Produrre religione
La
fede non si inventa, si copia. Ogni persona la vive come fanno le altre persone
intorno a lei. L’insieme dei modi di manifestare la fede che in una
collettività vengono considerati come socialmente ammissibili costituisce la
religione. Sotto questo punto di vista, la fede deriva dalla religione, non c’è
senza di essa e muta con essa.
La fede è anche un sistema di concetti, di convinzioni,
definiti da certe formule, ma non è essenzialmente questo: è principalmente un
modo di affrontare la vita con le altre persone. Sotto entrambi gli aspetti, è cultura.
Come cultura deriva da come si
vive, e si pensa, in una certa società
e, sotto questo aspetto, si fa religione. Le religioni, infine, sono produzioni
sociali.
La teologia razionalistica normativa corrente
dà molta importanza al sistema delle definizioni sulla fede, del resto come fu fin dai primi decenni
delle nostre comunità religiose, nei quali fu costruita una religione distinta
dal giudaismo delle origini, fondamentalmente in ambiente ellenistico. Questo
modo di concepire la religione porta all’illusione di poterne bloccare l’evoluzione,
di mantenerla sempre uguale di generazione in generazione. Tuttavia, proprio
perché fede e religione sono cultura, si tratta, appunto, di un’illusione,
una convinzione non realistica. Infatti la cultura religiosa riconducibile ai
cristianesimo è molto cambiata nel corso della storia, talvolta anche molto velocemente
e radicalmente.
Ad un certo punto dei processi di
cambiamento, i teologi mettono nero su bianco, sviluppando ragionamenti, le
linee di sviluppo dei mutamenti. Tuttavia questi ultimi, in genere, non sono
mai partiti dalla teologia, ma da corrispondenti cambiamenti nelle società di
riferimento. La teologia si limita a prenderne atto e a descriverne le
conseguenze. Questo è appunto il caso della riforma sinodale che faticosamente è stata avviata e in qualche modo sta proseguendo.
Per rendersi realisticamente conto del
processo in corso, bisogna tuttavia convincersi che la Chiesa, da un punto di vista antropologico e sociologico,
è un complesso multiforme di strati sociali, ciascuno dei quali manifesta una sua
propria religiosità, e quindi una
sua cultura religiosa. Da questo punto di vista, abbandonando per un momento la
prospettiva della teologia dogmatica corrente, possiamo riconoscere che non v’è
una sola religione, un cristianesimo, ma varie religioni accumunate
dal riferimento mitico e culturale al cristianesimo, e anche da certi riti, dunque, vari cristianesimi. Questo è
piuttosto evidente a qualsiasi livello, ad esempio nella nostra parrocchia, nella
quale vediamo vivere la religione in modo molto diversi, e anche confliggenti.
Un sistema concettuale e in genere una cultura
non vengono vissuti dalla persona senza che quest’ultima vi apporti qualcosa di
proprio e lo tramandi, insieme a ciò che ha recepito dal passato. Si è legati al passato, perché nessuna persona si è inventata la propria religione, ma nello stesso tempo,
nel processo di tradizione, lo si supera. Ogni persona e ogni collettività, a
qualsiasi livello, producono costantemente religione.
La teologia, fin dalle origini, è assillata
dallo sforzo di ricondurre a unità la multiformità, ma questo si è storicamente
rivelato uno sforzo vano, quindi inutile. Esso fu in gran parte legato a
questioni di potere, all’esigenza di una legittimazione sacrale della gerarchia
ecclesiastica. Da ciò derivò un gran male, sul quale di solito nella formazione
religiosa di base, a carattere marcatamente propagandistico, si sorvola, e invece
non si dovrebbe, almeno arrivati ad un certo punto, ad una certa età della
vita.
L’unica funzione della teologia che ancora mi
pare valida è quella di rendere comunicabile la fede. In questo modo si possono
talvolta creare relazioni positive tra le diverse forme di religiosità che
storicamente si manifestano. Ma non è detto che questo possa sempre accadere. Alcune
manifestazioni religiose possono risultare incompatibili. E, tuttavia, una teologia
cristiana, avendo come riferimento comunque il comandamento dell’agàpe,
dovrebbe essere in grado di costruire una convivenza pacificata, ciò che però non
sempre storicamente è avvenuto. Questo
lavoro è particolarmente importante affrontando la sinodalità, che mette di
fronte alla realtà della multiformità religiosa e cerca di favorire il dialogo
pacificato al suo interno. Per dialogare occorre trovare un linguaggio
condiviso.
In teologia, del resto in linea con le
narrazioni bibliche, ci si riferisce al popolo, come se fosse una realtà
unitaria, ma, almeno dal punto di vista antropologico e sociologico, le cose
non stanno così. La religiosità si
manifesta in popolazioni che esprimono culture molto diverse.
La sinodalità, come viene ora articolata da papa Francesco,
quindi come una sinodalità popolare, diffusa, non origina nelle culture
religiose europee, ma in quelle latino-americane. Papa Francesco la declina
però secondo una teologia del popolo pensata in Argentina, ad esempio da
un autore caro al Papa come Rafael Tello (1917-2002) [nel 2020, Messaggero
di Sant’Antonio editrice, ha pubblicato, con prefazione di papa Francesco,
alcuni saggi di quell’autore, con il titolo di Popolo e cultura]. Per un
europeo, la lettura del testo che ho da ultimo citato è piuttosto ostica, tanto
è lontana dall’esperienza, innanzi tutto politica, che si vive nel nostro continente.
Dunque ci viene proposto di applicare un’idea di sinodalità prodotta in un’altra cultura, molto lontana
dalla nostra. Da qui, penso, non poche difficoltà.
La sinodalità come trattata dalle teologia
europee è essenzialmente una diversa forma di vivere l’autorità ecclesiastica.
Questo rimane un po’ sullo sfondo nella sinodalità popolare al modo di papa
Francesco. Per quest’ultimo il popolo intuirebbe una verità che
lo condurrebbe all’unità basata su
valori di religiosità e nella forte ricerca
di un ordine personale basato sull’amore.
Per questo il problema principale in materia di sinodalità è ascoltarlo.
In Europa abbiamo maggiore consapevolezza del carattere politico dell’idea di popolo, e quindi della necessità di costruirlo perché possa rivelarsi una forza sociale in grado
di influenzare il corso della storia. La democrazia è appunto il principale
strumento per lavorarci sopra. Nel populismo di papa Francesco la democrazia è invece
quasi del tutto assente e questa può essere considerata una conseguenza dell’aspra
polemica anti-illuministica del gesuitismo latino-americano. Questo può
spiegare, poi, la violenta polemica antidemocratica contenuta nelle linee guida
dei nostri vescovi per la fase di ascolto dei processi sinodali in corso e ciò
nonostante che i vescovi italiani del partito
conciliare provengano essenzialmente dal cattolicesimo
democratico, e nonostante che di democrazia certamente si tratti nella loro
predicazione. I vescovi italiani sono abituati a seguire acriticamente il papa regnante:
non hanno ancora sviluppato una vera loro sinodalità.
Comunque si
vedano le cose, il principale nostro problema è che progressivamente si è molto indebolita la capacità delle nostre
Chiese, in tutte le loro componenti sociali, di produrre religione. Principalmente ciò è dovuto all’invecchiamento
della popolazione di fede, persone laiche e clero. L’allontanamento delle
persone più giovani è stato dovuto alla rigidità della predicazione corrente,
all’insostenibilità dei modi proposti per vivere la fede e alla dura emarginazione
delle persone laiche, in particolare delle donne. Tutto ciò rende inutile la religiosità e quindi i più giovani non si
affannano a produrla, ad esprimerla.
Produrre religione richiede di farlo collettivamente,
perché la religione è cultura e la cultura è una produzione sociale. Ecco che, allora, la
sinodalità, intensa come co-decisione e corresponsabilità mediante dialogo, può essere uno strumento prezioso, se solo si
riuscisse a farne reale tirocinio, come in genere però non accade.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli