INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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martedì 31 gennaio 2023

Tradizione e storia

                                                             Tradizione e storia

 

  Definiamo tradizione gli usi, i costumi e le idee sulla società e sul mondo intorno che abbiamo ricevuto dalle generazioni precedenti. Si tramandano elementi culturali. Ne riceviamo anche da chi ci è intorno, e allora si parla di contaminazione o di ibridazione. Nella nostra lingua tradizione ha un connotato positivo, mentre contaminazione ibridazione uno negativo. Eppure si tratta sempre di un ricevere. Quando una cultura viene imposta a gruppi che ne manifestavano una diversa si parla di assimilazione culturale. I cristianesimi furono storicamente potenti fattori di assimilazione culturale. Tuttavia sopravvissero solo grazie alla loro capacità di subire ibridazioni. Ma ricevettero anche la tradizione giudaica dell’orrore per la contaminazione culturale e quella, propria dell’antica società romana, del grande valore attribuito alla cultura degli avi, quindi alla tradizione. E quest’ultimo fu  senz’altro, però, un fenomeno di ibridazione culturale. Importantissima poi fu l’assimilazione dei cristianesimi delle origini nella cultura ellenistica, tanto che vi fu chi, tra i teologi, sostenne che nacquero veramente ad Atene. Così  come l’ibridazione delle teologie cristiane  con la cultura giuridica romanistica e il suo metodo. L’evoluzione dei processi di tradizione, ibridazione assimilazione è narrata dalla storia delle civiltà e delle società che le espressero. Essa è basata su fonti ritenute degne di fede: documenti di vario genere, tradizioni orali, riti, opere d’arte, reperti archeologici epaleoantropologici.

  Nella nostra religione si dà molta importanza alla tradizione degli antichi per capire come essere cristiani.  Gli elementi culturali rilevanti a quel fine vengono presentati come un deposito che ogni generazione deve tramandare a quelle successive il più possibile intatto. I più, però, apprendono di questa tradizione di fede dalla predicazione del Magistero e ne ignorano la storia. Questo perché la storia non rientra di solito nella formazione religiosa di base, benché la si insegni fin dalla scuola primaria. Non vi rientra perché la si ritiene fonte di confusione per la gente. Infatti essa parla anche dei processi di ibridazione e di assimilazione culturale che riguardarono la nostra fede. Ma anche di tradizioni religiose che ci giungono da molto più lontano e da molto prima di come ci piacerebbe pensare.

  Leggendo un trattato di storia delle religioni possiamo facilmente accorgerci di una certa aria di famiglia che gira tra noi e culture molto più antiche dei nostri cristianesimi e che noi con molta supponenza spesso classifichiamo tra quelle pagane, in tal modo sbrigativamente denigrandole.

 Ora ci si propone di essere sinodali, vale a dire di vivere la Chiesa in modo più partecipato, consapevole e responsabile. Questo inevitabilmente manifesterà il nostro pluralismo: la fede non viene accolta dalle persone senza che esse le diano un proprio apporto, che finisce per confluire nella tradizione.

   Il peso di questi apporti è divenuto notevolissimo nei due millenni della nostra storia religiosa, ed è pura fantasia immaginare che si stia vivendo la religione come nei primi decenni dopo la Resurrezione. Invano si è storicamente cercato di bloccare, anche mediante una violenza stragista su larga scala dei quali i più non mi pare abbiano consapevolezza piena, quei processi evolutivi.

  Mi pare vano cercare di rimandare indietro la storia e di vivere come i primi tempi. A volte degli apporti a cui mi sono riferito si parla come di incrostazioni, quindi di sporcizia rimasta attaccata al deposito di fede, deturpandolo, ma se si cercasse di rimuoverle tutte, temo che rimarrebbe  veramente poco. Dovremmo anche privarci del greco dei Vangeli: dei detti in aramaico del Maestro,  che parlava appunto quella lingua e non il greco né il latino, ci sono state tramandate solo poche parole.

  Tuttavia, se pensassimo di poter essere cristiani totalmente a modo nostro, non dando nessun credito alla tradizione, scopriremmo ad un certo punto di non esserlo più. Infatti l’essere cristiano non l’abbiamo inventato noi e senza collegarsi al passato perde il suo senso.

  Dobbiamo quindi farci carico della tradizione, anzi della Tradizione, vale a dire di quegli elementi culturali ricevuti da chi ci ha preceduto e che contengono l’essenziale. Se ci proponiamo di essere sinodali, significa che non possiamo continuare ad appoggiarci solo sul Magistero, sicché senza il suo metaforico vincastro ci si senta liberi di uscirsene con qualsiasi enormità che ci venga in mente. Dobbiamo approfondire. E farlo con metodo e rigore.

  Dicono che lo Spirito ci fa intuire la  verità. Sarà… A me non è tanto evidente.

  Certe volte sento spararle grosse in religione. Così la sinodalità diviene impossibile. Ognuno se ne va dietro le sue fantasie.

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

  

lunedì 30 gennaio 2023

Sinodalità e pluralismo

Sinodalità e pluralismo

 

  La sinodalità è un modo di fare Chiesa: un metodo basato sui principi di rispetto della dignità delle persone, di partecipazione e di corresponsabilità.

   Le strutture ecclesiastiche principali italiane non sono attualmente sinodali. Nelle parrocchie perché non lo si è mai fatto e non è stato ancora istituito un sistema di regole per poterlo fare. Ad altri livelli della gerarchia, per l’assolutismo episcopale e papale. 

  È paradossale, perché la maggiore partecipazione che si vorrebbe indurre con la sinodalità dovrebbe coinvolgere maggiormente la base, ma i processi sinodali attualmente in corso da noi sono stati ordinati dal Papa, quindi da un autocrate, organizzati senza troppa convinzione dalla burocrazia ecclesiastica, con scarsissimo interesse da parte dell’altra gente.

  La dottrina corrente insegna che noi tutti avremmo un fiuto per intuire la via giusta tra quelle proposte, cosa che a me risulta poco evidente. I più mi pare che non sappiano che pesci prendere, ad esempio in materia di sinodalità. Ma io non sono un teologo.

  Di solito la si pensa diversamente in molte cose, pur mantenendo alcuni agganci sui fondamentali, nella misura in cui se ne è consapevoli. Questo è il pluralismo.

   In un ambiente pluralistico essere sinodali non è semplice. Di fatto non si riesce sempre  ad andare d’accordo con tutti  e c’è chi, tra coloro che hanno scritto in materia, comincia realisticamente a riconoscerlo. È un fatto di comune esperienza.

  C’è, insomma, in religione un certo pluralismo di modi di vivere la fede. Tutti lo possiamo constatare. In realtà nessuna persona vive la nostra fede esattamente come fa un’altra. I teologi ne sono l’esempio più eclatante. Raramente se ne trovano due che siano d’accordo su tutto. Questo si manifesta ad ogni livello della vita in comune.

  Anche quando in religione si parla di comunione, non si vuole intendere, in genere, che si concordi su tutto. 

  Le religioni, e anche la nostra, sono espresse anche mediante miti e la produzione mitologica è incessante nelle società umane. Difficile smentire un mito, anche quando riguarda persone o gruppi dei quali si ha una memoria molto recente o addirittura attuale. In genere intorno ad ogni persona che è riuscita ad esprimere un potere pubblico significativo si costruisce un mito. Va detto, infine, che ciascuna persona organizza un mito intorno a se stessa.

   Le nostre Chiese hanno avuto storicamente seri problemi nella gestione del pluralismo. Dal Duecento fino al consolidarsi delle democrazie europee nell’Ottocento hanno espresso livelli di violenza repressiva orrendi, che colpirono sapienti e gente comune. Questo non ha riguardato solo la nostra confessione, ma sicuramente essa è stata quella che l’ha espressa con più forza, istituzionalizzandola in un efferato sistema di polizia teologica e politica denominato Inquisizione. In genere nella propaganda religiosa si cerca di edulcorarne natura, scopi ed effetti. Ma per oltre seicento anni esso deturpò il nostro continente e i territori extraeuropei di colonizzazione europea. E francamente appare veramente troppo poco l’atto di rituale pentimento inscenato nella Giornata del Perdono, durante il Grande Giubileo dell’Anno 2000, non seguito da nulla di simile negli anni successivi, fino ad oggi.

  Se ci si ritrova per costruire la sinodalità in una realtà di base e una persona se ne esce sostenendo di aver ricevuto una rivelazione soprannaturale pretendendo che le si dia credito, che fare? Ma anche senza arrivare a questo estremo, ci può essere chi la vuole bianca e chi nera e le parti non sentono ragioni: ciascuna vuole che sia come dice. Chi decide che fare tutti insieme? Deve essere bianca o nera?

   Non sempre il pluralismo è del tipo che consente la convivenza, eppure nello spirito di sinodalità si vorrebbe cercare di rimanere insieme nonostante tutto. Invece ogni fazione (a quel punto di questo si tratta, perché si entra fatalmente in guerra) cercherà invariabilmente di prevalere sulle altre silenziandole o escludendole. Siano anatema, secondo le formule di sanzione che seguirono fino al Concilio Vaticano 1º (1870) la condanna di certe definizioni o di chi rifiutava quelle deliberate come normative, siano maledetti e allontanati.

  Negli scorsi anni ’70, nei vivaci moti di rinnovamento seguiti al Concilio Vaticano 2º, ci si confrontò con un accentuato pluralismo teologico ed ecclesiale: la gente voleva partecipare e i teologi cercavano di costruire una cultura adeguata. Una sessantina di anni prima era accaduto qualcosa di simile e il Papato aveva reagito con una crudele e inesorabile repressione, che aveva fatto danni umani enormi. Dal 1985, regnante il papa Giovanni Paolo 2º ci fu qualcosa di simile: in fin dei conti non si era riusciti a gestire pacificamente quel pluralismo.  La volta precedente la cosa sfociò nei disonorevoli compromessi con il regime mussoliniano e poi con quello hitleriano. La seconda nella dissoluzione del cattolicesimo democratico italiano, artefice della nuova democrazia repubblicana postfascista e protagonista del processo di unificazione europea. E’ la situazione in cui ci troviamo ora.

  Nel 1973, la Commissione teologica internazionale, un organismo collegiale ausiliario inquadrato nel Dicastero per la dottrina  della fede, l’istituzione di polizia teologica e politica che è l’attuale manifestazione dell’antica Inquisizione, pubblicò, con l’assenso del papa di allora, Paolo 6º, una dichiarazione sul pluralismo teologico dal titolo “L’unità della fede e il pluralismo teologico”, che può essere letta oggi con profitto perché manifesta ancora la posizione della gerarchia ecclesiastica in merito:

https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_1972_fede-pluralismo_it.html

  Fu il tentativo di porre un argine all’assolutismo gerarchico in danno della ricerca teologica. Ma mi appare assolutamente insufficiente, in particolare perché non ci si  espresse in alcun modo riguardo la violenza stragista esercitata per secoli con il pretesto di “tutelare la fede del popolo di Dio”, massacrando quel popolo medesimo. Ma anche perché si intese confermare la potestà gerarchica di imporre il silenzio ed escludere per reagire contro pure manifestazioni di pensiero, quali possono essere quelle della letteratura teologica.

  Agli studenti che iniziano a imparare la teologia vengono proposti manuali di acculturazione alla disciplina, nei quali se ne sintetizzano metodi e finalità. Ne possiedo uno che era uno dei libri di testo di mia madre quando studiò catechetica nella vicina università del Salesiani: di Zoltan Alszeghy e Maurizio Flick, Come si fa teologia, Edizioni Paoline 1974. Risale quindi proprio a quegli anni.

  Vi leggo (pag.130-131):

«È assurdo infatti che esista  una comunità di fede, la quale non possa individuare quali sono le condizioni necessarie perché uno né sia membro, indicando i limiti dell’ortoprassi e dell’ortodossia, implicate nella propria dossologia […] non ci si meraviglierà perciò che possa essere chiesto il sacrificio di rinunziare alla divulgazione giudicata pericolosa per la fede altrui […] Naturalmente l’intervento autoritativo del Magistero comporta dei rischi […] Anche il riesame in atto della reazione alla crisi modernista mostra che non raramente si procedette troppo con una mentalità da “stato di assedio” contro autori che cercavano onestamente di servire la fede, senza chiudere gli occhi davanti ai nuovi problemi […]».  Poi si ricordano i casi delle insensate obiezioni contro la teoria evoluzionista e contro quella, correlata, che escludeva che l’umanità si fosse sviluppata da un’unica primordiale coppia umana, giudicata incompatibile con il dogma del peccato originale, poi in genere ritirate. 

   Certamente in ambiente democratico la polizia sul pensiero non è ammissibile. Uno dei principi  cardine delle democrazie è la libertà di manifestazione del pensiero e dove essa non sia ammessa nella sua più ampia espressione non si può parlare di democrazia. Quando i vescovi sbrigativamente negano che la sinodalità debba comprendere la democrazia, credo che essenzialmente lo facciano per continuare ad escludere quella libertà nelle cose ecclesiali. Di fronte a posizioni del genere una persona democratica che voglia rimanere tale del tutto a ragione le contrasterà. 

  Non si può essere democratici cattolici? Dal Magistero espresso dal Papato, regnante il papa Pio 12º, in poi non lo si può più affermare. La partecipazione sinodale nella Chiesa non può comprendere metodi e principi democratici? E perché mai? Anzi, è l’unico modo di mantenere una convivenza nella diversità. In particolare è il contesto di regole che può consentirla.

  Ma poi c’è il fatto che il Maestro, almeno da quello che si legge di lui nei Vangeli, non appare aver voluto fondare la sua Chiesa su un sistema di definizioni normative come poi si usò fare più avanti nell’efferata nostra dogmatica. Anzi, come scrisse il grande teologo Karl Barth, i suoi insegnamenti e il suo esempio di vita appaiono improntati ad un certo blando anarchismo, pur non ripudiando assolutamente il giudaismo delle sue origini, come invece fecero circa mezzo secolo dopo i suoi seguaci. Resta anche il fatto che non ammazzò né ordinò di ammazzare nessuno per questioni di definizioni, in particolare per preservare la sua gente da idee erronee. Ordinò una conversione interiore all’agàpe, ma non di mantenerla facendo fuori le persone. Stando alla narrazione dei fatti che leggiamo nei Vangeli il Sinedrio che lo giudicò meritevole di morte agì nello stesso spirito e con le stesse finalità dell’Inquisizione cattolica. 

 “È assurdo che esista una comunità di fede, la quale non possa individuare quali sono le condizioni necessarie perche uno ne sia membro, indicando i limiti dell’ortoprassi e dell’ortodossia implicate nella propria dossologia”, si legge nel manuale che ho citato.  Dal punto di vista dell’esperienza storica della politica si può essere anche d’accordo, ma fu così che organizzò le cose il Maestro? Andava così tra la sua gente, lui vivente? Riflettiamoci meglio sopra. 

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

 

sabato 28 gennaio 2023

Fantasia o realtà

                                                                 Fantasia o realtà 

 

  Alle mie due figlie, che ora fanno le catechiste nella nostra parrocchia, dico sempre che non sarei un buon catechista. Non ho doti di sintesi. Eppure sono stato, insieme a mia moglie, uno dei loro primi catechisti. Da molte cose capisco che nel loro modo di vivere la fede c’è in certa misura anche del mio. Come è potuto accadere?

   L’affidamento nelle persone che costituiscono il nostro mondo vitale è un fatto fondamentale della nostra vita. Il senso del nostro vivere si impara così. Il mistero è che si riceve più di ciò che le altre persone pensano di poter dare. Lo stesso accade quando si è consolati nel dolore. 

  C’è un brano di un romanzo di Ignazio Silone che cito spesso a questo proposito. Il protagonista entra in un quartiere di povera gente. Sulla soglia di una casa c’è una bambina che piange. La madre la consola: “Non piangere…” le sussurra dolce. Ma anche lei piange, e non c’è nessuno a consolarla.

  Una volta, Quand’ero scout, avemmo la missione di arrivare in vetta al monte Soratte, qui vicino a Roma, io a capo della mia squadriglia di sei o sette ragazzi. Ci dissero a che stazione scendere sulla linea ferroviaria per Viterbo. Poi avrei dovuto organizzarmi individuando un tragitto. Non mi venne in mente di servirmi di una carta topografica, questo me lo spiegarono più avanti. Scesi dal treno, vedevamo la grande montagna davanti a noi. Spiccava nella campagna laziale. Dunque decisi che le saremmo andati addosso in linea retta, attraverso campi e orti, ma non avevo proprio idea di che cosa avremmo trovato nel cammino. Gli altri mi seguivano, confidavano in me. Io vedevo chiara la meta, ma molto meno chiaro per via. Ad un certo punto trovammo su quello che appariva come un sentiero delle impronte di pecora, così ne riempii una di gesso sciolto nell’acqua  e dissi che al ritorno, quando si fosse consolidata asciugandosi, avremmo preso il calco. Gli altri non dubitarono che sarebbe stato possibile. Ma come avrei fatto a trovare proprio quel punto preciso, in cui eravamo capitati per caso? Fatto sta che più avanti incrociammo la strada che portava in vetta e arrivammo fino in cima, dove ci sono dei ruderi. Scendendo passammo per il paese di S.Oreste, ai piedi del monte. Poi, invece di prendere la strada asfaltata, girammo per i campi (del resto non eravamo scout, che significa esploratori?), verso il punto in cui pensavo di intravvedere la stazione ferroviaria. Stava scendendo la sera. Tra me dissi: “Mi sono perso”. Però vidi che gli altri mi seguivano e allora decisi di andare diritto, per posti che mi pareva di vedere per la prima volta. Intorno, nessuno a cui chiedere. Non una casa, una fattoria, un pastore con il gregge, un contadino. Fatto sta che ad un certo punto, con mia grandissima sorpresa, mi trovai davanti il gesso nell’impronta. Dunque, non sapevo come, ero arrivato non lontano dalla stazione. Come se fosse una cosa normalissima, tirai fuori il calco dell’impronta della pecora e lo riposi nello zaino. Qualche minuto e sbucammo dalla vegetazione proprio sul piazzale della stazione. Lì nacque la mia leggenda di infallibile scout. I capi ne rimasero sorpresi quanto me, perché in queste cose gli ero apparso imbranato, come solevano dirmi, quindi non tanto abile, ma il calco e il racconto di quelli della mia squadriglia la confermavano. Del resto, dissi, mio nonno Angelo era stato Senjor d’Italia  negli scout del CNGEI bolognese, e, come si dice, buon sangue non mente. Ma io ancora non mi capacito di come ci riuscì quell’impresa, perché io non avevo avuto altro che un’idea molto approssimativa di dove stavamo andando, all’andata, dove però vedevo con chiarezza la meta, la montagna, ma ancor più al ritorno, quando dov’era la stazione l’avevo solo immaginato. Mi aveva sorretto la fiducia degli altri ragazzi, alla quale però non corrispondeva quella che avevo in  me stesso. Comunque avevamo portato a termine la missione: ci eravamo mossi sulla base della fiducia reciproca,   che spinge e trascina, e da soli non ci saremmo azzardati. L’andata sorprendente, ma addirittura prodigioso il ritorno. Aveva funzionato. Così va anche nella fede.

  Non vi basta? 

  Eppure vi deve bastare, perché così ha insegnato il Maestro, e non avrete di più nella nostra religione. Non dobbiamo attenderci altri segni. Il di più che talvolta si giunge a credere di avere è spesso solo illusione. Ma la nostra fede non è illusione. È ciò che sempre rimane dopo che ogni illusione si è dissolta.

  Così se mi chiedete se credere significa avere la certezza come quando si parla faccia a faccia con un’altra persona che ben si conosce  e allora siamo certi di averla davanti e di chi è, allora vi dico che nella nostra fede non è possibile avere una certezza di quel tipo, non è possibile a nessuna persona e riguardo a nessuna delle verità che proclamiamo in religione,  e il principio della saggezza e della maturità nella vita di fede è riconoscerlo. Del resto, “da dove mi verrà l’aiuto?/il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto Cielo e Terra” recita il salmo. E già ripetendo tra me quei versetti sento il cuore aprirsi alla speranza, quella delle generazioni che mi hanno preceduto e che hanno confidato. Il senso religioso della vita nasce dalla fiducia che sorge dalla condivisione  benevola e solidale, con le altre persone, dell’esperienza umana. È il vero miracolo che non cessa mai di sorprendermi.

  Quando i nostri vescovi parlano contro la democrazia, dicendo che la sinodalità sarebbe un’altra cosa, mi fanno veramente inquietare. Ma, depurato di quanto di desolantemente c’è di reazionario, qualcosa di accettabile in quello c’è, perché la sinodalità, in quanto manifestazione della nostra fede, contiene certamente la democrazia, come sistema di limiti contro l’eccesso e l’abuso nell’esercizio di qualsiasi potere e nel principio del rispetto della dignità di ogni persona espressa nei suoi diritti umani fondamentali, ma è effettivamente molto più di questo. Ed è perché contiene il valore fondamentale della nostra fede, quello dell’agápe evangelica, per il quale si cerca di trasformare l’intera nostra socialità in un’esperienza di mondo vitale, generatrice di senso, unendo le generazioni contemporanee con quelle del passato e lanciando un ponte verso quelle future. Una prospettiva grandiosa, nella cui immensità tendo a smarrirmi. Per questo non ritengo che sarei un buon catechista, anche se, di fatto, nella mia vita vi ho collaborato. Il suo grande affresco reca anche un mio minimo segno.

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro Valli

  

  

Prospettive

Prospettive

 

   Gli illuministi del Settecento e i Positivisti dell’Ottocento pensavano alla religione, in particolare ai cristianesimi, come al tentativo di capire del mondo ciò che non poteva essere ancora compreso per mancanza di sufficienti tecnologie e quindi di scienze affidabili. Quindi pensavano che le religioni fossero destinate ad essere soppiantate con il progresso delle scienze e delle tecniche. La storia non ha confermato questa convinzione.

   A contatto con le novità del mondo le religioni sono cambiate, ma non sono scomparse. Vi fanno affidamento anche persone sapienti, come era sempre accaduto. Si sono rivelate uno strumento di comprensione della realtà insostituibile, in particolare per costruire il senso emotivo dell’esistenza umana.

  L’emotività è propria degli organismi fisiologici quali noi siamo: è stato scoperto che la nostra è una mente emotiva, che comprende mediante le emozioni, e che la realtà intorno a noi non ci è accessibile in nessun altro modo.

  La razionalità e i suoi principi logici sono solo un metodo per ordinare e rendere comunicabili le conoscenze mediate dalle nostre menti emotive.

  Però il senso di ciò che accade, vale a dire il suo significato esistenziale per ciascuno di noi, ci sfugge senza ricorrere ai miti, intorno ai quali storicamente vennero costruite le religioni.

  Il mito è una formula semplificata di descrizione del senso emotivo di una realtà in modo da darle significato esistenziale per gli esseri umani.

  I miti non vengono superati dallo sviluppo delle capacità scientifiche e tecnologiche, ma si evolvono seguendole.

  Hanno natura mitologica anche alcune convinzioni riguardanti scienze e tecnologie ed è stata mitizzata anche la stessa ragione, fino addirittura a farne una specie di dea.

  Definiamo dio qualsiasi entità che sorprende per la misura degli influssi sulla natura e/o sulla società che le sono attribuiti, tali da renderla apparentemente più o meno libera dalla causalità di natura,  e che è capace di relazione con gli esseri umani. In quest’ottica vennero storicamente deificate anche persone umane, sovrani o condottieri. In un ambiente culturale politeista nessun dio  è onnipotente.

 Le attuali culture religiose monoteiste, caratterizzate dall’onnipotenza dell’unica divinità, sono uno sviluppo recente. Ma anche il politeismo ebbe diverse evoluzioni, a partire da concezioni ancestrali centrate su una divinità suprema creatrice e ordinatrice che però, ad un certo punto, venne collocata nei Cieli altissimi, indifferente alle sorti dell’umanità, con il conseguente sviluppo di dei intermedi interessati alle vicende umane.

 Questi, in estrema sintesi, i risultati delle antropologie che si occuparono delle religioni.

  Le religioni che sono fondate su quelle idee di dio, sono teismi. Non tutte le religioni sono tali.   

  I cristianesimi furono evoluzioni religiose molto particolari. Furono caratterizzati dall’eclisse del teismo e del sacro che ne consegue.

  Il sacro è una realtà fisica o sociale, tangibile, visibile, che manifesta il divino e lo confina: cosa, luogo, persona, rito, istituzione. Delimitandolo, lo rende strumentalizzabile. La potenza del divino diviene alla nostra portata, cade nelle nostre mani.

  Naturalmente, poi, la prassi religiosa dei cristianesimi ha di nuovo sacralizzato, ma questo sacro non è l’essenziale dei cristianesimi.

 L’essenziale è ciò che venne espresso con la parola del greco antico agàpe,  termine del quale possiamo rendere una prima idea parlandone come di pace universale solidale, sollecita e misericordiosa. Il suo fondamento sta in ciò di cui la teologia cristiana parla come Incarnazione, e di cui qui non mi occupo, dando per presupposto che sia conosciuta. L’agàpe  è il comando etico principale del Maestro, colui sulla cui figura e sulla cui vita esemplare furono organizzati i cristianesimi. Questo diede, e ancora dà, una prospettiva religiosa molto diversa dal passato, in particolare una straordinaria apertura al nuovo. I cristianesimi manifestarono infatti  una grande capacità di assimilazione delle novità dei tempi.

  In quest’ottica, ciò che stiamo sperimentando in Europa occidentale come crisi  dei nostri cristianesimi  può essere interpretato come una loro evoluzione, per la quale ancora non si è costruita una cultura religiosa adeguata. Certamente si stanno dissolvendo le molte sacralizzazioni  storicamente costruite sulle nostre  manifestazioni religiose, in esse comprese quelle che riguardano le organizzazioni ecclesiastiche. Ma esse  non sono l’essenziale.

  Stiamo vivendo, a livello globale ormai, tempi nuovi. I cristianesimi vengono interrogati per interpretarne il senso, alla ricerca di una prospettiva. In questo modo si vorrebbe cercare di non essere semplicemente succubi di ciò che ci accade intorno.

  I processi sinodali che stiamo faticosamente vivendo partono da questa idea di interrogarsi  e di interrogare  la gente su quei temi. La fase dell’ascolto.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

 

   


martedì 24 gennaio 2023

Papismo mediatico

                                                                                                                          Papismo mediatico

 

 Su La Repubblica di ieri hanno pubblicato il risultato di un’indagine demoscopica dalla quale risulta che gli italiani hanno molta più fiducia nel Papa  che nella Chiesa. È più o meno quello che accadde regnante papa Giovanni Paolo 2º, ma il divario è più pronunciato. Sotto il papa Benedetto 16º la situazione nel 2009 si invertì. Dal 2003 la fiducia degli italiani nella Chiesa è costantemente calata.

   Papa Francesco ha spazi su giornali e televisioni che nessun altro Papa ha mai avuto, anche in quelli che un tempo avevano orientamento laicista. Probabilmente la statistica che lo riguarda ci parla del suo impatto mediatico. Le saghe delle famiglie regnanti attirano sempre le emozioni della gente, lo abbiamo visto recentemente con la dinastia regnante inglese. Quando si diventa un personaggio contano molto certi aspetti dell’indole individuale legati anche alla cultura di origine. Sotto questo profilo l’argentino suscita più simpatia dell’alemanno, che ci pare complessivamente più freddo. E l’essere un personaggio rende più emotivamente accessibili al popolo delle istituzioni, specialmente nelle fasi della loro demitizzazione. Come fu osservato al tempo di Giovanni Paolo 2º, la popolarità del Papa non significa però che le persone ne condividano gli insegnamenti. 

  Che significa fiducia, il parametro secondo il quale è stato organizzato il sondaggio? 

  Probabilmente l’inchiesta sul Papa ne misura la popolarità, mentre quella sulla Chiesa descrive l’affidamento che se ne ha nel bisogno, nei casi avversi della vita e in quelli lieti, corrispondenti alle feste liturgiche e agli eventi più importanti della vita, nascita, matrimonio, morte. Probabilmente nelle note alla relazione statistica se ne parla, ma non è stato riportato nell’articolo.

  A chi si pensa quando si parla della Chiesa? Il Papa ne fa parte e, anzi, tra i cattolici ne è un elemento centrale. Probabilmente, quando  si chiede della Chiesa, vengono in mente la parrocchia, i propri preti di prossimità e la gente che vediamo frequentare la chiesa vicino a noi. Tutto questo è reale, c’è effettivamente per noi. La relazione con un Papa è per la massima parte immaginaria ed emotiva, perché lui è uno solo e noi siamo tanti. Insomma, si preferisce la fantasia alla realtà di gente a noi accessibile e che proclama buone intenzioni, alla sequela di colui che passava risanando i sofferenti.

  È una forma di papismo superficiale e mediatico, praticato da coloro che in genere hanno perso dimestichezza con la vita religiosa. Questo lo distingue dal papismo di un tempo, manifestato da gente religiosa.

   È un papismo che ha iniziato a svilupparsi durante il regno del papa Giovanni Paolo 2º e che non ha precedenti storici. Si pensò per quella via di rimediare alla perdita di credibilità della religione.

 Fino al regno del papa Pio 12° il movimento di masse intorno al Papato fu a base sacrale, intorno all'istituzione, non alla persona del papa regnante. I papi avevano personalità marcatamente ieratica, e si presentavano distanti dalla gente, come il Cielo rispetto alla Terra. La situazione cominciò a cambiare con il papa Giovanni 23°, detto "il Papa buono", nel senso di più vicino alla gente, sia nell'esprimersi che con gli atteggiamenti. Questo modo di considerare il Papa si intensificò negli ultimi anni del regno del papa Paolo 6° ed esplose, divenendo strumento di potere, con il papa Giovanni Paolo 2°, in un'epoca di ripresa dell'accentramento assolutistico intorno al Papato. La persona fisica del regnante divenne molto importante e venne resa accessibile dai mezzi di comunicaizone di massa. Il papa Benedetto 16° riprese le consuetudini del passato, ma ormai la sacralizzazione del Papato non aveva più presa e  non funzionò, ed egli poi si mostrò insofferente verso le consuetudini populiste del suo predecessore. Il suo ambiente di riferimento era quello dei professori universitari di teologia dogmatica e fondamentale. Lì, tra i suoi pari, si trovava a suo agio.

  Con la sinodalità si vorrebbe correggere la situazione del papismo mediatico, ma paradossalmente il processo è sorretto praticamente solo dalla volontà del Papa regnante, nel generale scetticismo degli altri vescovi, del clero e dei religiosi, e nell'inconsapevolezza della gran parte della rimanente gente di fede. Sarà mai possibile superare quel Papismo per ordine del Papa?

  La Chiesa siamo tutti noi, ma sembra che la gente non conti veramente su di noi. Probabilmente ci conosce meno di una volta o, quando ci conosce, non ci ama. Perché?

  La religione non è fatta principalmente di devozioni e norme etiche, come anche di idee sul divino, ma dalle persone che la praticano collettivamente e da come si comportano in società. E' stato scritto che si diffonde come un incendio, di persona in persona. Ma questo ormai accade raramente.

  A parte il mito mediatico del Papa non sembra esserci molto altro, anche se in realtà c'è. La severa disciplina interiore che anima il Papa come ogni altra persona che confida nel vangelo non risalta, e, se conosciuta, spaventa. Al dunque, però, nei casi gravi della vita, è proprio essa che serve e caratterizza la persona religiosa. 

  Il papismo mediatico copre certe nostre insufficienze nell'affrontare la società intorno a noi. Dovremmo essere capaci di incidervi di più, collettivamente, perché è un compito che non è alla portata delle singole persona e nemmeno di gruppi limitati.

 Non è che dal vangelo ci vengano molti aiuti pratici, degli esempi concreti, perché il Maestro non si trovò mai, mentre era tra noi, a organizzare le masse. Esse gravitavano intorno a lui, ma, dopo aver udito ciò che insegnava e aver visto ciò che faceva, tutti in gran parte se ne tornavano a casa propria, non rimanevano in contatto. Va detto che nemmeno la nostra lunga storia ecclesiale ci dà spunti validi per l'oggi: contiene troppa violenza. Non è che non si sia provato ad essere migliori, ma i risultati furono quelli che furono. Ce ne siamo sbrigativamente dichiarati pentiti durante il Grande Giubileo dell'Anno 2000, nella Giornata del Perdono, ma può bastare? Si può così cancellare le brutture di secoli di orrori? Comunque rimane valida la via della purificazione della memoria per la quale ci guidò il papa Giovanni Paolo 2°, non tanto consenziente l'allora cardinale Ratzinger.

  Così, l'unica via è essere creativi. Cercando innanzi tutti di capire realisticamente la società e il tempo in cui ci troviamo a vivere. Per farlo dobbiamo lavorare insieme, perché anche questo  è un compito troppo grande per una singola persona o per gruppi limitati. Questa è, appunto, la sinodalità.

  Non  è che non si debba voler bene al Papa. "Anch'io voglio bene al Papa" fu un libretto scritto da Primo Mazzolari nel 1942, durante tempi tutto sommato molto più difficili di oggi. Veniva criticato per l sue critiche alla Chiesa del papa Pio  12°, che stava appena allora iniziando a liberarsi dal disonorevole compromesso raggiunto una decina d'anni prima con il fascismo mussoliniano. Un Papa ha certamente bisogno di essere sorretto: papa Francesco lo dice sempre. Ma dobbiamo anche imparare a fare la nostra parte con le altre persone, anche loro hanno bisogno di essere sorrette.  Cominciando ad essere sinodali, cioè partecipando di più e in modo responsabile, lo si può iniziare a fare. 

  Perché allora si fa tanta fatica a radunare persone intorno a questo impegno?

  Il papismo mediatico, a differenza di quello sacrale precedente, è stato altamente deresponsabilizzante.

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli 


  

lunedì 23 gennaio 2023

Ordinare il mondo

Ordinare il mondo

 

Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. [dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa “Luce per le genti – Lumen gentium”, n.31, del Concilio Vaticano 2º (1962-1965)]

 

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Le concezioni sul ruolo delle persone laiche contenute nei documenti deliberati nel corso del Concilio Vaticano 2º sono ormai obsolete. 

  Si cercò di far spazio alle persone laiche provando a non definirle come ciò che residuava dopo aver messo in risalto clero e religiosi, ma non ci si riuscì veramente. 

 Eppure proprio alle persone laiche fu assegnato, anche se non riservato, il compito di ordinare il mondo secondo i principi di fede. Questa è stata storicamente la funzione sociale principale delle nostre Chiese e delle loro teologie.

  Nel gergo teologico si parla del mondo come delle “cose temporali”, vale a dire quelle che mutano nel tempo, per distinguerlo dalle realtà soprannaturali,  che sarebbero eterne. Il mondo è costituito dalla natura e dalle società umane. La natura è tutto ciò che appare determinato dalle leggi di causalità, materia inanimata e viventi, e che, in una certa misura e con varie tecniche, può essere osservato, o si pensa che potrebbe esserlo, disponendo delle tecnologie adeguate. Le scienze della natura contemporanee, a differenza dei positivisti ottocenteschi, ci avvertono che non tutto ciò che può essere osservato può anche essere previsto, per certe dinamiche che coinvolgono l’infinitamente piccolo. Le realtà soprannaturali non possono essere né osservate né previste, ma solo postulate ed emotivamente intuite. Postulare, in questo senso, significa porre come presupposto perché altrimenti i ragionamenti conseguenti non avrebbero fondamento e, su questa base, ci si esime dal cercarne o dal fornirne una dimostrazione, quindi dallo spiegarne il dove, quando, come. 

  Delle realtà soprannaturali sulle quali si fonda la nostra fede non si può dare una dimostrazione, ma se ne dà una legittimazione, in particolare con l’argomento “È scritto” [nella Bibbia] ed anche con quelli “Si è sempre e dovunque creduto e insegnato così” e “Un’autorità ecclesiastica competente lo ha ordinato”.

  Le religioni, da un punto di vista antropologico e sociologico servirono e ancora servono a ordinare il mondo. In particolare questo deve riconoscersi per i cristianesimi, che, ad un certo punto, furono posti a fondamento mitologico degli ordinamenti politici europei e progressivamente, a seguito delle colonizzazioni territoriali e culturali realizzate dagli europei, di quelli di quasi tutto il mondo. Proprio a questo si deve la sterminata estensione delle loro teologie, che, in questo, seguirono l’evoluzione del pensiero giuridico, integrandosi con esso. Si partì, in questo, dalla formulazione di sentenze su casi specifici, per poi cercare di costruire dei sistemi concettuali, che, dove si utilizzava il latino nelle riflessioni dotte, vennero definite “Summe”.

  Fin dal Secondo secolo gli autori della letteratura dotta religiosa, al confine tra filosofia e teologia, furono estremamente prolifici: dall’antichità ci è giunto un corpo sterminato di documenti, che poi si è ulteriormente incrementato durante il Medioevo e ancor più dall’epoca Moderna, quando si iniziò a pubblicare a stampa.  Si voleva ordinare ogni aspetto sociale secondo i concetti sviluppati in religione da quella che dal Duecento aveva assunto lo statuto di vera e propria scienza, la teologia. Questo modo di procedere fu socialmente accettato perché funzionava, per ordinare le società.

  Dal Settecento anche altri settori della cultura furono impiegati a quel fine, lì dove le teologie non funzionavano più. All’inizio ce se ne scandalizzò, cercando di opporvisi strenuamente, ma alla fine si accettò la nuova sistemazione, riconoscendo la legittimità delle nuove discipline. Per la Chiesa cattolica ciò fu fatto solo durante il Concilio Vaticano 2º, che deliberò questo principio:

 

36. La legittima autonomia delle realtà terrene.

Molti nostri contemporanei, però, sembrano temere che, se si fanno troppo stretti i legami tra attività umana e religione, venga impedita l'autonomia degli uomini, delle società, delle scienze.

Se per autonomia delle realtà terrene si vuol dire che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza d'autonomia legittima: non solamente essa è rivendicata dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme al volere del Creatore.

Infatti è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l'uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o tecnica.

Perciò la ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio.

Anzi, chi si sforza con umiltà e con perseveranza di scandagliare i segreti della realtà, anche senza prenderne coscienza, viene come condotto dalla mano di Dio, il quale, mantenendo in esistenza tutte le cose, fa che siano quello che sono.

A questo proposito ci sia concesso di deplorare certi atteggiamenti mentali, che talvolta non sono mancati nemmeno tra i cristiani, derivati dal non avere sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza, suscitando contese e controversie, essi trascinarono molti spiriti fino al punto da ritenere che scienza e fede si oppongano tra loro.

Se invece con l'espressione « autonomia delle realtà temporali » si intende dire che le cose create non dipendono da Dio e che l'uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora a nessuno che creda in Dio sfugge quanto false siano tali opinioni.

La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce.

Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di Dio nel linguaggio delle creature.

Anzi, l'oblio di Dio rende opaca la creatura stessa.

[dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo La gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2º]




   Ai tempi nostri non si scrivono più Summe. In sostanza, la teologia non lavora più per i sovrani, salvo che per il Papato, e quindi non serve più di occuparsi di tutto.

 Dagli scorsi anni Trenta, dall’epoca in cui sempre più larghe fasce delle popolazioni ebbero modo di influire sugli assetti politici, iniziò a lavorare per influire sulle dinamiche politiche di massa, secondo i nuovi indirizzi della dottrina sociale enunciati a partire dal regno del papa Pio 12º. Da qui, poi, l’assegnazione alle persone laiche del compito di ordinare il mondo.

  Clero e religiosi hanno comunque continuato a ingerirsi in quel campo, che però nemmeno a loro è più riservato.

 Venute meno le Summe, le grandi sintesi teologiche che, integrando natura e soprannaturale, davano l’illusione di capire come andavano le  cose del mondo, si è fatto molto più difficile orientarsi. Del resto, nemmeno in teologia una persona singola può dominare tutta la materia della sua disciplina, per la vastità del materiale di cui si deve avere consapevolezza.

  La sinodalità serve appunto per mettere insieme le forze per cercare di avere una visione della realtà il più possibile completa, sempre che sia ammesso un vero dialogo, ciò che è impedito con il frustrante metodo della conversazione spirituale raccomandato dai vescovi.

  Quel metodo è espressione di clericalismo.

  Clero e religiosi ritengono di essere i soli a praticare la spiritualità e, quando si trovano con le persone laiche, cercano di imporre i loro costumi. Per loro ha poca importanza, per la vita di fede, ciò che le persone laiche fanno fuori degli spazi ecclesiastici, in gran parte occupati dai riti, nei quali il clero la fa da padrone. In realtà, le persone laiche, quando non sono in chiesa, si dedicano appunto ad ordinare il mondo, e dovrebbero manifestare e praticare una spiritualità adeguata  e corrispondente. Clero e religiosi, ormai portatori in genere di una spiritualità di impronta monastica, non sono di grande aiuto, specie poi se sono stranieri e sanno alla lontana, e solo per averne letto o sentito dire, delle cose di qui. Ritrovandosi insieme in incontri di tipo sinodale le persone laiche potrebbero aiutarsi a orientarsi creando una spiritualità adeguata. Di solito però ciò non accade, perché tutto è rimasto in mano al clero, che fa funzionare le cose come è abituato a fare, imponendo il silenzio alle altre persone. In questo caso, però, il silenzio non è più una virtù.

  Così negli ultimi decenni la capacità dei cattolici italiani di influire sulle cose del mondo, ordinandole, si è quasi azzerata, e ciò nonostante il rilevantissimo impatto mediatico del Papa regnante.

Mario Ardigó – Azione cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

 

  

domenica 22 gennaio 2023

Non siamo monaci

Non siamo monaci

 

[da Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos]

  «I monaci sono monaci», ha detto, «io non sono un monaco. Io non sono un superiore di monaci. Ho un gregge, un vero gregge, non posso ballare davanti all’arca col mio gregge – delle semplici bestie, a che cosa somiglierei,  vuoi dirmelo? Delle bestie, né troppo buone, né troppo cattive, dei bovi, degli asini, degli animali da traino e da lavoro. E ho anche dei caproni. Che ne farò dei miei caproni? Non c’è modo di ucciderli né di venderli. Un abate mitrato deve solo passare la consegna al frate portinaio. In caso d’errore si sbarazza dei caproni con un cenno. Io non posso, noi dobbiamo tener tutto, anche i caproni. Caproni o pecore, il padrone vuole che gli rendiamo ogni bestia in buono stato. Non metterti in testa di impedire al caprone di puzzare di caprone, perderesti il tuo tempo, rischieresti di cadere nella disperazione.

 

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  La vita religiosa personale è fatta anche di spiritualità. La spiritualità è un atteggiamento interiore mediante il quale si cerca di dare un senso coerente a ciò che si pensa di dover essere e di servirsene per orientarsi in ciò che si fa. È una creazione della nostra  mente  quando interagisce nelle relazioni più importanti, quelle di mondo vitale. Non c’è naturalmente solo una spiritualità religiosa.  Quest’ultima comprende un’idea del divino, inteso come  la realtà che si pensa  sottratta alle serie delle causalità naturali e, in questo, senso, soprannaturale.

  È sorprendente l’importanza che si dà di solito alla spiritualità nella nostra pratica religiosa, quando invece nei Vangeli l’accento mi pare posto molto più sul fare, forse perché tutto si svolse molto rapidamente e non ci fu molto tempo per il resto. Poche parole del Maestro ed ecco la conversione e anche la sequela. C’era stato, prima, un travaglio interiore? Chi lo sa? 

  La spiritualità, come noi in genere la intendiamo e pratichiamo, fu inventata dai monaci, che nei Vangeli però non ci sono. Come si legge nel brano evangelico citato nel documento della Conferenza episcopale italiana I cantieri di Betania, Lc 8, 1-3, il Maestro, con il suo seguito di uomini e donne, girava in mezzo alla gente  nei paesi di Galilea e Giudea, insegnando e risanando. Non fu un monaco, né richiese ai suoi di esserlo.

  Il monaco, anche oggi come nell’antichità, è una persona che si ricava molto tempo per la spiritualità. Lo fa separandosi dal contesto sociale. E’ cosa che alle altre persone può essere consentita solo quando sono molto anziane, nei sistemi sociali dove gli anziani vanno in pensione. Altrimenti si corre sempre. Il tempo stringe.

  I nostri preti, in genere, sono stati formati alla spiritualità monacale. Ci mettono molto tempo a superarla. Ci si riesce con la pratica della cura d’anime. Ma poi tendono a insegnarla alle persone laiche, per le quali, però,  non va bene.

  Il monaco si ritira dalla società per essere tutto per l’assoluto. Poi si accorge che così perde il senso di tutto e inizia ciò che viene descritto come un combattimento interiore. Qualcosa per la quale gli antichi monaci venivano anche descritti come atleti dello spirito. Vorrebbero pregare costantemente e si accorgono di annoiarsene, allora si colpevolizzano. La teologia morale dei vizi capitali è in gran parte costruita sulla base della loro esperienza. Nei trattati medievali c’è tutto un catalogo dei peccati dei monaci con le relative sanzioni. L’altro giorno ho letto sul giornale che un gerarca di un ordine monastico con la dignità di vescovo sarebbe sotto indagine per essersi appropriato di ingenti somme a lui affidate per il suo ufficio e per averle impiegate per fare una vita lussuosa. Cose che ciclicamente sono accadute in quell’ambiente spirituale.

   Quando un monaco la fa troppo grossa, viene cacciato. Le società dei monaci sono fatte di persone che non le hanno fatte troppo grosse. Ma nella vita sociale dove le persone laiche devono fare il loro lavoro di fede c’è di tutto e tutto deve rimanervi.

  Il Maestro fu molto criticato per i suoi atteggiamenti poco monacali. Frequentava infarti anche persone di pessima reputazione. Ai suoi discepoli non chiese di farsi monaci, atleti dello spirito. Comandò invece l’agápe. Essa richiede di stare in mezzo alla gente e quindi una spiritualità diversa da quella dei monaci. Più centrata sul fare il bene alle altre persone che sul sentirsi bene interiormente. Il monaco, quando ha superato tedio e tentazioni della sua vita separata, si sente consolato interiormente e se ne appaga. Ad una persona laica questo non basta.

  Questo va tenuto conto nella costruzione della sinodalità. Si dovrebbe dialogare, ci si dovrebbe consultare su come va il mondo  e su ciò che c’è da fare per esercitarvi un influsso, e invece si inizia intimando il silenzio, come si fa tra i monaci. Ecco che poi ci si annoia e, poiché non si ha la vocazione da monaci, si lascia.

  L’esperienza storica dei monaci è stata molto mitizzata.

  Realisticamente non ci ha lasciato solo cose buone. 

  L’umiliante nostra condizione laicale è dipesa in gran parte dalla mitizzazione della condizione monacale.

  Il principale problema scaturito nel medioevo dagli ambienti monacali è stato la costruzione di un Papato imperiale, con Pietro al posto di Cesare, che non riusciamo proprio a superare.

Mario Ardigó- Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

  

giovedì 19 gennaio 2023

Produrre religione

 

Produrre religione

 

  La fede non si inventa, si copia. Ogni persona la vive come fanno le altre persone intorno a lei. L’insieme dei modi di manifestare la fede che in una collettività vengono considerati come socialmente ammissibili costituisce la religione. Sotto questo punto di vista, la fede deriva dalla religione, non c’è senza di essa e muta con essa.

  La fede è anche  un sistema di concetti, di convinzioni, definiti da certe formule, ma non è essenzialmente questo: è principalmente un modo di affrontare la vita con le altre persone. Sotto entrambi gli aspetti, è cultura. Come cultura deriva  da come si vive, e si pensa,  in una certa società e, sotto questo aspetto, si fa religione. Le religioni, infine, sono produzioni sociali.

  La teologia razionalistica normativa corrente dà molta importanza al sistema delle definizioni  sulla fede, del resto come fu fin dai primi decenni delle nostre comunità religiose, nei quali fu costruita una religione distinta dal giudaismo delle origini, fondamentalmente in ambiente ellenistico. Questo modo di concepire la religione porta all’illusione di poterne bloccare l’evoluzione, di mantenerla sempre uguale di generazione in generazione. Tuttavia, proprio perché fede e religione sono cultura, si tratta, appunto, di un’illusione, una convinzione non realistica. Infatti la cultura religiosa riconducibile ai cristianesimo è molto cambiata nel corso della storia, talvolta anche molto velocemente e radicalmente.

  Ad un certo punto dei processi di cambiamento, i teologi mettono nero su bianco, sviluppando ragionamenti, le linee di sviluppo dei mutamenti. Tuttavia questi ultimi, in genere, non sono mai partiti dalla teologia, ma da corrispondenti cambiamenti nelle società di riferimento. La teologia si limita a prenderne atto e a descriverne le conseguenze. Questo è appunto il caso della riforma sinodale  che faticosamente è stata avviata  e in qualche modo sta proseguendo.

  Per rendersi realisticamente conto del processo in corso, bisogna tuttavia convincersi che la Chiesa,  da un punto di vista antropologico e sociologico, è un complesso multiforme di strati sociali, ciascuno dei quali manifesta una sua propria  religiosità, e quindi una sua cultura religiosa. Da questo punto di vista, abbandonando per un momento la prospettiva della teologia dogmatica corrente, possiamo riconoscere che non v’è una sola religione, un cristianesimo, ma varie religioni accumunate dal riferimento mitico e culturale al cristianesimo, e anche da certi riti,  dunque, vari cristianesimi. Questo è piuttosto evidente a qualsiasi livello, ad esempio nella nostra parrocchia, nella quale vediamo vivere la religione in modo molto diversi, e anche confliggenti.

  Un sistema concettuale e in genere una cultura non vengono vissuti dalla persona senza che quest’ultima vi apporti qualcosa di proprio e lo tramandi, insieme a ciò che ha recepito dal passato. Si è legati al passato, perché nessuna persona si è inventata  la propria religione, ma nello stesso tempo, nel processo di tradizione, lo si supera. Ogni persona e ogni collettività, a qualsiasi livello, producono costantemente religione.

  La teologia, fin dalle origini, è assillata dallo sforzo di ricondurre a unità la multiformità, ma questo si è storicamente rivelato uno sforzo vano, quindi inutile. Esso fu in gran parte legato a questioni di potere, all’esigenza di una legittimazione sacrale della gerarchia ecclesiastica. Da ciò derivò un gran male, sul quale di solito nella formazione religiosa di base, a carattere marcatamente propagandistico, si sorvola, e invece non si dovrebbe, almeno arrivati ad un certo punto, ad una certa età della vita.

  L’unica funzione della teologia che ancora mi pare valida è quella di rendere comunicabile la fede. In questo modo si possono talvolta creare relazioni positive tra le diverse forme di religiosità che storicamente si manifestano. Ma non è detto che questo possa sempre accadere. Alcune manifestazioni religiose possono risultare incompatibili. E, tuttavia, una teologia cristiana, avendo come riferimento comunque il comandamento dell’agàpe, dovrebbe essere in grado di costruire una convivenza pacificata, ciò che però non sempre storicamente  è avvenuto. Questo lavoro è particolarmente importante affrontando la sinodalità, che mette di fronte alla realtà della multiformità religiosa e cerca di favorire il dialogo pacificato al suo interno. Per dialogare occorre trovare un linguaggio condiviso.

   In teologia, del resto in linea con le narrazioni bibliche, ci si riferisce al popolo, come se fosse una realtà unitaria, ma, almeno dal punto di vista antropologico e sociologico, le cose non stanno  così. La religiosità si manifesta in popolazioni che esprimono culture molto diverse.

 La sinodalità,  come viene ora articolata da papa Francesco, quindi come una sinodalità popolare, diffusa, non origina nelle culture religiose europee, ma in quelle latino-americane. Papa Francesco la declina però secondo una teologia del popolo pensata in Argentina, ad esempio da un autore caro al Papa come Rafael Tello (1917-2002) [nel 2020, Messaggero di Sant’Antonio editrice, ha pubblicato, con prefazione di papa Francesco, alcuni saggi di quell’autore, con il titolo di Popolo e cultura]. Per un europeo, la lettura del testo che ho da ultimo citato è piuttosto ostica, tanto è lontana dall’esperienza, innanzi tutto politica, che si vive nel nostro continente. Dunque ci viene proposto di applicare un’idea di sinodalità  prodotta in un’altra cultura, molto lontana dalla nostra. Da qui, penso, non poche difficoltà.

  La sinodalità come trattata dalle teologia europee è essenzialmente una diversa forma di vivere l’autorità ecclesiastica. Questo rimane un po’ sullo sfondo nella sinodalità popolare al modo di papa Francesco. Per quest’ultimo il popolo intuirebbe una verità che lo condurrebbe all’unità basata  su valori di religiosità e nella forte  ricerca di un ordine personale basato sull’amore.  Per questo il problema principale in materia di sinodalità è ascoltarlo. In Europa abbiamo maggiore consapevolezza del carattere politico  dell’idea di popolo, e quindi della necessità di costruirlo  perché possa rivelarsi una forza sociale in grado di influenzare il corso della storia. La democrazia è appunto il principale strumento per lavorarci sopra. Nel populismo di papa Francesco la democrazia è invece quasi del tutto assente e questa può essere considerata una conseguenza dell’aspra polemica anti-illuministica del gesuitismo latino-americano. Questo può spiegare, poi, la violenta polemica antidemocratica contenuta nelle linee guida dei nostri vescovi per la fase di ascolto dei processi sinodali in corso e ciò nonostante che i vescovi italiani del partito conciliare  provengano essenzialmente dal cattolicesimo democratico, e nonostante che di democrazia certamente si tratti nella loro predicazione. I vescovi italiani sono abituati a seguire acriticamente il papa regnante: non hanno ancora sviluppato una vera loro sinodalità.

  Comunque si vedano le cose, il principale nostro problema è che progressivamente  si è molto indebolita la capacità delle nostre Chiese, in tutte le loro componenti sociali, di produrre  religione. Principalmente ciò è dovuto all’invecchiamento della popolazione di fede, persone laiche e clero. L’allontanamento delle persone più giovani è stato dovuto alla rigidità della predicazione corrente, all’insostenibilità dei modi proposti per vivere la fede e alla dura emarginazione delle persone laiche, in particolare delle donne. Tutto ciò rende inutile  la religiosità e quindi i più giovani non si affannano a produrla, ad esprimerla.

 Produrre  religione richiede di farlo collettivamente, perché la religione è cultura e la cultura è una produzione sociale. Ecco che, allora, la sinodalità, intensa come co-decisione  e corresponsabilità mediante dialogo,  può essere uno strumento prezioso, se solo si riuscisse a farne reale tirocinio, come in genere però non accade.

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli