Non siamo monaci
[da Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos]
«I monaci sono monaci», ha detto, «io non sono un monaco. Io non sono un superiore di monaci. Ho un gregge, un vero gregge, non posso ballare davanti all’arca col mio gregge – delle semplici bestie, a che cosa somiglierei, vuoi dirmelo? Delle bestie, né troppo buone, né troppo cattive, dei bovi, degli asini, degli animali da traino e da lavoro. E ho anche dei caproni. Che ne farò dei miei caproni? Non c’è modo di ucciderli né di venderli. Un abate mitrato deve solo passare la consegna al frate portinaio. In caso d’errore si sbarazza dei caproni con un cenno. Io non posso, noi dobbiamo tener tutto, anche i caproni. Caproni o pecore, il padrone vuole che gli rendiamo ogni bestia in buono stato. Non metterti in testa di impedire al caprone di puzzare di caprone, perderesti il tuo tempo, rischieresti di cadere nella disperazione.
—————————————
La vita religiosa personale è fatta anche di spiritualità. La spiritualità è un atteggiamento interiore mediante il quale si cerca di dare un senso coerente a ciò che si pensa di dover essere e di servirsene per orientarsi in ciò che si fa. È una creazione della nostra mente quando interagisce nelle relazioni più importanti, quelle di mondo vitale. Non c’è naturalmente solo una spiritualità religiosa. Quest’ultima comprende un’idea del divino, inteso come la realtà che si pensa sottratta alle serie delle causalità naturali e, in questo, senso, soprannaturale.
È sorprendente l’importanza che si dà di solito alla spiritualità nella nostra pratica religiosa, quando invece nei Vangeli l’accento mi pare posto molto più sul fare, forse perché tutto si svolse molto rapidamente e non ci fu molto tempo per il resto. Poche parole del Maestro ed ecco la conversione e anche la sequela. C’era stato, prima, un travaglio interiore? Chi lo sa?
La spiritualità, come noi in genere la intendiamo e pratichiamo, fu inventata dai monaci, che nei Vangeli però non ci sono. Come si legge nel brano evangelico citato nel documento della Conferenza episcopale italiana I cantieri di Betania, Lc 8, 1-3, il Maestro, con il suo seguito di uomini e donne, girava in mezzo alla gente nei paesi di Galilea e Giudea, insegnando e risanando. Non fu un monaco, né richiese ai suoi di esserlo.
Il monaco, anche oggi come nell’antichità, è una persona che si ricava molto tempo per la spiritualità. Lo fa separandosi dal contesto sociale. E’ cosa che alle altre persone può essere consentita solo quando sono molto anziane, nei sistemi sociali dove gli anziani vanno in pensione. Altrimenti si corre sempre. Il tempo stringe.
I nostri preti, in genere, sono stati formati alla spiritualità monacale. Ci mettono molto tempo a superarla. Ci si riesce con la pratica della cura d’anime. Ma poi tendono a insegnarla alle persone laiche, per le quali, però, non va bene.
Il monaco si ritira dalla società per essere tutto per l’assoluto. Poi si accorge che così perde il senso di tutto e inizia ciò che viene descritto come un combattimento interiore. Qualcosa per la quale gli antichi monaci venivano anche descritti come atleti dello spirito. Vorrebbero pregare costantemente e si accorgono di annoiarsene, allora si colpevolizzano. La teologia morale dei vizi capitali è in gran parte costruita sulla base della loro esperienza. Nei trattati medievali c’è tutto un catalogo dei peccati dei monaci con le relative sanzioni. L’altro giorno ho letto sul giornale che un gerarca di un ordine monastico con la dignità di vescovo sarebbe sotto indagine per essersi appropriato di ingenti somme a lui affidate per il suo ufficio e per averle impiegate per fare una vita lussuosa. Cose che ciclicamente sono accadute in quell’ambiente spirituale.
Quando un monaco la fa troppo grossa, viene cacciato. Le società dei monaci sono fatte di persone che non le hanno fatte troppo grosse. Ma nella vita sociale dove le persone laiche devono fare il loro lavoro di fede c’è di tutto e tutto deve rimanervi.
Il Maestro fu molto criticato per i suoi atteggiamenti poco monacali. Frequentava infarti anche persone di pessima reputazione. Ai suoi discepoli non chiese di farsi monaci, atleti dello spirito. Comandò invece l’agápe. Essa richiede di stare in mezzo alla gente e quindi una spiritualità diversa da quella dei monaci. Più centrata sul fare il bene alle altre persone che sul sentirsi bene interiormente. Il monaco, quando ha superato tedio e tentazioni della sua vita separata, si sente consolato interiormente e se ne appaga. Ad una persona laica questo non basta.
Questo va tenuto conto nella costruzione della sinodalità. Si dovrebbe dialogare, ci si dovrebbe consultare su come va il mondo e su ciò che c’è da fare per esercitarvi un influsso, e invece si inizia intimando il silenzio, come si fa tra i monaci. Ecco che poi ci si annoia e, poiché non si ha la vocazione da monaci, si lascia.
L’esperienza storica dei monaci è stata molto mitizzata.
Realisticamente non ci ha lasciato solo cose buone.
L’umiliante nostra condizione laicale è dipesa in gran parte dalla mitizzazione della condizione monacale.
Il principale problema scaturito nel medioevo dagli ambienti monacali è stato la costruzione di un Papato imperiale, con Pietro al posto di Cesare, che non riusciamo proprio a superare.
Mario Ardigó- Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli