampia di eguaglianza,
più vicina ad una di tipo filosofico, vale a dire quella secondo la quale alcuni
diritti fondamentali devono essere riconosciuti ad ogni essere umano a
prescindere dal contesto politico in cui è inserito.
E’ questo lo spirito che condusse l’Assemblea
delle Nazioni Unite ad approvare, il 10 dicembre 1948, la Dichiarazione Universale dei diritti
dell’uomo
Articolo 1
Tutti
gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono
dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in
spirito di fratellanza.
Articolo 2
Ad
ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella
presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di
colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro
genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra
condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto
politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona
appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non
autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.
[…]
Ne
troviamo espressione anche nel testo solenne della congiura che diede
avvio alla rivoluzione americana, carattere democratico, a fine
Settecento (4-7-1776), la Dichiarazione di indipendenza americana.
Quando, nel corso degli eventi umani, diviene necessario per un popolo
rescindere i legami politici che lo legavano ad un altro, ed assumere tra le
Potenze della Terra la posizione separata ed eguale alla quale le Leggi della
Natura e del Dio della Natura gli danno titolo, un giusto rispetto delle
opinioni dell’Umanità richiede che essi manifestino le cause che li costringono
alla separazione.
Noi teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse
evidenti: che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal
loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi vi siano
Questa concezione corrisponde a quella insegnata
dalla dottrina sociale cattolica contemporanea, in linea con un’antica
tradizione.
Possiamo considerare l’ideale di eguaglianza
come strumento di contestazione del
potere sociale a cui ci si oppone in un processo democratico, contestandone la
legittimazione, che in genere viene proposta presentando il centro di potere
dominante come espressione dei ceti
sociali migliori e/o più meritevoli
e/o legittimati da una divinità, quindi sull’idea di gerarchia tra soggetti ineguali. Ma anche come principio
ordinatore della riforma istituzionale dopo la riuscita del processo
democratico, per contrastare ulteriori abusi di potere.
Il riconoscimento anche di diritti sociali
fondamentali (casa, pane, lavoro, assistenza sanitaria e previdenziale,
istruzione pubblica) è strumento democratico per estendere l’area della massa
popolare capace di critica sociale e quindi di aderire al patto democratico. I poteri sociali
che abusano spesso si valgono dell’ignoranza e dell’indigenza delle masse
popolari, presentandosene addirittura come patrocinatori, salvo mantenerle in quelle
condizioni.
Di fatto la realizzazione di società egualitarie
in ambienti democratici è stato un processo difficile e, per molti aspetti,
ancora in corso negli ordinamenti democratici più evoluti.
E’ per
questo che il prof. Nicoletti ha detto che:
«La
democrazia non è una forma statica ma è un perenne sforzo di democratizzazione
delle relazioni sociali costantemente tendono a riprodurre al loro interno
violenza e sopraffazione »
Questo sforzo è la lotta in cui consiste
la democrazia.
In genere la democrazia viene
presentata, soprattutto ai più giovani, come una sorta di galateo sociale,
ma così non se ne dà un’immagine realistica.
Chiediamoci però: è possibile amare la democrazia nella sua reale natura di lotta
sociale?
Amiamo ciò che dà senso alla nostra
vita inserendoci in una comunità vitale che ci accetta e ricambia il nostro sentimento. L’amore è legato alla riproduzione e vita comunitaria
dove si svolgono le relazioni fondamentali della persona.
Non è possibile amare se non delle persone
vive, salvo che ce se ne costruisca
un’immagine mitologica, e allora si può andare oltre.
Si può amare la vita in certe comunità democratiche in
lotta, ma la lotta in sé, no. A meno di non trasfigurare mitologicamente la democrazia a cui si partecipa,
o addirittura, ogni democrazia, concependola un po’ come la propria famiglia.
In
realtà vi sono stati processi democratici che hanno presentato aspetti
veramente poco amabili, ad esempio durante la rivoluzione francese tra il 1789
e il 1799, con eccidi di massa. Lo stesso Risorgimento italiano tra gli anni ’20
dell’Ottocento e il 1870, che fu anche una rivoluzione democratica, venne
attuato in modi estremamente sanguinosi.
Purtroppo nessun processo democratico è stato
storicamente completamente alieno dalla violenza politica nella sua fase
insurrezionale, anche se ai nostri giorni le alternative nonviolente sono ritenute
praticabili (per altro in occasione dello scoppio del conflitto in Ucraina le
si è irrise da molti e i loro fautori sono sospettati di intelligenza con gli invasori russi).
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli