Linee guida per sinodalizzare in realtà di base
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Ho trascorso un'intera vita immerso in varie realtà ecclesiali. L'esperienza è una preziosa fonte di indicazioni sul da farsi per cambiare. Date certe condizioni, si può prevedere realisticamente come andrà se si influisce in certe direzioni. Da ciò possono scaturire raccomandazioni che, in quanto basate sull'esperienza, definiamo linee guida. La loro forza dipende da quando è estesa l'esperienza su cui si fondano, dall'affidabilità con cui esse vengono descritte e valutate e, sopratutto, dalla circostanza che la situazione sulla quale si deve decidere sia simile o non ai casi a cui quell'esperienza si riferisce. Un'esperienza di una singola persona è sempre limitata, anche se prolungata, come di solito è quella dei più anziani. Le procedure sinodali servono anche a confrontarla con quelle di altre persone, sempre che si riesca effettivamente a discuterne. Questo rende evidente il grave limite del metodo della conversazione spirituale raccomandato dai nostri vescovi per lo svolgimento della fase di ascolto della base nei processi sinodali in corso: infatti, seguendolo, non si dialoga e ogni persona rimane quindi confinata nel proprio limitato punto di vista.
È possibile organizzare là sinodalitá, a qualsiasi livello, a teologia normativa invariata (quella che pretende di definire le verità, vale a dire le definizioni che vengono poste come discrimine per distinguere tra chi è dentro e chi è fuori)? Certamente no, e questo è un dato che deriva dall'esperienza storica: ogni processo di riforma è stato sempre accompagnato o almeno seguito da una revisione di quella teologia. Questo è accaduto anche durante l'ultimo processo di riforma nella nostra Chiesa, quello prodottosi negli scorsi anni Sessanta durante e a seguito del Concilio Vaticano 2º. È evidente, in particolare, che le posizioni teologiche condivise a larghissima maggioranza dai gerarchi in quel concilio sarebbero state condannate e sanzionate duramente solo mezzo secolo prima.
La teologia normativa corrente, che risente della fortissima e prolungata influenza del pensiero di Joseph Ratzinger, è fondamentalmente una forma di razionalismo, che corrisponde grosso modo al formalismo che nel corso dell'Ottocento si affermò nelle scienze giuridiche portando all'era delle grandi codificazioni europee. Le verità di fede vengono organizzate in un sistema gerarchico al quale poi corrisponde l'organizzazione ecclesiale. Ogni definizione e ogni potere vengono ritenuti di valore universale in quanto fondati su argomenti razionali. Ecco che, quindi, su questo presupposto si può imporre un catechismo normativo inteso come legge ecclesiastica inderogabile riguardante quel sistema di verità, valido per tutte le persone, le incolte e le sapienti, come si è fatto nel 1992. Di solito, invece, un catechismo è un documento che è utile per gli operatori, tipicamente i catechisti, in quanto viene costantemente adattato al contesto, in particolare nel linguaggio ma anche nelle altre modalità espressive. È uno strumento che vale nella catechesi se tiene conto delle persone che devono essere formate, non è quindi vincolante per chi ne sa di più.
Naturalmente il razionalismo teologico è uno sviluppo culturale recente, non rientra certamente nella tradizione, per quanto gli autori di teologia abbiano in genere, ma non sempre, proposto argomentazioni secondo logica, e ciò in particolare da quando, dal Duecento circa, la teologia divenne anche una disciplina universitaria. Ma nel razionalismo teologico c'è molto più di questo.
In precedenza veniva data molta più importanza al pensiero degli antichi o alle decisioni gerarchiche. Imitando i giuristi si cercò anche di organizzare un sistema di fonti, in modo da avere una base condivisa su cui articolare ragionamenti. La filologia biblica, che dall'Ottocento prese piede in ambito protestante, ma che dagli scorsi anni Cinquanta si affermò anche tra i cattolici, venendo incentivata dopo il Concilio Varicano 2º, creò dei problemi in quel campo, dimostrando rigorosamente, come del resto poteva facilmente essere intuito, essendo cosa evidente, che le Scritture si formarono nel corso di un processi culturali molto lunghi, in cui confluivano diverse tradizioni e quindi diverse interpretazioni di ciò che rilevava per la fede. Il razionalismo teologico mi pare che abbia ritenuto di poter fornire, appunto su base razionale, anche la via per ovviare a quei problemi giungendo in tal modo a definire la verità, criterio teologico ma anche giuridico per ammettere ed escludere, e ciò con validità universale, quindi dovunque e sempre, regolando anche le conclusioni da trarre nelle scienze bibliche. Per ciò che posso capirne, non sono infatti uno specialista nel ramo, il razionalismo teologico è una teologia che si è fatta filosofia, in tal modo, però, perdendo proprio l'universalità a cui ambiva.
E' stato detto che se i cristianesimi delle origini ci avessero lasciato dei trattati filosofici invece che i Vangeli (e all'epoca la produzione di filosofia era già imponente in particolare nelle società ellenizzate) sarebbero durati poco.
Quando si è indotto un processo di riforma sinodale certamente, dunque, si sono poste le basi almeno di una revisione teologica, perché, nella teologia corrente, senza dubbio la sinodalitá popolare come si vorrebbe realizzare semplicemente non c'è, e questo perché, non c'è mai stata una manifestazione della nostra Chiesa con quel livello di sinodalitá, che coinvolga tutte le persone di fede. Questo per alcuni è un buon motivo per finirla lì.
Ma, riflettendoci bene sopra, quando mai una certa forma di organizzazione ecclesiale ha semplicemente riproposto pedissequamente ciò che c'era prima, per cui ora ci si debba scandalizzare perché si progetta una cosa che non s'è mai fatta? In realtà, dedicandosi con un po' di passione e assiduità alla storia si può facilmente scoprire che questo non è mai successo. Dai tentativi, risultati sempre vani, di frenare i cambiamenti è scaturita l'orrenda violenza di massa che per gran parte della nostra storia ecclesiale ha caratterizzato i nostri costumi. Comunque si cambiò. Ogni generazione ha cercato di affermare una sua idea di religione, mantenendo comunque un collegamento culturale con il passato, che è, quindi, la tradizione.
Così, pensare di partire dalla teologia normativa corrente per costruire la nuova sinodalitá di cui abbiamo bisogno (altrimenti finisce tutto, questa è la situazione) non mi pare una buona idea. La teologia corrente è stata infatti storicamente costruita per legittimare, sacralizzazione, una autocrazia assolutistica. Ci basta però che essa consenta sperimentazioni alla base, dove non sono in questione la gerarchia e il patrimonio, i principali valori non negoziabili secondo quella visione della Chiesa, né di definizioni, ma lo stare insieme cercando di vivere la nostra fede con spirito agapico, vale a dire rispettandosi, soccorrendosi, con atteggiamento benevolo di reciproca solidarietà, e anche sopportandosi pazientemente quando, come spesso accade, la convivenza si fa più spigolosa. Questa è la sinodalitá popolare, questo è anche ciò che consente di vivere bene e con gioia la nostra fede. Penso sia alla portata di tutti. Ma non saranno i teologi, i quali per (in genere legittime) ragioni professionali, sono in condizioni di costante reciproca polemica, e non c'è n'é uno che concordi veramente con un altro e che voglia davvero farlo, a insegnarci la via. Verranno dopo, quando ci sarà riuscito finalmente di vivere la fede in spirito di amicizia, e allora ci spiegheranno ordinatamente perchè sarà stato possibile.
Mario Ardigò - Azione cattolica in San Clemente papa- Roma, Monte Sacro Valli