Sinodalità e pluralismo
La sinodalità è un modo di fare Chiesa: un metodo basato sui principi di rispetto della dignità delle persone, di partecipazione e di corresponsabilità.
Le strutture ecclesiastiche principali italiane non sono attualmente sinodali. Nelle parrocchie perché non lo si è mai fatto e non è stato ancora istituito un sistema di regole per poterlo fare. Ad altri livelli della gerarchia, per l’assolutismo episcopale e papale.
È paradossale, perché la maggiore partecipazione che si vorrebbe indurre con la sinodalità dovrebbe coinvolgere maggiormente la base, ma i processi sinodali attualmente in corso da noi sono stati ordinati dal Papa, quindi da un autocrate, organizzati senza troppa convinzione dalla burocrazia ecclesiastica, con scarsissimo interesse da parte dell’altra gente.
La dottrina corrente insegna che noi tutti avremmo un fiuto per intuire la via giusta tra quelle proposte, cosa che a me risulta poco evidente. I più mi pare che non sappiano che pesci prendere, ad esempio in materia di sinodalità. Ma io non sono un teologo.
Di solito la si pensa diversamente in molte cose, pur mantenendo alcuni agganci sui fondamentali, nella misura in cui se ne è consapevoli. Questo è il pluralismo.
In un ambiente pluralistico essere sinodali non è semplice. Di fatto non si riesce sempre ad andare d’accordo con tutti e c’è chi, tra coloro che hanno scritto in materia, comincia realisticamente a riconoscerlo. È un fatto di comune esperienza.
C’è, insomma, in religione un certo pluralismo di modi di vivere la fede. Tutti lo possiamo constatare. In realtà nessuna persona vive la nostra fede esattamente come fa un’altra. I teologi ne sono l’esempio più eclatante. Raramente se ne trovano due che siano d’accordo su tutto. Questo si manifesta ad ogni livello della vita in comune.
Anche quando in religione si parla di comunione, non si vuole intendere, in genere, che si concordi su tutto.
Le religioni, e anche la nostra, sono espresse anche mediante miti e la produzione mitologica è incessante nelle società umane. Difficile smentire un mito, anche quando riguarda persone o gruppi dei quali si ha una memoria molto recente o addirittura attuale. In genere intorno ad ogni persona che è riuscita ad esprimere un potere pubblico significativo si costruisce un mito. Va detto, infine, che ciascuna persona organizza un mito intorno a se stessa.
Le nostre Chiese hanno avuto storicamente seri problemi nella gestione del pluralismo. Dal Duecento fino al consolidarsi delle democrazie europee nell’Ottocento hanno espresso livelli di violenza repressiva orrendi, che colpirono sapienti e gente comune. Questo non ha riguardato solo la nostra confessione, ma sicuramente essa è stata quella che l’ha espressa con più forza, istituzionalizzandola in un efferato sistema di polizia teologica e politica denominato Inquisizione. In genere nella propaganda religiosa si cerca di edulcorarne natura, scopi ed effetti. Ma per oltre seicento anni esso deturpò il nostro continente e i territori extraeuropei di colonizzazione europea. E francamente appare veramente troppo poco l’atto di rituale pentimento inscenato nella Giornata del Perdono, durante il Grande Giubileo dell’Anno 2000, non seguito da nulla di simile negli anni successivi, fino ad oggi.
Se ci si ritrova per costruire la sinodalità in una realtà di base e una persona se ne esce sostenendo di aver ricevuto una rivelazione soprannaturale pretendendo che le si dia credito, che fare? Ma anche senza arrivare a questo estremo, ci può essere chi la vuole bianca e chi nera e le parti non sentono ragioni: ciascuna vuole che sia come dice. Chi decide che fare tutti insieme? Deve essere bianca o nera?
Non sempre il pluralismo è del tipo che consente la convivenza, eppure nello spirito di sinodalità si vorrebbe cercare di rimanere insieme nonostante tutto. Invece ogni fazione (a quel punto di questo si tratta, perché si entra fatalmente in guerra) cercherà invariabilmente di prevalere sulle altre silenziandole o escludendole. Siano anatema, secondo le formule di sanzione che seguirono fino al Concilio Vaticano 1º (1870) la condanna di certe definizioni o di chi rifiutava quelle deliberate come normative, siano maledetti e allontanati.
Negli scorsi anni ’70, nei vivaci moti di rinnovamento seguiti al Concilio Vaticano 2º, ci si confrontò con un accentuato pluralismo teologico ed ecclesiale: la gente voleva partecipare e i teologi cercavano di costruire una cultura adeguata. Una sessantina di anni prima era accaduto qualcosa di simile e il Papato aveva reagito con una crudele e inesorabile repressione, che aveva fatto danni umani enormi. Dal 1985, regnante il papa Giovanni Paolo 2º ci fu qualcosa di simile: in fin dei conti non si era riusciti a gestire pacificamente quel pluralismo. La volta precedente la cosa sfociò nei disonorevoli compromessi con il regime mussoliniano e poi con quello hitleriano. La seconda nella dissoluzione del cattolicesimo democratico italiano, artefice della nuova democrazia repubblicana postfascista e protagonista del processo di unificazione europea. E’ la situazione in cui ci troviamo ora.
Nel 1973, la Commissione teologica internazionale, un organismo collegiale ausiliario inquadrato nel Dicastero per la dottrina della fede, l’istituzione di polizia teologica e politica che è l’attuale manifestazione dell’antica Inquisizione, pubblicò, con l’assenso del papa di allora, Paolo 6º, una dichiarazione sul pluralismo teologico dal titolo “L’unità della fede e il pluralismo teologico”, che può essere letta oggi con profitto perché manifesta ancora la posizione della gerarchia ecclesiastica in merito:
Fu il tentativo di porre un argine all’assolutismo gerarchico in danno della ricerca teologica. Ma mi appare assolutamente insufficiente, in particolare perché non ci si espresse in alcun modo riguardo la violenza stragista esercitata per secoli con il pretesto di “tutelare la fede del popolo di Dio”, massacrando quel popolo medesimo. Ma anche perché si intese confermare la potestà gerarchica di imporre il silenzio ed escludere per reagire contro pure manifestazioni di pensiero, quali possono essere quelle della letteratura teologica.
Agli studenti che iniziano a imparare la teologia vengono proposti manuali di acculturazione alla disciplina, nei quali se ne sintetizzano metodi e finalità. Ne possiedo uno che era uno dei libri di testo di mia madre quando studiò catechetica nella vicina università del Salesiani: di Zoltan Alszeghy e Maurizio Flick, Come si fa teologia, Edizioni Paoline 1974. Risale quindi proprio a quegli anni.
Vi leggo (pag.130-131):
«È assurdo infatti che esista una comunità di fede, la quale non possa individuare quali sono le condizioni necessarie perché uno né sia membro, indicando i limiti dell’ortoprassi e dell’ortodossia, implicate nella propria dossologia […] non ci si meraviglierà perciò che possa essere chiesto il sacrificio di rinunziare alla divulgazione giudicata pericolosa per la fede altrui […] Naturalmente l’intervento autoritativo del Magistero comporta dei rischi […] Anche il riesame in atto della reazione alla crisi modernista mostra che non raramente si procedette troppo con una mentalità da “stato di assedio” contro autori che cercavano onestamente di servire la fede, senza chiudere gli occhi davanti ai nuovi problemi […]». Poi si ricordano i casi delle insensate obiezioni contro la teoria evoluzionista e contro quella, correlata, che escludeva che l’umanità si fosse sviluppata da un’unica primordiale coppia umana, giudicata incompatibile con il dogma del peccato originale, poi in genere ritirate.
Certamente in ambiente democratico la polizia sul pensiero non è ammissibile. Uno dei principi cardine delle democrazie è la libertà di manifestazione del pensiero e dove essa non sia ammessa nella sua più ampia espressione non si può parlare di democrazia. Quando i vescovi sbrigativamente negano che la sinodalità debba comprendere la democrazia, credo che essenzialmente lo facciano per continuare ad escludere quella libertà nelle cose ecclesiali. Di fronte a posizioni del genere una persona democratica che voglia rimanere tale del tutto a ragione le contrasterà.
Non si può essere democratici e cattolici? Dal Magistero espresso dal Papato, regnante il papa Pio 12º, in poi non lo si può più affermare. La partecipazione sinodale nella Chiesa non può comprendere metodi e principi democratici? E perché mai? Anzi, è l’unico modo di mantenere una convivenza nella diversità. In particolare è il contesto di regole che può consentirla.
Ma poi c’è il fatto che il Maestro, almeno da quello che si legge di lui nei Vangeli, non appare aver voluto fondare la sua Chiesa su un sistema di definizioni normative come poi si usò fare più avanti nell’efferata nostra dogmatica. Anzi, come scrisse il grande teologo Karl Barth, i suoi insegnamenti e il suo esempio di vita appaiono improntati ad un certo blando anarchismo, pur non ripudiando assolutamente il giudaismo delle sue origini, come invece fecero circa mezzo secolo dopo i suoi seguaci. Resta anche il fatto che non ammazzò né ordinò di ammazzare nessuno per questioni di definizioni, in particolare per preservare la sua gente da idee erronee. Ordinò una conversione interiore all’agàpe, ma non di mantenerla facendo fuori le persone. Stando alla narrazione dei fatti che leggiamo nei Vangeli il Sinedrio che lo giudicò meritevole di morte agì nello stesso spirito e con le stesse finalità dell’Inquisizione cattolica.
“È assurdo che esista una comunità di fede, la quale non possa individuare quali sono le condizioni necessarie perche uno ne sia membro, indicando i limiti dell’ortoprassi e dell’ortodossia implicate nella propria dossologia”, si legge nel manuale che ho citato. Dal punto di vista dell’esperienza storica della politica si può essere anche d’accordo, ma fu così che organizzò le cose il Maestro? Andava così tra la sua gente, lui vivente? Riflettiamoci meglio sopra.
Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli