Cattolicesimo
democratico 15
La
pratica cattolico-democratica
Il
cattolicesimo democratico è una pratica sociale, che poi può, ma anche no, dar
luogo a una corrispondente teoria e quindi poi ad una ideologia. La persona
cattolico-democratica si riconosce perché si sforza di costruire società o di
modificare quelle esistenti senza prevaricare.
La
democrazia è il patto per porre limiti ad ogni potere sociale, e questo è il
suo valore fondamentale. Il cattolicesimo democratico ve ne aggiunge altri,
innanzi tutto quello, di matrice evangelica, dell’esercizio del potere
come servizio al benessere della gente, non genericamente
della collettività, ma di ogni persona che la manifesta. Poi vi è quello dell’agàpe, della
benevolenza universale, solidale, conviviale, misericordiosa, ciò che limita le
pretese predatorie dei poteri sociali verso gli altri gruppi e all’interno del
gruppo.
Qui
sono i valori dei cattolici a orientare l’esercizio della democrazia. Nella
pratica ecclesiale è invece quest’ultima l’elemento connotante.
Non
vi è democrazia senza libertà di pensiero, di espressione e di azione sociale.
Sono altrettanti limiti all’esercizio del potere sociale. Nella Chiesa
cattolica quelle libertà sono oggi riconosciute in misura veramente esigua.
Questo è attualmente un grosso ostacolo all’ evangelizzazione nelle società
dell’Europa occidentale, altamente evolute nella pratica democratica.
Un
altro elemento democratico fondamentale è la libertà di resistenza, che è una
forma di partecipazione ma anche di lotta.
In
democrazia la partecipazione della gente è il limite fondamentale ai poteri
sociali e la resistenza ne è una manifestazione. Essa è sempre latente in
democrazia e si esprime nella critica sociale, nel rifiuto di
obbedienza e nella lotta sociale. Il rifiuto di obbedienza è già una forma di
lotta, nella specie di lotta nonviolenta.
Naturalmente,
come scrisse il filosofo Aldo Capitini (1899-1968], uno tra i maggiori
divulgatori in Italia della nonviolenza, la persona
democratica abitualmente non disobbedisce e segue le procedure formali per le
decisioni collettive, e se decide di disobbedire lo fa solo perché sono in
questione valori fondamentali. Questa disobbedienza, che è decisione
nonviolenta di non collaborare al male, è anche chiamata obiezione di
coscienza. Secondo la dottrina della nonviolenza, che nell’era
contemporanea cominciò ad essere praticata e venne anche teorizzata dal
politico indiano Mohāndās Karamchand Gāndhī (1869-1948),
detto Mahatma vale a dire grande anima, nella
resistenza nonviolenta si deve accettare di subire con coraggio e apertamente
le sanzioni sociali conseguenti. Questo per produrre, mediante lo spettacolo
della propria sofferenza, una reazione di ripudio del male nei propri
persecutori.
In democrazia
l’obiettivo di impedire la costituzione di poteri che rifiutino limiti, e che
quindi rivendichino sovranità, è perseguito anche con
ordinamenti costruiti secondo il principio della separazione dei poteri
pubblici di vertice: esso consiste nell’imporre ad essi anche la
funzione di mantenersi autonomi, liberi e in posizione critica verso gli altri,
collaborando con essi nei limiti delle rispettive attribuzioni. in modo da
impedire l'accentramento del potere verso il quale le dinamiche sociali naturali porterebbero..
Da
tutto ciò deriva che le democrazie sono tenute in una condizione di fisiologica
e permanente instabilità, in modo da consentire anche l’ordinata e non
distruttiva evoluzione sociale, con il declino dei gruppi
egemoni, l'emergere di altri, e comunque con la persistenza costante ed
effettiva di contropoteri, e il conseguente possibile mutamento delle
caratteristiche della società di riferimento. Questo non è un
sintomo di crisi, ma del corretto funzionamento delle dinamiche democratiche,
salvo che si produca una degenerazione esplosiva per l’abuso di potere di
gruppi che vogliono imporre la propria volontà a tutti i costi, per vincere la
resistenza degli altri, e ciò sia per non essere spodestati da gruppi emergenti
come pure per spodestare quelli in precedenza egemoni. In questo caso si ha la
dissoluzione sociale e il ritorno al dominio della legge della forza, quella
della natura dalla quale come viventi emergiamo. L'abuso di potere si ha quando
si pretende di dominare senza tener conto degli altri, in particolare dei
dissenzienti, secondo la legge di natura secondo la quale il più forte elimina
il più debole, anche cibandosene e quindi sopravvivendo a sue spese.
All'assetto
democratico, le dinastie sovrane che, dal Settecento europeo, contrastarono
duramente il loro progressivo affermarsi, opposero il legittimismo,
vale a dire il principio della propria legittimazione al potere sovrano per
lunga tradizione storica avvalorata dal mito religioso, per cui esse
accettavano la successione solo per diritto ereditario secondo le proprie leggi
tradizionali, pretendendo di mantenere inalterata la propria struttura, la
propria posizione di dominio e quindi le proprie attribuzioni
sociali, religiose e politiche. Questa è ancora la posizione del Papato di
Roma, una monarchia assoluta.
Una monarchia è assoluta quando
non riconosce limiti e, in questo senso, è sovrana. Di solito
questa concezione è basata su una concezione organicistica della società,
vedendovi metaforicamente un corpo nel quale ad ogni parte è
attribuita una funzione, tutte collaborano al benessere dell’organismo
rimanendo sempre nel posto che è loro assegnato dalla natura e nessuna tenta di
mutarlo. È ovvia la convenienza di questo modello per i ceti sociali che si trovano
in una certa epoca ai vertici.
Di
fatto, la storia dimostra che tutte le società umane si
sono evolute, quelle dominate da assolutismi irriducibili mediante
rivoluzioni violente. Le società che non riescono ad evolversi seguendo
l'evoluzione antropologica delle relative popolazioni scompaiono o, più spesso,
continuano a persistere solo come elementi culturali di un nuovo ordinamento
sociale che riesce a imporsi al loro posto. Le Chiese cristiane non hanno fatto
eccezione e solo nel mito sono rimaste le stesse dalle origini.
La democrazia è una conquista culturale sociale non facile, perché le dinamiche
naturali portano in altra direzione. E chi è più forte trova sempre buone
ragioni per prevalere e poi, a cose fatte, per aver prevalso. La critica
sociale democratica ha la funzione di porle in questione. Esserne capaci
richiede una formazione specifica. Per questo l'istruzione è un fattore vitale
per lo sviluppo democratico. Ma anche il tirocinio, vale a dire la pratica
concreta della realizzazione della democrazia nella vita sociale. Essa è
indispensabile,in particolare, per correggersi e seguire l'evoluzione sociale.
Il
tirocinio della costruzione sociale può farsi meglio nei piccoli gruppi, vale a
dire quelli costituiti da una trentina di persone, le quali giungono a
conoscersi a fondo con la possibilità di una forte
interrelazione emotiva.
Va
osservato che gli organismi di vertice delle società più grandi, nelle quali
l’interazione e mediata da miti, riti e diritto, sono in genere strutturati
come piccoli gruppi, siano essi governi o comitati di presidenza di assemblee
più partecipate o sottocommissioni di studio, o giudici collegiali. Per questo
è molto importanza far pratica democratica nei piccoli gruppi. E' lì che si
impara il governo democratico delle società.
In
un piccolo gruppo si manifestano tutte le dinamiche di potere delle società più
grandi. Esso, in mancanza di una valida resistenza partecipativa, può
degenerare presto in un assolutismo, il che, in genere, produce
l’allontanamento delle persone che rifiutano di assoggettarvisi. La forza
costrittiva di un piccolo gruppo è, però, in genere minore, per cui
l’allontanamento rimane possibile, salvo che in alcuni gruppi della criminalità
organizzata, anche politica, dove domina la legge della forza.
Chi
organizza con altre persone un piccolo gruppo su basi democratiche dovrà prima
di tutto formalizzare il patto democratico di ripudio dell’assolutismo e di
riconoscimento delle libertà partecipative, che significa anche vietarsi di
escludere. Questo può avvenire fin da piccoli, fin dalle prime esperienze
sociali: anche la formazione religiosa dovrebbe occuparsene, data l’importanza
che nella nostra fede è data all’agàpe.
Negli
ambienti cattolici un problema è costituito dal clero, che di solito, basandosi
su un diritto ecclesiastico di una Chiesa strutturata come un assolutismo,
rivendicano una supremazia indiscutibile. Tale è anche l’organizzazione
dei Consigli pastorali parrocchiali della Diocesi di Roma secondo
il nuovo statuto dato loro da papa Francesco l’8 settembre 2023.
La
democrazia è stata pazientemente insegnata al clero e ai religiosi da chi la
praticava in società, innanzi tutto dai movimenti cattolico-democratici,
cercando di convincere senza rompere la sinodalità. Bisogna, credo, continuare
su quella via, cercando di praticare sempre più ampiamente il metodo
democratico nelle comunità ecclesiali, in modo da porre le basi per una
riflessione teologica su quella esperienza, che ora manca.
Lo
scopo principale della teologia cristiana di tutti i tempi è stato quella di
legittimare poteri ecclesiastici. egemoni o rivendicanti egemonia. La teologia
cattolica è attualmente controllata dalla gerarchia ecclesiastica ed è il
principale oggetto della formazione catechetica della gente che va in chiesa.
Essa insegna prima di tutto l'obbedienza, nonostante l'evidente blando
anarchismo del magistero evangelico, che fu la ragione politica del supplizio
con cui si cercò di escludere il Maestro e poi del contrasto con i suoi
seguaci. Questo rende più difficoltoso affrontare il tema della riforma della
partecipazione nelle comunità ecclesiali, che oggi è consentita solo in forme
insoddisfacenti e per di più umilianti.
Inutile,
per questo, perdere tempo ragionando di teologia e della Chiesa in generale. La
teologia, in particolare, sacralizza dove si dovrebbe evolvere. Meglio partire
dalla pratica nei piccoli gruppi ecclesiali nelle realtà di prossimità cercando
di introdurvi consuetudini democratiche e, in primo luogo, più libertà
democratiche, poi cercando di ordinarle in modo che possano deliberare ed
evolvere mantenendosi coese, senza esplodere e senza affidarsi al principio
della soggezione assoluta all’autorità ecclesiastica, per cui essa
debba avere sempre l’ultima parola su tutto, secondo l'idea
che un prete vale più di tutte le altre persone insieme ed
esse senza di lui non sono Chiesa mentre non sarebbe vero l'inverso (una
concezione che si cercò di superare durante il Concilio Vaticano 2°, con scarso
successo finora).
A
dirlo sembra facile, ma realizzarlo, anche in piccoli gruppi, non lo è, proprio
perché essi sono piccoli e tutte le dinamiche di potere che si
manifestano nelle società più grandi, però lì attenuate da mito, rito e
diritto, vengono alla luce con più forza e rapidità a causa delle relazioni
personali molto intense perché molto ravvicinate. Chi ha esperienza di queste
cose lo sa bene.
Si
tenga conto, però, che la funzione della predicazione è realmente essenziale
nella vita ecclesiale ed essa deve essere affidata, come ministero
ecclesiale, a persone ben formate e di animo saldo. È
ragionevole quindi che lo scrutinio di chi vi si candida sia strutturato su
basi sacrali, quindi invocando l’assistenza soprannaturale. Essa non è
democratizzabile, nel senso che il predicatore deve avere la forza
anche di predicare contro la volontà dei più. In questo senso vale come
contropotere verso gli abusi di potere delle masse. Qui è in questione l’apostolicità,
principio ecclesiale fondamentale, e se ne deve tener conto nell’organizzare
esperienze democratiche ecclesiali di piccolo gruppo. Tutte le volte che è in
questione il ministero della predicazione, il principio dovrà essere quindi
quello del “non senza di noi, non solo da noi”, nello spirito della
sinodalità. La predicazione ministeriale, quella affidata come
ministero, non dovrà dunque mai essere
prevaricata, umiliata, impedita, esclusa o arbitrariamente
surrogata in una comunità ecclesiale, finché mantenga il carattere
suo proprio.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli