Fantasia o realtà
Alle mie due figlie, che ora fanno le catechiste nella nostra parrocchia, dico sempre che non sarei un buon catechista. Non ho doti di sintesi. Eppure sono stato, insieme a mia moglie, uno dei loro primi catechisti. Da molte cose capisco che nel loro modo di vivere la fede c’è in certa misura anche del mio. Come è potuto accadere?
L’affidamento nelle persone che costituiscono il nostro mondo vitale è un fatto fondamentale della nostra vita. Il senso del nostro vivere si impara così. Il mistero è che si riceve più di ciò che le altre persone pensano di poter dare. Lo stesso accade quando si è consolati nel dolore.
C’è un brano di un romanzo di Ignazio Silone che cito spesso a questo proposito. Il protagonista entra in un quartiere di povera gente. Sulla soglia di una casa c’è una bambina che piange. La madre la consola: “Non piangere…” le sussurra dolce. Ma anche lei piange, e non c’è nessuno a consolarla.
Una volta, Quand’ero scout, avemmo la missione di arrivare in vetta al monte Soratte, qui vicino a Roma, io a capo della mia squadriglia di sei o sette ragazzi. Ci dissero a che stazione scendere sulla linea ferroviaria per Viterbo. Poi avrei dovuto organizzarmi individuando un tragitto. Non mi venne in mente di servirmi di una carta topografica, questo me lo spiegarono più avanti. Scesi dal treno, vedevamo la grande montagna davanti a noi. Spiccava nella campagna laziale. Dunque decisi che le saremmo andati addosso in linea retta, attraverso campi e orti, ma non avevo proprio idea di che cosa avremmo trovato nel cammino. Gli altri mi seguivano, confidavano in me. Io vedevo chiara la meta, ma molto meno chiaro per via. Ad un certo punto trovammo su quello che appariva come un sentiero delle impronte di pecora, così ne riempii una di gesso sciolto nell’acqua e dissi che al ritorno, quando si fosse consolidata asciugandosi, avremmo preso il calco. Gli altri non dubitarono che sarebbe stato possibile. Ma come avrei fatto a trovare proprio quel punto preciso, in cui eravamo capitati per caso? Fatto sta che più avanti incrociammo la strada che portava in vetta e arrivammo fino in cima, dove ci sono dei ruderi. Scendendo passammo per il paese di S.Oreste, ai piedi del monte. Poi, invece di prendere la strada asfaltata, girammo per i campi (del resto non eravamo scout, che significa esploratori?), verso il punto in cui pensavo di intravvedere la stazione ferroviaria. Stava scendendo la sera. Tra me dissi: “Mi sono perso”. Però vidi che gli altri mi seguivano e allora decisi di andare diritto, per posti che mi pareva di vedere per la prima volta. Intorno, nessuno a cui chiedere. Non una casa, una fattoria, un pastore con il gregge, un contadino. Fatto sta che ad un certo punto, con mia grandissima sorpresa, mi trovai davanti il gesso nell’impronta. Dunque, non sapevo come, ero arrivato non lontano dalla stazione. Come se fosse una cosa normalissima, tirai fuori il calco dell’impronta della pecora e lo riposi nello zaino. Qualche minuto e sbucammo dalla vegetazione proprio sul piazzale della stazione. Lì nacque la mia leggenda di infallibile scout. I capi ne rimasero sorpresi quanto me, perché in queste cose gli ero apparso imbranato, come solevano dirmi, quindi non tanto abile, ma il calco e il racconto di quelli della mia squadriglia la confermavano. Del resto, dissi, mio nonno Angelo era stato Senjor d’Italia negli scout del CNGEI bolognese, e, come si dice, buon sangue non mente. Ma io ancora non mi capacito di come ci riuscì quell’impresa, perché io non avevo avuto altro che un’idea molto approssimativa di dove stavamo andando, all’andata, dove però vedevo con chiarezza la meta, la montagna, ma ancor più al ritorno, quando dov’era la stazione l’avevo solo immaginato. Mi aveva sorretto la fiducia degli altri ragazzi, alla quale però non corrispondeva quella che avevo in me stesso. Comunque avevamo portato a termine la missione: ci eravamo mossi sulla base della fiducia reciproca, che spinge e trascina, e da soli non ci saremmo azzardati. L’andata sorprendente, ma addirittura prodigioso il ritorno. Aveva funzionato. Così va anche nella fede.
Non vi basta?
Eppure vi deve bastare, perché così ha insegnato il Maestro, e non avrete di più nella nostra religione. Non dobbiamo attenderci altri segni. Il di più che talvolta si giunge a credere di avere è spesso solo illusione. Ma la nostra fede non è illusione. È ciò che sempre rimane dopo che ogni illusione si è dissolta.
Così se mi chiedete se credere significa avere la certezza come quando si parla faccia a faccia con un’altra persona che ben si conosce e allora siamo certi di averla davanti e di chi è, allora vi dico che nella nostra fede non è possibile avere una certezza di quel tipo, non è possibile a nessuna persona e riguardo a nessuna delle verità che proclamiamo in religione, e il principio della saggezza e della maturità nella vita di fede è riconoscerlo. Del resto, “da dove mi verrà l’aiuto?/il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto Cielo e Terra” recita il salmo. E già ripetendo tra me quei versetti sento il cuore aprirsi alla speranza, quella delle generazioni che mi hanno preceduto e che hanno confidato. Il senso religioso della vita nasce dalla fiducia che sorge dalla condivisione benevola e solidale, con le altre persone, dell’esperienza umana. È il vero miracolo che non cessa mai di sorprendermi.
Quando i nostri vescovi parlano contro la democrazia, dicendo che la sinodalità sarebbe un’altra cosa, mi fanno veramente inquietare. Ma, depurato di quanto di desolantemente c’è di reazionario, qualcosa di accettabile in quello c’è, perché la sinodalità, in quanto manifestazione della nostra fede, contiene certamente la democrazia, come sistema di limiti contro l’eccesso e l’abuso nell’esercizio di qualsiasi potere e nel principio del rispetto della dignità di ogni persona espressa nei suoi diritti umani fondamentali, ma è effettivamente molto più di questo. Ed è perché contiene il valore fondamentale della nostra fede, quello dell’agápe evangelica, per il quale si cerca di trasformare l’intera nostra socialità in un’esperienza di mondo vitale, generatrice di senso, unendo le generazioni contemporanee con quelle del passato e lanciando un ponte verso quelle future. Una prospettiva grandiosa, nella cui immensità tendo a smarrirmi. Per questo non ritengo che sarei un buon catechista, anche se, di fatto, nella mia vita vi ho collaborato. Il suo grande affresco reca anche un mio minimo segno.
Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro Valli