INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

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Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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domenica 30 dicembre 2018

Problemi di costruzione sociale - 1


Problemi di costruzione sociale - 1

1. I miei circa quaranta interlocutori del nostro gruppo parrocchiale di Azione Cattolica intuiscono  bene i problemi che abbiamo in parrocchia nel  costruire  una società in linea con le idealità della nostra fede. Se però chiedessi a qualcuno di loro di spiegarli agli altri in modo da poterci ragionare  sopra, probabilmente, così, su due piedi come si suol dire, avrebbe difficoltà a farlo in modo soddisfacente, e ciascuno finirebbe col parlare  di ciò che gli sta più a cuore, nel senso che pensa gli  sarebbe piacevole fare o che lo fa soffrire, in questo modo facendo luce solo su un aspetto particolare della realtà sociale in cui è immerso. Per un altro, in diversa situazione personale, potrebbe essere diverso. A questo punto un animatore, volenterosamente impegnato a far convergere il gruppo verso un certo obiettivo che corrisponda agli scopi che si è dato, per i quali è stato costituito, e che in parrocchia hanno sempre in qualche modo a che fare con la fede, potrebbe ricordare la dottrina  sociale  con i suoi principi e allora, sondando  poi di nuovo il gruppo, scoprirebbe che, sì, le si è dato un assenso di massima aderendo al gruppo, ma che non è quello il vero motivo per cui si è aderito e, soprattutto, che ognuno ha il suo. E che, inoltre, questo quella  dottrina non lo mette in conto,  per cui  dà indicazioni su tante cose, in genere sui grandi obiettivi, ma non sull’essenziale per un'ideologia  che voglia  essere  sociale, vale a dire su come  realizzare  una società adeguata ai suoi  principi. Innanzi tutto perché della società ha un’immagine poco realistica. E poi perché teme la realtà e preferisce immaginarla invece che osservarla e studiarla. Questo è il problema dei problemi  della costruzione sociale in una comunità di fede, compresa quella che viene considerata la sua prima cellula, vale a dire la famiglia. Quest’ultimo è un tema assai spinoso e non mi ci avventuro, perché pur avendone, come marito e padre da lunga data, una certa conoscenza pratica, a differenza, in genere, del clero che vi dà direttive sopra, non mi sento ancora veramente la stoffa del martire: in religione infatti le discussioni franche sulla famiglia vanno in genere a finire male, per la quasi  totale incomprensione tra la maggior parte del clero (celibe) e la maggior parte dei laici sposati.
  Quando mia madre, negli anni ’70, si iscrisse al corso di laurea in Scienze dell’educazione  presso la vicina università salesiana, che all’epoca si chiamava Ateneo salesiano e ora Pontificia università salesiana, ebbe come libro di testo in dinamica di gruppo, il libro di Gennaro Luce, Dinamica di gruppo, LMS, 1977, che all’epoca era appena uscito e che ora non è più in commercio.  Da molti anni l’ho tra le mani, avendolo preso in prestito  da mia madre. Gennaro Luce, laureato in Scienze umane [scienze della condizione umana comprendenti sociologia, psicologia, pedagogia e altro] in Guatemala, si era specializzato in Scienze dell’educazione presso l’università salesiana e poi aveva fatto dieci anni di esperienza sul campo in associazioni giovanili salesiane in Italia e in America. Nel libro mostra di avere bene compreso l’importanza di una visione  realistica  dei problemi, e lo stesso deve dirsi dei professori salesiani di mia madre, ma, ad esempio, non del parroco di mia madre all’epoca. Mia madre, farmacista, si era iscritta a Scienze dell’educazione non per un suo desiderio personale di allargare la sua cultura personale, ma per perfezionarsi come catechista: era infatti nel gruppo delle mamme catechiste, le mamme che, nel clima effervescente degli anni ’70, il giovane viceparroco era riuscito a coinvolgere nella catechesi per le Prime Comunioni, e anche per la Cresima che all’epoca si faceva pochi giorni dopo la Prima Comunione. Naturalmente, quando mia madre cercò di mettere in pratica nel suo gruppo di catechismo ciò che aveva imparato dai salesiani, il parroco su due piedi la esonerò dall’incarico. E le altre catechiste furono tutto sommato d’accordo, non le diedero alcuna solidarietà. La nuova catechesi di mia madre le  aveva sorprese, le faceva sentire inadeguate e non avevano alcuna voglia di imparare. Questo fu per mia madre uno dei dolori più brucianti della sua vita, anche se, disciplinatamente, accettò senza protestare o recriminare la decisione del parroco  e  continuò il suo apostolato tra gli adulti, con un certo successo, tanto che fino a quando ha potuto, vale a dire fino all’autunno del 2017 seguiva in tutta Italia circa seicento persone appartenenti a vari gruppi che aveva contribuito a fondare. A Pasqua e a Natale scriveva loro una lettera circolare, alla cui stampa e spedizione davo anch’io una mano. Per vent’anni, dopo la morte di mio padre, visse come collaboratrice laica in un nuovo ordine religioso dedicato al culto dello Spirito Santo, con la sede principale a Palestrina. Lì faceva vari lavori, e, in particolare, curava le pubblicazioni per l’estero. Io sono l’unica persona al mondo, ad eccezione forse dei suoi confessori, con cui mia madre si è confidata di quel grande dolore di quando le fu tolto l’incarico di catechista. Perché ne parlo ora? Per mettere in luce quanta sofferenza si infligge talvolta in religione per la pretesa di non fare i conti con la realtà. Per la parrocchia, escludere una come mia madre dal catechismo fu certamente un danno, perché i salesiani erano e sono ottimi educatori, in particolare dei giovani, e  inoltre all’epoca erano tra i primi a progettare catechesi in linea con la riforma che dal 1970 si era cominciata ad attuare per allineare la formazione religiosa di base ai nuovi principi deliberati nel corso del Concilio Vaticano 2°.Del resto ai ragazzini di allora piaceva molto il modo in cui mia madre insegnava, con un ampio impiego di audiovisivi, con più estesi riferimenti biblici resi accessibili a menti infantili e altro. Certo, le classi di catechismo di mia madre non era le solite di allora, con i ragazzini muti in ascolto dell’insegnante, come a scuola, e costretti a mandare a memoria il vecchio catechismo a domande e risposte, non  comprendendo veramente né le une né le altre. Complessivamente si poteva avere un’impressione di confusione e di indisciplina, che tuttavia, per ciò che ricordo dei tempi di allora, non erano veramente tali, un po’ come realmente si osserva ora, ma erano più che altro manifestazioni di partecipazione emotiva a ciò di cui si stava trattando. Infatti la fede, quando riesce ad elevarsi sopra la dottrina, che ne costituisce solo una sorta di rampa di lancio, riscalda il cuore.
2. Per dottrina  in religione si intendono gli insegnamenti sulla nostra fede diffusi con l’autorità del  Magistero, vale a dire, tra i cattolici,  con quella del Papa e dei vescovi. Questi ultimi di solito si limitano a dare disposizioni attuative di quelle pontificie, ma non sempre e non dovunque. Ad esempio, in America Latina dagli anni Sessanta hanno inaugurato un nuovo pensiero sociale, un nuovo modo di pensare la Chiesa, che poi è stato in parte recepito dalla dottrina. Uno degli esempi di questa evoluzione è il magistero di papa Francesco. Per legge canonica, della nostra Chiesa, il magistero dei vescovi deve  comunque essere in linea con quello pontificio e, quindi, un’esperienza locale, sebbene estesa a livello continentale, come quello latino-americana ha potuto diventare veramente patrimonio ecclesiale per tutti solo quando è stata assentita dai Papi e nel limiti in cui lo è stata. Questi limiti sono diventati molto stringenti nel regno di san Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2° (1978-2005), dopo esserlo stato meno nel regno di san Giovanni Battista Montini - Paolo 6° (1963-1978). Quest’ultimo dell’esperienza latino-americana aveva ampiamente trattato in un documento ancora molto importante che l’esortazione apostolica Annunziare il Vangelo [L’impegno di] - Evangelii nuntiandi, del dicembre 1975, che fu determinante nella decisione di mia madre di iscriversi a Scienze dell’educazione. Lo potete leggere sul Web all’indirizzo:
http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/apost_exhortations/documents/hf_p-vi_exh_19751208_evangelii-nuntiandi.html
 Vi leggiamo:
«                         NEL CUORE DELLE MASSE
57. Come Cristo durante il tempo della sua predicazione, come i Dodici al mattino della Pentecoste, anche la Chiesa vede davanti a sé una immensa folla umana che ha bisogno del Vangelo e vi ha diritto, perché Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità»
Conscia del suo dovere di predicare la salvezza a tutti, sapendo che il messaggio evangelico non è riservato a un piccolo gruppo di iniziati, di privilegiati o di eletti, ma destinato a tutti, la Chiesa fa propria l'angoscia di Cristo di fronte alle folle sbandate e sfinite «come pecore senza pastore» e ripete spesso la sua parola: «Sento compassione di questa folla». Ma è anche cosciente che, per l'efficacia della predicazione evangelica, nel cuore delle masse, essa deve indirizzare il suo messaggio a comunità di fedeli, la cui azione può e deve giungere agli altri.
LE COMUNITÀ ECCLESIALI DI BASE
58. Il recente Sinodo si è molto occupato di queste piccole comunità o «comunità di base», perché nella Chiesa d'oggi sono spesso menzionate. Che cosa sono e per quale motivo queste sarebbero destinatarie speciali di evangelizzazione e, nello stesso tempo, evangelizzatrici?
Fiorendo un po' dappertutto nella Chiesa, secondo le differenti testimonianze sentite al Sinodo, esse differiscono molto fra di loro, in seno alla stessa regione e, più ancora, da una regione all'altra.
In alcune regioni sorgono e si sviluppano, salvo eccezioni, all'interno della Chiesa, solidali con la sua vita, nutrite del suo insegnamento, unite ai suoi pastori. In questo caso, nascono dal bisogno di vivere ancora più intensamente la vita della Chiesa; oppure dal desiderio e dalla ricerca di una dimensione più umana, che comunità ecclesiali più vaste possono difficilmente offrire, soprattutto nelle metropoli urbane contemporanee che favoriscono la vita di massa e insieme l'anonimato. Esse possono soltanto prolungare, a modo loro, a livello spirituale e religioso - culto, approfondimento della fede, carità fraterna, preghiera, comunione con i Pastori - la piccola comunità sociologica, villaggio o simili.
Oppure esse vogliono riunire per l'ascolto e la meditazione della Parola, per i Sacramenti e il vincolo dell'Agape, gruppi che l'età, la cultura, lo stato civile o la situazione sociale rendono omogenei, coppie, giovani, professionisti, eccetera; persone che la vita trova già riunite nella lotta per la giustizia, per l'aiuto fraterno ai poveri, per la promozione umana. Oppure, infine, esse radunano i cristiani là dove la penuria dei sacerdoti non favorisce la vita normale di una comunità parrocchiale. Tutto questo è supposto all'interno delle comunità costituite della Chiesa, soprattutto delle Chiese particolari e delle parrocchie.
In altre regioni, al contrario, comunità di base si radunano in uno spirito di critica acerba nei confronti della Chiesa, che esse stimmatizzano volentieri come «istituzionale» e alla quale si oppongono come comunità carismatiche, libere da strutture, ispirate soltanto al Vangelo.
Esse hanno dunque come caratteristica un evidente atteggiamento di biasimo e di rifiuto nei riguardi delle espressioni della Chiesa: la sua gerarchia, i suoi segni. Contestano radicalmente questa Chiesa. In tale linea, la loro ispirazione diviene molto presto ideologica, ed è raro che non diventino quindi preda di una opzione politica, di una corrente, quindi di un sistema, anzi di un partito, con tutto il rischio, che ciò comporta, di esserne strumentalizzate.
La differenza è già notevole: le comunità che per il loro spirito di contestazione si tagliano fuori dalla Chiesa, di cui d'altronde danneggiano l'unità, possono sì intitolarsi «comunità di base», ma è questa una designazione strettamente sociologica. Esse non potrebbero chiamarsi, senza abuso di linguaggio, comunità ecclesiali di base, anche se, rimanendo ostili alla Gerarchia, hanno la pretesa di perseverare nell'unità della Chiesa. Questa qualifica appartiene alle altre, a quelle che si radunano nella Chiesa per far crescere la Chiesa.
Queste ultime comunità saranno un luogo di evangelizzazione, a beneficio delle comunità più vaste, specialmente delle Chiese particolari, e saranno una speranza per la Chiesa universale, come abbiamo detto al termine del menzionato Sinodo, nella misura in cui: 
- cercano il loro alimento nella Parola di Dio e non si lasciano imprigionare dalla polarizzazione politica o dalle ideologie di moda, pronte sempre a sfruttare il loro immenso potenziale umano; 
- evitano la tentazione sempre minacciosa della contestazione sistematica e dello spirito ipercritico, col pretesto di autenticità e di spirito di collaborazione;
- restano fermamente attaccate alla Chiesa particolare, nella quale si inseriscono, e alla Chiesa universale, evitando così il pericolo - purtroppo reale! - di isolarsi in se stesse, di credersi poi l'unica autentica Chiesa di Cristo, e quindi di anatematizzare le altre comunità ecclesiali; 
- conservano una sincera comunione con i Pastori che il Signore dà alla sua Chiesa e col Magistero, che lo Spirito del Cristo ha loro affidato;
- non si considerano giammai come l'unico destinatario o l'unico artefice di evangelizzazione - anche l'unico depositario del Vangelo! -; ma, consapevoli che la Chiesa è molto più vasta e diversificata, accettano che questa Chiesa si incarni anche in modi diversi da quelli, che avvengono in esse; 
- crescono ogni giorno in consapevolezza, zelo, impegno, ed irradiazione missionari;
- si mostrano in tutto universalistiche e non mai settarie.
Alle suddette condizioni, certamente esigenti ma esaltanti, le comunità ecclesiali di base corrisponderanno alla loro fondamentale vocazione: ascoltatrici del Vangelo, che è ad esse annunziato, e destinatarie privilegiate dell'evangelizzazione, diverranno senza indugio annunciatrici del Vangelo.»
   Le Comunità  di base  erano il cuore delle nuove esperienze ecclesiali latino-americane. Nel brano che ho citato si coglie l’eco delle controversie che suscitarono. Avevano, nell’ambiente di origine, l’America Latina travagliata dai neo-fascismi in qualche modo appoggiati dalla politica statunitense come male minore nel grande gioco di guerra che a livello globale andava conducendo contro i sovietici, un marcato aspetto politico, anelando anche  ad una liberazione sociale da condizioni civili ingiuste e questo anche  come impegno religioso. Avevano quindi anche molti e potenti nemici. E il Papato, all’epoca, non intendeva essere coinvolto in quelle dinamiche politiche, temendo che potessero sfociare nella lotta armata o che potessero essere fascinate, e in qualche modo contaminate, dall’ideologia marxista diffusa dai sovietici. E, tuttavia, il papa Montini, a differenza poi del papa Wojtyla, riconosceva i buoni frutti che potevano ricavarsi da quel nuovo modo di vivere la Chiesa, arrivando a definirli esaltanti.  Nel medesimo brano si coglie un aspetto molto importante da tenere in considerazione costruendo  società, vale a dire l’aspetto  di massa  delle società moderne. Nel documento che ho citato se ne parla come di un’immensa folla, e, si aggiunge, di una folla in condizione di sbandamento  e di  sfinimento,  come pecore senza pastore. il messaggio evangelico non è riservato a un piccolo gruppo di iniziati, di privilegiati o di eletti, si legge ancora nell’esortazione apostolica, per cui, se vuole essere efficace,  ed essere fedele alla sua missione, la predicazione evangelica deve arrivare al cuore delle masse, e per riuscirci deve indirizzare il suo messaggio a comunità di fedeli, la cui azione può e deve giungere agli altri. Ecco quindi, notatelo bene, una dottrina sociale che non si limita a fissare un obiettivo, arrivare al cuore delle masse, ma che, sulla base dell’esperienza che all’epoca era essenzialmente quella latino-americana della comunità di base, indica un metodo da sperimentare: quello di indirizzare il messaggio a comunità più coese che poi se ne facciano da  tramite verso altri. Queste comunità, tuttavia, non devono rimanere piccoli gruppi di iniziati, di eletti, e come tali privilegiati. Un bel problema! Perché l’apertura  influisce fatalmente sulla  coesione. Questo si è imparato dall’esperienza di comunità di quel tipo, che sono state proposte, nella riforma della catechesi del 1970, progettata con il Documento di base “Il rinnovamento della catechesi”, che potete leggere a questo indirizzo  WEB:
http://www.educat.it/documenti/download/Il%20Rinnovamento%20della%20Catechesi_sito.pdf
come l’ambiente ideale per sostenere la formazione alla fede, sia dei più giovani che negli adulti. Non più quindi solo  “classi di catechismo”, ma anche  comunità educanti in cui vivere, e innanzi tutto mettere in pratica e sperimentare, i principi religiosi riguardanti ciò che si intende per carità - agàpe. E c’è un altro problema al quale gli autori della dottrina sociale ancora non danno adeguato risalto: comunità coese di quel tipo richiedono una frequentazione assidua e prolungata, che ai tempi nostri non si riesce in genere ad ottenere, soprattutto nelle città medie e grandi, dove la gente finito il lavoro, e quando non sia troppo sfinita per dedicarsi ad altro, va in giro in cerca di distrazioni e le trova, onorevoli o meno onorevoli.
  Pensare a comunità educanti  di quel tipo è facile, ma costruirle  molto meno. La legge empirica delle relazioni sociali umane è questa: più si avvicina l’altra persona, più questo contatto è impegnativo e prende tempo. Lo si constata facilmente nell’amore, quando passata fatalmente la fase dell’innamoramento, si approfondisce l’amicizia tra chi si ama. Paradossalmente, quindi, è più semplice, da un punto di vista umano, gestire l’organizzazione di un grande evento di massa, ad esempio cinquantamila persone a piazza San Pietro in una mattina col Papa, che tenere insieme un piccolo gruppo parrocchiale molto coeso di cinquanta persone che vogliano veramente intendersi fra loro in modo da sostenersi nella fede e in altro. Le cinquantamila persona hanno un rapporto superficiale ed episodico tra loro e con il Papa che sono venuti a incontrare, ma  in realtà solo  a vedere da lontano e ad ascoltare. Basta dir loro dove devono sedersi, mettere loro in mano il libretto della liturgia, dotarle di cappelletti e bandiere colorate, prevedere sufficienti bagni chimici e un servizio di soccorso sanitario per chi stesse male, procurare un numero di ostie sufficienti per far fare la Comunione a tutti, un’orchestrina, un coro, un certo numero di chierichetti-steward per dirigere il flusso di gente, e il gioco è fatto. Questa esperienza sociale, tipica del neo-papismo  corrente dagli anni ’80, non è tuttavia quella di una comunità educante, ma semmai di una comunità educata, che accetta di buon grado di fare ciò che le si dice. Solletica l’emotività personale, come sempre accade in certi eventi di massa in cui si converge per assistere ad uno spettacolo, ma nulla di più. L’umanità delle persone rimane un po’ sottotraccia e la folla sembra fatta di persone molto simili: ma  è solo perché non si riesce a distinguerle bene e ciascuno non ha modo di manifestare la sua personalità. perché fa come fanno tutti. Del resto la nostra mente ha un limite cognitivo stringente, lo ricordo spesso: non può avere relazioni personali profonde con oltre centocinquanta altre persone. E’ il numero di Dunbar, dall’antropologo inglese che lo ha teorizzato, Robin Dunbar, scienziato settantenne di Liverpool, vissuto a lungo in Africa orientale, professore universitario ad Oxford. Quando ci troviamo di fronte a folle di più di centocinquanta persone circa perdiamo la capacità di individuarle tutte singolarmente, e allora ci avviciniamo solo ad alcune di esse, le altre sfumano sullo sfondo. Nessun gruppo di più di centocinquanta persone può essere veramente coeso e non ci si può fare nulla, perché la nostra mente dipende da un hardware, da un supporto biologico che risale a circa duecentomila anni fa ed è più o meno quello di allora, non a subito trasformazioni spettacolari simili a quelle che dalle prime macchine  di calcolo elettronico hanno prodotto l’intelligenza artificiale, che macchina non è più. Un problema questo che si fa sentire già a livello parrocchiale.
  Vorremo fare della parrocchia una realtà di massa, per correggere la tendenza del passato di viverla in comunità  coese  ma  chiuse, vale  a dire come esperienza sociale che coinvolga le circa quindicimila persone del quartiere che pensano religiosamente secondo la nostra fede. Ho scritto tempo fa:
«Dai dati dell’ultimo censimento, le Valli sono abitate complessivamente da circa ventimila persone, buona parte delle quali rientrano nella nostra comunità parrocchiale. Di queste, secondo la media nazionale, un buon 80% dovrebbe poter essere annoverato tra i fedeli, coloro che esprimono la loro religiosità secondo la nostra fede. Tenendo conto che, in realtà, anche la gente che abita nei primi edifici oltre piazza Conca d’Oro, prossimi alla piazza, gravita intorno alla nostra parrocchia per ragioni di comodità, anche se territorialmente fa parte della comunità parrocchiale degli Angeli Custodi, possiamo stimare in circa quindicimila persone la nostra comunità parrocchiale, i fedeli della parrocchia. La nostra quindi è, o almeno dovrebbe essere,  una esperienza parrocchiale di massa».
 Di solito abbiamo l’esperienza, a parte che negli orari di certe Messe, di locali parrocchiali in cui il vuoto prevale sul pieno.  Se però, per una volta, tutte  le persone in qualche modo religiose secondo la nostra fede decidessero di presentarsi in parrocchia, come quando si va a piazza San Pietro dal Papa, allora i locali parrocchiali traboccherebbero presto e la folla si estenderebbe per tutte le strade circostanti invadendo probabilmente quasi tutta via Val Padana. E, per chi la vedesse da un qualche pulpito, rimarrebbe  folla  senza possibilità di approfondire e relazione personali. A quel punto le si potrebbe solo somministrare una sorta di spettacolo, come in effetti anche le liturgie sono quando non si riesce a suscitare una sufficiente partecipazione. E passi per una volta o due, ma come si potrebbe gestire la cosa  ogni giorno, se si ripetesse con quella frequenza. E, tuttavia, è nientedimeno questo che la dottrina sociale ci propone come missione: entrare nel cuore delle masse. Ma non lo fa arbitrariamente: questo è, in effetti, un comando del Maestro:
«[19] Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo,  [20] insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.» [trad, it. CEI 2008]
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli