Ripubblico i testi che seguono, tornati di grande attualità
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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Quelle leggi umane, che sono in contrasto
insolubile col diritto naturale, sono affette da vizio originale, non sanabile
né con le costrizioni né con lo spiegamento di forza esterna. Secondo questo
criterio va giudicato il principio: « Diritto è ciò che è utile alla
nazione ». Certo a questo principio può darsi un senso giusto, se si
intende che ciò che è moralmente illecito non può essere mai veramente
vantaggioso al popolo. Persino l’antico paganesimo ha riconosciuto che, per
essere giusta, questa frase dovrebbe essere capovolta e suonare: «Non vi è
mai alcunché di vantaggioso, se in pari tempo non è moralmente buono, e non
perché è vantaggioso è moralmente buono, ma perché moralmente buono è anche
vantaggioso ». Questo principio, staccato dalla legge etica,
significherebbe, per quanto riguarda la vita internazionale, un eterno stato di
guerra tra le nazioni; nella vita nazionale poi misconosce, nel confondere
interesse e diritto, il fatto fondamentale che l’uomo, in quanto persona,
possiede diritti dati da Dio, che devono essere tutelati da ogni attentato
della comunità, che avesse per scopo di negarli, di abolirli e di impedirne
l’esercizio. Disprezzando questa verità, si perde di vista che il vero bene
comune, in ultima analisi, viene determinato e conosciuto mediante la natura
dell’uomo con il suo armonico equilibrio fra diritto personale e legame
sociale, come anche dal fine della società determinato dalla stessa natura
umana.
[dalla Lettera
enciclica Mit brennender sorge - Con
viva ansia, diffusa il 14 marzo 1937 dal papa Achille Ratti,
regnante in religione come Pio 11°]
Ma guai a coloro che in questo tremendo momento non assurgono alla piena
coscienza della loro responsabilità per la sorte dei popoli, che alimentano odi
e conflitti fra le genti, che edificano la loro potenza sulla ingiustizia, che
opprimono e straziano gl'inermi e gl'innocenti (cfr. Ier. 22, 13);
ecco che l'ira di Dio verrà sopra di loro sino alla fine (cfr. I Thess.
2, 16)!
[dal Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, diffuso il 1 settembre 1943, nel 4°
anniversario dell’inizio della Seconda Guerra mondiale]
Discorsi e radiomessaggi del papa
Eugenio Pacelli - Pio 12° - tra il 1939 e il 1945, contenenti dottrina sociale
in materia di organizzazione sociale e politica. L’enciclica Con viva
Ansia del papa Achille Ratti - Pio 11° - (1937),
sull’azione politica del nazionalsocialismo tedesco.
[dal sito
WEB http://w2.vatican.va/content/vatican/it.html della Santa Sede]
Torna attuale di questi tempi la dottrina
sociale in materia di organizzazione sociale e politica diffusa dai papi
Achille Ratti - Pio 11° - ed Eugenio Pacelli - Pio 12°- tra il 1937 e il 1945.
La ripropongo, traendola dal sito WEB http://w2.vatican.va/content/vatican/it.html
della Santa Sede, ripromettendomi di commentarla, anche traendo spunti da
letture che vado facendo in questi giorni.
I documenti compongono un
libretto di 95 pagine che potrebbe utilmente essere adottato come libro di
testo per un gruppo parrocchiale di approfondimento della dottrina sociale
composto di persone che abbiano concluso almeno il ciclo di studi della scuola
media superiore. Per intenderli occorre avere sotto mano il libro di storia
dell’ultimo anno delle superiori.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
Indice
1937
14 marzo 1937 - Lettera
enciclica Mit brennender sorge - Con
viva ansia del papa Achille Ratti, regnante in religione come Pio
11°;
1939
24 agosto 1939 - Radiomessaggio del papa
Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, rivolto ai
governanti ed ai popoli
nell'imminente pericolo della guerra;
24 dicembre 1939 - Discorso del papa
Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, al Sacro
collegio e alla Prelatura Romana in occasione della Vigilia del Natale 1939
1941
1 giugno 1941 -Radiomessaggio del papa
Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, in occasione della
Pentecoste del 1941, nel 50° anniversario dell’enciclica «Rerum
novarum» (1891), diffuso nella solennità di Pentecoste;
24 dicembre 1941 - Radiomessaggio del
papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio XII nella Vigilia del
natale 1941;
1942
24 dicembre 1942 Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in
religione come Pio 12°, in occasione della Vigilia del Natale 1942;
1943
1943
1 settembre 1943 Radiomessaggio
del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, nel 4°
anniversario dell’inizio della Seconda Guerra mondiale;
24 dicembre 1943
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante
in religione come Pio 12°, ai popoli del mondo intero in occasione della
Vigilia del Natale 1943;
1944
1 settembre 1944 - Radiomessaggio del papa
Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, diffuso il 1 settembre
1944 nel 5° anniversario dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale;
24 dicembre 1944 - Radiomessaggio del
papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, ai popoli del mondo
interno in occasione della Viglia del Natale 1944;
1945
9 maggio 1945
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, «Ecco alfine terminata», in occasione della
fine in Europa della Seconda guerra mondiale;
2 giugno 1945 - Discorso del papa
Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, «Nell’accogliere», ai
Cardinali che gli avevano presentato gli auguri per la festa di Sant’Eugenio;
24 dicembre 1945
Discorso del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, «Negli ultimi sei anni», diffuso in
occasione della Vigilia del Natale 1945.
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1937
14 marzo 1937
Lettera enciclica Mit brennender sorge - Con
viva ansia
del papa Achille Ratti, regnante in religione come Pio 11°
Ai Venerabili Fratelli
Arcivescovi e Vescovi e agli altri Ordinari di Germania aventi pace e comunione
con la Sede Apostolica.
Il Papa Pio XI.
Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.
Con viva ansia e con
stupore sempre crescente veniamo osservando da lungo tempo la via dolorosa
della Chiesa e il progressivo acuirsi dell’oppressione dei fedeli ad essa
rimasti devoti nello spirito e nell’opera; e tutto ciò in quella terra e in
mezzo a quel popolo, a cui S. Bonifacio portò un giorno il luminoso e lieto
messaggio di Cristo e del Regno di Dio.
Tale Nostra ansia non è
stata alleviata dalle relazioni che i Reverendissimi Rappresentanti
dell’Episcopato, conforme al loro dovere, Ci fecero secondo verità, visitandoCi
durante la Nostra infermità. Accanto a molte notizie, che Ci furono di
consolazione e conforto, sulla lotta sostenuta dai loro fedeli a causa della
religione, non poterono, nonostante l’amore al loro popolo e alla loro patria e
la cura di esprimere un giudizio ben ponderato, passare sotto silenzio
innumerevoli altri avvenimenti tristi e riprovevoli. Quando Noi udimmo le loro
relazioni, con profonda gratitudine verso Dio potemmo esclamare con l’Apostolo
dell’amore: «Non ho gioia più grande di quando sento che i miei figli
camminano nella verità »(1). Ma la franchezza che si addice alla grave
responsabilità delNostro ministero Apostolico, e la decisione di presentare
davanti a voi e all’intero mondo cristiano la realtà in tutta la sua crudezza
esigono anche che aggiungiamo: Non abbiamo maggiore ansia né più crudele
afflizione pastorale di quando sentiamo che molti abbandonano il cammino della
verità(2).
1. IL CONCORDATO
Quando Noi, Venerabili
Fratelli, nell’estate del 1933, a richiesta del governo del Reich, accettammo
di riprendere le trattative per un Concordato, in base ad un progetto elaborato
già vari anni prima, e addivenimmo così ad un solenne accordo, che riuscì di
soddisfazione a voi tutti, fummo mossi dalla doverosa sollecitudine di tutelare
la libertà della missione salvifica della Chiesa in Germania e di assicurare la
salute delle anime ad essa affidate, e in pari tempo dal sincero desiderio di
rendere un servizio d’interesse capitale al pacifico sviluppo e al benessere
del popolo tedesco.
Nonostante molte e gravi
preoccupazioni, pervenimmo allora, non senza sforzo, alla determinazione di non
negare il Nostro consenso. Volevamo risparmiare ai Nostri fedeli, ai Nostri
figli e alle Nostre figlie della Germania, secondo le umane possibilità, le
tensioni e le tribolazioni che, in caso contrario, si sarebbero dovute con
certezza aspettare, date le condizioni dei tempi. E volevamo dimostrare col
fatto, a tutti, che Noi, cercando solo Cristo e ciò che appartiene a Cristo,
non rifiutiamo ad alcuno, se egli stesso non la respinga, la mano pacifica
della Madre Chiesa.
Se l’albero di pace, da
Noi piantato in terra tedesca con puro intento, non ha prodotto i frutti, da
Noi bramati nell’interesse del vostro popolo, non ci sarà alcuno al mondo
intero, che abbia occhi per vedere e orecchi per sentire, il quale potrà dire
ancor oggi la colpa essere della Chiesa e del suo Capo Supremo. L’esperienza
degli anni trascorsi mette in luce le responsabilità, e svela macchinazioni,
che già dal principio non si proposero altro scopo se non una lotta fino
all’annientamento. Nei solchi, in cui Ci eravamo sforzati di gettare la semenza
della vera pace, altri sparsero — come l’inimicus homo della Sacra
Scrittura(3) — la zizzania della sfiducia, della discordia, dell’odio, della
diffamazione, di un’avversione profonda, occulta e palese, contro Cristo e la
sua Chiesa, scatenando una lotta che si alimentò in mille fonti diverse, e si
servì di tutti i mezzi. Su di essi e solamente su di essi, e sui loro
protettori, occulti o palesi, ricade la responsabilità se all’orizzonte della
Germania apparisce, non l’arcobaleno della pace, ma il nembo minaccioso delle
dissolvitrici lotte religiose.
Venerabili Fratelli, Noi
non Ci siamo stancati di far presente ai reggitori, responsabili delle sorti
della vostra nazione, le conseguenze che sarebbero necessariamente derivate
dalla tolleranza, o peggio ancora dal favoreggiamento di quelle correnti.
Abbiamo fatto di tutto per difendere la santità della parola solennemente data,
la inviolabilità degli obblighi volontariamente contratti, contro teorie e
pratiche, le quali, se ufficialmente ammesse, avrebbero dovuto spegnere ogni fiducia
e svalutare intrinsecamente ogni parola data, anche per l’avvenire. Se verrà il
momento di esporre agli occhi del mondo questi Nostri sforzi, tutti i ben
pensanti sapranno dove sono da cercare i tutori della pace e dove i suoi
perturbatori. Chiunque abbia conservato nel suo animo un residuo di amore per
la verità, e nel suo cuore anche un’ombra del senso di giustizia, dovrà
ammettere che negli anni difficili e gravi di vicende, susseguitisi al
Concordato, ciascuna delle Nostre parole e delle Nostre azioni ebbe per norma
la fedeltà degli accordi sanciti. Ma dovrà anche riconoscere, con stupore e con
intima ripulsa, come dall’altra parte si sia eretto a norma ordinaria lo
svisare arbitrariamente i patti, l’eluderli, lo svuotarli e finalmente il
violarli più o meno apertamente.
La moderazione da Noi
finora mostrata, nonostante tutto ciò, non Ci è stata suggerita da calcoli di
interessi terreni né tanto meno da debolezza, ma semplicemente dalla volontà di
non strappare, insieme con la zizzania, anche qualche buona pianta; dalla
decisione di non pronunziare pubblicamente un giudizio, prima che gli animi
fossero maturi per riconoscerne l’ineluttabilità; dalla determinazione di non
negare definitivamente la fedeltà di altri alla parola data, prima che il duro linguaggio
della realtà avesse strappato i veli, con cui si è saputo e si cerca anche
adesso mascherare, secondo un piano prestabilito, l’attacco contro la Chiesa.
Anche oggi, che la lotta aperta contro le scuole confessionali, tutelate dal
Concordato, e l’annientamento della libertà di voto per coloro che hanno
diritto all’educazione cattolica, manifestano, in un campo particolarmente
vitale per la Chiesa, la tragica serietà della situazione e una non mai vista
pressione spirituale dei fedeli, la sollecitudine paterna per il bene delle
anime Ci consiglia di non lasciare senza considerazione le prospettive, per
quanto scarse, che possano ancora sussistere, di un ritorno alla fedeltà dei
patti e ad una intesa permessa dalla Nostra coscienza.
Seguendo le preghiere dei
Reverendissimi Membri dell’Episcopato non Ci stancheremo anche nel futuro di
difendere il diritto leso presso i reggitori del vostro popolo, incuranti del
successo o dell’insuccesso del momento, ubbidienti solo alla Nostra coscienza e
al Nostro ministero pastorale, e non cesseremo di opporCi ad una mentalità, che
cerca, con aperta od occulta violenza, di soffocare il diritto, autenticato da
documenti.
Lo scopo però della
presente lettera, Venerabili Fratelli, è un altro. Come voi ci avete visitato amabilmente
durante la Nostra infermità, così Noi ci rivolgiamo oggi a voi e, per mezzo
vostro, ai fedeli cattolici della Germania, i quali, come tutti i figli
sofferenti e perseguitati, stanno molto vicini al cuore del Padre comune. In
questa ora, in cui la loro fede viene provata, come vero oro, nel fuoco della
tribolazione e della persecuzione, insidiosa o aperta, ed essi sono accerchiati
da mille forme di organizzata compressione della libertà religiosa, in cui
l’impossibilità di aver informazioni, conformi a verità, e di difendersi con
mezzi normali, molto li opprime, hanno un doppio diritto ad una parola di
verità e d’incoraggiamento morale da parte di Colui, al cui primo predecessore
il Salvatore diresse quella parola densa di significato: « Io ho pregato
per te, affinché la tua debolezza non vacilli, e tu a tua volta corrobora i
tuoi fratelli »(4).
2. GENUINA FEDE IN DIO
E anzitutto, Venerabili
Fratelli, abbiate cura che la fede in Dio, primo e insostituibile fondamento di
ogni religione, rimanga pura e integra nelle regioni tedesche. Non si può
considerare come credente in Dio colui che usa il nome di Dio retoricamente, ma
solo colui che unisce a questa venerata parola una vera e degna nozione di Dio.
Chi, con indeterminatezza
panteistica, identifica Dio con l’universo, materializzando Dio nel mondo e
deificando il mondo in Dio, non appartiene ai veri credenti.
Né è tale chi, seguendo
una sedicente concezione precristiana dell’antico germanesimo, pone in luogo
del Dio personale il fato tetro e impersonale, rinnegando la sapienza divina e
la sua provvidenza, la quale « con forza e dolcezza domina da
un’estremità all’altra del mondo »(5) e tutto dirige a buon fine. Un
simile uomo non può pretendere di essere annoverato fra i veri credenti.
Se la razza o il popolo,
se lo Stato o una sua determinata forma, se i rappresentanti del potere statale
o altri elementi fondamentali della società umana hanno nell’ordine naturale un
posto essenziale e degno di rispetto; chi peraltro li distacca da questa scala
di valori terreni, elevandoli a suprema norma di tutto, anche dei valori
religiosi e, divinizzandoli con culto idolatrico, perverte e falsifica
l’ordine, da Dio creato e imposto, è lontano dalla vera fede in Dio e da una
concezione della vita ad essa conforme.
Rivolgete, Venerabili
Fratelli, l’attenzione all’abuso crescente, che si manifesta in parole e per
iscritto, di adoperare il tre volte santo nome di Dio quale etichetta vuota di
senso per un prodotto più o meno arbitrario di ricerca o aspirazione umana, e adoperatevi
che tale aberrazione incontri tra i vostri fedeli la vigile ripulsa che merita.
Il nostro Dio è il Dio personale, trascendente, onnipotente, infinitamente
perfetto, uno nella trinità delle persone e trino nell’unità della essenza
divina, creatore dell’universo, signore, re e ultimo fine della storia del
mondo, il quale non ammette né può ammettere altre divinità accanto a sé.
Questo Dio ha dato i suoi
comandamenti in maniera sovrana: comandamenti indipendenti da tempo e spazio,
da regione e razza. Come il sole di Dio splende indistintamente su tutto il
genere umano, così la sua legge non conosce privilegi né eccezioni. Governanti
e governati, coronati e non coronati, grandi e piccoli, ricchi e poveri
dipendono ugualmente dalla sua parola. Dalla totalità dei suoi diritti di
Creatore promana essenzialmente la sua esigenza ad un’ubbidienza assoluta da
parte degli individui e di qualsiasi società. E tale esigenza all’ubbidienza si
estende a tutte le sfere della vita, nelle quali le questioni morali richiedono
l’accordo con la legge divina e con ciò stesso l’armonizzazione dei mutevoli
ordinamenti umani col complesso degli immutabili ordinamenti divini.
Solamente spiriti
superficiali possono cadere nell’errore di parlare di un Dio nazionale, di una
religione nazionale, e intraprendere il folle tentativo di imprigionare nei
limiti di un solo popolo, nella ristrettezza etnica di una sola razza, Dio,
Creatore del mondo, re e legislatore dei popoli, davanti alla cui grandezza le
nazioni sono piccole come gocce in un catino d’acqua(6).
I Vescovi della Chiesa di
Cristo « preposti a quelle cose che riguardano Dio »(7) devono
vigilare perché non si affermino tra i fedeli tali perniciosi errori, ai quali
sogliono tener dietro pratiche ancora più perniciose. Appartiene al loro sacro
ministero di fare tutto il possibile, affinché i comandamenti di Dio siano
considerati e praticati quali obbligazioni inconcusse di una vita morale e
ordinata, sia privata sia pubblica; i diritti della maestà divina, il nome e la
parola di Dio non vengano profanati(8); le bestemmie contro Dio in parole,
scritti e immagini, numerose talvolta come l’arena del mare, vengano ridotte al
silenzio, e di fronte allo spirito caparbio e insidioso di coloro, che negano,
oltraggiano e odiano Dio, non si illanguidisca mai la preghiera espiatrice dei
fedeli, la quale sale ad ogni ora come incenso all’Altissimo, trattenendone la
mano punitrice.
Noi ringraziamo,
Venerabili Fratelli, voi, i vostri sacerdoti e tutti i fedeli che nella difesa
dei diritti della divina Maestà contro un provocante neopaganesimo, appoggiato,
purtroppo, spesso da personalità influenti, avete adempiuto e adempite il
vostro dovere di cristiani. Questo ringraziamento è particolarmente intimo e
unito ad una riconoscente ammirazione per coloro i quali, nel compimento di
questo loro dovere, si sono resi degni di sopportare per la causa di Dio
sacrifici e dolori.
3. GENUINA FEDE IN GESÙ
CRISTO
La fede in Dio non si
manterrà, a lungo andare, pura e incontaminata, se non si appoggerà nella fede
in Gesù Cristo. «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce
il Padre se non il Figlio e colui a cui il Figlio lo vuole rivelare »(9).
«Questa è la vita eterna; che essi riconoscano te, unico vero Dio, e colui
che hai mandato, Gesù Cristo »(10). A nessuno dunque è lecito dire: io
credo in Dio, e ciò è sufficiente per la mia religione. La parola del Salvatore
non lascia posto a scappatoie di simil genere: « Chi rinnega il Figlio
non ha neanche il Padre; chi riconosce il Figlio ha anche il Padre »(11).
In Gesù Cristo, incarnato
Figlio di Dio, è apparsa la pienezza della rivelazione divina: « In
varie maniere e in diverse forme, Dio un giorno parlò ai padri per mezzo dei
profeti. Nella pienezza dei tempi ha parlato a noi per mezzo del Figlio »(12).
I libri santi dell' Antico Testamento sono tutti parola di Dio, parte organica
della sua rivelazione. Conforme allo sviluppo graduale della rivelazione, su di
essi si posa il crepuscolo del tempo che doveva preparare il pieno meriggio
della redenzione. In alcune parti si narra dell’imperfezione umana, della sua
debolezza e del peccato, come non può accadere diversamente, quando si tratta
di libri di storia e di legislazione. Oltre a innumerevoli cose alte e nobili,
essi parlano della tendenza superficiale e materiale, che appariva a varie
riprese nel popolo dell’antico patto, depositario della rivelazione e delle
promesse di Dio. Ma per ogni occhio, non accecato dal pregiudizio o dalla
passione, non può che risplendere ancora più luminosamente, nonostante la
debolezza umana, di cui parla la storia biblica, la luce divina del cammino
della salvezza, che trionfa alla fine su tutte le debolezze e i peccati.
E proprio su questo
sfondo, spesso cupo, la pedagogia della salute eterna si allarga in prospettive,
le quali nello stesso tempo dirigono, ammoniscono, scuotono, sollevano e
rendono felici. Solo cecità e caparbietà possono far chiudere gli occhi davanti
ai tesori di salutari insegnamenti, nascosti nell’Antico Testamento. Chi quindi
vuole banditi dalla Chiesa e dalla scuola la storia biblica e i saggi
insegnamenti dell’Antico Testamento, bestemmia la parola di Dio, bestemmia il
piano della salute dell’Onnipotente ed erige a giudice dei piani divini un
angusto e ristretto pensar umano. Egli rinnega la fede in Gesù Cristo, apparso
nella realtà della sua carne, il quale prese natura umana da un popolo, che
doveva poi configgerlo in croce. Non comprende nulla del dramma mondiale del
Figlio di Dio, il quale oppose al misfatto dei suoi crocifissori, qual sommo sacerdote,
l’azione divina della morte redentrice, e fece così trovare all’Antico
Testamento il suo compimento, la sua fine e la sua sublimazione nel Nuovo
Testamento.
La rivelazione culminata
nell’Evangelo di Gesù Cristo è definitiva e obbligatoria per sempre, non
ammette appendici di origine umana e, ancora meno, succedanei o sostituzioni di
« rivelazioni » arbitrarie, che alcuni banditori moderni
vorrebbero far derivare dal così detto mito del sangue e della razza. Da che
Cristo, l’Unto del Signore, ha compiuto l’opera di redenzione, infrangendo il
dominio del peccato e meritandoci la grazia di diventare figli di Dio, da
allora non è stato dato agli uomini alcun altro nome sotto il cielo, per
diventare beati, se non il nome di Gesù(13). Anche se un uomo identifichi in sé
ogni sapere, ogni potere e tutta la possanza materiale della terra, non può
gettare fondamento diverso, da quello che Cristo ha gettato(14). Colui quindi
che con sacrilego misconoscimento delle diversità essenziali tra Dio e la
creatura, tra l’Uomo-Dio e il semplice uomo, osasse di porre accanto a Cristo
o, ancora peggio, sopra di Lui o contro di Lui, un semplice mortale, fosse
anche il più grande di tutti i tempi, sappia che è un profeta di chimere, a cui
si applica spaventosamente la parola della Scrittura: « Colui, che
abita nel cielo, ride di loro »(15).
4. GENUINA FEDE NELLA
CHIESA
La fede in Gesù Cristo
non resterà pura e incontaminata, se non sarà sostenuta e difesa dalla fede
nella Chiesa, colonna e fondamento della verità(16). Cristo stesso, Dio
benedetto in eterno, ha innalzato questa colonna della fede; il suo
comandamento di ascoltare la Chiesa(17) e di sentire, attraverso le parole e i
comandamenti della Chiesa, le sue parole stesse e i suoi stessi
comandamenti(18), vale per gli uomini di tutti i tempi e di tutte le regioni.
La Chiesa, fondata dal Salvatore, è unica per tutti i popoli e per tutte le
nazioni, e sotto la sua volta, la quale si inarca come il firmamento
sull’universo intero, trovano posto e asilo tutti i popoli e tutte le lingue, e
possono svolgersi tutte le proprietà, qualità, missioni e compiti, che sono
stati assegnati da Dio, creatore e salvatore, agli individui e alle società
umane. L’amore materno della Chiesa è tanto largo da vedere nello sviluppo,
conforme al volere di Dio, di tali peculiarità e compiti particolari, piuttosto
la ricchezza delle varietà che il pericolo di scissioni; gode dell’elevato
livello spirituale degli individui e dei popoli, scorge con gioia e alterezza
materna nelle loro genuine attuazioni frutti di educazione e di progresso, che
benedice e promuove, ogni qualvolta lo può secondo verità. Ma sa pure che a
questa libertà son segnati limiti dal comandamento della divina maestà, che ha
voluto e fondato questa Chiesa come unità inseparabile nelle sue parti
essenziali. Chi attenta a questa inscindibile unità toglie alla sposa di Cristo
uno dei diademi, con cui Dio stesso l’ha coronata; sottomette l’edificio divino
che posa su fondamenta eterne, al riesame e alla trasformazione da parte di
architetti, ai quali il Padre Celeste non ha concesso alcun potere.
La divina missione, che
la Chiesa compie tra gli uomini e deve compiere per mezzo di uomini, può essere
dolorosamente oscurata dall’umano, talvolta troppo umano, che, in certi tempi,
ripullula quasi zizzania in mezzo al grano del regno di Dio. Chi conosce la
parola del Salvatore sopra gli scandali e coloro che li danno, sa come la
Chiesa e ciascun individuo deve giudicare su ciò che fu ed è peccato. Ma chi,
fondandosi su questi lamentevoli contrasti tra fede e vita, tra parola e
azione, tra il contegno esteriore e l’interno sentire di alcuni — e fossero
anche molti — pone in oblio, o coscientemente passa sotto silenzio, l’immenso
capitale di genuino sforzo verso la virtù, lo spirito di sacrificio, l’amore
fraterno, l’eroismo di santità in tanti membri della Chiesa, manifesta una
cecità ingiusta e riprovevole. E quando poi si vede che quella rigida misura,
con cui egli giudica la odiata Chiesa, viene messa da canto se si tratta di
altre società, a lui vicine per sentimento o interesse, allora riesce evidente
che, ostentandosi colpito nel suo presunto senso di purezza, si appalesa simile
a coloro i quali, secondo la tagliente parola del Salvatore, osservano la
pagliuzza nell’occhio del fratello, ma non scorgono la trave nel proprio.
Altrettanto meno pura è l’intenzione di coloro i quali pongono a scopo della
loro vocazione proprio quel che vi è di umano nella Chiesa, talvolta facendone
persino un losco affare, e sebbene la potestà di colui che è insignito della
dignità ecclesiastica, posando in Dio, non sia dipendente dalla sua elevatezza
umana e morale, non vi è epoca alcuna, né individuo, né società che non debba
esaminarsi onestamente la coscienza, purificarsi inesorabilmente, rinnovarsi
profondamente nel sentire e nell’operare. Nella Nostra Enciclica sopra il
Sacerdozio, in quella sull’Azione Cattolica, abbiamo con implorante insistenza
attirato l’attenzione di tutti gli appartenenti alla Chiesa, e soprattutto
degli Ecclesiastici, dei Religiosi e dei laici, i quali collaborano
nell’apostolato, al sacro dovere di mettere fede e condotta in quell’armonia
richiesta dalla legge di Dio e domandata con instancabile insistenza dalla
Chiesa. Anche oggi Noi ripetiamo con gravità profonda: non basta essere annoverati
nella Chiesa di Cristo, bisogna essere in spirito e verità membri vivi di
questa Chiesa. E tali sono solamente coloro che stanno nella grazia del Signore
e continuamente camminano alla sua presenza, sia nell’innocenza sia nella
penitenza sincera e operosa. Se l’Apostolo delle genti, « il vaso di
elezione », teneva il suo corpo sotto la sferza della mortificazione
affinché, dopo aver predicato agli altri, non venisse egli stesso riprovato,
può darsi forse per quelli, nelle cui mani è posta la custodia e l’incremento
del regno di Dio, via diversa da quella dell’intima unione dell’apostolato e
della santificazione propria? Solo così si mostrerà agli uomini di oggi, e in
prima linea agli oppositori della Chiesa, che il sale della terra e il lievito
del Cristianesimo non sono diventati inefficaci, ma sono potenti e pronti a
portare rinnovamento spirituale e ringiovanimento a coloro che sono nel dubbio
e nell’errore, nell’indifferenza e nello smarrimento spirituale, nel
rilassamento della fede e nella lontananza da Dio, di cui essi — l’ammettano o
lo neghino — hanno più bisogno che mai. Una Cristianità, in cui tutti i membri
vigilino su se stessi, che espella ogni tendenza a ciò che è puramente
esteriore e mondano, si attenga seriamente ai comandamenti di Dio e della
Chiesa, e si mantenga quindi nell’amore di Dio e nella solerte carità verso il
prossimo, potrà e dovrà essere esempio e guida al mondo profondamente infermo,
che cerca sostegno e direzione, se non si vuole che sopravvenga un immane
disastro o un indescrivibile decadimento.
Ogni riforma genuina e
duratura ha avuto propriamente origine dal santuario, da uomini infiammati e
mossi dall’amore di Dio e del prossimo; i quali, per la loro grande generosità
nel rispondere ad ogni appello di Dio e nel metterlo in pratica anzitutto in se
stessi, cresciuti in umiltà e con la sicurezza di chi è chiamato da Dio, hanno
illuminato e rinnovato i loro tempi. Dove lo zelo di riforma non scaturì dalla
pura sorgente dell’integrità personale, ma fu effetto dell’esplosione di
impulsi passionali, invece di illuminare ottenebrò, invece di costruire
distrusse, e fu sovente punto di partenza di errori ancora più funesti dei
danni, a cui si volle o si pretese portare rimedio. Certamente lo spirito di
Dio spira dove vuole(19), dalle pietre può suscitare gli esecutori dei suoi
disegni(20), e sceglie gli strumenti della sua volontà secondo i suoi piani,
non secondo quelli degli uomini. Ma Egli, che ha fondato la Chiesa e l’ha
chiamata in vita nella Pentecoste, non spezza la struttura fondamentale della
salutare istituzione, da Lui stesso voluta. Chi è mosso dallo spirito di Dio ha
perciò stesso un contegno esteriore ed interiore rispettoso verso la Chiesa,
nobile frutto dell’albero della Croce, dono dello Spirito della Pentecoste al mondo
bisognoso di guida.
Nelle vostre contrade,
Venerabili Fratelli, si elevano voci in coro sempre più forte, che incitano ad
uscire dalla Chiesa, e sorgono banditori, i quali, per la loro posizione
ufficiale, cercano di risvegliare l’impressione che tale distacco dalla Chiesa,
e conseguentemente l’infedeltà verso Cristo Re, sia una testimonianza
particolarmente persuasiva e meritoria della loro fedeltà al regime presente.
Con pressioni, occulte e palesi, con intimidazioni, con prospettive di vantaggi
economici, professionali, civili o d’altra specie, l’attaccamento alla fede dei
cattolici, e specialmente di alcune classi di funzionari cattolici, viene
sottoposto ad una violenza tanto illegale quanto inumana. Con commozione
paterna Noi sentiamo e soffriamo profondamente con coloro che hanno pagato a sì
caro prezzo il loro attaccamento a Cristo e alla Chiesa; ma si è ormai giunti a
un tal punto, che è in giuoco il fine ultimo e più alto, la salvezza o la
perdizione; e quindi unico cammino di salute per il credente resta la via di un
generoso eroismo. Quando il tentatore e l’oppressore gli si accosterà con le
insinuazioni traditrici di uscire dalla Chiesa, allora egli non potrà che
contrapporgli, anche a prezzo dei più gravi sacrifici terreni, la parola del Salvatore:
«Allontànati da me, o Satana, perché sta scritto: adorerai il Signore Dio
tuo e a lui solo servirai »(21). Alla Chiesa invece rivolgerà queste
parole: O tu, che sei madre mia fin dai giorni della mia fanciullezza, mio
conforto in vita, mia avvocata in morte, si attacchi la lingua al mio palato,
se io, cedendo a terrene lusinghe o minacce, dovessi tradire il mio voto
battesimale. A coloro poi, i quali si lusingassero di potere conciliare con
l’esterno abbandono della Chiesa la fedeltà interiore ad essa, sia di monito
severo la parola del Salvatore: « Chi mi rinnega davanti agli uomini,
lo rinnegherò davanti al Padre mio, che è nei cieli »(22).
5. GENUINA FEDE NEL
PRIMATO
La fede nella Chiesa non
si manterrà pura e incontaminata, se non sarà appoggiata nella fede al primato
del Vescovo di Roma. Nello stesso momento in cui Pietro, prevenendo agli altri
apostoli e discepoli, professò la sua fede in Cristo, Figlio del Dio vivente,
l’annunzio della fondazione della sua Chiesa, dell’unica Chiesa, su Pietro, la
roccia(23), fu la risposta di Cristo, che lo ricompensò della sua fede e di
averla professata. La fede in Cristo, nella Chiesa e nel Primato stanno perciò
in un sacro legame di interdipendenza. Un’autorità genuina e legale è
dappertutto un vincolo di unità e una sorgente di forza, un presidio contro lo
sfaldamento e la disgregazione, una garanzia dell’avvenire. E ciò si verifica
nel senso più alto e nobile, dove, come nel caso della Chiesa, a tale autorità
venne promessa l’assistenza soprannaturale dello Spirito Santo e il suo
appoggio invincibile. Se persone, che non sono neanche unite nella fede in
Cristo, vi adescano e vi lusingano col fantasma di una « chiesa tedesca
nazionale », sappiate ciò non essere altro se non un rinnegamento
dell’unica Chiesa di Cristo, un apostasia manifesta dal mandato di Cristo di
evangelizzare tutto il mondo, che solo una Chiesa universale può attuare. Lo
sviluppo storico di altre chiese nazionali, il loro irrigidimento spirituale,
il loro soffocamento e asservimento da parte dei poteri laici mostrano la
desolante sterilità, che colpisce con ineluttabile sicurezza il tralcio
separatosi dal ceppo vitale della Chiesa. Colui che a questi erronei sviluppi
fin da principio oppone il suo vigile e irremovibile no, rende un
servizio non solo alla purezza della sua fede ma anche alla sanità e forza
vitale del suo popolo.
6. NESSUNA ADULTERAZIONE
DI NOZIONI E TERMINI SACRI
Venerabili Fratelli,
abbiate un occhio particolarmente vigile, quando nozioni religiose vengono
svuotate del loro contenuto genuino e applicate a significati profani.
Rivelazione, in senso
cristiano, significa la parola di Dio agli uomini. Usare questo stesso termine
per suggestioni provenienti dal sangue e dalla razza, per le irradiazioni della
storia di un popolo, è, in ogni caso, causare disorientamento. Tali false
monete non meritano di passare nel tesoro linguistico di un fedele cristiano.
La fede consiste nel
tener per vero ciò che Dio ha rivelato e mediante la Chiesa impone di credere:
è « dimostrazione di cose che non si vedono »(24). La fiducia
gioiosa e altera sull’avvenire del proprio popolo, cosa cara ad ognuno,
significa ben altra cosa che la fede in senso religioso. L’usare l’una per
l’altra, il volere sostituire l’una con l’altra e pretendere con ciò di essere
riconosciuto come « credente » da un convinto cristiano, è un
vuoto gioco di parole, una consapevole confusione di termini, o anche peggio.
L’immortalità, in senso
cristiano, è la sopravvivenza dell’uomo dopo la morte terrena, come individuo
personale, per l’eterna ricompensa o per l’eterno castigo. Chi con la parola
immortale non vuole indicare altro che una sopravvivenza collettiva nella
continuità del proprio popolo, per un avvenire di indeterminata durata in
questo mondo, perverte e falsifica una delle verità fondamentali della fede
cristiana e scuote le fondamenta di qualsiasi concezione religiosa, la quale
richiede un ordinamento morale universale. Chi non vuole essere cristiano
dovrebbe almeno rinunziare a volere arricchire il lessico della sua miscredenza
col patrimonio linguistico cristiano.
Il peccato originale è la
colpa ereditaria, propria, sebbene non personale, di ciascuno dei figli di
Adamo, che in lui hanno peccato(25), è perdita della grazia, e conseguentemente
della vita eterna, con la concupiscenza che ciascuno deve soffocare e domare
per mezzo della grazia, della penitenza, della lotta e dello sforzo morale. La
passione e morte del Figlio di Dio hanno redento il mondo dal maledetto
retaggio del peccato e della morte. La fede in queste verità, fatte oggi
bersaglio del basso scherno dei nemici di Cristo nella vostra patria,
appartiene all’inalienabile deposito della religione cristiana.
La croce di Cristo, anche
se il suo solo nome sia diventato per molti follia e scandalo(26), resta per il
cristiano il segno sacrosanto della redenzione, il vessillo di grandezza e di
forza morale. Nella sua ombra viviamo, nel suo bacio moriamo; sul nostro
sepolcro starà come annunziatrice della nostra fede, testimonio della nostra
speranza, protesa verso la vita eterna.
L’umiltà nello spirito
del Vangelo e la implorazione dell’aiuto di Dio si accordano bene con la
propria dignità, con la fiducia in sé e coll’eroismo. La Chiesa di Cristo, che
in tutti i tempi, fino a quelli a noi vicinissimi, conta più confessori e
martiri eroici di qualsiasi altra società morale, non ha certo bisogno di
ricevere da tali campi insegnamento sul sentimento e l’azione eroica. Nel
rappresentare stoltamente l’umiltà cristiana come avvilimento e meschinità, la
ripugnante superbia di questi innovatori rende irrisoria soltanto se stessa.
Grazia, in senso largo,
può chiamarsi ciò che proviene alla creatura dal Creatore. Grazia, nel senso
proprio cristiano della parola, comprende però le gratificazioni soprannaturali
dell’amore divino, la degnazione e l’opera per cui mezzo Dio eleva l’uomo a
quella intima comunione della sua vita, che il Nuovo Testamento chiama
figliolanza di Dio: «Vedete quale grande amore il Padre ci ha mostrato: noi
ci chiamiamo figli di Dio, e siamo realmente tali »(27). Il ripudio di
questa elevazione soprannaturale alla grazia, a causa di una pretesa
peculiarità del carattere tedesco, è un errore, un’aperta dichiarazione di
guerra ad una verità fondamentale del Cristianesimo. L’equiparare la grazia
soprannaturale coi doni della natura significa violentare il linguaggio, creato
e santificato dalla religione. I pastori e i custodi del popolo di Dio faranno
bene a opporsi a questo furto sacrilego e a questo lavoro di traviamento degli
spiriti.
7. DOTTRINA E ORDINE MORALE
Sulla fede in Dio genuina
e pura si fonda la moralità del genere umano. Tutti i tentativi di staccare la
dottrina dell’ordine morale dalla base granitica della fede, per ricostruirla
sulla sabbia mobile di norme umane, portano, tosto o tardi, individui e nazioni
al decadimento morale. Lo stolto, che dice nel suo cuore: « non c’è
Dio », si avvierà alla corruzione morale(28). E questi stolti, che
presumono di separare la morale dalla religione, sono oggi divenuti legione.
Non si accorgono, o non vogliono accorgersi, che col bandire l’insegnamento
confessionale, ossia chiaro e determinato, dalle scuole e dall’educazione,
coll’impedirgli di contribuire alla formazione della società e della vita
pubblica, si percorrono sentieri di impoverimento e di decadenza morale. Nessun
potere coercitivo dello Stato, nessun ideale puramente terreno, per quanto
grande e nobile, potrà sostituire a lungo andare i più profondi e decisivi
stimoli, che provengono dalla fede in Dio e in Gesù Cristo. Se a chi è chiamato
ai più ardui cimenti, al sacrificio del suo piccolo io in bene della comunità,
si toglie il sostegno morale che gli viene dall’eterno e dal divino, dalla fede
elevante e consolatrice in Colui che premia ogni bene e punisce ogni male,
allora il risultato finale per innumerevoli uomini non sarà l’adesione al
dovere, ma piuttosto la diserzione. L’osservanza coscienziosa dei dieci
comandamenti di Dio e dei precetti della Chiesa, i quali ultimi non sono altro
che regolamenti derivati dalle norme del Vangelo, è per ogni individuo una
incomparabile scuola di disciplina organica, di rinvigorimento morale e di
formazione di carattere. È una scuola che esige molto; ma non oltre le forze.
Dio misericordioso, quando ordina come legislatore: « tu devi »,
dà colla sua grazia la possibilità di eseguire il suo comando. Il lasciare
quindi inutilizzate energie morali di così potente efficacia, o sbarrar
coscientemente ad esse il cammino nel campo dell’istruzione popolare, è opera
da irresponsabili, che tende a produrre deficienza religiosa nel popolo. Il
connettere la dottrina morale con opinioni umane, soggettive e mutevoli nel
tempo, invece di ancorarle nella santa volontà dell’eterno Dio e nei suoi
comandamenti, significa spalancare le porte alle forze dissolvitrici. Perciò il
promuovere l’abbandono delle eterne direttive di una dottrina morale per la
formazione delle coscienze, per la nobilitazione di tutti i campi della vita e
di tutti gli ordinamenti, è attentato peccaminoso contro l’avvenire del popolo,
i cui tristi frutti amareggeranno le generazioni future.
8. RICONOSCIMENTO DEL
DIRITTO NATURALE
È una caratteristica
nefasta del tempo presente il volere distaccare, non solo la dottrina morale,
ma anche le fondamenta del diritto e della sua amministrazione dalla vera fede
in Dio e dalle norme della rivelazione divina. Il nostro pensiero si rivolge
qui a quello che si suole chiamare diritto naturale, che il dito dello stesso
Creatore impresse nelle tavole del cuore umano(29), e che la ragione umana sana
e non ottenebrata da peccati e passioni può in esse leggere. Alla luce delle
norme di questo diritto naturale, ogni diritto positivo, qualunque ne sia il
legislatore, può essere valutato nel suo contenuto etico e conseguentemente
nella legittimità del comando e nella obbligatorietà dell’adempimento. Quelle
leggi umane, che sono in contrasto insolubile col diritto naturale, sono
affette da vizio originale, non sanabile né con le costrizioni né con lo
spiegamento di forza esterna. Secondo questo criterio va giudicato il
principio: « Diritto è ciò che è utile alla nazione ». Certo a
questo principio può darsi un senso giusto, se si intende che ciò che è
moralmente illecito non può essere mai veramente vantaggioso al popolo. Persino
l’antico paganesimo ha riconosciuto che, per essere giusta, questa frase
dovrebbe essere capovolta e suonare: «Non vi è mai alcunché di vantaggioso,
se in pari tempo non è moralmente buono, e non perché è vantaggioso è
moralmente buono, ma perché moralmente buono è anche vantaggioso »(30).
Questo principio, staccato dalla legge etica, significherebbe, per quanto
riguarda la vita internazionale, un eterno stato di guerra tra le nazioni;
nella vita nazionale poi misconosce, nel confondere interesse e diritto, il
fatto fondamentale che l’uomo, in quanto persona, possiede diritti dati da Dio,
che devono essere tutelati da ogni attentato della comunità, che avesse per
scopo di negarli, di abolirli e di impedirne l’esercizio. Disprezzando questa
verità, si perde di vista che il vero bene comune, in ultima analisi, viene determinato
e conosciuto mediante la natura dell’uomo con il suo armonico equilibrio fra
diritto personale e legame sociale, come anche dal fine della società
determinato dalla stessa natura umana. La società è voluta dal Creatore come
mezzo per il pieno sviluppo delle facoltà individuali e sociali, di cui l’uomo
ha da valersi, ora dando ora ricevendo per il bene suo e quello degli altri.
Anche quei valori più universali e più alti che possono essere realizzati, non
dall’individuo, ma solo dalla società, hanno per volontà del Creatore come
ultimo scopo l’uomo e il suo sviluppo e perfezionamento naturale e
soprannaturale. Chi si allontana da questo ordine, scuote i pilastri su cui
riposa la società, e ne pone in pericolo la tranquillità, la sicurezza e
l’esistenza.
Il credente ha un diritto
inalienabile di professare la sua fede e di praticarla in quella forma che ad
essa conviene. Quelle leggi, che sopprimono o rendono difficile la professione
e la pratica di questa fede, sono in contrasto col diritto naturale.
I genitori coscienziosi e
consapevoli della loro missione educativa hanno prima di ogni altro il diritto
essenziale alla educazione dei figli, loro donati da Dio, secondo lo spirito
della vera fede e in accordo con i suoi princìpi e le sue prescrizioni. Leggi,
o altre simili disposizioni, le quali non tengono conto nella questione
scolastica della volontà dei genitori o la rendono inefficace colle minacce o
colla violenza, sono in contraddizione col diritto naturale e nella loro intima
essenza immorali.
La Chiesa, la cui
missione è di custodire ed interpretare il diritto naturale, non può fare altro
che dichiarare essere effetto di violenza, e quindi prive di ogni valore
giuridico, le iscrizioni scolastiche avvenute in un recente passato in una
atmosfera di notoria mancanza di libertà.
9. ALLA GIOVENTÙ
Rappresentanti di Colui
che nell’Evangelo disse ad un giovane: « Se vuoi entrare nella vita
eterna, osserva i comandamenti »(31), Noi indirizziamo una parola
particolarmente paterna alla gioventù.
Da mille bocche viene
oggi ripetuto al vostro orecchio un Evangelo che non è stato rivelato dal Padre
celeste; migliaia di penne scrivono a servizio di una larva di cristianesimo,
che non è il Cristianesimo di Cristo. Tipografia e radio vi inondano
giornalmente con produzioni di contenuto avverso alla fede e alla Chiesa, e,
senza alcun riguardo e rispetto, assaltano ciò che per voi deve essere sacro e
santo. Sappiamo che moltissimi tra voi, a causa dell’attaccamento alla fede e
alla Chiesa e dell’appartenenza ad associazioni religiose, tutelate dal
Concordato, hanno dovuto e devono attraversare periodi tenebrosi di
misconoscimento, di sospetto, di vituperio, di accusa di antipatriottismo, di
molteplici danni nella loro vita professionale e sociale. E ben sappiamo come molti
ignoti soldati di Cristo si trovano nelle vostre file, che con cuore affranto,
ma a testa alta, sopportano la loro sorte e trovano conforto solo nel pensiero
che soffrono contumelie nel nome di Gesù(32).
Ed oggi, che incombono
nuovi pericoli e nuove tensioni, Noi diciamo a questa gioventù: « Se
alcuno vi volesse annunziare un Evangelo diverso da quello che avete ricevuto
sulle ginocchia di una pia madre, dalle labbra di un padre credente,
dall’insegnamento di un educatore fedele a Dio e alla sua Chiesa, costui sia
anatema »(33). Se lo Stato organizza la gioventù in associazione
nazionale obbligatoria per tutti, allora, salvi sempre i diritti delle
associazioni religiose, i giovani hanno il diritto ovvio e inalienabile, e con
essi i genitori responsabili di loro dinanzi a Dio, di esigere che questa
associazione sia mondata da ogni tendenza ostile alla fede cristiana e alla
Chiesa, tendenza che sino al recentissimo passato, anzi presentemente, stringe
i genitori credenti in un insolubile conflitto di coscienza, poiché essi non
possono dare allo Stato ciò che viene loro richiesto in nome dello Stato, senza
togliere a Dio ciò che appartiene a Dio.
Nessuno pensa di porre
alla gioventù tedesca pietre di inciampo sul cammino, che dovrebbe condurre
all’attuazione di una vera unità nazionale e fomentare un nobile amore per la
libertà e una incrollabile devozione alla patria. Quello contro cui Noi Ci
opponiamo, e Ci dobbiamo opporre, è il contrasto voluto e sistematicamente
inasprito, mediante il quale si separano queste finalità educative da quelle
religiose. Perciò Noi diciamo a questa gioventù: cantate i vostri inni di
libertà, ma non dimenticate che la vera libertà è la libertà dei figli di Dio.
Non permettete che la nobiltà di questa insostituibile libertà scompaia nei
ceppi servili del peccato e della concupiscenza. A chi canta l’inno della
fedeltà alla patria terrena non è lecito divenire transfuga e traditore con
l’infedeltà al suo Dio, alla sua Chiesa e alla sua patria eterna. Vi parlano
molto di grandezza eroica, contrapponendola volutamente e falsamente all’umiltà
e alla pazienza evangelica; ma perché vi nascondono che si dà anche un eroismo
nella lotta morale? e che la conservazione della purezza battesimale
rappresenta un’azione eroica, che dovrebbe essere apprezzata meritevolmente nel
campo sia religioso sia naturale? Vi parlano delle fragilità umane nella storia
della Chiesa; ma perché vi nascondono le grandi gesta, che l’accompagnarono
attraverso i secoli, i santi che essa ha prodotto, il vantaggio che provenne
alla cultura occidentale dall’unione vitale tra questa Chiesa e il vostro
popolo? Vi parlano molto di esercizi sportivi, i quali, usati secondo una ben
intesa misura, danno una gagliardia fisica, che è un beneficio per la gioventù.
Ma ad essi viene assegnata oggi spesso un’estensione, che non tiene conto né
della formazione integrale e armonica del corpo e dello spirito, né della
conveniente cura della vita di famiglia, né del comandamento di santificare il
giorno del Signore. Con un’indifferenza, che confina col disprezzo, si toglie
al giorno del Signore il suo carattere sacro e raccolto, che corrisponde alla
migliore tradizione tedesca. Attendiamo fiduciosi dai giovani tedeschi
cattolici che essi, nel difficile ambiente delle organizzazioni obbligatorie
dello Stato, rivendichino esplicitamente il loro diritto a santificare
cristianamente il giorno del Signore, che la cura di irrobustire il corpo non
faccia loro dimenticare la loro anima immortale, che non si lascino sopraffare
dal male e cerchino piuttosto di vincere il male col bene(34), che quale loro
altissima e nobilissima meta ritengano quella di conquistare la corona della
vittoria nello stadio della vita eterna(35).
10. AI SACERDOTI E AI
RELIGIOSI
Una parola di particolare
riconoscimento, di incoraggiamento, di esortazione rivolgiamo ai sacerdoti
della Germania, ai quali, in sottomissione ai loro Vescovi, spetta il compito,
in tempi difficili e circostanze dure, di mostrare al gregge di Cristo i retti
sentieri con la dottrina e con l’esempio, con la dedizione quotidiana, con la
pazienza apostolica. Non vi stancate, figli diletti e partecipi dei divini
misteri, di seguire l’eterno sommo sacerdote Gesù Cristo nel suo amore e nel
suo ufficio di buon samaritano. Camminate ognora in condotta immacolata davanti
a Dio, in incessante disciplinatezza e perfezionamento, in amore misericordioso
verso quanti sono a voi affidati, specialmente i pericolanti, i deboli e i
vacillanti. Siate guida ai fedeli, appoggio ai titubanti, maestri ai dubbiosi,
consolatori degli afflitti, disinteressati soccorritori e consiglieri per
tutti. Le prove e le sofferenze, per cui il vostro popolo è passato nel periodo
del dopoguerra, non sono trascorse senza lasciar tracce nella sua anima. Vi
hanno lasciato tensione e amarezze, che solo lentamente potranno guarirsi ed
essere superate nello spirito di un amore disinteressato e operante. Questo
amore, che è l’armatura indispensabile dell’apostolo, specialmente nel mondo
presente, agitato e sconvolto, Noi lo desideriamo e lo imploriamo per voi da
Dio in misura copiosa. L’amore apostolico, se non vi farà dimenticare, vi farà
almeno perdonare molte immeritate amarezze, che sul vostro cammino di sacerdoti
e di pastori di anime sono più numerose che in qualsiasi altro tempo.
Quest’amore intelligente e misericordioso verso gli erranti e gli stessi
oltraggiatori non significa peraltro, né può per nulla significare, rinunzia a
proclamare, a far valere e a difendere coraggiosamente la verità e ad
applicarla liberamente alla realtà che vi circonda. Il primo e il più ovvio
dono di amore del sacerdote al mondo è di servire la verità, tutta intera la
verità, smascherare e confutare l’errore, qualunque sia la sua forma o il suo
travestimento. La rinunzia a ciò sarebbe non solo un tradimento verso Dio e la
vostra santa vocazione, ma un delitto nei riguardi del vero benessere del
vostro popolo e della vostra patria. A tutti quelli che hanno mantenuto verso i
loro Vescovi la fedeltà promessa nell’ordinazione, a quelli i quali
nell’adempimento del loro ufficio pastorale hanno dovuto e devono sopportare
dolori e persecuzioni — e alcuni sino ad essere incarcerati e mandati ai campi
di concentramento, — vada il ringraziamento e l’encomio del Padre della
Cristianità. E il Nostro ringraziamento paterno si estende ugualmente ai
religiosi di ambo i sessi: un ringraziamento congiunto ad una partecipazione
intima per il fatto che, in seguito a misure contro gli Ordini e le
Congregazioni religiose, molti sono stati strappati dal campo di un’attività
benedetta e a loro cara. Se alcuni hanno mancato e si sono mostrati indegni
della loro vocazione, i loro falli, condannati anche dalla Chiesa, non
diminuiscono i meriti della stragrande maggioranza di essi, che con
disinteresse e povertà volontaria si sono sforzati di servire con piena
dedizione il loro Dio e il loro popolo. Lo zelo, la fedeltà, lo sforzo di
perfezionarsi, l’operosa carità verso il prossimo e la prontezza soccorritrice
di quei religiosi, la cui attività si svolge nella cura pastorale, negli
ospedali e nella scuola, sono e restano un glorioso contributo al benessere
privato e pubblico, a cui un tempo futuro più tranquillo renderà giustizia più
che il turbolento presente. Noi abbiamo fiducia che i superiori delle comunità
religiose piglieranno argomento dalle difficoltà e prove presenti per implorare
dall’Onnipotente nuovo rigoglio e nuova fertilità sul loro duro campo di
lavoro, per mezzo di uno zelo raddoppiato, di una vita spirituale approfondita,
di una santa serietà conforme alla loro vocazione e di una genuina disciplina
regolare.
11. AI FEDELI LAICI
Davanti ai Nostri occhi
sta l’immensa schiera dei Nostri diletti figli e figlie, a cui le sofferenze
della Chiesa in Germania e le proprie nulla hanno tolto della loro dedizione
alla causa di Dio, nulla del loro tenero affetto verso il Padre della
Cristianità, nulla della loro ubbidienza verso i Vescovi e i sacerdoti, nulla
della gioiosa prontezza di rimanere anche in futuro, qualunque cosa avvenga,
fedeli a ciò che essi hanno creduto e che hanno ricevuto in prezioso retaggio
dagli avi. Con cuore commosso inviamo loro il Nostro paterno saluto.
E in primo luogo ai
membri delle associazioni cattoliche, che strenuamente e a prezzo di sacrifici
spesso dolorosi si sono mantenuti fedeli a Cristo, e non sono stati mai disposti
a cedere quei diritti che una solenne Convenzione aveva autenticamente
garantito alla Chiesa e a loro. Un saluto particolarmente cordiale va anche ai
genitori cattolici. I loro diritti e i loro doveri nell’educazione dei figli,
da Dio loro donati, stanno, al momento presente, nel punto cruciale di una
lotta, della quale appena si può immaginarne altra più grave. La Chiesa di
Cristo non può cominciare a gemere e a deplorare solo quando gli altari vengono
spogliati e mani sacrileghe mandano in fiamme i santuari. Quando si cerca di
profanare il tabernacolo dell’anima del fanciullo, santificata dal battesimo,
con un’educazione anticristiana, quando viene strappata da questo vivo tempio
di Dio la fiaccola della fede e viene posta in suo luogo la falsa luce di un
succedaneo della fede, che non ha più nulla in comune con la fede della Croce,
allora la profanazione spirituale del tempio è vicina ed è dovere di ogni
credente di scindere chiaramente la sua responsabilità da quella della parte
contraria e la sua coscienza da qualsiasi peccaminosa collaborazione a tale
nefasta distruzione. E quanto più i nemici si sforzano di negare od orpellare i
loro tetri disegni, tanto più necessaria è una diffidenza oculata e una
vigilanza diffidente, stimolata da un’amara esperienza. La formalistica
conservazione di un’istruzione religiosa, e per di più controllata e inceppata
da gente incompetente, nell’ambiente di una scuola, la quale in altri rami
dell’istruzione lavora sistematicamente e astiosamente contro la stessa religione,
non può mai presentare titolo giustificativo al fedele cristiano, perché
liberamente acconsenta a una tal sorta di scuola, deleteria per la religione.
Sappiamo, diletti genitori cattolici, che non è il caso di parlare, riguardo a
voi, di un tale consenso e sappiamo che una libera votazione segreta tra voi
equivarrebbe ad uno schiacciante plebiscito in favore della scuola
confessionale. E perciò non Ci stancheremo neanche nell’avvenire di rinfacciare
francamente alle autorità responsabili l’illegalità delle misure violente prese
finora, e il dovere di permettere la libera manifestazione della volontà.
Intanto non vi dimenticate di ciò: nessuna potestà terrena può sciogliervi dal
vincolo di responsabilità voluto da Dio, che unisce voi con i vostri figli.
Nessuno di quelli che oggi opprimono il vostro diritto all’educazione e
pretendono sostituirsi a voi nei vostri doveri di educatori, potrà rispondere
per voi al Giudice eterno, quando egli vi rivolgerà la domanda: « dove
sono coloro che io vi ho dati ? » possa ciascuno di voi essere in
grado di rispondere: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dati »(36).
* * *
Venerabili Fratelli!
Siamo certi che le parole, che Noi rivolgiamo a voi, e per mezzo vostro ai
cattolici del Reich germanico, in quest’ora decisiva troveranno nel cuore e
nelle azioni dei Nostri fedeli figlioli un’eco corrispondente alla
sollecitudine amorosa del Padre Comune. Se vi è cosa che Noi imploriamo dal
Signore con particolare fervore, essa è che le Nostre parole pervengano anche all’orecchio
e al cuore di quelli che hanno già cominciato a lasciarsi prendere dalle
lusinghe e dalle minacce dei nemici di Cristo e del suo santo Vangelo, e li
facciano riflettere.
Abbiamo pesato ogni
parola di questa Enciclica sulla bilancia della verità e insieme dell’amore.
Non volevamo con silenzio inopportuno esser colpevoli di non aver chiarito la
situazione, né con rigore eccessivo di aver indurito il cuore di quelli che,
essendo sottoposti alla Nostra responsabilità pastorale, non sono meno oggetto
del Nostro amore, perché ora camminano sulle vie dell’errore e si sono
allontanati dalla Chiesa. Anche se molti di questi, conformatisi alle abitudini
del nuovo ambiente, non hanno se non parole di infedeltà, di ingratitudine, e
persino di ingiuria, per la casa paterna abbandonata e per il padre stesso,
anche se dimenticano quanto prezioso sia ciò di cui essi hanno fatto getto,
verrà il giorno in cui il raccapriccio che essi sentiranno della lontananza da
Dio e della loro indigenza spirituale graverà su questi figli oggi perduti, e
il rimpianto nostalgico li ricondurrà a Dio, che allietò la loro giovinezza, e
alla Chiesa, la cui mano materna loro insegnò il cammino verso il Padre
celeste. L’affrettare quest’ora è l’oggetto delle nostre incessanti preghiere.
Come altre epoche della
Chiesa, anche questa sarà preannunciatrice di nuovi progressi e di
purificazione interiore, quando la fortezza della professione della fede e la
prontezza nell’affrontare i sacrifici da parte dei fedeli di Cristo saranno
abbastanza grandi da contrapporre alla forza materiale degli oppressori della
Chiesa l’adesione incondizionata alla fede, l’inconcussa speranza ancora
nell’eterno, la forza travolgente di amore operoso. Il sacro tempo della
Quaresima e di Pasqua, che predica raccoglimento e penitenza e fa rivolgere lo
sguardo del cristiano più che mai alla Croce, ma insieme anche allo splendore
del Risorto, sia per tutti e per ciascuno di voi un’occasione che saluterete
con gioia e sfrutterete con ardore, per riempire tutto l’animo dello spirito
eroico paziente e vittorioso che si irradia dalla Croce di Cristo. Allora i
nemici di Cristo — di ciò siamo sicuri — che vaneggiano sulla scomparsa della
Chiesa, riconosceranno che troppo presto hanno giubilato e troppo presto hanno
voluto seppellirla. Allora verrà il giorno, in cui, invece dei prematuri inni
di trionfo dei nemici di Cristo, si eleverà al cielo dai cuori e dalle labbra
dei fedeli il «Te Deum » della liberazione: un «Te Deum »
di ringraziamento all’Altissimo, un «Te Deum » di giubilo, perché
il popolo tedesco, anche nei suoi membri erranti, avrà ritrovato il cammino del
ritorno alla religione, con una fede purificata dal dolore, piegherà di nuovo
il ginocchio dinanzi al Re del tempo e dell’eternità, Gesù Cristo, e si
accingerà in lotta contro i rinnegati e i distruttori dell’occidente cristiano,
in armonia con tutti gli uomini ben pensanti delle altre nazioni, a compiere la
missione, che gli hanno assegnato i piani dell’Eterno.
Egli, che scruta i cuori
e i reni(37), Ci è testimonio che Noi non abbiamo aspirazione più intima che
quella del ristabilimento di una vera pace tra la Chiesa e lo Stato in
Germania. Ma se, senza colpa Nostra, la pace non verrà, la Chiesa di Dio
difenderà i suoi diritti e le sue libertà, in nome dell’Onnipotente, il cui
braccio anche oggi non si è abbreviato. Pieni di fiducia in Lui « non
cessiamo di pregare e di invocare »(38), per voi, figli della Chiesa,
affinché i giorni della tribolazione vengano accorciati e voi siate trovati
fedeli nel dì della prova; anche ai persecutori e agli oppressori possa il
Padre di ogni luce e di ogni misericordia concedere l’ora del ravvedimento per
sé e per i molti che insieme con loro hanno errato ed errano.
Con questa implorazione
nel cuore e sulle labbra, Noi impartiamo, quale pegno del divino aiuto, quale
appoggio nelle vostre decisioni difficili e piene di responsabilità, quale
corroboramento nella lotta, quale conforto nel dolore, a Voi vescovi, pastori
del vostro fedele popolo, ai sacerdoti, ai religiosi, agli apostoli laici
dell’Azione Cattolica e a tutti i vostri diocesani, e non ultimi agli ammalati
e ai prigionieri, con amore paterno la Benedizione Apostolica.
Dato in Vaticano, nella
Domenica di Passione, 14 marzo 1937.
PIUS PP. XI
(1) III Io.,
4.
(2) II Petr.,
2, 2.
(3) Matth.,
13, 25.
(4) Luc., 22,
32.
(5) Sap., 8,
1.
(6) Isaia,
40, 15.
(7) Hebr., 5,
1.
(8) Tit., 2,
5.
(9) Matth.,
11, 27.
(10) Io., 17,
3.
(11) I Io.,
2, 23.
(12) Hebr.,
I, 1 ss.
(13) Acta,
IV, 12.
(14) I Cor.,
3, 11.
(15) Ps. 2,
4.
(16) I Tim., 3,
15.
(17) Matth.,
XVIII, 17.
(18) Luc., X,
16.
(19) Io., 3,
8.
(20) Matth.,
3, 93 Luc., 3, 8.
(21) Matth.,
4, 10; Luc., 4, 8.
(22) Luc.,
12, 9.
(23) Matth.,
16, 18.
(24) Hebr.,
11, 1.
(25) Rom., 5,
12.
(26) I Cor.,
1, 23.
(27) I Io.,
3, 1.
(28) Ps. 13,
1 ss.
(29) Rom., 2,
14 ss.
(30) Cicero, De
officiis, 3, 30.
(31) Matth.,
19,17.
(32) Acta, 5,
41.
(33) Gal., 1,
9.
(34) Rom.,
12, 21.
(35) I Cor.,
9, 24 s.
(36) Io., 18,
9.
(37) Ps. 7,
10.
(38) Coloss.,
1, 9.
**************************
1939
24 agosto 1939
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, rivolto ai governanti ed ai
popoli
nell'imminente pericolo della guerra*
A tutto il mondo.
Un’ora grave suona nuovamente per la
grande famiglia umana; ora di tremende deliberazioni, delle quali non può
disinteressarsi il Nostro cuore, non deve disinteressarsi la Nostra Autorità
spirituale, che da Dio Ci viene, per condurre gli animi sulle vie della
giustizia e della pace.
Ed eccoCi con voi tutti, che in questo
momento portate il peso di tanta responsabilità, perché a traverso la Nostra
ascoltiate la voce di quel Cristo da cui il mondo ebbe alta scuola di vita e
nel quale milioni e milioni di anime ripongono la loro fiducia in un frangente
in cui solo la sua parola può signoreggiare tutti i rumori della terra.
EccoCi con voi, condottieri di popoli,
uomini della politica e delle armi, scrittori, oratori della radio e della
tribuna, e quanti altri avete autorità sul pensiero e l’azione dei fratelli,
responsabilità delle loro sorti.
Noi, non d’altro armati che della parola
di Verità, al disopra delle pubbliche competizioni e passioni, vi parliamo nel
nome di Dio, da cui ogni paternità in cielo ed in terra prende nome (Eph.,
III, 15), — di Gesù Cristo, Signore Nostro, che tutti gli uomini ha voluto
fratelli, — dello Spirito Santo, dono di Dio altissimo, fonte inesausta di
amore nei cuori.
Oggi che, nonostante le Nostre ripetute
esortazioni e il Nostro particolare interessamento, più assillanti si fanno i
timori di un sanguinoso conflitto internazionale; oggi che la tensione degli
spiriti sembra giunta a tal segno da far giudicare imminente lo scatenarsi del
tremendo turbine della guerra, rivolgiamo con animo paterno un nuovo e più
caldo appello ai Governanti e ai popoli: a quelli, perché, deposte le accuse,
le minacce, le cause della reciproca diffidenza, tentino di risolvere le
attuali divergenze coll’unico mezzo a ciò adatto, cioè con comuni e leali
intese: a questi, perché, nella calma e nella serenità, senza incomposte
agitazioni, incoraggino i tentativi pacifici di chi li governa.
È con la forza della ragione, non con
quella delle armi, che la Giustizia si fa strada. E gl’imperi non fondati sulla
Giustizia non sono benedetti da Dio. La politica emancipata dalla morale
tradisce quelli stessi che così la vogliono.
Imminente è il pericolo, ma è ancora
tempo.
Nulla è perduto con la pace. Tutto può
esserlo con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi. Riprendano a
trattare. Trattando con buona volontà e con rispetto dei reciproci diritti si
accorgeranno che ai sinceri e fattivi negoziati non è mai precluso un onorevole
successo.
E si sentiranno grandi — della vera
grandezza — se imponendo silenzio alle voci della passione, sia collettiva che
privata, e lasciando alla ragione il suo impero, avranno risparmiato il sangue
dei fratelli e alla patria rovine.
Faccia l’Onnipotente che la voce di questo
Padre della famiglia cristiana, di questo Servo dei servi, che di Gesù Cristo
porta, indegnamente sì, ma realmente tra gli uomini, la persona, la parola,
l’autorità, trovi nelle menti e nei cuori pronta e volenterosa accoglienza.
Ci ascoltino i forti, per non diventar
deboli nella ingiustizia. Ci ascoltino i potenti, se vogliono che la loro
potenza sia non distruzione, ma sostegno per i popoli e tutela a tranquillità
nell’ordine e nel lavoro.
Noi li supplichiamo per il sangue di
Cristo, la cui forza vincitrice del mondo fu la mansuetudine nella vita e nella
morte. E supplicandoli, sappiamo e sentiamo di aver con Noi tutti i retti di
cuore; tutti quelli che hanno fame e sete di Giustizia — tutti quelli che
soffrono già, per i mali della vita, ogni dolore. Abbiamo con Noi il cuore
delle madri, che batte col Nostro; i padri, che dovrebbero abbandonare le loro
famiglie; gli umili, che lavorano e non sanno; gli innocenti, su cui pesa la
tremenda minaccia; i giovani, cavalieri generosi dei più puri e nobili ideali.
Ed è con Noi l’anima di questa vecchia Europa, che fu opera della fede e del
genio cristiano. Con Noi l’umanità intera, che aspetta giustizia, pane,
libertà, non ferro che uccide e distrugge. Con Noi quel Cristo, che dell’amore
fraterno ha fatto il Suo comandamento, fondamentale, solenne; la sostanza della
sua Religione, la promessa della salute per gli individui e per le Nazioni.
Memori infine che le umane industrie a
nulla valgono senza il divino aiuto, invitiamo tutti a volgere lo sguardo in
Alto ed a chiedere con fervide preci al Signore che la sua grazia discenda
abbondante su questo mondo sconvolto, plachi le ire, riconcilii gli animi e faccia
risplendere l’alba di un più sereno avvenire. In questa attesa e con questa
speranza impartiamo a tutti di cuore la Nostra paterna Benedizione.
Benedictio Dei Omnipotentis Patris et
Filii et Spiritus Sancti descendat super vos et maneat semper.
24 dicembre 1939
Discorso del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, al Sacro collegio e alla Prelatura
Romana in occasione della Vigilia del Natale 1939
Agli eminentissimi Cardinali,
agli eccellentissimi Vescovi e
ai Prelati della Curia Romana.
In questo giorno di santa e soave letizia,
Venerabili Fratelli e diletti Figli, in cui l’ansia del Nostro spirito, proteso
nell’aspettazione dell’avvento divino, sta per appagarsi nella dolcissima
contemplazione del mistero della nascita del Redentore, Ci riesce quasi
preludio di tanto gaudio l’intima gioia di vedere adunati intorno a Noi i
membri del Sacro Collegio e della Prelatura Romana, e di accogliere dalle
eloquenti labbra dell’eminente, amato e da tutti venerato Cardinale Decano, i
sentimenti così squisitamente affettuosi e gli auguri, che — accompagnati e
resi sublimi dall’ala delle fervide preghiere innalzate al celeste Bambino — Ci
vengono offerti da tanti cuori fedeli e devoti in questa gioconda solennità del
Santo Natale, prima del ciclo dell’anno liturgico e prima festa natalizia del
Nostro Pontificato.
Il Nostro spirito si eleva con voi da
questo mondo verso una sfera spirituale vivida della gran luce della fede; con
voi si esalta, con voi gioisce, con voi si profonda nella sacra rimembranza del
mistero e sacramento dei secoli, recondito e palese nella grotta di Betlemme,
culla della redenzione di tutte le genti, rivelazione della pace fra il cielo e
la terra, della gloria di Dio nel più alto dei cieli e di pace in terra agli
uomini di buona volontà, inizio di un nuovo corso dei secoli, che adoreranno
questo divino mistero, gran dono di Dio e gaudio della terra universa.
Esultiamo, diremo a voi tutti con le parole del grande Nostro Predecessore il
santo Pontefice Leone Magno: «Exultemus in Domino, dilectissimi, et
spirituali iucunditate laetemur, quia illuxit nobis dies redemptionis novae,
reparationis antiquae, felicitatis aeternae. Reparatur enim nobis salutis
nostrae annua revolutione sacramentum, ab initio promissum, in fine redditum,
sine fine mansurum, in quo dignum est nos erectis sursum cordibus divinum
adorare mysterium, ut, quod magno Dei munere agitur, magnis Ecclesiae gaudiis
celebretur » (S. Leon. M., Sermo XXII. In Nativ. Dom. II, Cap.
I, PL, 54, col. 193-194).
Nella celebrazione di questo divino
mistero la gioia dei nostri cuori si leva in alto, si fa spirituale, si radica
nel soprannaturale e tende al soprannaturale, volando a Dio con l’eccelsa
espressione della preghiera della Chiesa: « ut inter mundanas
varietates ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gaudia » (or.
Dom. IV post Pasch.). In mezzo all’urto e al tumulto delle varie vicende
del mondo, il vero gaudio si rifugia nell’imperturbabilità dello spirito, nella
quale, quasi in torre incrollabile alle bufere, con fiducia in Dio si affissa,
e si unisce con Cristo, principio e cagione di ogni gioia e di ogni grazia. Non
è forse questo il sacramento del re dell’anime nostre, del Dio Infante del
presepio di Betlemme? Quando questo segreto regale trapassa e si annida nelle
anime, allora la fede, la speranza e l’amore si sublimano nell’estasi
dell’Apostolo delle genti che grida al mondo: «Vivo, già non io; vive in me
Cristo » (Gal., 2, 20). Nel trasumanarsi dell’uomo in Cristo,
Cristo stesso veste di sé l’uomo, umiliandosi fino a lui per sollevarlo fino a
sé in quel gaudio del suo nascimento ch’è perenne festa natalizia, a cui la
liturgia della Chiesa non è mai che cessi in ogni stagione di richiamarci,
invitarci ed esortarci, affinché in noi si avveri la promessa di Lui che il nostro
cuore gioirà, e nessuno ci toglierà la nostra allegrezza (Io., 16, 22).
La luce celeste di questa gioia e di
questo conforto sostiene la fiducia di coloro in cui vive e splende; né può
venir oscurata o turbata da alcun affanno o fatica, da alcuna ansietà o
sofferenza che salga o rumoreggi di quaggiù, simile a quella
«… lodoletta che in aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
dell’ultima dolcezza che la sazia ». (Par., XX, 73).
Dove altri si sbigottiscono, dove le amare
acque dell’afflizione e della disperazione sommergono i pusillanimi, le anime
in cui vive Cristo possono tutto, e si elevano, sopra i disordini e le bufere
del mondo, con sempre eguale coraggio e ardore, al cantico degli ordinamenti,
delle giustificazioni e delle magnificenze di Dio. Sotto le tempeste, si
sentono maggiori dei turbini, della terra che calcano e dei mari che solcano,
più che per il loro spirito immortale, per l’elevazione dei loro cuori verso
Dio, « Sursum corda », per la loro preghiera e unione con Dio,
« Habemus ad Dominum ».
E verso Dio, misericordioso e onnipotente,
Venerabili Fratelli e diletti Figli, Noi leviamo il Nostro sguardo e la Nostra
supplica, come la migliore e più efficace espressione della Nostra gratitudine
per i vostri fervidi voti natalizi, i quali son pure una preghiera innalzata al
Padre celeste, « da cui viene ogni ottima grazia e ogni perfetto dono »
(Iac., 1, 17). Faccia Egli che, in questa unione di preghiera, ognuno di
voi ottenga, presso il presepio dell’Unigenito suo Figlio fatto carne e tra noi
abitante quella « mensuram bonam et confertam et coagitatam et
supereffluentem » di gioia natalizia, cui Egli solo può largire;
sicché, corroborati e alleviati da tanto gaudio, possiate generosamente e
virilmente, da soldati di Cristo, proseguire il cammino vostro attraverso il
deserto della vita terrena fino a quel tramonto, in cui dinanzi all’anelo
vostro sguardo risplenda nell’aurora dell’eternità il monte del Signore, e in
ciascuno di voi, rinato a novella vita di gaudio indefettibile, si compia la
preghiera natalizia della Chiesa « di contemplare con fiducia come
giudice quell’Unigenito, che ora accogliamo con gioia qual Redentore »
(Orat. in Vig. Nat.).
Ma in quest’ora, in cui la vigilia del
Santo Natale Ci procura la dolce letizia della vostra presenza, all’allegrezza
si mesce e rivive in Noi, e senza dubbio non meno in voi, il mesto ricordo del
glorioso Nostro Predecessore di s. m. (così piamente rievocato dal Venerabile
Nostro Fratello il Cardinale Decano) e delle parole — è scorso solo un anno —
parole indimenticabili, solenni e gravi, prorompenti dal profondo del suo cuore
paterno, che voi con Noi ascoltaste, compresi di accoramento, come il «Nunc
dimittis » del santo vegliardo Simeone; parole risonate in quest’aula,
in pari vigilia, pregne del peso del presentimento, per non dire della visione
presaga, di vicina sventura; parole di deprecante ammonimento, di eroico
sacrificio di sé, i cui affocati accenti ancor oggi inteneriscono gli animi
nostri.
L’indicibile sciagura della guerra, che
Pio XI con profondo estremo cordoglio prevedeva, e con l’indomabile energia del
suo nobile, altissimo spirito voleva con tutti i mezzi far lontana dalle
contese delle nazioni, si è scatenata ed ormai è tragica realtà. Innanzi al suo
rumoreggiare una immensa amarezza inonda l’animo Nostro, mesto e pensoso che il
Santo Natale del Signore, del Principe della pace, debba oggi celebrarsi tra il
funesto, funereo rombar dei cannoni, sotto il terrore di bellici ordigni
volanti, in mezzo alle minacce e alle insidie dei navigli armati. E poiché
sembra che il mondo abbia posto in dimenticanza il pacificante messaggio di
Cristo, la voce della ragione, la fratellanza cristiana, abbiamo dovuto
purtroppo assistere a una serie di atti inconciliabili sia colle prescrizioni
del diritto internazionale positivo, che coi princípi del diritto naturale e
cogli stessi più elementari sentimenti di umanità, atti i quali mostrano in
quale caotico circolo vizioso si avvolge il senso giuridico sviato da pure
considerazioni utilitarie. In questa categoria rientrano: la premeditata
aggressione contro un piccolo, laborioso e pacifico popolo, col pretesto di una
minaccia né esistente né voluta e nemmeno possibile; — le atrocità (da
qualsiasi parte commesse) e l’uso illecito di mezzi di distruzione anche contro
non combattenti e fuggiaschi, contro vecchi, donne e fanciulli; — il disprezzo
della dignità, della libertà e della vita umana, da cui derivano atti che
gridano vendetta al cospetto di Dio: « vox sanguinis fratris tui clamat
ad me de terra » (Gen., 4, 10); la sempre più estesa e metodica
propaganda anticristiana e persino atea, massime fra la gioventù.
A preservare la Chiesa e la sua missione
tra gli uomini da ogni contatto con tale spirito anticristiano Ci sprona il
Nostro dovere, che è anche intima e sacra volontà, di Padre e Maestro di
verità; e perciò rivolgiamo calda e insistente esortazione soprattutto ai
ministri del Santuario e ai « distributori dei misteri di Dio »,
perché siano sempre avveduti ed esemplari nell’insegnamento e nella pratica
dell’amore, e mai non dimentichino che nel regno di Cristo non vi è precetto
più inviolabile né più fondamentale e sacro del servigio della verità e del
vincolo dell’amore.
Con viva e angosciosa ansia Ci è forza
purtroppo contemplare manifeste ai Nostri occhi le rovine spirituali, che si
vengono accumulando a causa di una larga colluvie d’idee, la quale, più o meno
volutamente o velatamente ottenebra e deforma la verità negli animi di tanti
individui e popoli, travolti o no nella guerra; onde pensiamo quale immenso
lavoro sarà necessario, — quando il mondo, stanco dal guerreggiarsi, vorrà
ristabilire la pace —, per abbattere le mura ciclopiche dell’avversione e
dell’odio, che nel calore della lotta sono state innalzate.
Consapevoli degli eccessi, a cui aprono la
via e sospingono ineluttabilmente dottrine e opere di una politica non curante
della legge di Dio, Noi, come ben sapete, allorché i contrasti divennero
minacciosi, con tutto l’ardore del Nostro animo tentammo fino all’ultimo di
evitare il peggio e di persuadere gli uomini, nelle cui mani era la forza e
sulle cui spalle gravava una pesante responsabilità, di recedere da un
conflitto armato e risparmiare al mondo imprevedibili sciagure. Gli sforzi
nostri e quelli venuti da altre parti influenti e rispettate non fu vero che
sortissero l’effetto sperato, soprattutto perché apparve irremovibile la
profonda sfiducia, ingigantitasi negli animi durante gli ultimi anni, la quale
aveva elevate insormontabili barriere spirituali tra i popoli.
Non erano insolubili i problemi, che si
agitavano fra le nazioni; ma quella sfiducia, originata da una serie di
circostanze particolari, impediva, quasi con forza irresistibile, che più ormai
si prestasse fede alla efficacia di eventuali promesse e alla durata e vitalità
di possibili convenzioni. Il ricordo della vita effimera e contrastata di
simili trattative od accordi finì col paralizzare ogni sforzo per promuovere
una soluzione pacifica.
Non Ci rimase, Venerabili Fratelli e
diletti Figli, che ripetere col Profeta: « Expectavimus pacem, et non
est bonum, et tempus curationis, et ecce turbatio » (Ier., 14,
19) e adoperarCi intanto ad alleviare, per quanto è da Noi, le sventure
derivanti dalla guerra, sebbene tale azione sia non poco impedita dalla
impossibilità, non ancora superata, di portare il soccorso della carità
cristiana in regioni, ove più vivo ed urgente se ne sentirebbe il bisogno. Con
inesprimibile angoscia da quattro mesi veniamo osservando questa guerra,
iniziata e proseguita in così insolite circostanze, far cumuli di tragiche
rovine. E se finora — eccettuato il suolo insanguinato della Polonia e della
Finlandia — il numero delle vittime può considerarsi inferiore a quel che si
temeva, la somma di dolori e di sacrifici è giunta a tal punto da incutere viva
ansietà in chi si preoccupa del futuro stato economico, sociale e spirituale
dell’Europa, e non dell’Europa soltanto. Quanto più il mostro della guerra si
procaccia, inghiotte e si aggiudica i mezzi materiali, che inesorabilmente
vengono tutti messi al servizio delle necessità guerresche, d’ora in ora
crescenti, tanto più acuto diventa per le nazioni, direttamente o
indirettamente colpite dal conflitto, il pericolo di una, vorremmo dire, anemia
perniciosa, e si affaccia l’incalzante domanda: come potrà, a guerra finita,
una economia esausta o estenuata trovare i mezzi per la ricostruzione economica
e sociale, tra difficoltà che d’ogni lato saranno enormemente aumentate, e
delle quali le forze e le arti del disordine, che si tengono in agguato,
cercheranno di valersi, nella speranza di poter dare all’Europa cristiana il
colpo decisivo?
Simili considerazioni del presente e
dell’avvenire debbono tener sopra pensiero, pur nella febbre della lotta, i
governanti e la parte sana di ogni popolo, e muoverla e spingerla a esaminarne
gli effetti e a riflettere sugli scopi e sulle finalità giustificabili della
guerra.
E pensiamo che coloro i quali con occhio
vigile mirino queste gravi previsioni e considerino con mente pacata i sintomi
che in molte parti del mondo accennano a tale evoluzione degli eventi, si
terranno, nonostante la guerra e le sue dure necessità, interiormente disposti
a definire, al momento opportuno e propizio, chiaramente, per quanto li
riguarda, i punti fondamentali di una pace giusta e onorevole, né
rifiuterebbero senz’altro le trattative, qualora se ne presentasse l’occasione
con le necessarie garanzie e cautele.
1° Un postulato fondamentale di una pace
giusta e onorevole è assicurare il diritto alla vita e all’indipendenza di
tutte le nazioni, grandi e piccole, potenti e deboli. La volontà di vivere
d’una nazione non deve mai equivalere alla sentenza di morte per un’altra.
Quando questa uguaglianza di diritti sia stata distrutta o lesa o posta in
pericolo, l’ordine giuridico esige una riparazione, la cui misura e estensione
non è determinata dalla spada o dall’arbitrio egoistico, ma dalle norme di
giustizia e di reciproca equità.
2° Affinché l’ordine, in tal modo
stabilito, possa avere tranquillità e durata, cardini di una vera pace, le
nazioni devono venir liberate dalla pesante schiavitù della corsa agli
armamenti e dal pericolo che la forza materiale, invece di servire a tutelare
il diritto, ne divenga tirannica violentatrice. Conclusioni di pace, che non
attribuissero fondamentale importanza ad un disarmo mutuamente consentito,
organico, progressivo, sia nell’ordine pratico che in quello spirituale, e non
curassero di attuarlo lealmente, rivelerebbero, presto o tardi, la loro
inconsistenza e mancanza di vitalità.
3° In ogni riordinamento della convivenza
internazionale, sarebbe conforme alle massime dell’umana saggezza che da tutte
le parti in causa si deducessero le conseguenze dalle lacune o dalle deficienze
del passato; e nel creare o ricostituire le istituzioni internazionali, che
hanno una missione tanto alta, ma in pari tempo così difficile e piena di
gravissime responsabilità, si dovrebbero tener presenti le esperienze che
sgorgassero dall’inefficacia o dal difettoso funzionamento di simili anteriori
iniziative. E poiché alla debolezza umana è così malagevole, si sarebbe tentati
di dire, quasi impossibile, di tutto prevedere e tutto assicurare al momento
delle trattative di pace, quando torna difficile l’esser scevri di passione e
d’amarezza, la costituzione di giuridiche istituzioni, che servano a garantire
la leale e fedele attuazione delle convenzioni e, in caso di riconosciuto
bisogno, a rivederle e correggerle, è d’importanza decisiva per una onorevole
accettazione di un trattato di pace e per evitare arbitrarie e unilaterali
lesioni e interpretazioni delle condizioni dei trattati medesimi.
4° In particolare, un punto, che dovrebbe
attirare l’attenzione, se si vuole un migliore ordinamento dell’Europa,
riguarda i veri bisogni e le giuste richieste delle nazioni e dei popoli, come
pure delle minoranze etniche; richieste le quali, se non bastano sempre a
fondare uno stretto diritto, quando siano in vigore trattati riconosciuti e
sanciti o altri titoli giuridici, che vi si oppongano, meritano tuttavia un
benevolo esame, per venire loro incontro in vie pacifiche e anche, ove
apparisca necessario, per mezzo di una equa, saggia e concorde revisione dei
trattati. Ricondotto così un vero equilibrio tra le nazioni, e ricostituite le
basi di una mutua fiducia, si allontanerebbero molti incentivi a ricorrere alla
violenza.
5° Ma anche i regolamenti migliori e più
compiuti saranno imperfetti e condannati in definitiva all’insuccesso, se quei
che dirigono le sorti dei popoli, e i popoli stessi, non si lasciano penetrare
sempre più da quello spirito, da cui solo può provenire vita, autorità e
obbligazione alla lettera morta dei paragrafi negli ordinamenti internazionali;
da quel senso, cioè, di intima e acuta responsabilità che misura e pondera gli
statuti umani secondo le sante e incrollabili norme del diritto divino; da
quella fame e sete di giustizia, che è proclamata come beatitudine nel Sermone
della Montagna e che ha come naturale presupposto la giustizia morale; da
quell’amore universale, che è il compendio e il termine più proteso dell’ideale
cristiano e per ciò getta un ponte anche verso coloro, i quali non hanno il
bene di partecipare alla stessa nostra fede.
Non misconosciamo quanto gravi siano le
difficoltà che si frappongono al conseguimento dei fini, da Noi tracciati in
grandi linee, per fondare, porre in atto e conservare una giusta pace
internazionale. Ma se mai vi fu scopo degno del concorso degli spiriti nobili e
generosi, se mai sorse ardimento di crociata spirituale, in cui con nuova
verità risonasse il grido « Dio lo vuole », è veramente quest’altissimo
scopo e questa crociata e lotta di cuori puri e magnanimi, ingaggiata per
ricondurre i popoli dalle torbide cisterne di interessi materiali ed egoistici
alla fonte viva del diritto divino, il quale solo è potente a dare quella
moralità, nobiltà e stabilità, di cui troppo e troppo a lungo si è sentito il
difetto e il bisogno con grave iattura delle nazioni e dell’umanità.
A questi ideali, che sono in pari tempo i
fini reali di una vera pace nella giustizia e nell’amore, Noi aspettiamo e
speriamo che tutti quelli i quali a Noi sono uniti col vincolo della fede,
ciascuno al suo posto e entro i limiti della sua missione, tengano aperta la
mente e il cuore; affinché, quando l’uragano della guerra sia sul cessare e
disperdersi, sorgano, presso tutti i popoli e le nazioni, spiriti preveggenti e
puri, animati dal coraggio che sappia e valga ad opporre al tenebroso istinto
di bassa vendetta la severa e nobile maestà della giustizia, sorella dell’amore
e compagna di ogni verace saggezza.
Di questa giustizia, che sola vale a
creare la pace e assicurarla, Noi, e con Noi quanti ascoltano la Nostra voce,
non ignoriamo dove ci è dato trovare il sublime esemplare, l’intimo impulso e
la sicura promessa. «Transeamus usque Bethlehem, et videamus » (Luc.,
2, 15). Andiamo a Betlemme. Ivi troveremo giacente nel presepio il nato « Sole
della giustizia, Cristo Dio nostro », e al suo fianco la Vergine
Madre, « specchio della giustizia » e « regina della
pace », col santo custode Giuseppe, « l’uomo giusto ».
Gesù è l’Aspettato delle genti. I profeti lo additarono, e ne cantarono i
futuri trionfi: « et vocabitur nomen eius Admirabilis, Consiliarius,
Deus, Fortis, Pater futuri saeculi, Princeps pacis » (Is., 9,
6).
Alla nascita di questo celeste Bambino, un
altro Principe della pace sedeva sulle sponde del Tevere e aveva con solenni
cerimonie dedicato un’Ara Pacis Augustae, le cui meravigliose ma
infrante reliquie, sepolte già sotto le rovine di Roma, hanno levato il capo in
mezzo alla nostra età. Su quell’altare Augusto sacrificò a dèi che non salvano.
Ma è lecito pensare che il vero Dio ed eterno Principe della pace, che pochi
anni dopo discese fra gli uomini, abbia esaudito l’anelito di quel tempo per la
pace e che la pace augustea sia stata quasi una figura di quella pace soprannaturale,
che Egli solo può dare ed in cui ogni vera pace terrestre è necessariamente
compresa, di quella pace conquistata, non col ferro, ma col legno della culla
di questo Infante Signore della pace, e col legno della sua futura croce di
morte, irrorata del suo sangue, sangue non di odio e rancore, ma di amore e
perdono.
Andiamo dunque a Betlemme, alla grotta del
nato Re della pace, cantata sulla sua culla dalle schiere degli Angeli; e
genuflessi dinanzi a Lui, in nome di questa umanità inquieta e sconvolta, in
nome degli innumerevoli, senza distinzione di popolo e di nazione, che
sanguinano e muoiono, o sono piombati nel pianto e nella miseria, o hanno
perduto la patria, rivolgiamoGli la nostra invocazione di pace e concordia, di
aiuto e di salvezza con le parole, che la Chiesa pone in questi giorni sulle
labbra dei suoi figli: «O Emmanuel, Rex et legifer noster, exspectatio
Gentium et salvator earum, veni ad salvandum nos, Domine, Deus noster »
(Brev. rom.).
Mentre in questa preghiera effondiamo la
nostra insaziata aspirazione verso una pace nello spirito di Cristo, Mediatore
di pace fra il cielo e la terra, con la sua benignità e umanità apparsa in
mezzo a noi, ed esortiamo caldamente i fedeli cristiani ad associare con le
Nostre intenzioni anche i loro sacrifici e le loro preghiere, impartiamo,
Venerabili Fratelli e diletti Figli, a voi e a tutti quelli che portate nel
vostro cuore, a tutti gli uomini di buona volontà, che si trovano sulla faccia
della terra, specialmente ai sofferenti, agli angustiati, ai perseguitati, ai
prigionieri, agli oppressi di ogni regione e Paese, con immutato affetto, come
pegno di grazie e di consolazioni e conforti celesti, l’Apostolica Benedizione.
Alla fine di questo Nostro discorso non
vogliamo privarCi della gioia di annunziarvi, Venerabili Fratelli e diletti
Figli, essere giunto stamane dalla Delegazione Apostolica di Washington un
telegramma, della cui parte introduttiva ed essenziale teniamo a darvi lettura:
«Il Signor Presidente, chiamato stamane
Monsignor Spellman, Arcivescovo di New York, dopo un colloquio con lui, lo ha
inviato a me insieme al Signor Berle, Assistant Secretary of State, consegnando
una lettera per Sua Santità, che qui trascrivo, secondo il desiderio dello
stesso Signor Presidente, letteralmente. In essa il Signor Presidente
stabilisce di nominare un rappresentante del Presidente con rango di
Ambasciatore straordinario, ma senza titolo formale, presso la Santa Sede.
Questo rappresentante sarà l’onorevole Myron Taylor, che partirà per Roma fra
circa un mese. La notizia sarà resa di pubblica ragione domani ufficialmente ».
Segue il testo della lettera in lingua
inglese, che sarà pubblicato sull’Osservatore Romano.
È un annunzio natalizio che non poteva
giungerCi più gradito, giacché esso rappresenta, da parte dell’eminente Capo di
una così grande e potente Nazione, un valido e promettente contributo alle
Nostre sollecitudini, sia per il conseguimento di una pace giusta ed onorevole,
come per una più efficace e larga opera intesa ad alleviare le sofferenze delle
vittime della guerra. Perciò teniamo ad esprimere qui per questo atto nobile e
generoso del Signor Presidente Roosevelt le Nostre felicitazioni e il Nostro
grato animo.
*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità
Pio XII, I,
Primo anno di Pontificato, 2 marzo 1939 - 1° marzo 1940, pp. 435-445
Tipografia Poliglotta Vaticana
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1941
Pentecoste 1941 - 1 giugno 1941
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, in occasione della Pentecoste del
1941, nel 50° anniversario dell’enciclica «Rerum novarum» (1891),
diffuso il 1-6-1941, nella solennità di Pentecoste
La solennità della Pentecoste, glorioso
natale della Chiesa di Cristo, è all'animo Nostro, diletti figli dell'universo
intero, un dolce e propizio invito fecondo di alto ammonimento, per
indirizzarvi, tra le difficoltà e i contrasti dei tempi presenti, un messaggio
di amore d'incoraggiamento e di conforto. Vi parliamo in un momento, in cui
tutte le energie e forze fisiche e intellettuali di una porzione sempre
crescente dell'umanità stanno, in misura e con ardore non mai prima conosciuti,
tese sotto la ferrea inesorabile legge di guerra: e da altre parlanti antenne
volano accenti pregni di esasperazione e di acrimonia, di scissione e di lotta.
Ma le antenne del Colle Vaticano, della
terra consacrata a centro intemerato della Buona Novella e della sua benefica
diffusione nel mondo dal martirio e dal sepolcro del primo Pietro, non possono
trasmettere se non parole che s'informano e si animano dello spirito
consolatore della predica, di cui alla prima Pentecoste per la voce di Pietro
risonò e si commosse Gerusalemme; spirito di ardente amore apostolico, spirito
che non sente brama più viva e gioia più santa di quella di tutti condurre,
amici e nemici, ai piedi del Crocifisso del Golgota, al sepolcro del
glorificato Figlio di Dio e Redentore del genere umano, per convincere tutti
che solo in lui, nella verità da lui insegnata, nell'amore di lui, benefacendo
e sanando tutti, dimostrato e vissuto fino a far sacrificio di sé per la vita
del mondo, si può trovare verace salvezza e duratura felicità per gl'individui
e per i popoli.
[3] In quest'ora, gravida di eventi in
potere del consiglio divino, che regge la storia delle nazioni e veglia sulla
Chiesa, è per Noi gioia e soddisfazione intima, nel far sentire a voi, diletti
figli, la voce del Padre comune, il chiamarvi quasi ad una breve e universale
adunata cattolica, affinché possiate sperimentalmente provare nel vincolo della
pace la dolcezza delcor unum e dell' anima una,
(Cf At 4,32.) che cementava, sotto l'impulso dello Spirito
divino, la comunità di Gerusalemme nel dì della Pentecoste. Quanto più le
condizioni, originate dalla guerra, rendono in molti casi difficile un contatto
diretto e vivo tra il Sommo Pastore e il suo gregge, con tanta maggior
gratitudine salutiamo il rapidissimo ponte di unione, che il genio inventivo
dell'età nostra lancia in un baleno attraverso l'etere collegando oltre monti,
mari e continenti ogni angolo della terra. E ciò che per molti è arma di lotta,
si trasforma per Noi in strumento provvidenziale di apostolato operoso e
pacifico, che attua e innalza a un significato nuovo la parola della Scrittura:
«In omnem terram exivit sonus eorum; et in fines orbis terrae verba eorum»
(Sal 18,5; Rm 10,18). Così pare che si rinnovi il
gran miracolo della Pentecoste, quando le diverse genti dalle regioni di altre
lingue convenute in Gerusalemme ascoltavano nel loro idioma la voce di Pietro e
degli Apostoli. Con sincero compiacimento Ci serviamo oggi di un tal mezzo
meraviglioso, per attirare l'attenzione del mondo cattolico sopra una
ricorrenza, meritevole di essere a caratteri d'oro segnata nei fasti della
Chiesa: sul cinquantesimo anniversario, cioè, della pubblicazione, avvenuta il
15 maggio 1891, della fondamentale enciclica socialeRerum novarum di
Leone XIII.
Mosso dalla convinzione profonda che alla
Chiesa compete non solo il diritto, ma ancora il dovere di pronunziare una
parola autorevole sulle questioni sociali, Leone XIII diresse al mondo il suo
messaggio. Non già che egli intendesse di stabilire norme sul lato puramente
pratico, diremmo quasi tecnico, della costituzione sociale; perché ben sapeva e
gli era evidente - e il nostro predecessore di s. m. Pio XI lo ha dichiarato or
è un decennio nella sua enciclica commemorativaQuadragesimo anno -
che la Chiesa non si attribuisce tale missione. Nell'ambito generale del
lavoro, allo sviluppo sano e responsabile di tutte le energie fisiche e
spirituali degl'individui e alle loro libere organizzazioni si apre un
vastissimo campo di azione multiforme, dove il pubblico potere interviene con
una sua azione integrativa e ordinativa, prima per mezzo delle corporazioni
locali e professionali, e infine per forza dello Stato stesso, la cui superiore
e moderatrice autorità sociale ha l'importante ufficio di prevenire i
perturbamenti di equilibrio economico sorgenti dalla pluralità e dai contrasti
degli egoismi concorrenti, individuali e collettivi.
E' invece inoppugnabile competenza della
Chiesa, in quel lato di ordine sociale dove si accosta ed entra a toccare il
campo morale, il giudicare se le basi di un dato ordinamento sociale siano in
accordo con l'ordine immutabile, che Dio creatore e redentore ha manifestato
per mezzo del diritto naturale e della rivelazione: doppia manifestazione, alla
quale si richiama Leone XIII nella sua enciclica. E con ragione: perché i
dettami del diritto naturale e le verità della rivelazione promanano per
diversa via, come due rivi d'acque non contrarie, ma concordi, dalla medesima
fonte divina; e perché la Chiesa, custode dell'ordine soprannaturale cristiano,
in cui convergono natura e grazia, ha da formare le coscienze, anche le
coscienze di coloro, che sono chiamati a trovare soluzioni per i problemi e i
doveri imposti dalla vita sociale. Dalla forma data alla società, consona o no
alle leggi divine, dipende e s'insinua anche il bene o il male nelle anime,
vale a dire, se gli uomini chiamati tutti ad essere vivificati dalla grazia di
Cristo, nelle terrene contingenze del corso della vita respirino il sano e
vivido alito della verità e della virtù morale o il bacillo morboso e spesso
letale dell'errore della depravazione. Dinnanzi a tale considerazione e
previsione come potrebbe esser lecito alla Chiesa, madre tanto amorosa e
sollecita del bene dei suoi figli, di rimanere indifferente spettatrice dei
loro pericoli, tacere o fingere di non vedere e ponderare condizioni sociali
che, volutamente o no, rendono ardua o praticamente impossibile una condotta di
vita cristiana, conformata ai precetti del Sommo Legislatore?
Consapevole di tale gravissima
responsabilità Leone XIII, indirizzando la sua enciclica al mondo, additava
alla coscienza cristiana gli errori e i pericoli della concezione di un
socialismo materialista, le fatali conseguenze di un liberalismo economico,
spesso inconscio o dimentico o sprezzante dei doveri sociali; ed esponeva con
magistrale chiarezza e mirabile precisione i principi convenienti e acconci a
migliorare - gradatamente e pacificamente - le condizioni materiali e
spirituali dell'operaio.
Che se, diletti figli, oggi, dopo un
cinquantennio dalla pubblicazione dell'enciclica, voi Ci domandate fino a qual
segno e misura l'efficacia della sua parola corrispose alle nobili intenzioni,
ai pensieri ricchi di verità, ai benefici indirizzi intesi e suggeriti dal suo
sapiente Autore, sentiamo di dovervi rispondere: proprio per rendere a Dio
onnipotente, dal fondo dell'animo Nostro, umili grazie per il dono, che, or
sono cinquant'anni, largì alla Chiesa con quell'enciclica del suo vicario in
terra, e per lodarlo del soffio dello Spirito rinnovatore, che per essa, da
allora in modo sempre crescente, effuse sull'umanità intera. Noi, in questa
solennità della Pentecoste, Ci siamo proposti di rivolgervi la Nostra parola.
Già il nostro Predecessore Pio XI esaltò
nella prima parte della sua enciclica commemorativa la splendida messe, cui
aveva maturata la Rerum novarum,
germe fecondo, donde si svolse una dottrina sociale cattolica, che offrì ai
figli della Chiesa, sacerdoti e laici, ordinamenti e mezzi per una
ricostruzione sociale, esuberante di frutti; sicché per lei sorsero nel campo
cattolico numerose e varie istituzioni benefiche e fiorenti centri di reciproco
soccorso in favore proprio e d'altrui. Quale prosperità materiale e naturale,
quali frutti spirituali e soprannaturali, non sono provenuti agli operai e alle
loro famiglie dalle unioni cattoliche! Quanto efficace e opportuno al bisogno
non si è dimostrato il contributo dei sindacati e delle associazioni in pro del
ceto agricolo e medio per sollevarne le angustie, assicurarne la difesa e la
giustizia, e in tal modo, mitigando le passioni, preservare da turbamenti la
pace sociale!
Né questo fu tutto il vantaggio.
L'enciclica Rerum novarum,
accostandosi al popolo, che abbracciava con stima e amore, penetrò nei cuori e
nelle menti della classe operaia e vi infuse sentimento cristiano e dignità
civile; a segno tale che la potenza dell'attivo suo influsso venne, con lo
scorrere degli anni, così efficacemente esplicandosi e diffondendosi, da far
diventare le sue norme quasi comune patrimonio della famiglia umana. E mentre
lo Stato, nel secolo decimonono, per soverchio esaltamento di libertà,
considerava come suo scopo esclusivo il tutelare la libertà con il diritto,
Leone XIII lo ammonì essere insieme suo dovere l'applicarsi alla provvidenza
sociale, curando il benessere del popolo intero e di tutti i suoi membri,
particolarmente dei deboli e diseredati, con larga politica sociale e con
creazione di un diritto del lavoro. Alla sua voce rispose un'eco potente; ed è
sincero debito di giustizia riconoscere i progressi, che la sollecitudine delle
autorità civili di molte nazioni hanno procurato alla condizione dei
lavoratori. Onde ben fu detto che la Rerum novarumdivenne la Magna
Charta dell'operosità sociale cristiana.
Intanto trascorreva un mezzo secolo, che
ha lasciato solchi profondi e tristi fermenti nel terreno delle nazioni e delle
società.
Le questioni, che i mutamenti e
rivolgimenti sociali e soprattutto economici offrivano a un esame morale dopo
la Rerum novarum sono
state con penetrante acutezza trattate dal Nostro immediato Predecessore nella
enciclica Quadragesimo anno.
Il decennio che la seguì non fu meno ricco degli anni anteriori per sorprese
nella vita sociale ed economica, e ha versate le irrequiete e oscure sue acque
nel pelago di una guerra, che può avere imprevedibili flutti urtanti l'economia
e la società.
Quali problemi e quali assunti
particolari, forse del tutto nuovi, presenterà alla sollecitudine della Chiesa
la vita sociale dopo il conflitto che mette a fronte tanti popoli, l'ora
presente rende difficile designare e antivedere. Tuttavia, se il futuro ha
radice nel passato, se l'esperienza degli ultimi anni Ci è maestra per
l'avvenire, Noi pensiamo di servirci dell'odierna commemorazione per dare
ulteriori principi direttivi morali sopra tre fondamentali valori della vita
sociale ed economica; e ciò faremo animati dallo stesso spirito di Leone XIII e
svolgendo le sue vedute veramente, più che profetiche, presaghe dell'insorgente
processo sociale dei tempi. Questi tre valori fondamentali, che s'intrecciano,
si saldano e si aiutano a vicenda, sono: l'uso dei beni materiali, il lavoro,
la famiglia.
L'Enciclica Rerum novarum espone
sulla proprietà e sul sostentamento dell'uomo principi, i quali col tempo nulla
hanno perduto del nativo loro vigore e, oggi dopo cinquant'anni, conservano
ancora e profondono vivificante la loro intima fecondità. Sopra il loro punto
fondamentale, Noi stessi abbiamo richiamata l'attenzione comune nella Nostra
enciclicaSertum laetitiae,
diretta ai Vescovi degli Stati Uniti dell'America del Nord: punto fondamentale,
che consiste, come dicemmo, nell'affermazione della inderogabile esigenza «che
i beni, da Dio creati per tutti gli uomini, equamente affluiscano a tutti, secondo
i principi della giustizia e della carità».
Ogni uomo, quale vivente dotato di
ragione, ha infatti dalla natura il diritto fondamentale di usare dei beni
materiali della terra, pur essendo lasciato alla volontà umana e alle forme
giuridiche dei popoli di regolarne più particolarmente la pratica attuazione.
Tale diritto individuale non può essere in nessun modo soppresso, neppure da
altri diritti certi e pacifici sui beni materiali. Senza dubbio l'ordine
naturale, derivante da Dio, richiede anche la proprietà privata e il libero
reciproco commercio dei beni con scambi e donazioni, come pure la funzione
regolatrice del potere pubblico su entrambi questi istituti. Tutto ciò
nondimeno rimane subordinato allo scopo naturale dei beni materiali, e non
potrebbe rendersi indipendente dal diritto primo e fondamentale, che a tutti ne
concede l'uso; ma piuttosto deve servire a farne possibile l'attuazione in
conformità con il suo scopo. Così solo si potrà e si dovrà ottenere che
proprietà e uso dei beni materiali portino alla società pace feconda e
consistenza vitale, non già costituiscano condizioni precarie, generatrici di
lotte e gelosie, e abbandonate in balia dello spietato giuoco della forza e
della debolezza.
Il diritto originario sull'uso dei beni
materiali, per essere in intima connessione con la dignità e con gli altri
diritti della persona umana, offre ad essa con le forme sopra indicate una base
materiale sicura, di somma importanza per elevarvi al compimento dei suoi
doveri morali. La tutela di questo diritto assicurerà la dignità personale
dell'uomo, e gli agevolerà l'attendere e il soddisfare in giusta libertà a
quella somma di stabili obbligazioni e decisioni, di cui è direttamente
responsabile verso il Creatore.
Spetta invero all'uomo il dovere del tutto
personale di conservare e ravviare a perfezionamento la sua vita materiale e
spirituale, per conseguire lo scopo religioso e morale, che Dio ha assegnato a
tutti gli uomini e dato loro quale norma suprema, sempre e in ogni caso
obbligante, prima di tutti gli altri doveri.
Tutelare l'intangibile campo dei diritti
della persona umana e renderle agevole il compimento dei suoi doveri vuol
essere ufficio essenziale di ogni pubblico potere. Non è forse questo che porta
con sé il significato genuino del bene comune, che lo Stato è chiamato a
promuovere? Da qui nasce che la cura di un tal bene comune non importa un
potere tanto esteso sui membri della comunità, che in virtù di esso sia
concesso all'autorità pubblica di menomare lo svolgimento dell'azione individuale
sopra descritta, decidere sull'inizio o (escluso il caso di legittima pena) sul
termine della vita umana, determinare a proprio talento la maniera del suo
movimento fisico, spirituale, religioso e morale in contrasto con i personali
doveri e diritti dell'uomo, e a tale intento abolire o privare d'efficacia il
diritto naturale ai beni materiali. Dedurre tanta estensione di potere dalla
cura del bene comune vorrebbe dire travolgere il senso stesso del bene comune e
cadere nell'errore di affermare che il proprio scopo dell'uomo sulla terra è la
società, che la società è fine a se stessa, che l'uomo non ha altra vita che
l'attende fuori di quella che si termina quaggiù.
Anche l'economia nazionale, com'è frutto
dell'attività di uomini che lavorano uniti nella comunità statale, così ad
altro non mira che ad assicurare senza interrompimento le condizioni materiali,
in cui possa svilupparsi pienamente la vita individuale dei cittadini. Dove
ciò, e in modo duraturo si ottenga, un popolo sarà, a vero dire, economicamente
ricco, perché il benessere generale e, per conseguenza, il diritto personale di
tutti all'uso dei beni terreni viene in tal modo attuato conformemente
all'intento voluto dal Creatore.
Dal che, diletti figli, vi tornerà agevole
scorgere che la ricchezza economica di un popolo non consiste propriamente
nell'abbondanza dei beni, misurata secondo un computo puro e pretto materiale
del loro valore, bensì in ciò che tale abbondanza rappresenti e porga realmente
ed efficacemente la base materiale bastevole al debito sviluppo personale dei
suoi membri. Se una simile giusta distribuzione dei beni non fosse attuata o
venisse procurata solo imperfettamente, non si raggiungerebbe il vero scopo
dell'economia nazionale; giacché, per quanto soccorresse una fortunata
abbondanza di beni disponibili, il popolo, non chiamato a parteciparne, non
sarebbe economicamente ricco, ma povero. Fate invece che tale giusta
distribuzione sia effettuata realmente e in maniera durevole, e vedrete un
popolo, anche disponendo di minori beni, farsi ed essere economicamente sano.
Questi concetti fondamentali, riguardanti
la ricchezza e la povertà dei popoli, Ci sembra particolamente opportuno porre
innanzi alla vostra considerazione oggi, quando si è inclinati a misurare e
giudicare tale ricchezza e povertà con bilance e con criteri semplicemente
quantitativi, sia dello spazio, sia della ridondanza dei beni. Se invece si
pondera rettamente lo scopo dell'economia nazionale, allora esso diverrà luce
per gli sforzi degli uomini di Stato e dei popoli e li illuminerà a
incamminarsi spontaneamente per una via, che non esigerà continui gravami in
beni e in sangue, ma donerà frutti di pace e di benessere generale.
Con l'uso dei beni materiali voi stessi,
diletti figli, comprendete come viene a congiungersi il lavoro. La Rerum novaruminsegna
che due sono le proprietà del lavoro umano: esso è personale ed è necessario.
E' personale, perché si compie con l'esercizio delle particolari forze
dell'uomo: è necessario, perché senza di esso non si può procurare ciò che è
indispensabile alla vita, mantenere la quale è un dovere naturale, grave,
individuale.
Al dovere personale del lavoro imposto
dalla natura corrisponde e consegue il diritto naturale di ciascun individuo a
fare del lavoro il mezzo per provvedere alla vita propria e dei figli: tanto
altamente è ordinato per la conservazione dell'uomo l'impero della natura.
Ma notate che tale dovere e il relativo
diritto al lavoro viene imposto e concesso all'individuo in primo appello dalla
natura, e non già dalla società, come se l'uomo altro non fosse che un semplice
servo o funzionario della comunità. Dal che segue che il dovere e il diritto a
organizzare il lavoro del popolo appartengono innanzi tutto agli immediati
interessati: datori di lavoro e operai. Che se poi essi non adempiano il loro
compito o ciò non possano fare per speciali straordinarie contingenze, allora
rientra nell'ufficio dello Stato l'intervento nel campo e nella divisione e
nella distribuzione del lavoro, secondo la forma e la misura che richiede il
bene comune rettamente inteso.
Ad ogni modo, qualunque legittimo e
benefico intervento statale nel campo del lavoro vuol esser tale da salvarne e
rispettarne il carattere personale, sia in linea di massima, sia, nei limiti
del possibile, per quel che riguarda l'esecuzione. E questo avverrà, se le
norme statali non aboliscano né rendano inattuabile l'esercizio di altri
diritti e doveri ugualmente personali: quali sono il diritto al vero culto di
Dio; al matrimonio; il diritto dei coniugi, del padre e della madre a condurre
la vita coniugale e domestica; il diritto a una ragionevole libertà nella
scelta dello stato e nel seguire una vera vocazione; diritto quest'ultimo
personale, se altro mai, dello spirito dell'uomo ed eccelso, quando gli si
accostino i diritti superiori e imprescindibili di Dio e della Chiesa, come
nella scelta e nell'esercizio delle vocazioni sacerdotali e religiose.
Secondo la dottrina della Rerum novarum,
la natura stessa ha intimamente congiunto la proprietà privata con l'esistenza
dell'umana società e con la sua vera civiltà, e in grado eminente con
l'esistenza e con lo sviluppo della famiglia. Un tal vincolo appare più che
apertamente; non deve forse la proprietà privata assicurare al padre di
famiglia la sana libertà, di cui ha bisogno, per poter adempiere i doveri
assegnatigli dal Creatore, concernenti il benessere fisico, spirituale e
religioso della famiglia?
Nella famiglia la nazione trova la radice
naturale e feconda della sua grandezza e potenza. Se la proprietà privata ha da
condurre al bene della famiglia, tutte le norme pubbliche, anzitutto quelle
dello Stato che ne regolano il possesso, devono non solo rendere possibile e
conservare tale funzione - funzione nell'ordine naturale sotto certi rapporti
superiore a ogni altra - ma ancora perfezionarla sempre più. Sarebbe infatti
innaturale un vantato progresso civile, il quale - o per la sovrabbondanza di
carichi o per soverchie ingerenze immediate - rendesse vuota di senso la
proprietà privata, togliendo praticamente alla famiglia e al suo capo la
libertà di perseguire lo scopo da Dio assegnato al perfezionamento della vita
familiare.
Fra tutti i beni che possono esser oggetto
di proprietà privata nessuno è più conforme alla natura, secondo l'insegnamento
della Rerum novarum,
di quanto è il terreno, il podere, in cui abita la famiglia, e dai cui frutti
trae interamente o almeno in parte il di che vivere. Ed è nello spirito
della Rerum novarum l'affermare
che, di regola, solo quella stabilità, che si radica in un proprio podere, fa
della famiglia la cellula vitale più perfetta e feconda della società, riunendo
splendidamente con la sua progressiva coesione le generazioni presenti e
future. Se oggi il concetto e la creazione di spazi vitali è al centro delle
mete sociali e politiche, non si dovrebbe forse, avanti ogni cosa, pensare allo
spazio vitale della famiglia e liberarla dai legami di condizione, che non
permettono neppure la formazione dell'idea di un proprio casolare?
Il nostro pianeta con tanti estesi oceani
e mari e laghi, con monti e piani coperti di neve e di ghiacci eterni, con
grandi deserti e terre inospite e sterili, non è pur scarso di regioni e luoghi
vitali abbandonati al capriccio vegetativo della natura e ben confacentesi alla
coltura della mano dell'uomo, ai suoi bisogni e alle sue operazioni civili; e
più di una volta è inevitabile che alcune famiglie, di qua o di là emigrando,
si cerchino altrove una nuova patria. Allora, secondo l'insegnamento
della Rerum novarum,
va rispettato il diritto della famiglia ad uno spazio vitale. Dove questo
accadrà, l'emigrazione raggiungerà il suo scopo naturale, che spesso convalida
l'esperienza, vogliamo dire la distribuzione più favorevole degli uomini sulla
superficie terrestre, acconcia a colonie di agricoltori; superficie che Dio
creò e preparò per uso di tutti. Se le due parti, quella che concede di
lasciare il luogo natio e quella che ammette i nuovi venuti, rimarranno
lealmente sollecite di eliminare quanto potrebbe essere d'impedimento al
nascere e allo svolgersi di una verace fiducia tra il paese di emigrazione e il
paese d'immigrazione, tutti i partecipanti a tale tramutamento di luoghi e di
persone ne avranno vantaggio: le famiglie riceveranno un terreno che sarà per
loro terra patria nel vero senso della parola; le terre di densi abitanti
resteranno alleggerite e i loro popoli si creeranno nuovi amici in territori
stranieri; e gli Stati che accolgono gli emigrati guadagneranno cittadini
operosi. Così le nazioni che danno e gli Stati che ricevono, in pari gara,
contribuiranno all'incremento del benessere umano e al progresso dell'umana
cultura.
[26] Sono questi, diletti figli, i
principi, le concezioni e le norme, con cui Noi vorremmo cooperare fin da ora
alla futura organizzazione di quell'ordine nuovo, che dall'immane fermento
della presente lotta il mondo si attende e si augura che nasca, e nella pace e
nella giustizia tranquilli i popoli. Che resta a Noi, se non nello spirito di
Leone XIII e nell'intento dei suoi nobili ammonimenti e fini, esortarvi a
proseguire e promuovere l'opera, che la precedente generazione dei vostri
fratelli e delle sorelle vostre hanno con si ardimentoso animo fondata? Non si
spenga in mezzo a voi o si faccia fioca la voce insistente dei due pontefici
delle encicliche sociali, che altamente addita ai credenti nella rigenerazione
soprannaturale dell'umanità il dovere morale di cooperare all'ordinamento della
società e, in special modo della vita economica, accendendo all'azione non meno
coloro i quali a tale vita partecipano che lo Stato stesso. Non è forse ciò un
sacro dovere per ogni cristiano? Non vi sgomentino, diletti figli, le esterne
difficoltà, né vi disanimi l'ostacolo del crescente paganesimo della vita
pubblica. Non vi traggano in inganno i fabbricatori di errori e di malsane
teorie, tristi correnti non d'incremento, ma piuttosto di disfacimento e di
corrompimento della vita religiosa; correnti, le quali pretendono che,
appartenendo la redenzione all'ordine della grazia soprannaturale ed essendo
perciò esclusiva opera di Dio, non abbisogna della nostra cooperazione sulla
terra. Oh misera ignoranza dell'opera di Dio! « Dicentes enim se esse,
sapientes, stulti facti sunt» (Rm 1,22).
Quasi che la prima efficacia della grazia
non fosse di corroborare i nostri sforzi sinceri per adempiere ogni di i
comandi di Dio, come individui e come membri della società; quasi che da due
millenni non viva e perseveri nell'anima della Chiesa il senso della responsabilità
collettiva di tutti per tutti, onde furono e sono mossi gli spiriti fino
all'eroismo caritativo dei monaci agricoltori, dei liberatori di schiavi, dei
sanatori d'infermi, dei portatori di fede, di civiltà e di scienza a tutte le
età e a tutti i popoli, per creare condizioni sociali che solo valgono per
rendere a tutti possibile e agevole una vita degna dell'uomo e del cristiano.
Ma voi, consci e convinti di tale sacra responsabilità, non siate mai in fondo
all'anima vostra paghi di quella generale mediocrità pubblica in cui il comune
degli uomini non possa, se non con atti eroici di virtù, osservare i divini
precetti inviolabili sempre e in ogni caso.
Se tra il proposito e l'attuazione apparve
talvolta evidente la sproporzione; se vi furono falli, comuni del resto a ogni
umana attività; se diversità di pareri nacquero sulla via seguita o da
seguirsi, tutto ciò non ha da far cadere d'animo o rallentare il vostro passo o
suscitare lamenti o accuse; né può far dimenticare il fatto consolante che
dall'ispirato messaggio del pontefice della Rerum novarum scaturì
vivida e limpida una sorgente di spirito sociale forte, sincero, disinteressato;
una sorgente la quale, se oggi potrà venire in parte coperta da una valanga di
eventi diversi e più forti, domani, rimosse le rovine di questo uragano
mondiale, all'iniziarsi il lavoro di ricostruzione di un nuovo ordine sociale,
implorato degno di Dio e dell'uomo, infonderà nuovo gagliardo impulso e nuova
onda di rigoglio e crescimento in tutta la fioritura della cultura umana.
Custodite la nobile fiamma di spirito sociale fraterno, che, or è mezzo secolo,
riaccese nei cuori dei vostri padri la face luminosa e illuminante della parola
di Leone XIII: non lasciate né permettete che manchi d'alimento e, sfavillando
ai vostri commemorativi ossequi, muoia, spenta da una ignava, schiva e
guardinga indifferenza verso i bisogni dei più poveri tra i nostri fratelli, o
travolta nella polvere e nel fango dal turbinante soffio dello spirito
anticristiano o non cristiano. Nutritela, ravvivatela, elevatela, dilatatela
questa fiamma; portatela ovunque viene a voi un gemito di affanno, un lamento
di miseria, un grido di dolore; rinfocatela sempre nuovamente con l'ardenza di
amore attinto al Cuore del Redentore, a cui il mese che oggi si inizia è
consacrato. Andate a quel cuore divino, mite e umile, rifugio per ogni conforto
nella fatica e nel peso dell'azione: è il cuore di colui, che a ogni opera
genuina e pura, compiuta nel suo nome e nel suo spirito, in favore dei
sofferenti, degli angustiati, degli abbandonati dal mondo e dei diseredati di
ogni bene e fortuna, ha promesso l'eterna ricompensa beatificante: Voi benedetti
del Padre mio. Ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, l'avete
fatto a me!
Festa di Pentecoste del 1941
PIO PP. XII
24 dicembre 1941
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio XII nella Vigilia del natale 1941
Mercoledì, 24 dicembre 1941(1)
Nell'alba e nella luce che rifulge previa
alla festa del Santo Natale, attesa sempre con vivo anelito di gioia soave e
penetrante, mentre ogni fronte si prepara a curvarsi e ogni ginocchio a
piegarsi in adorazione davanti all'ineffabile mistero della misericordiosa
bontà di Dio, che nella sua carità infinita volle dare, quale dono più grande e
augusto, all'umanità il suo Figliuolo Unigenito; il Nostro cuore, diletti figli
e figlie, sparsi sulla faccia della terra, si dilata a voi, e, pur non obliando
la terra, si eleva e si profonda nel cielo.
La stella, indicatrice della culla del
neonato Redentore, da venti secoli ancora splende meravigliosa nel cielo della
Cristianità. Si agitino pure le genti, e le nazioni congiurino contro Dio e
contro il suo Messia (cf. Sal 2,1-2): attraverso le bufere del
mondo umano la stella non conobbe, non conosce né conoscerà tramonti; il
passato, il presente e l'avvenire sono suoi. Essa ammonisce a mai non
disperare: splende sopra i popoli, quand'anche sulla terra, come su oceano
mugghiante per tempesta, si addensino i cupi turbini, generatori di stragi e di
miserie. La sua luce è luce di conforto, di speranza, di fede incrollabile, di
vita e certezza nel trionfo finale del Redentore, che traboccherà, quale
torrente di salvezza, nella pace interiore e nella gloria per tutti quelli che,
elevati all'ordine soprannaturale della grazia, avranno ricevuto il potere di
farsi figli di Dio, perché nati da Dio.
Onde Noi, che, in questi amari tempi di
sconvolgimenti guerreschi, siamo straziati dei vostri strazi e doloranti dei
vostri dolori, Noi che viviamo come voi sotto il gravissimo incubo di un
flagello, dilaniante un terzo anno ancora l'umanità, nella vigilia di tanta
solennità amiamo di rivolgervi con commosso cuore di padre la parola, per
esortarvi a restar saldi nella fede, e per comunicarvi il conforto di quella
verace, esuberante e trasumanante speranza e certezza, che si irradiano dalla
culla del neonato Salvatore.
Per vero, diletti figli, se il nostro
occhio non mirasse più su della materia e della carne, appena è che troverebbe
qualche ragione di conforto. Diffondono, sì, le campane il lieto messaggio del
Natale, si illuminano chiese e oratori, le armonie religiose rallegrano gli
spiriti, tutto è festa e ornamento nei sacri templi; ma la umanità non cessa
dal dilaniarsi in una guerra sterminatrice. Nei sacri riti echeggia sulle
labbra della Chiesa la mirabile antifona: «Rex pacificus magnificatus est,
cuius vultum desiderat universa terra»;(2) ma
essa risuona in stridente contrasto con avvenimenti, che rombano per piani e
per monti con fracasso pieno di spavento, devastano terre e case per estese
regioni, e gettano milioni di uomini e le loro famiglie nell'infelicità, nella
miseria e nella morte. Certo, ammirevoli sono i molteplici spettacoli di
indomato valore nella difesa del diritto e del suolo natìo; di serenità nel
dolore; di anime che vivono come fiamme di olocausto per il trionfo della
verità e della giustizia. Ma pure con angoscia che Ci preme l'animo pensiamo e,
come sognando, guardiamo ai terribili scontri di armi e di sangue di quest'anno
che volge al tramonto; alla infelice sorte dei feriti e dei prigionieri; alle
sofferenze corporali e spirituali, alle stragi, alle distruzioni e rovine che
la guerra aerea porta e rovescia su grandi e popolose città, su centri e vasti
territori industriali, alle dilapidate ricchezze degli Stati, ai milioni di
gente, che l'immane conflitto e la dura violenza vengono gettando nella miseria
e nell'inedia.
E mentre il vigore e la salute di larga
parte di gioventù, che andava maturando, si vengono scuotendo per le privazioni
imposte dal presente flagello, vanno per contro salendo ad altezze vertiginose
le spese e i gravami di guerra, che, originando contrazione delle forze
produttive nel campo civile e sociale, non possono non dar fondamento alle
ansie di coloro che volgono l'occhio preoccupato verso l'avvenire. L'idea della
forza soffoca e perverte la norma del diritto. Rendete possibile e offrite porta
aperta a individui e gruppi sociali o politici di ledere i beni e la vita
altrui; lasciate che anche tutte le altre distruzioni morali turbino e
accendano l'atmosfera civile a tempesta; e voi vedrete le nozioni di bene e di
male, di diritto e d'ingiustizia perdere i loro acuti contorni, smussarsi,
confondersi e minacciare di scomparire. Chi in virtù del ministero pastorale ha
la via di penetrare nei cuori, sa e vede qual cumulo di dolori e di ansietà
inenarrabili s'aggravi e si amplifichi in molte anime, ne scemi la brama e la
gioia di lavorare e di vivere; ne soffochi gli spiriti e li renda muti e
indolenti, sospettosi e quasi senza speranza in faccia agli eventi e ai
bisogni: turbamenti d'animo che nessuno può prendere alla leggiera, se tiene a
cuore il vero bene dei popoli, e desidera promuovere un non lontano ritorno a
condizioni normali e ordinate di vita e di azione. Davanti a tale visione del
presente, nasce un'amarezza che invade il petto, tanto più in quanto non appare
oggi aperto alcun sentiero d'intesa tra le parti belligeranti, i cui reciproci
scopi e programmi di guerra sembrano essere in contrasto inconciliabile.
Quando si indagano le cause delle odierne
rovine, davanti a cui l'umanità, che le considera, resta perplessa, si ode non
di rado affermare che il cristianesimo è venuto meno alla sua missione. Da chi
e donde viene siffatta accusa? Forse da quegli apostoli, gloria di Cristo, da
quegli eroici zelatori della fede e della giustizia, da quei pastori e
sacerdoti, araldi del cristianesimo, i quali attraverso persecuzioni e martirii
ingentilirono la barbarie e la prostrarono devota all'altare di Cristo,
iniziarono la civiltà cristiana, salvarono le reliquie della sapienza e
dell'arte di Atene e di Roma, adunarono i popoli nel nome cristiano, diffusero
il sapere e la virtù, elevarono la croce sopra i pinnacoli aerei e le volte
delle cattedrali, immagini del cielo, monumenti di fede e di pietà, che ancora
ergono il capo venerando fra le rovine dell'Europa? No: il Cristianesimo, la
cui forza deriva da Colui che è via, verità e vita, e sta e starà con esso fino
alla consumazione dei secoli, non è venuto meno alla sua missione; ma gli
uomini si sono ribellati al Cristianesimo vero e fedele a Cristo e alla sua
dottrina; si sono foggiati un cristianesimo a loro talento, un nuovo idolo che
non salva, che non ripugna alle passioni della concupiscenza della carne,
all'avidità dell'oro e dell'argento che affascina l'occhio, alla superbia della
vita; una nuova religione senz'anima o un'anima senza religione, una maschera
di morto cristianesimo, senza lo spirito di Cristo; e hanno proclamato che il
Cristianesimo è venuto meno alla sua missione!
Scaviamo in fondo alla coscienza della
società moderna, ricerchiamo la radice del male: dove essa alligna? Senza dubbio
anche qui non vogliamo tacere la lode dovuta alla saggezza di quei Governanti,
che o sempre favorirono o vollero e seppero rimettere in onore, con vantaggio
del popolo, i valori della civiltà cristiana nei felici rapporti fra Chiesa e
Stato, nella tutela della santità del matrimonio, nella educazione religiosa
della gioventù. Ma non possiamo chiudere gli occhi alla triste visione del
progressivo scristianamento individuale e sociale, che dalla rilassatezza del
costume è trapassato all'indebolimento e all'aperta negazione di verità e di
forze, destinate a illuminare gl'intelletti sul bene e sul male, a corroborare
la vita familiare, la vita privata, la vita statale e pubblica. Un'anemia
religiosa, quasi contagio che si diffonda, ha così colpito molti popoli di
Europa e del mondo e fatto nell'anime un tal vuoto morale, che nessuna
rigovernatura religiosa o mitologia nazionale e internazionale varrebbe a
colmarlo. Con parole e con azioni e con provvedimenti, da decenni e secoli, che
mai di meglio o di peggio si seppe fare se non strappare dai cuori degli
uomini, dalla puerizia alla vecchiezza, la fede in Dio, Creatore e Padre di
tutti, rimuneratore del bene e vindice del male, snaturando l'educazione e
l'istruzione, combattendo e opprimendo con ogni arte e mezzo, con la
diffusione della parola e della stampa, con l'abuso della scienza e del potere,
la religione e la Chiesa di Cristo?
Travolto lo spirito nel baratro morale con
lo straniarsi da Dio e dalla pratica cristiana, altro non rimaneva se non che
pensieri, propositi, avviamenti, stima delle cose, azione e lavoro degli uomini
si rivolgessero e mirassero al mondo materiale, affannandosi e sudando per
dilatarsi nello spazio, per crescere più che mai oltre ogni limite nella
conquista delle ricchezze e della potenza, per gareggiare di velocità nel
produrre più e meglio ogni cosa che l'avanzamento o il progresso materiale
pareva richiedere. Di qui, nella politica, il prevalere di un impulso sfrenato
verso l'espansione e il mero credito politico incurante della morale;
nell'economia il dominare delle grandi e gigantesche imprese e associazioni;
nella vita sociale il riversarsi e pigiarsi delle schiere di popolo in gravosa
sovrabbondanza nelle grandi città e nei centri d'industria e di commercio, con
quella instabilità che consegue e accompagna una moltitudine di uomini, i quali
mutano casa e residenza, paese e mestiere, passioni e amicizie.
Ne nacque allora che i rapporti reciproci
della vita sociale presero un carattere puramente fisico e meccanico. Con
dispregio di ogni ragionevole ritegno e riguardo l'impero della costrizione
esterna, il nudo possesso del potere si sovrappose alle norme dell'ordine,
reggitore della convivenza umana, le quali, emanate da Dio, stabiliscono quali
relazioni naturali e soprannaturali intercorrano fra il diritto e l'amore verso
gl'individui e la società. La maestà e la dignità della persona umana e delle
particolari società venne mortificata, avvilita e soppressa dall'idea della
forza che crea il diritto; la proprietà privata divenne per gli uni un potere
diretto verso lo sfruttamento dell'opera altrui, negli altri generò gelosia,
insofferenza e odio; e l'organizzazione, che ne seguiva, si convertì in forte
arma di lotta per far prevalere interessi di parte. In alcuni Paesi, una concezione
dello Stato atea o anticristiana con i suoi vasti tentacoli avvinse a sé
talmente l'individuo da quasi spogliarlo d'indipendenza, non meno nella vita
privata che nella pubblica.
Chi potrà oggi meravigliarsi se tale
radicale opposizione ai principi della cristiana dottrina venne infine a
tramutarsi in ardente cozzo di tensioni interne ed esterne, così da condurre a
sterminio di vite umane e distruzione di beni, quale lo lediamo e a cui
assistiamo con profonda pena? Funesta conseguenza e frutto delle condizioni
sociali ora descritte, la guerra, lungi dall'arrestarne l'influsso e lo
svolgimento, lo promuove, lo accelera e amplia, con tanto maggior rovina,
quanto più essa dura, rendendo la catastrofe ancor più generale.
Dalla Nostra parola contro il materialismo
dell'ultimo secolo e del tempo presente male argomenterebbe chi ne deducesse
una condanna del progresso tecnico. No; Noi non condanniamo ciò che è dono di
Dio, il quale, come ci fa sorgere il pane dalle zolle della terra, nelle
viscere più profonde del suolo nei giorni della creazione del mondo nascose
tesori di fuoco, di metalli, di pietre preziose da scavarsi dalla mano
dell'uomo per i suoi bisogni, per le sue opere, per il suo progresso. La
Chiesa, madre di tante Università d'Europa, che ancora esalta e aduna i più
arditi maestri delle scienze, scrutatori della natura, non ignora però che di
ogni bene e della stessa libertà del volere si può far un uso degno di lode e
di premio ovvero di biasimo e di condanna. Così è avvenuto che lo spirito e la
tendenza, con cui fu spesso usato il progresso tecnico, fanno sì che, all'ora
che volge, la tecnica debba espiare il suo errore ed esser quasi punitrice di
se stessa, creando strumenti di rovina, che distruggono oggi ciò che ieri essa
ha edificato.
Di fronte alla vastità del disastro,
originato dagli errori indicati, non si offre altro rimedio, se non il ritorno
agli altari, a' pie' dei quali innumerevoli generazioni di credenti attingevano
già la benedizione e l'energia morale per il compimento dei propri doveri; alla
fede, che illuminava individui e società e insegnava i diritti e i doveri
spettanti a ciascuno; alle sagge e incrollabili norme di un ordine sociale, le
quali nel terreno nazionale, come in quello internazionale, ergono un'efficace
barriera contro l'abuso della libertà, non altrimenti che contro l'abuso del
potere. Ma il richiamo a queste benefiche sorgenti ha da risonare alto,
persistente, universale, nell'ora in cui il vecchio ordinamento sarà per
scomparire e cedere il passo e il posto a un nuovo.
La futura ricostruzione potrà presentare e
dare preziosa facoltà di promuovere il bene, non scevra anche di pericoli di
cadere in errori, e con gli errori favorire il male; ed esigerà serietà
prudenti e matura riflessione, non solo per la gigantesca arduità dell'opera,
ma ancora per le gravi conseguenze che, qualora fallisse, cagionerebbe nel
campo materiale e spirituale; esigerà intelletti di larghe vedute e volontà di
fermi propositi, uomini coraggiosi e operosi, ma, sopra tutto e avanti tutto,
coscienze, le quali nei disegni, nelle deliberazioni e nelle azioni siano
animate e mosse e sostenute da un vivo senso di responsabilità, e non rifuggano
dall'inchinarsi davanti alle sante leggi di Dio; perché, se con la vigoria
plasmatrice nell'ordine materiale non si accoppierà somma ponderatezza e
sincero proposito nell'ordine morale, si verificherà senza dubbio la sentenza
di S. Agostino: «Bene currunt, sed in via non currunt. Quanto plus currunt,
plus errant, quia a via recedunt».(3)
Né sarebbe la prima volta che uomini, i
quali stanno nell'aspettazione di cingersi del lauro di vittorie guerresche,
sognassero di dare al mondo un nuovo ordinamento, additando nuove vie, a loro
parere, conducenti al benessere, alla prosperità e al progresso. Ma ogni
qualvolta cedettero alla tentazione d'imporre la loro costruzione contro il
dettame della ragione, della moderazione, della giustizia e della nobile
umanità, si trovarono caduti e stupiti a contemplare i ruderi di speranze
deluse e di progetti abortiti. Onde la storia insegna che i trattati di pace,
stipulati con spirito e condizioni contrastanti sia con i dettami morali sia
con una genuina saggezza politica, mai non ebbero vita, se non grama e breve,
mettendo così a nudo e testimoniando un errore di calcolo, umano senza dubbio,
ma non per questo meno esiziale.
Ora le rovine di questa guerra sono troppo
ingenti, da non dovervisi aggiungere anche quelle di una pace frustrata e
delusa; e perciò ad evitare tanta sciagura, conviene che con sincerità di
volere e di energia, con proposito di generoso contributo, vi cooperino, non
solo questo o quel partito, non solo questo o quel popolo, ma tutti i popoli,
anzi l'intera umanità. È un'intrapresa universale di bene comune, che richiede
la collaborazione della Cristianità, per gli aspetti religiosi e morali del
nuovo edificio che si vuol costruire.
Facciamo quindi uso di un Nostro diritto
o, meglio, adempiamo un Nostro dovere, se oggi, alla vigilia del Santo Natale,
divina aurora di speranza e di pace per il mondo, con l'autorità del Nostro
ministero apostolico e il caldo incitamento del Nostro cuore, richiamiamo
l'attenzione e la meditazione dell'universo intero sui pericoli che insidiano e
minacciano una pace, la quale sia acconcia base di un vero nuovo ordinamento e
risponda all'aspettazione e ai voti dei popoli per un più tranquillo avvenire.
Tale nuovo ordinamento, che tutti i popoli
anelano di veder attuato, dopo le prove e le rovine di questa guerra, ha da
essere innalzato sulla rupe incrollabile e immutabile della legge morale,
manifestata dal Creatore stesso per mezzo dell'ordine naturale e da Lui
scolpita nei cuori degli uomini con caratteri incancellabili; legge morale, la
cui osservanza deve venir inculcata e promossa dall'opinione pubblica di tutte
le Nazioni e di tutti gli Stati con tale unanimità di voce e di forza, che
nessuno possa osare di porla in dubbio o attenuarne il vincolo obbligante.
Quale faro splendente, essa deve coi raggi
dei suoi principi dirigere il corso dell'operosità degli uomini e degli Stati,
i quali avranno da seguirne le ammonitrici, salutari e proficue segnalazioni,
se non vorranno condannare alla bufera e al naufragio ogni lavoro e sforzo per
stabilire un nuovo ordinamento. Riassumendo pertanto e integrando quel che in
altre occasioni fu da Noi esposto, insistiamo anche ora su alcuni presupposti
essenziali di un ordine internazionale, che, assicurando a tutti i popoli una
pace giusta e duratura, sia feconda di benessere e di prosperità.
1. Nel campo di un nuovo ordinamento
fondato sui principi morali, non vi è posto per la lesione della libertà,
dell'integrità e della sicurezza di altre Nazioni, qualunque sia la loro
estensione territoriale o la loro capacità di difesa. Se è inevitabile che i
grandi Stati, per le loro maggiori possibilità e la loro potenza, traccino il
cammino per la costituzione di gruppi economici fra essi e le azioni più
piccole e deboli; è nondimeno incontestabile - come per tutti, nell'ambito
dell'interesse generale - il diritto di queste al rispetto della loro libertà
nel campo politico, alla efficace custodia di quella neutralità nelle contese
fra gli Stati, che loro spetta secondo il gius naturale e delle genti, alla
tutela del loro sviluppo economico, giacchè soltanto in tal guisa potranno
conseguire adeguatamente il bene comune, il benessere materiale e spirituale
del proprio popolo.
2. Nel campo di un nuovo ordinamento
fondato sui principi morali, non vi è posto per la oppressione aperta o subdola
delle peculiarità culturali e linguistiche delle minoranze nazionali, per
l'impedimento e la contrazione delle loro capacità economiche, per la
limitazione o l'abolizione della loro naturale fecondità. Quanto più
coscienziosamente la competente autorità dello Stato rispetta i diritti delle
minoranze, tanto più sicuramente ed efficacemente può esigere dai loro membri
il leale compimento dei doveri civili, comuni agli altri cittadini.
3. Nel campo di un nuovo ordinamento
fondato sui principi morali, non vi è posto per i ristretti calcoli egoistici,
tendenti ad accaparrarsi le fonti economiche e le materie di uso comune, in
maniera che le Nazioni, meno favorite dalla natura, ne restino escluse. Al qual
riguardo Ci è di somma consolazione il vedere affermarsi la necessità di una
partecipazione di tutti ai beni della terra anche presso quelle Nazioni, che
nell'attuazione di questo principio apparterrebbero alla categoria di coloro
«che danno» e non di quelli «che ricevono». Ma è conforme a equità che una
soluzione di tale questione, decisiva per l'economia del mondo, avvenga
metodicamente e progressivamente con le necessarie garanzie, e tragga
ammaestramento dalle mancanze e dalle omissioni del passato. Se nella futura
pace non si venisse ad affrontare coraggiosamente questo punto, rimarrebbe
nelle relazioni tra i popoli una profonda e vasta radice germogliante amari
contrasti ed esasperate gelosie, che finirebbero col condurre a nuovi
conflitti. Decorre però osservare come la soddisfacente soluzione di questo
problema strettamente vada connessa con un altro cardine fondamentale di un
nuovo ordinamento, del quale parliamo nel punto seguente.
4. Nel campo di un nuovo ordinamento
fondato sui principi morali, non vi è posto - una volta eliminati i più
pericolosi focolai di conflitti armati - per una guerra totale né per una
sfrenata corsa agli armamenti. Non si deve permettere che la sciagura di una
guerra mondiale con le sue rovine economiche e sociali e le sue aberrazioni e
perturbazioni morali si rovesci per la terza volta sopra la umanità. La quale
perché venga tutelata lungi da tale flagello, è necessario che con serietà e
onestà si proceda a una limitazione progressiva e adeguata degli armamenti. Lo
squilibrio tra un esagerato armamento degli Stati potenti e il deficiente
armamento dei deboli crea un pericolo per la conservazione della tranquillità e
della pace dei popoli, e consiglia di scendere a un ampio e proporzionato
limite nella fabbricazione e nel possesso di armi offensive.
Conforme poi alla misura, in cui il
disarmo venga attuato, sono da stabilirsi mezzi appropriati, onorevoli per
tutti ed efficaci, per ridonare alla norma Pacta sunt servanda, «i
patti devono essere osservati», la funzione vitale e morale, che le spetta
nelle relazioni giuridiche fra gli Stati. Tale norma, che nel passato ha subìto
crisi preoccupanti e innegabili infrazioni, ha trovato contro di sé una quasi
insanabile sfiducia tra i vari popoli e i rispettivi reggitori. Perché la fiducia
reciproca rinasca devono sorgere istituzioni, le quali, acquistandosi il
generale rispetto, si dedichino al nobilissimo ufficio, sia di garantire il
sincero adempimento dei trattati, sia di promuoverne, secondo i principi di
diritto e di equità, opportune correzioni o revisioni.
Non Ci nascondiamo il cumulo di difficoltà
da superarsi, e la quasi sovrumana forza di buona volontà richiesta a tutte le
parti, perché convengano a dare felice soluzione alla doppia impresa qui
tracciata. Ma questo lavoro comune è talmente essenziale per una pace duratura,
che nulla deve rattenere gli uomini di Stato responsabili dall'intraprenderlo e
cooperarvi con le forze di un buon volere, il quale, guardando al bene futuro,
vinca i dolorosi ricordi di tentativi non riusciti nel passato, e non si lasci
atterrire dalla conoscenza del gigantesco vigore, che si domanda per tale
opera.
5. Nel campo di un nuovo ordinamento
fondato sui principi morali, non vi è posto per la persecuzione della religione
edella Chiesa. Da una fede viva in un Dio personale trascendente si sprigiona
una schietta e resistente vigoria morale che informa tutto il corso della vita;
perché la fede non è solo una virtù ma la porta divina per la quale entrano nel
tempio dell'anima tutte le virtù, e si costituisce quel carattere forte e
tenace che non vacilla nei cimenti della ragione e della giustizia. Ciò vale
sempre; ma molto più ha da splendere quando così dall'uomo di Stato, come
dall'ultimo dei cittadini si esige il massimo di coraggio e di energia morale
per ricostruire una nuova Europa e un nuovo mondo sulle rovine, che il
conflitto mondiale con la sua violenza, con l'odio e la scissione degli animi
ha accumulate. Quanto alla questione sociale in particolare, che al finir della
guerra si presenterà più acuta, i Nostri Predecessori e anche Noi stessi
abbiamo segnato norme di soluzione; le quali però convien considerare che
potranno seguirsi nella loro interezza e dare pieno frutto solo se uomini di
Stato e popoli, datori di lavoro e operai, siano animati dalla fede in un Dio
personale, legislatore e vindice, a cui devono rispondere delle loro azioni.
Perché, mentre l'incredulità, che si accampa contro Dio, ordinatore
dell'universo, è la più pericolosa nemica di un giusto ordine nuovo, ogni uomo,
invece, credente in Dio ne è un potente fautore e paladino. Chi ha fede in
Cristo, nella sua divinità, nella sua legge, nella sua opera di amore e di
fratellanza fra gli uomini, porterà elementi particolarmente preziosi alla
ricostruzione sociale; a maggior ragione, più ve ne porteranno gli uomini di
Stato, se si dimostreranno pronti ad aprire largamente le porte e spianare il
cammino alla Chiesa di Cristo, affinché, libera e senza intralci, mettendo le
sue soprannaturali energie a servigio dell'intesa tra i popoli e della pace,
possa cooperare col suo zelo e col suo amore all'immenso lavoro di risanare le
ferite della guerra.
Ci riesce perciò inspiegabile come in
alcune regioni disposizioni molteplici attraversino la via al messaggio della
fede cristiana, mentre concedono ampio e libero passo a una propaganda che la
combatte. Sottraggono la gioventù alla benefica influenza della famiglia
cristiana e la estraniano dalla Chiesa; la educano in uno spirito avverso a
Cristo, instillandovi concezioni, massime e pratiche anticristiane; rendono
ardua e turbata l'opera della Chiesa nella cura delle anime e nelle azioni di
beneficenza; disconoscono e rigettano il suo morale influsso sull'individuo e
la società: determinazioni tutte che lungi dall'essere state mitigate o abolite
nel corso della guerra, sono andate sotto non pochi riguardi inasprendosi. Che
tutto questo, e altro ancora, possa essere continuato tra le sofferenze
dell'ora presente è un triste segno dello spirito con cui i nemici della Chiesa
impongono ai fedeli, in mezzo a tutti gli altri non lievi sacrifici, anche il
peso angoscioso di un'ansia d'amarezza, gravante sulle coscienze.
Noi amiamo, Ce n'è testimonio Dio, con
uguale affetto tutti i popoli senza alcuna eccezione; e per evitare anche solo
l'apparenza di essere mossi da spirito di parte, Ci siamo imposti finora il
massimo riserbo; ma le disposizioni contro la Chiesa e gli scopi, che esse
perseguano, sono tali da sentirci obbligati in nome della verità a pronunziare
una parola, anche perché non ne nasca, per disavventura, smarrimento tra i
fedeli.
Noi guardiamo oggi, diletti figli,
all'Uomo-Dio, nato in una grotta per risollevare l'uomo a quella grandezza,
dond'era caduto per sua colpa, per ricollocarlo sul trono di libertà, di
giustizia e d'onore, che i secoli degli dei falsi gli avevano negato. Il
fondamento di quel trono sarà il Calvario; il suo ornamento non sarà l'oro o
l'argento, ma il sangue di Cristo, sangue divino che da venti secoli scorre sul
mondo e imporpora le gote della sua Sposa, la Chiesa, e, purificando,
consacrando, santificando, glorificando i suoi figli, diventa candore di cielo.
O Roma cristiana, quel sangue è la tua
vita: per quel sangue tu sei grande e illumini della tua grandezza anche i
ruderi e le rovine della tua grandezza pagana, e purifichi e consacri i codici
della sapienza giuridica dei pretori e dei Cesari. Tu sei madre di una
giustizia più alta e più umana, che onora te, il tuo seggio e chi ti ascolta.
Tu sei faro di civiltà, e la civile Europa e il mondo ti devono quanto di più sacro
e di più santo, quanto di più saggio e di più onesto esalta i popoli e fa bella
la loro storia. Tu sei madre di carità: i tuoi fasti, i tuoi monumenti, i tuoi
ospizi, i tuoi monasteri e i tuoi conventi, i tuoi eroi e le tue eroine, i tuoi
araldi e i tuoi missionari, le tue età e i tuoi secoli con le loro scuole e le
loro università testimoniano i trionfi della tua carità, che tutto
abbraccia, tutto soffre, tutto spera, tutto opera per farsi tutto a tutti,
tutti confortare e sollevare, tutti sanare e chiamare alla libertà donata
all'uomo da Cristo, e tranquillare tutti in quella pace, che affratella i
popoli, e di tutti gli uomini, sotto qualunque cielo, qualunque lingua o
costume li distingua, fa una sola famiglia, e del mondo una patria comune.
Da questa Roma, centro, rocca e maestra
del Cristianesimo, città più per Cristo che per i Cesari eterna nel tempo, Noi,
mossi dal desiderio ardente e vivissimo del bene dei singoli popoli e
dell'intera umanità, a tutti rivolgiamo la Nostra voce, pregando e scongiurando
che non tardi il giorno che in tutti i luoghi, dove oggi l'ostilità contro Dio
e Cristo trascina gli uomini alla rovina temporale ed eterna, prevalgano
maggiori conoscenze religiose e nuovi propositi; il giorno, in cui sulla culla
del nuovo ordinamento dei popoli risplenda la stella di Betlemme, annunziatrice
di un nuovo spirito che muova a cantare con gli angeli: Gloria in
excelsis Deo, e a proclamare, come dono alfine largito dal cielo, a tutte
le genti: Pax hominibus bonae voluntatis. Spuntata l'aurora di quel
giorno, con qual gaudio Nazioni e Reggitori, sgombro l'animo dai timori di
insidie e di riprese di conflitti, trasformeranno le spade, laceratrici d'umani
petti, in aratri, solcanti, al sole della benedizione divina, il fecondo seno
della terra, per strapparle un pane, bagnato sì di sudore, ma non più di sangue
e di lacrime!
In tale attesa e con questa anelante
preghiera sulle labbra, mandiamo il Nostro saluto e la benedizione Nostra a
tutti i Nostri figli dell'universo intero. Scenda la Nostra benedizione più
larga su quelli - sacerdoti, religiosi e laici - che soffrono pene e angustie
per la loro fede: scenda anche su quelli che, pur non appartenendo al corpo
visibile della Chiesa cattolica, sono a Noi vicini per la fede in Dio e in Gesù
Cristo, e con Noi concordano sopra l'ordinamento e gli scopi fondamentali della
pace; scenda con particolare palpito d'affezione su quanti gemono nella
tristezza, nella dura ambascia dei travagli di quest'ora. Sia scudo a quanti
militano sotto le armi; farmaco ai malati e ai feriti; conforto ai prigionieri,
agli espulsi dalla terra natìa, ai lontani dal domestico focolare, ai deportati
in terre straniere, ai milioni di miseri che lottano a ogni ora contro gli
spaventosi morsi della fame. Sia balsamo a ogni dolore e sventura; sia
sostegno e consolazione a tutti i miseri e bisognosi i quali aspettano una
parola amica, che versi nei loro cuori forza, coraggio, dolcezza di compassione
e di aiuto fraterno. Riposi infine la Nostra benedizione su quelle anime e
quelle mani pietose, che con inesauribile generoso sacrificio Ci hanno dato di
che potere, sopra le strettezze dei Nostri mezzi, asciugare le lacrime, lenire
la povertà di molti, specialmente dei più poveri e derelitti tra le vittime
della guerra, facendo in tal modo sperimentare come la bontà e benignità di
Dio, la cui somma e ineffabile rivelazione è il Bambino del presepe che della
sua povertà volle farci ricchi, mai non cessano, per volger di tempi e
sciagure, di esser vive e operanti nella Chiesa.
A tutti impartiamo con profondo amore
paterno dalla pienezza del Nostro cuore la Benedizione Apostolica.
(1) PIO
PP. XII, Radiomessaggio Nell'alba e nella luce nella vigilia
del Natale 1941, [A tutti i popoli del mondo], 24 dicembre 1941:AAS 34(1942),
pp, 10-21.
Superare le degenerazioni e le involuzioni
della nostra civiltà riscoprendo i valori evangelici su cui fondare un nuovo
ordine mondiale.
(2) In
Nativitate Domini, in I Vesp., antiph. 1.
(3) Sermo
141, c. 4: PL 83, 777.
******************************************
1942
24 dicembre 1942
Radiomessaggio del papa
Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, in occasione della Vigilia
del Natale 1942
Giovedì, 24 dicembre 1942(1)
Il Santo Natale e la umanità dolorante
Con sempre nuova freschezza di letizia e
di pietà, diletti figli dell'universo intero, ogni anno al ricorrere del Santo
Natale, risuona dal presepe di Betlemme all'orecchio dei cristiani,
ripercuotendosi dolcemente nei loro cuori, il messaggio di Gesù, Luce in mezzo
alle tenebre; un messaggio che illumina con lo splendore di celestiali verità
un mondo oscurato da tragici errori, infonde una gioia esuberante e fiduciosa
ad un'umanità, angosciata da profonda e amara tristezza, proclama la libertà ai
figli d'Adamo, costretti nelle catene del peccato e della colpa, promette
misericordia, amore, pace alle schiere infinite dei sofferenti e tribolati, che
vedono scomparsa la loro felicità e spezzate le loro energie nella bufera di
lotta e di odio dei nostri giorni burrascosi.
E i sacri bronzi, annunziatori di tale
messaggio in tutti i continenti, non pur ricordano il dono divino, fatto
all'umanità, negli inizi dell'età cristiana; ma annunziano e proclamano anche una
consolante realtà presente, realtà come eternamente giovane, così sempre viva e
vivificante; realtà della «luce vera, la quale illumina ogni uomo, che viene in
questo mondo» e non conosce tramonto. L'Eterno Verbo, via, verità e vita,
nascendo nello squallore di una grotta e nobilitando in tal modo e santificando
la povertà, così dava inizio alla sua missione di dottrina, di salute e di
redenzione del genere umano, e diceva e consacrava una parola, che è ancor oggi
la parola di vita eterna, valevole a risolvere i quesiti più tormentosi,
insoluti e insolubili da chi vi porti vedute e mezzi effimeri e puramente
umani; quesiti i quali si affacciano sanguinanti, esigendo imperiosamente una
risposta, al pensiero e al sentimento di una umanità amareggiata ed esacerbata.
Il motto «Misereor super turbam» è per Noi
una consegna sacra, inviolabile, valida e impellente in tutti i tempi e in
tutte le situazioni umane, com'era la divisa di Gesù; e la Chiesa rinnegherebbe
se stessa, cessando di essere madre, se si rendesse sorda al grido angoscioso e
filiale, che tutte le classi dell'umanità fanno arrivare al suo orecchio. Essa
non intende di prender partito per l'una o l'altra delle forme particolari e
concrete, con le quali singoli popoli e Stati tendono a risolvere i problemi
giganteschi dell'assetto interno e della collaborazione internazionale, quando
esse rispettano la legge divina; ma d'altra parte, «colonna e base della
verità» (1 Tm 3,15) e custode, per volontà di Dio e per missione di
Cristo, dell'ordine naturale e soprannaturale, la Chiesa non può rinunziare a
proclamare davanti ai suoi figli e davanti all'universo intero le inconcusse
fondamentali norme, preservandole da ogni travolgimento, caligine,
inquinamento, falsa interpretazione ed errore; tanto più che dalla loro
osservanza, e non semplicemente dallo sforzo di una volontà nobile e
ardimentosa, dipende la fermezza finale di qualsiasi nuovo ordine nazionale e
internazionale, invocato con cocente anelito da tutti i popoli. Popoli, di cui
conosciamo le doti di valore e di sacrificio, ma anche le angustie e i dolori,
e ai quali tutti, senza alcuna eccezione, in quest'ora d'indicibili prove e
contrasti, Ci sentiamo legati da profondo e imparziale e imperturbabile amore e
da immensa brama di portare loro ogni sollievo e soccorso che in qualsiasi modo
sia in Nostro potere.
Rapporti internazionali e ordine interno
delle nazioni
L'ultimo Nostro Messaggio natalizio
esponeva i principi, suggeriti dal pensiero cristiano, per stabilire un ordine
di convivenza e collaborazione internazionale, conforme alle norme divine. Oggi
vogliamo soffermarCi, sicuri del consenso e dell'interessamento di tutti gli
onesti, con cura particolare e uguale imparzialità sulle norme fondamentali
dell'ordine interno degli Stati e dei popoli. Rapporti internazionali e ordine
interno sono intimamente connessi, essendo l'equilibrio e l'armonia tra le
Nazioni dipendenti dall'interno equilibrio e dalla interna maturità dei singoli
Stati nel campo materiale, sociale e intellettuale. Né un solido e imperturbato
fronte di pace verso l'esterno risulta possibile di fatto ad attuarsi senza un
fronte di pace nell'interno, che ispiri fiducia. Solo, quindi, l'aspirazione
verso una pace integrale nei due campi varrà a liberare i popoli dal crudele
incubo della guerra, a diminuire o superare gradatamente le cause materiali e
psicologiche di nuovi squilibri e sconvolgimenti.
Duplice elemento della pace nella vita
sociale
Ogni convivenza sociale, degna di tal
nome, come trae origine dalla volontà di pace, così tende alla pace; a quella
tranquilla convivenza nell'ordine in cui S. Tommaso, facendo eco al noto detto
di S. Agostino,(2) vede
l'essenza della pace. Due primordiali elementi reggono quindi la vita sociale:
convivenza nell'ordine, convivenza nella tranquillità.
I. Convivenza nell'ordine
L'ordine, base della vita consociata di uomini,
di esseri cioè, intellettuali e morali, che tendono ad attuare uno scopo
consentaneo alla loro natura, non è una mera estrinseca connessione di parti
numericamente diverse; è piuttosto, e ha da essere, tendenza e attuazione
sempre più perfetta di una unità interiore, ciò che non esclude le differenze,
realmente fondate, e sanzionate dalla volontà del Creatore o da norme
soprannaturali.
Una chiara intelligenza dei fondamenti
genuini di ogni vita sociale ha un'importanza capitale oggi più che mai, mentre
l'umanità, intossicata dalla virulenza di errori e traviamenti sociali,
tormentata dalla febbre della discordia di desideri, dottrine e intenti, si
dibatte angosciosamente nel disordine, da essa stessa creato, e risente gli
effetti della forza distruttrice di idee sociali erronee, le quali dimenticano
le norme di Dio o sono ad esse contrarie. E poiché il disordine non può essere
superato se non con un ordine, che non sia meramente forzato e fittizio (non
altrimenti che l'oscurità coi suoi deprimenti e paurosi effetti non può essere
bandita se non dalla luce, e non da fuochi fatui); la salvezza, il rinnovamento
e un progressivo miglioramento non può aspettarsi e originarsi se non da un
ritorno di larghi e influenti ceti alla retta concezione sociale; un ritorno
che richiede una straordinaria grazia di Dio e una volontà incrollabile, pronta
e presta al sacrificio, degli animi buoni e lungimiranti. Da questi ceti più
influenti e più aperti per penetrare e ponderare la bellezza attraente delle
giuste norme sociali, passerà e entrerà poi nelle moltitudini la convinzione
della origine vera, divina e spirituale, della vita sociale, spianando in tal
modo la via al risveglio, all'incremento e al consolidamento di quelle
concezioni morali, senza cui anche le più orgogliose attuazioni
rappresenteranno una Babele, i cui abitanti, se pure hanno mura comuni, parlano
lingue diverse e contrastanti.
Iddio prima causa ed ultimo fondamento
della vita individuale e sociale
Dalla vita individuale e sociale conviene
ascendere a Dio, Prima Causa e ultimo fondamento, come Creatore della prima
società coniugale, fonte della società familiare, della società dei popoli e
delle nazioni. Rispecchiando pur imperfettamente il suo Esemplare, Dio Uno e
Trino, che col mistero dell'Incarnazione redense ed innalzò la natura umana, la
vita consociata, nel suo ideale e nel suo fine, possiede al lume della ragione
e della rivelazione un'autorità morale ed una assolutezza, travalicante ogni
mutar di tempi; e una forza di attrazione, la quale, lungi dall'esser
mortificata e scemata da delusioni, errori, insuccessi, muove irresistibilmente
gli spiriti più nobili e più fedeli al Signore a riprendere, con rinnovata
energia, con nuove conoscenze, con nuovi studi, mezzi e metodi, ciò che in
altri tempi e in altre circostanze fu tentato invano.
Sviluppo e perfezionamento della persona
umana
Origine e scopo essenziale della vita
sociale vuol essere la conservazione, lo sviluppo e il perfezionamento della
persona umana, aiutandola ad attuare rettamente le norme e i valori della
religione e della cultura, segnati dal Creatore a ciascun uomo e a tutta
l'umanità, sia nel suo insieme, sia nelle sue naturali ramificazioni.
Una dottrina o costruzione sociale, che
rinneghi tale interna, essenziale connessione con Dio di tutto ciò che riguarda
l'uomo, o ne prescinda, segue falso cammino; e mentre costruisce con una mano,
prepara con l'altra i mezzi, che presto o tardi insidieranno e distruggeranno
l'opera. E quando, misconoscendo il rispetto dovuto alla persona e alla vita a
lei propria, non le conceda alcun posto nei suoi ordinamenti, nell'attività
legislativa ed esecutiva, lungi dal servire la società, la danneggia; lungi dal
promuovere e animare il pensiero sociale e attuarne le aspettative e le
speranze, le toglie ogni valore intrinseco, servendosene come di frase
utilitaria, la quale incontra in ceti sempre più numerosi risoluta e franca
ripulsa.
Se la vita sociale importa unità
interiore, non esclude però le differenze, cui suffragano la realtà e la
natura. Ma quando si tiene fermo al supremo regolatore di tutto ciò che
riguarda l'uomo, Dio, le somiglianze non meno che le differenze degli uomini
trovano il posto conveniente nell'ordine assoluto dell'essere, dei valori, e
quindi anche della moralità. Scosso invece tale fondamento, si apre tra i vari
campi della cultura una pericolosa discontinuità, appare una incertezza e
labilità di contorni, di limiti e di valori, talché solo meri fattori esterni,
e spesso ciechi istinti, vengono poi a determinare, secondo la dominante
tendenza del giorno, a chi spetti il predominio dell'uno o dell'altro
indirizzo.
Alla dannosa economia dei passati decenni,
durante i quali ogni vita civile venne subordinata allo stimolo del guadagno,
succede ora una non meno dannosa concezione, la quale, mentre guarda tutto e
tutti sotto l'aspetto politico, esclude ogni considerazione etica e religiosa.
Travisamento e traviamento fatali, pregni di conseguenze imprevedibili per la
vita sociale, la quale mai non è più vicina alla perdita delle sue più nobili
prerogative di quando s'illude di poter rinnegare o dimenticare impunemente
l'eterna fonte della sua dignità: Dio.
La ragione, illuminata dalla fede, assegna
alle singole persone e particolari società nell'organizzazione sociale un posto
fisso e nobile; e sa, per parlare solo del più importante, che tutta l'attività
dello Stato, politica ed economica serve per l'attuazione duratura del bene
comune; cioè, di quelle esterne condizioni, le quali sono necessarie
all'insieme dei cittadini per lo sviluppo delle loro qualità e dei loro uffici,
della loro vita materiale, intellettuale e religiosa, in quanto, da un lato, le
forze e le energie della famiglia e di altri organismi, a cui spetta una
naturale precedenza, non bastano, e, dall'altro, la volontà salvifica di Dio
non abbia determinata nella Chiesa un'altra universale società a servizio della
persona umana e dell'attuazione dei suoi fini religiosi.
In una concezione sociale, pervasa e
sanzionata dal pensiero religioso, l'operosità dell'economia e di tutti gli
altri campi della cultura rappresenta una universale nobilissima fucina di
attività, ricchissima nella sua varietà, coerente nella sua armonia, dove
l'uguaglianza intellettuale e la differenza funzionale degli uomini conseguono
il loro diritto ed hanno adeguata espressione; in caso diverso si deprime il
lavoro e si abbassa l'operaio.
Ordinamento giuridico della società e suoi
scopi
Affinché la vita sociale, quale è voluta
da Dio, ottenga il suo scopo, è essenziale un ordinamento giuridico, che le
serva di esterno appoggio, di riparo e protezione; ordinamento la cui funzione
non è dominare, ma servire, tendere a sviluppare e accrescere la vitalità della
società nella ricca molteplicità dei suoi scopi, conducendo verso il loro
perfezionamento tutte le singole energie in pacifico concorso e difendendole,
con mezzi appropriati ed onesti, contro tutto ciò che è svantaggioso al loro
pieno svolgimento. Un tale ordinamento, per garantire l'equilibrio, la
sicurezza e l'armonia della società, ha anche il potere di coercizione contro
coloro, che solo per questa via possono essere trattenuti nella nobile
disciplina della vita sociale; ma proprio nel giusto compimento di questo
diritto un'autorità, veramente degna di tal nome, non sarà mai che non senta
l'angosciosa responsabilità di fronte all'Eterno Giudice, al cui tribunale ogni
falsa sentenza, e soprattutto ogni sconvolgimento delle norme da Dio volute,
riceverà la sua immancabile sanzione e condanna.
Le ultime, profonde, lapidarie,
fondamentali norme della società non possono essere intaccate da
intervento d'ingegno umano; si potranno negare, ignorare, disprezzare,
trasgredire, ma non mai abrogare con efficacia giuridica. Certamente, col tempo
che volge, mutano le condizioni di vita; ma non si dà mai manco assoluto, né
perfetta discontinuità tra il diritto di ieri e quello di oggi, tra la
scomparsa di antichi poteri e costituzioni e il sorgere di nuovi ordinamenti.
Ad ogni modo, in qualsiasi cambiamento o trasformazione, lo scopo di ogni vita
sociale resta identico, sacro, obbligatorio: lo sviluppo dei valori personali
dell'uomo, quale immagine di Dio; e resta l'obbligo di ogni membro dell'umana
famiglia di attuare i suoi immutabili fini, qualunque sia il legislatore e
l'autorità, a cui ubbidisce. Rimane quindi sempre e non cessa per opposizione
alcuna anche il suo inalienabile diritto, da riconoscersi da amici e nemici, ad
un ordinamento e una prassi giuridica, che sentano e comprendano esser loro
essenziale dovere di servire al bene comune.
L'ordinamento giuridico ha inoltre l'alto
e arduo scopo di assicurare gli armonici rapporti sia tra gli individui, sia
tra le società, sia anche nell'interno di queste. A ciò si arriverà, se i
legislatori si asterranno dal seguire quelle pericolose teorie e prassi,
infauste alla comunità e alla sua coesione, le quali traggono la loro origine e
diffusione da una serie di postulati erronei. Tra questi è da annoverare il
positivismo giuridico, che attribuisce una ingannevole maestà alla emanazione
di leggi puramente umane, e spiana la via ad un esiziale distacco della legge
dalla moralità; inoltre la concezione, la quale rivendica a particolari nazioni
o stirpi o classi l'istinto giuridico, quale ultimo imperativo e inappellabile
norma; infine quelle varie teorie, le quali, diverse in sé e procedenti da
vedute ideologiche contrastanti, si accordano però nel considerare lo Stato o
un ceto, che lo rappresenti, come entità assoluta e suprema, esente da
controllo e da critica, anche quando i suoi postulati teorici e pratici
sboccano e urtano nell'aperta negazione di dati essenziali della coscienza
umana e cristiana.
Chi consideri con occhio limpido e
penetrante la vitale connessione tra genuino ordine sociale e genuino
ordinamento giuridico, e tenga presente che l'unità interna nella sua multiformità
dipende dal predominio di forze spirituali, dal rispetto della dignità umana in
sé e negli altri, dall'amore alla società e agli scopi da Dio ad essa segnati,
non può meravigliarsi sui tristi effetti di concezioni giuridiche, le quali,
allontanatesi dalla via regale della verità, procedono sul terreno labile di
postulati materialistici; ma scorgerà subito la improrogabile necessità di un
ritorno ad una concezione spirituale ed etica, seria e profonda, riscaldata dal
calore di vera umanità e illuminata dallo splendore della fede cristiana, la
quale fa mirare nell'ordinamento giuridico una rifrazione esterna dell'ordine
sociale, voluto da Dio, luminoso frutto dello spirito umano, anch'esso immagine
dello spirito di Dio.
Su questa concezione organica, la sola
vitale, in che la più nobile umanità e il più genuino spirito cristiano
fioriscono in armonia, sta scolpita la sentenza della Scrittura, illustrata dal
grande Aquinate: «Opus iustitiae pax»,(3) che
si applica così al lato interno, come al lato esterno della vita sociale.
Essa non ammette né contrasto, né
alternativa: amore o diritto, ma la sintesi feconda: amore e diritto.
Nell'uno e nell'altro, entrambi
irradiazioni dello stesso spirito di Dio, sta il programma e il suggello della
dignità dello spirito umano; l'uno e l'altro a vicenda s'integrano, cooperano,
si animano, si sostengono, si danno la mano nel cammino della concordia e della
pacificazione, mentre il diritto spiana la via all'amore, l'amore mitiga il
diritto e lo sublima. Entrambi elevano la vita umana in quella atmosfera
sociale, dove, pur tra le manchevolezze, gli impedimenti e le durezze di questa
terra, si rende possibile una fraterna convivenza. Ma fate che il cattivo
spirito di idee materialistiche domini; che la tendenza al potere e al
prepotere concentri nelle sue rudi mani le redini degli eventi; voi allora
vedrete apparirne ogni giorno più gli effetti disgregatori, scomparire amore e
giustizia; tristo preannunzio di minaccianti catastrofi su una società,
apòstata da Dio.
II. Convivenza nella tranquillità
Il secondo elemento fondamentale della
pace, verso cui tende quasi istintivamente ogni società umana, è la
tranquillità. O beata tranquillità, tu non hai nulla di comune con il fissarsi
duro e ostinato, tenace e infantilmente caparbio in ciò che è; né con la
riluttanza, figlia di ignavia e d'egoismo, a porre la mente nei problemi e
nelle questioni, che il volgere dei tempi e il corso delle generazioni coi loro
bisogni e col progresso fanno maturare, e traggon seco come improrogabili
necessità del presente. Ma per un cristiano, cosciente della sua responsabilità
anche verso il più piccolo dei suoi fratelli, non vi è tranquillità infingarda,
né si dà fuga, ma lotta, ma azione contro ogni inazione e diserzione nel grande
agone spirituale, dove è proposta in palio la costruzione, anzi l'anima stessa
della società futura.
Armonia fra tranquillità e operosità
Tranquillità nel senso dell'Aquinate e
ardente operosità non contrastano, ma si accoppiano piuttosto in armonia per
colui che è compreso della bellezza e della necessità del sostrato spirituale
della società, e della nobiltà del suo ideale. E proprio a voi giovani, inclini
a volgere le spalle al passato e rivolgere al futuro l'occhio delle aspirazioni
e speranze, diciamo, mossi da vivo amore e da paterna sollecitudine: esuberanza
e audacia da sé non bastano, se non siano, come bisogna, poste al servizio del
bene e di una bandiera immacolata. Vano è l'agitarsi, l'affaticarsi,
l'affannarsi senza riposarsi in Dio e nella sua legge eterna. Conviene che
siate animati dal convincimento di combattere per la verità, e di farle
dedizione delle proprie simpatie ed energie, degli aneliti e dei sacrifici; di
combattere per le eterne leggi di Dio, per la dignità della persona umana, e
per il conseguimento dei suoi fini. Dove uomini maturi e giovani, sempre
ancorati nel mare della eternamente viva tranquillità di Dio, coordinano le
diversità di temperamento e di attività in genuino spirito cristiano, là, se
l'elemento propulsore si accoppia con l'elemento infrenatore, la differenza
naturale tra le generazioni non diverrà mai pericolosa, ma condurrà anzi
vigorosamente all'attuazione delle leggi eterne di Dio nel mutevole corso dei
tempi e delle condizioni di vita.
Il mondo operaio
In un campo particolare della vita
sociale, dove durante un secolo sorsero movimenti e aspri conflitti, si trova
oggi calma, almeno apparente; nel mondo, cioè, vasto e sempre crescente del
lavoro, nell'esercito immenso degli operai, dei salariati e dei dipendenti. Se
si considera il presente, con le sue necessità belliche, come un dato di fatto,
questa tranquillità potrà dirsi esigenza necessaria e fondata; ma se si guarda
lo stato odierno dal punto di vista della giustizia, di un legittimo e regolato
movimento operaio, la tranquillità non resterà che apparente finché tale scopo
non sia raggiunto.
Mossa sempre da motivi religiosi, la
Chiesa condannò i vari sistemi del socialismo marxista, e li condanna anche
oggi, com'è suo dovere e diritto permanente di preservare gli uomini da
correnti e influssi, che ne mettono a repentaglio la salvezza eterna. Ma la
Chiesa non può ignorare o non vedere, che l'operaio, nello sforzo di migliorare
la sua condizione, si urta contro qualche congegno, che, lungi dall'essere
conforme alla natura, contrasta con l'ordine di Dio e con lo scopo, che Egli ha
assegnato per i beni terreni. Per quanto fossero e siano false, condannabili e
pericolose le vie, che si seguirono; chi, e soprattutto qual sacerdote o
cristiano, potrebbe restar sordo al grido, che si solleva dal profondo, e il
quale in un mondo di un Dio giusto invoca giustizia e spirito di fratellanza?
Ciò sarebbe un silenzio colpevole e ingiustificabile davanti a Dio, e contrario
al senso illuminato dell'apostolo, il quale, come inculca che bisogna essere
risoluti contro l'errore, sa pure che si vuol essere pieni di riguardo verso
gli erranti e con l'animo aperto per intenderne aspirazioni, speranze e motivi.
Dio, benedicendo i nostri progenitori,
disse loro: «Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra e soggiogatela» (Gn 1,28).
E al primo capo di famiglia diceva poi: «Nel sudore della tua fronte ti ciberai
di pane» (Gn 3,19). La dignità della persona umana esige dunque
normalmente come fondamento naturale per vivere il diritto all'uso dei beni
della terra; a cui risponde l'obbligo fondamentale di accordare una proprietà
privata, possibilmente a tutti. Le norme giuridiche positive; regolanti la
proprietà privata, possono mutare e accordare un uso più o meno circoscritto;
ma se vogliono contribuire alla pacificazione della comunità, dovranno impedire
che l'operaio, che è o sarà padre di famiglia, venga condannato ad una
dipendenza e servitù economica, inconciliabile con i suoi diritti di persona.
Che questa servitù derivi dal prepotere
del capitale privato o dal potere dello Stato, l'effetto non muta; anzi, sotto
la pressione di uno Stato, che tutto domina e regola l'intera vita pubblica e
privata, penetrando fino nel campo delle concezioni e persuasioni e della
coscienza, questa mancanza di libertà può avere conseguenze ancora più gravose,
come l'esperienza manifesta e testimonia.
Cinque punti fondamentali
per l'ordine e la pacificazione della società umana
Chi pondera al lume della ragione e della
fede i fondamenti e gli scopi della vita sociale, che noi abbiamo tracciati in
brevi linee, e li contempla nella loro purezza ed altezza morale e nei loro
benefici frutti in tutti i campi, non può non avere la convinzione dei potenti
principi di ordine e di pacificazione, che energie rivolte a grandi ideali e
risolute ad affrontare gli ostacoli potrebbero regalare, o diciamo meglio,
restituire ad un mondo, interiormente scardinato, quando avessero abbattute le
barriere intellettive e giuridiche, create da pregiudizi, errori, indifferenza,
e da un lungo processo di secolarizzazione del pensiero, del sentimento,
dell'azione, che venne a staccare e sottrarre la città terrena dalla luce e
dalla forza della città di Dio.
Oggi più che mai scocca l'ora di riparare;
di scuotere la coscienza del mondo dal grave torpore, in cui i tossici di false
idee, largamente diffuse, l'hanno fatto cadere; tanto più che, in questa ora di
sfacelo materiale e morale, la conoscenza della fragilità e della inconsistenza
di ogni ordinamento puramente umano è sul disingannare anche coloro, che, in
giorni apparentemente felici, non sentivano in sé e nella società la mancanza
di contatto coll'eterno, e non la consideravano come un difetto essenziale
delle loro costruzioni.
Ciò che chiaro appariva al cristiano, che,
profondamente credente, soffriva dell'ignoranza altrui, chiarissimo ci presenta
il fragore della spaventosa catastrofe dell'odierno sconvolgimento, che riveste
la terribile solennità di un giudizio universale, persino agli orecchi dei
tiepidi, degl'indifferenti, degl'inconsiderati: una verità, cioè, antica, che
si manifesta tragicamente in forme sempre nuove, e tuona di secolo in secolo,
di gente in gente, per bocca del Profeta: «Omnes qui Te derelinquunt,
confundentur: recedentes a Te in terra scribentur: quoniam dereliquerunt venam
aquarum viventium, Dominum» (Ier 17,13).
Non lamento, ma azione è il precetto
dell'ora; non lamento su ciò che è o che fu, ma ricostruzione di ciò che
sorgerà e deve sorgere a bene della società. Pervasi da un entusiasmo di
crociati, ai migliori e più eletti membri della cristianità spetta
riunirsi nello spirito di verità, di giustizia e di amore al grido: Dio lo
vuole! pronti a servire, a sacrificarsi, come gli antichi Crociati. Se allora
trattavasi della liberazione della terra santificata dalla vita del Verbo di
Dio incarnato, si tratta oggi, se possiamo così esprimerci, del nuovo tragitto,
superando il mare degli errori del giorno e del tempo, per liberare la terra
santa spirituale, destinata a essere il sostrato e il fondamento di norme e
leggi immutabili per costruzioni sociali di interna solida consistenza.
Per sì alto fine, dal presepe del Principe
della pace, fiduciosi che la sua grazia si diffonda in tutti i cuori, Noi Ci
rivolgiamo a voi, diletti figli, che riconoscete e adorate in Cristo il vostro
Salvatore, a tutti quelli che sono con noi uniti almeno col vincolo spirituale
della fede in Dio, a tutti infine, quanti anelano a liberarsi dai dubbi e dagli
errori, bramosi di luce e guida; e vi esortiamo con scongiurante paterna
insistenza non solo a comprendere intimamente l'angosciosa serietà di
quest'ora, ma anche a meditare le sue possibili aurore benefiche e
soprannaturali, e a unirvi e operare insieme per il rinnovamento della società
in spirito e verità.
Scopo essenziale di questa Crociata
necessaria e santa è che la stella della pace, la stella di Betlemme, spunti di
nuovo su tutta l'umanità nel suo rutilante fulgore, nel suo pacificante
conforto, qual promessa e augurio di un avvenire migliore più fecondo e più
felice.
Vero è che il cammino dalla notte a un
luminoso mattino sarà lungo; ma decisivi sono i primi passi sul sentiero, che
porta sopra le prime cinque pietre miliari scolpite con bronzeo scalpello le
seguenti massime:
1° Dignità e diritti della persona umana
1) Chi vuole che la stella della pace
spunti e si fermi sulla società, concorra da parte sua a ridonare alla persona
umana la dignità concessale da Dio fin dal principio; si opponga all'eccessivo
aggruppamento degli uomini, quasi come masse senz'anima; alla loro
inconsistenza economica, sociale, politica, intellettuale e morale; alla loro
mancanza di solidi principi e di forti convinzioni; alla loro sovrabbondanza di
eccitazione istintive e sensibili, e alla loro volubilità;
favorisca, con tutti i mezzi leciti, in
tutti i campi della vita, forme sociali, in cui sia resa possibile e garantita
una piena responsabilità personale, così quanto all'ordine terreno come quanto
all'eterno;
sostenga il rispetto e la pratica
attuazione dei seguenti fondamentali diritti della persona: il diritto a
mantenere e sviluppare la vita corporale, intellettuale e morale, e particolarmente
il diritto ad una formazione ed educazione religiosa; il diritto al culto di
Dio privato e pubblico, compresa l'azione caritativa religiosa; il diritto, in
massima, al matrimonio e al conseguimento del suo scopo, il diritto alla
società coniugale e domestica; il diritto di lavorare come mezzo indispensabile
al mantenimento della vita familiare; il diritto alla libera scelta dello
stato, quindi anche dello stato sacerdotale e religioso; il diritto ad un uso
dei beni materiali, cosciente dei suoi doveri e delle limitazioni sociali.
2° Difesa della unità sociale e
particolarmente della famiglia
2) Chi vuole che la stella della pace
spunti e si fermi sulla società, rifiuti ogni forma di materialismo, che non
vede nel popolo se non un gregge di individui, i quali, scissi e senza interna
consistenza, vengono considerati come materia di dominio e di arbitrio;
cerchi di comprendere la società come
un'unità interna, cresciuta e maturata sotto il governo della Provvidenza,
unità la quale, nello spazio ad essa assegnato e secondo le sue peculiari doti,
tende, mediante la collaborazione dei diversi ceti e professioni, agli eterni e
sempre nuovi fini della cultura e della religione;
difenda la indissolubilità del matrimonio;
dia alla famiglia, insostituibile cellula del popolo, spazio, luce, respiro,
affinché possa attendere alla missione di perpetuare nuova vita e di educare i
figli in uno spirito, corrispondente alle proprie vere convinzioni religiose;
conservi, fortifichi o ricostituisca, secondo le sue forze la propria unità
economica, spirituale, morale e giuridica: curi che i vantaggi materiali e
spirituali della famiglia vengano partecipati anche dai domestici; pensi a
procurare ad ogni famiglia un focolare, dove una vita familiare, sana
materialmente e moralmente, riesca a dimostrarsi nel suo vigore e valore; curi
che i luoghi di lavoro e le abitazioni non siano così separati, da rendere il
capo di famiglia e l'educatore dei figli quasi estraneo alla propria casa; curi
soprattutto, che tra scuole pubbliche e famiglia rinasca quel vincolo di
fiducia e di mutuo aiuto, che in altri tempi maturò frutti così benefici, e che
oggi è stato sostituito da sfiducia colà ove la scuola, sotto l'influsso o il
dominio dello spirito materialistico, avvelena e distrugge ciò che i genitori
avevano istillato nelle anime dei figli.
3° Dignità e prerogative del lavoro
3) Chi vuole che la stella della pace
spunti e resti sulla società, dia al lavoro il posto da Dio assegnatogli fin
dal principio. Come mezzo indispensabile al dominio del mondo, voluto da Dio
per la sua gloria, ogni lavoro possiede una dignità inalienabile, e in pari
tempo un intimo legame col perfezionamento della persona; nobile dignità e
prerogativa del lavoro, cui in verun modo non avviliscono la fatica e il peso,
che sono da sopportarsi come effetto del peccato originale, in ubbidienza e
sommissione alla volontà di Dio.
Chi conosce le grande Encicliche dei
Nostri Predecessori e i Nostri precedenti Messaggi non ignora che la Chiesa non
esita a dedurre le conseguenze pratiche, derivanti dalla nobiltà morale del
lavoro, e ad appoggiarle con tutto il nome della sua autorità. Queste esigenze
comprendono, oltre ad un salario giusto, sufficiente alle necessità
dell'operaio e della famiglia, la conservazione ed il perfezionamento di un
ordine sociale, che renda possibile una sicura, se pur modesta proprietà
privata a tutti i ceti del popolo, favorisca una formazione superiore per i
figli delle classi operaie particolarmente dotati di intelligenza e di buon
volere, promuova la cura e l'attività pratica dello spirito sociale nel
vicinato, nel paese, nella provincia, nel popolo e nella nazione, che,
mitigando i contrasti di interessi e di classe, toglie agli operai il
sentimento della segregazione con l'esperienza confortante di una solidarietà
genuinamente umana e cristianamente fraterna.
Il progresso e il grado delle riforme
sociali improrogabili dipende dalla potenza economica delle singole nazioni.
Solo con uno scambio di forze, intelligente e generoso, tra forti e deboli
sarà possibile a compiersi una pacificazione universale in maniera che non
restino focolai di incendio e di infezione, da cui potrebbero originarsi nuove
sciagure.
Segni evidenti inducono a pensare, che nel
fermento di tutti i pregiudizi e i sentimenti di odio, inevitabili ma tristi
parti di questa acuta psicosi bellica, non sia spenta nei popoli la coscienza
della loro intima reciproca dipendenza nel bene e nel male, che anzi sia
divenuta più viva e attiva. Non è forse vero che sempre più chiaramente pensatori
profondi vedono, nella rinunzia all'egoismo e all'isolamento nazionale, la via
di salvezza generale, pronti come sono a domandare ai loro popoli una parte
gravosa di sacrifici, necessari per la pacificazione sociale in altri popoli?
Possa questo Nostro Messaggio natalizio, diretto a tutti coloro che sono
animati da buona volontà e cuore generoso, incoraggiare e aumentare le schiere
della Crociata sociale presso tutte le Nazioni! E voglia Dio concedere alla
loro pacifica bandiera la vittoria, di cui è degna la loro nobile intrapresa!
4° Reintegrazione dell'ordinamento
giuridico
4) Chi vuole che la stella della pace
spunti e si fermi sulla vita sociale, collabori ad una profonda reintegrazione
dell'ordinamento giuridico.
Il sentimento giuridico di oggi è spesso
alterato e sconvolto dalla proclamazione e dalla prassi di un positivismo e di
un utilitarismo ligi e vincolati al servizio di determinati gruppi, ceti e
movimenti, i cui programmi tracciano e determinano la via alla legislazione e
alla pratica giudiziale.
Il risanamento di questa situazione
diventa possibile a ottenersi, quando si ridesti la coscienza di un ordinamento
giuridico, riposante nel sommo dominio di Dio e custodita da ogni arbitrio
umano; coscienza di un ordinamento che stenda la sua mano protettrice e
punitrice anche sugli inobliabili diritti dell'uomo e li protegga contro gli
attacchi di ogni potere umano.
Dall'ordinamento giuridico voluto da Dio
promana l'inalienabile diritto dell'uomo alla sicurezza giuridica, e con ciò
stesso ad una sfera concreta di diritto, protetta contro ogni arbitrario
attacco.
Il rapporto dell'uomo verso l'uomo,
dell'individuo verso la società, verso l'autorità, verso i doveri civili, il
rapporto della società e dell'autorità verso i singoli debbono essere posti
sopra un chiaro fondamento giuridico e tutelati, al bisogno, dall'autorità
giudiziaria. Ciò suppone:
a) un tribunale e un giudice, che prendano
le direttive da un diritto chiaramente formulato e circoscritto;
b) chiare norme giuridiche, che non
possano essere stravolte con abusivi richiami ad un supposto sentimento
popolare e con mere ragioni di utilità;
c) riconoscimento del principio che anche
lo Stato e i funzionari e le organizzazioni da esso dipendenti sono obbligati
alla riparazione e al ritiro di misure lesive della libertà, della proprietà,
dell'onore, dell'avanzamento e della salute dei singoli.
5° Concezione dello Stato secondo lo
spirito cristiano
5) Chi vuole che la stella della pace
spunti e si fermi sulla società umana, collabori al sorgere di una concezione e
prassi statale, fondate su ragionevole disciplina, nobile umanità e
responsabile spirito cristiano;
aiuti a ricondurre lo Stato e il suo
potere al servizio della società, al pieno rispetto della persona umana e della
sua operosità per il conseguimento dei suoi scopi eterni;
si sforzi e adoperi a sperdere gli errori,
che tendono a deviare dal sentiero morale lo Stato e il suo potere e a
scioglierli dal vincolo eminentemente etico, che li lega alla vita individuale
e sociale, e a far loro rinnegare o ignorare praticamente l'essenziale
dipendenza, che li unisce alla volontà del Creatore;
promuova il riconoscimento e la diffusione
della verità, che insegna, anche nel campo terreno, come il senso profondo e
l'ultima morale e universale legittimità del «regnare» è il «servire».
Considerazioni sulla guerra mondiale e sul
rinnovamento della società
Diletti figli! Voglia Dio che, mentre la
Nostra voce arriva al vostro orecchio, il vostro cuore sia profondamente scosso
ecommosso dalla serietà profonda, dall'ardente sollecitudine, dalla
scongiurante insistenza, con cui Noi vi inculchiamo questi pensieri, che
vogliono essere un appello alla coscienza universale e un grido di raccolta per
tutti quelli che sono pronti a ponderare e misurare la grandezza della loro
missione e responsabilità dalla vastità della sciagura universale.
Gran parte della umanità, e, non
rifuggiamo dall'affermarlo, anche non pochi di coloro che si chiamano
cristiani, entrano in certa guisa nella responsabilità collettiva dello sviluppo
erroneo, dei danni e della mancanza di altezza morale della società odierna.
Questa guerra mondiale, e tutto ciò che le
si connette, si tratti dei precedenti remoti o prossimi, o dei suoi
procedimenti ed effetti materiali, giuridici e morali, che altro rappresenta se
non lo sfacelo, inaspettato forse agl'inconsiderati, ma intuito e deprecato da
coloro i quali penetravano a fondo col loro sguardo in un ordine sociale, che
dietro l'ingannevole volto o la maschera di formole convenzionali nascondeva la
sua debolezza fatale e il suo sfrenato istinto di guadagno e di potere?
Ciò che in tempi di pace giaceva
compresso, al rompere della guerra scoppiò in una trista serie di azioni,
contrastanti con lo spirito umano e cristiano. Le convenzioni internazionali per
rendere meno disumana la guerra, limitandola ai combattenti, per regolare le
norme dell'occupazione e della prigionia dei vinti, rimasero lettera morta in
vari luoghi; e chi mai vede la fine di questo progressivo peggioramento?
Vogliono forse i popoli assistere inerti a
così disastroso progresso? o non debbono piuttosto, sulle rovine di un
ordinamento sociale, che ha dato prova così tragica della sua inettitudine al
bene del popolo, riunirsi i cuori di tutti i magnanimi e gli onesti nel voto
solenne di non darsi riposo, finché in tutti i popoli e le nazioni della terra
divenga legione la schiera di coloro, che, decisi a ricondurre la società
all'incrollabile centro di gravitazione della legge divina, anelano al servizio
della persona e della sua comunanza nobilitata in Dio?
Questo voto l'umanità lo deve
agl'innumerevoli morti, che giacciono sepolti nei campi di guerra: il
sacrificio della loro vitanel compimento del loro dovere è l'olocausto per un
nuovo migliore ordine sociale.
Questo voto l'umanità lo deve all'infinita
dolente schiera di madri, di vedove e di orfani, che si son veduti strappare la
luce, il conforto e il sostegno della loro vita.
Questo voto l'umanità lo deve a
quegl'innumerevoli esuli che l'uragano della guerra ha spiantati dalla loro patria
e dispersi in terra straniera; i quali potrebbero far lamento col Profeta:
«Hereditas nostra versa est ad alienos, domus nostrae ad extraneos» (Ier, Lam.
5,2).
Questo voto l'umanità lo deve alle
centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora
solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un
progressivo deperimento.
Questo voto l'umanità lo deve alle molte
migliaia di non combattenti, donne, bambini, infermi e vecchi, a cui la guerra
aerea, - i cui orrori Noi già fin dall'inizio più volte denunziammo, - senza
discernimento o con insufficiente esame, ha tolto vita, beni, salute, case,
luoghi di carità e di preghiera.
Questo voto l'umanità lo deve alla fiumana
di lagrime e amarezze, al cumulo di dolori e tormenti, che procedono dalla
rovina micidiale dell'immane conflitto e scongiurano il cielo, invocando la
discesa dello Spirito, che liberi il mondo dal dilagare della violenza e del
terrore.
Invocazione al Redentore del mondo
E dove potreste voi deporre con più
tranquilla sicurezza e fiducia e con fede più efficace questo voto per il
rinnovamento della società, se non ai piedi del «desideratus cunctis gentibus»,
che giace davanti a noi nel presepio in tutto l'incanto della sua dolce umanità
di Pargolo, ma anche nell'attrattiva commovente della sua incipiente missione
redentrice? In qual luogo potrebbe questa nobile e santa crociata per la
purificazione ed il rinnovamento della società avere consacrazione più
espressiva e trovare stimolo più efficace che a Betlemme, dove nell'adorabile
mistero dell'incarnazione apparve il nuovo Adamo alle cui fonti di verità e di
grazia conviene in ogni modo che l'umanità attinga l'acqua salutare, se non
vuole perire nel deserto di questa vita? «De plenitudine eius nos omnes
accepimus» (Io 1,16). La sua pienezza di verità e di grazia, come
da venti secoli, si riversa anche oggi sull'orbe con forza non diminuita; più
potente delle tenebre è la sua luce, il raggio del suo amore più valido
dell'agghiacciante egoismo, che rattiene tanti uomini dal crescere ed eccellere
nel loro essere migliore. Voi, volontari crociati di una nuova nobile società,
alzate il nuovo labaro della rigenerazione morale e cristiana, dichiarate lotta
alle tenebre della defezione da Dio, alla freddezza della discordia fraterna;
lotta in nome d'una umanità gravemente inferma e da sanare in nome della
coscienza cristianamente elevata.
La Nostra benedizione e il Nostro paterno
augurio e incoraggiamento sia colla vostra generosa intrapresa, e perduri con
tutti coloro che non rifuggono dai duri sacrifici, armi più che il ferro
potenti a combattere il male, di cui soffre la società. Sulla vostra crociata
per un ideale sociale, umano e cristiano, splenda consolatrice ed incitatrice
la stella che brilla sulla grotta di Betlemme, astro augurale e perenne
dell'era cristiana. Alla sua vista attinse, attinge e attingerà forza ogni
cuore fedele: «Si consistant adversus me castra ... in hoc ego sperabo» (Ps 26,3).
Dove questa stella risplende, è Cristo: «Ipso ducente, non errabimus; per ipsum
ad ipsum eamus, ut cum nato hodie puero in perpetuum gaudeamus».(4)
(1) PIO
PP. XII, Radiomessaggio Con sempre nuova freschezza nella
vigilia del Natale 1942, [A tutti i popoli del mondo], 24 dicembre 1942: AAS 35(1943),
pp. 9-24.
Il santo Natale e l'umanità dolorante. -
Rapporti internazionali e ordine interno delle nazioni. - Duplice elemento
della pace nella vita sociale: I. Convivenza nell'ordine (Dio prima causa e
ultimo fondamento della vita individuale e sociale; sviluppo e perfezionamento
della persona umana; ordinamento giuridico della società e nuovi scopi); II.
Convivenza nella tranquillità (armonia fra tranquillità e operosità; il mondo
operaio). - Cinque punti fondamentali per l'ordine e la pacificazione della
società umana: 1. Dignità e diritti della persona umana; 2. Difesa dell'unità
sociale e particolarmente della famiglia; 3. Dignità e prerogativa del lavoro;
4. Reintegrazione dell'ordine giuridico; 5. Concezione dello stato secondo lo
spirito cristiano. - Considerazioni sulla guerra mondiale e sul rinnovamento
della società. - Invocazione al Redentore del mondo.
(2) Summa
theol., II-II, q. 29, a. 1 ad 1; S. AUGUSTINUS, De civitate Dei,
1. 19, c. 13, n. 1.
(3) Summa
theol., II-II, q. 29, a. 3.
(4) S.
AUGUSTINUS, Sermo 189, c. 4: PL 38, 1007.
**********************************
1943
1 settembre 1943
Radiomessaggio del papa Eugenio
Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, nel 4° anniversario dell’inizio
della Seconda Guerra mondiale
Mercoledì, 1° settembre 1943
Si compiono oggi quattro anni dal giorno
orrendo che diede inizio alla più formidabile, distruggitrice e devastatrice
guerra di tutti i tempi, la cui visione atterrisce chiunque nutra in petto
anima e sensi di umanità.
Nel presentimento di così universale
sciagura, che minacciava la grande famiglia umana, Noi indirizzammo, pochi
giorni avanti lo scoppio delle ostilità, il 24 agosto 1939, ai Governanti e ai
popoli un caldo appello e una supplichevole ammonizione : Nulla
— dicemmo — è perduto con la pace. Tutto può esser perduto con la guerra !
La Nostra voce giunse agli orecchi, ma non
illuminò gli intelletti e non scese nei cuori. Lo spirito della violenza vinse
sullo spirito della concordia e della intesa : una vittoria che fu una
sconfitta.
Oggi, sulla soglia del quinto anno di
guerra, anche coloro, che contavano allora sopra rapide operazioni belliche e
una sollecita pace vittoriosa, volgendo lo sguardo a quanto li circonda dentro
e fuori della patria, non sentono che dolori e non contemplano che rovine. A
molti, i cui orecchi rimasero sordi alle Nostre parole, la tristissima
esperienza e lo spettacolo dell'oggi insegnano quanto il Nostro ammonimento e
presagio corrispondessero alla realtà futura.
Ispirarono allora le Nostre parole amore
imparziale per tutti i popoli senza eccezione e vigile cura per il loro
benessere. Lo stesso amore e la stessa cura Ci muovono in quest'ora grave e
angosciosa, e mettono sulle Nostre labbra parole che vogliono essere a
vantaggio di tutti e di nessuno a danno, mentre istantemente supplichiamo
l'Onnipotente Iddio, affinché apra loro la via ai cuori e alle decisioni degli
uomini, nelle cui mani sono le sorti dell'afflitta umanità.
Attraverso lotte gigantesche le esteriori
vicende della guerra si avvicinano e confluiscono al loro punto culminante.
Mai la esortazione della Scrittura: «
Imparate, o giudici della terra! » (Ps. 2, 10), non fu più invocata e
urgente che in quest'ora in cui a tutti parla la tragica realtà.
Dappertutto i popoli rientrano in se
stessi a meditare, con gli occhi alle rovine. Vera saggezza è incoraggiarli e
sostenerli nelle loro prove. Scoraggiarli sarebbe funesto accecamento.
Per ogni terra l'animo dei popoli si
aliena dal culto della violenza, e nell'orrida messe di morte e di distruzione
ne contempla la meritata condanna.
In tutte le Nazioni cresce l'avversione
verso la brutalità dei metodi di una guerra totale, che porta ad oltrepassare
qualunque onesto limite e ogni norma di diritto divino ed umano.
Più che mai tormentoso penetra e strugge
la mente e il cuore dei popoli il dubbio, se la continuazione della guerra, e
di una tale guerra, sia e possa dirsi ancora conforme agl'interessi nazionali,
ragionevole e giustificabile di fronte alla coscienza cristiana ed umana.
Dopo tanti trattati infranti, dopo tante
convenzioni lacerate, dopo tante promesse mancate, dopo tanti contraddittori
cambiamenti nei sentimenti e nelle opere, la fiducia tra le Nazioni è scemata e
caduta così profondamente da togliere animo e ardimento a ogni generosa
risoluzione.
Perciò Ci rivolgiamo a tutti quelli, cui
spetta promuovere l'incontro e l'accordo per la pace, con la preghiera
sgorgante dall'intimo e addolorato Nostro cuore, e diciamo loro:
La vera forza non ha da temere di essere
generosa. Essa possiede sempre i mezzi per garantirsi contro ogni falsa
interpretazione della sua prontezza e volontà di pacificazione e contro altre
possibili ripercussioni.
Non turbate né offuscate la brama dei
popoli per la pace con atti, che, invece di incoraggiare la fiducia,
riaccendono piuttosto gli odi e rinsaldano il proposito di resistenza.
Date a tutte le Nazioni la fondata
speranza di una pace degna, che non offenda né il loro diritto alla vita né il
loro sentimento di onore.
Fate apparire in sommo grado la leale
concordanza tra i vostri principi e le vostre risoluzioni, tra le affermazioni
per una pace giusta e i fatti.
Soltanto così sarà possibile di creare una
serena atmosfera, nella quale i popoli meno favoriti, in un dato momento, dalle
sorti della guerra possano credere al rinascere e al crescere di un nuovo
sentimento di giustizia e di comunanza tra le Nazioni, e da questa fede trarre
le naturali conseguenze di maggiore fiducia per l'avvenire, senza dover temere
di compromettere la conservazione, l'integrità o l'onore del loro Paese.
Benedetti coloro, che con volontà
rettilinea aiutano a preparare il terreno, dove germogli e fiorisca, si
rafforzi e si maturi il senso della veracità e della giustizia internazionale.
Benedetti coloro — a qualunque gruppo
belligerante appartengano — i quali con non meno retto volere e con lo sguardo
alla realtà cooperano a superare il punto morto, in cui si arresta oggi la
fatale bilancia tra guerra e pace.
Benedetti coloro che mantengono se stessi
e i loro popoli liberi dalla stretta di opinioni preconcette, dall'influsso di
indomite passioni, di inordinato egoismo, di illegittima sete di potere.
Benedetti coloro che ascoltano le voci
supplichevoli delle madri, le quali ai loro figli hanno dato la vita, perché
crescessero nella fede e nelle azioni generose, non per uccidere e farsi
uccidere; coloro che porgono orecchio alle implorazioni angosciose delle
famiglie ferite a morte dalle forzate separazioni, alle grida sempre più
insistenti del popolo, il quale, dopo tante sofferenze, privazioni e lutti, non
altro chiede per la sua vita che pace, pane, lavoro.
Benedetti infine quanti comprendono che la
grande opera di un nuovo e vero ordinamento delle Nazioni non è possibile senza
alzare e tenere fisso lo sguardo a Dio, che, reggitore e ordinatore di tutti
gli eventi umani, è fonte suprema, custode e vindice di ogni giustizia e di
ogni diritto.
Ma guai a coloro che in questo tremendo
momento non assurgono alla piena coscienza della loro responsabilità per la
sorte dei popoli, che alimentano odi e conflitti fra le genti, che edificano la
loro potenza sulla ingiustizia, che opprimono e straziano gl'inermi e
gl'innocenti (cfr. Ier. 22, 13); ecco che l'ira di Dio verrà sopra
di loro sino alla fine (cfr. I Thess. 2, 16)!
Piaccia al Redentore divino, sulle cui
labbra risonarono le parole « Beati i pacifici », illuminare i potenti e i
condottieri dei popoli, dirigere i loro pensieri, i loro sentimenti e le loro
deliberazioni, renderli interiormente ed esteriormente vigorosi e saldi contro
gli ostacoli, le diffidenze e i pericoli, che intralciano la via alla
preparazione e al compimento di una giusta e durevole pace ! La loro saggezza,
la loro moderazione, la loro forza di volontà e il vivo sentimento di umanità
valgano a far cadere un raggio di conforto sul limitare, bagnato di sangue e di
lacrime, del quinto anno di guerra, e dare alle vittime superstiti dell'immane
conflitto, curve sotto l'oppressione del dolore, la lieta speranza che l'anno
stesso non termini nel segno e nell'oscurità della strage e della distruzione,
ma sia principio e aurora di novella vita, di fraterna riconciliazione, di
concorde e operosa ricostruzione.
Con tale fiducia impartiamo a tutti i
Nostri diletti figli e figlie dell'Orbe cattolico, come a tutti quelli che si
sentono a Noi uniti nell'amore e nell'opera per la pace, la Nostra paterna
Apostolica Benedizione.
*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità
Pio XII, V,
Quinto anno di Pontificato, 2 marzo 1943 - 1° marzo 1944, pp. 119-122
Tipografia Poliglotta Vaticana
24 dicembre 1943
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, ai popoli del mondo intero in occasione
della Vigilia del Natale 1943
Venerdì, 24 dicembre 1943
NATALE DI GUERRA
Ancora una quinta volta, diletti figli e
figlie dell'universo, la grande famiglia cristiana si prepara a celebrare la
magnifica solennità della pace e dell'amore, che redime e affratella, in una
cupa atmosfera di morte e di odio; anche quest'anno essa sente e sperimenta
l'amarezza e l'orrore di un contrasto irreconciliabile tra il dolce messaggio
di Betlemme e il feroce accanimento con cui l'umanità si dilania.
Dolorosi erano i passati anni, turbati dal
fiero rumoreggiare delle armi ; ma le campane del Natale, sollevando gli animi,
risvegliavano e facevano sorgere timide speranze, suscitavano caldi e potenti
aneliti verso la pace.
Sventuratamente il mondo, guardandosi
intorno, deve ancora contemplare con raccapriccio una realtà di lotta e di
rovine che, divenuta di giorno in giorno più estesa e crudele, infrange le sue
speranze e con gelida e dura esperienza comprime e soffoca i suoi più ardenti
impulsi.
Che vediamo noi infatti se non il
conflitto degenerare in quella forma di guerra, che esclude ogni restrizione e
riguardo, quasi fosse un portato apocalittico generato da una civiltà, nella
quale al progresso sempre crescente della tecnica viene compagno un
decrescimento sempre più profondo dello spirito e della moralità; una forma di
guerra, che procede senza posa per l'orrenda sua via, e matura stragi tali, che
le pagine più insanguinate e spaventose delle epoche passate impallidiscono al
suo confronto? Con terrore i popoli hanno dovuto assistere a un nuovo e immenso
perfezionamento di mezzi e arti di distruzione, ed essere al tempo stesso
spettatori di una decadenza interiore, che dal raffreddamento e sviamento della
sensibilità morale va sempre più precipitando verso il fondo della comprensione
di ogni sentimento di umanità e di un tale offuscamento della ragione e dello
spirito, da verificare le parole della Sapienza : « Tutti erano avvinti da una
stessa catena di tenebre » (Sap. 17, 17).
LA LUCE DELL'ASTRO DI BETLEMME
Ma in mezzo a questa notte tenebrosa
risplende al fedele la luce dell'astro di Betlemme, che gli addita e illumina
il cammino verso Colui, dalla cui pienezza di grazia e di verità noi tutti
abbiamo ricevuto (Io. 1, 16); il cammino verso il Redentore, fattosi in
questo mondo con la sua venuta essenzialmente Principe di pace, e pace nostra :
« Ipse enim est pax nostra » (Eph. 2, 14).
Cristo solo può allontanare i funesti
spiriti dell'errore e del peccato, che hanno aggiogato l'umanità ad una
tirannica e avvilente schiavitù, asservendola ad un pensiero e ad un volere,
dominati e mossi dall'insaziabile bramosia di beni senza limiti.
Cristo solo, che ci ha tolti al triste
servaggio della colpa, può insegnare a spianare la via verso una libertà nobile
e disciplinata, appoggiata e sostenuta su di una vera rettitudine e
consapevolezza morale.
Cristo solo, « sulle cui spalle riposa il
dominio » (cfr. Is. 9, 6), con la sua soccorritrice onnipotenza può
sollevare e trarre il genere umano dalle angustie senza nome, che lo tormentano
nel corso di questa vita, e avviarlo alla felicità.
Un cristiano, che si alimenta e vive della
fede in Cristo, nella certezza che Egli solo è la via, la verità e la vita,
reca la sua parte delle sofferenze e dei disagi del mondo al presepio del
Figlio di Dio, e trova dinanzi al neogenito Bambino una consolazione e un
sostegno ignoto al mondo, che gli dà animo e forza a resistere e mantenersi
imperterrito, senza accasciarsi o venir meno in mezzo alle prove più tormentose
e gravi.
I — AI DELUSI
È triste e doloroso, diletti figli, il
pensare che innumerevoli uomini, pur sentendo, nella ricerca di una felicita
che li appaghi in questa vita, l'amarezza di fallaci illusioni e penose
delusioni, si siano preclusi la via ad ogni speranza, e lontani come vivono
dalla fede cristiana, non sappiano rintracciare il cammino verso il presepio e
verso quella consolazione, che fa sovrabbondare di gaudio gli eroi della fede
in ogni loro tribolazione. Vedono ridotto in frantumi l'edificio di credenze,
in cui umanamente ebbero fiducia e posero il loro ideale: ma non fu mai che
trovassero quell'unica vera fede, la quale sarebbe valsa a dare loro conforto e
rinnovamento di animo. In questo tentennamento intellettuale e morale, sono
presi da una deprimente incertezza di spirito e vivono in uno stato d'inerzia
che opprime l'anima loro, e che può profondamente intendere e fraternamente
compatire solo colui, il quale ha la gioia di vivere nella vivida aura
familiare di una fede soprannaturale, travalicante i turbini di tutte le
contingenze temporali, per fissarsi nell'eterno.
a) COLORO, CHE POSERO LA LORO FIDUCIA
NELLA ESPANSIONE MONDIALE DELLA VITA ECONOMICA
Della schiera di tali amareggiati e delusi
non è difficile additare coloro, che posero la loro intera fiducia nella
espansione mondiale della vita economica, reputandola sola idonea ad unire
insieme in fratellanza i popoli, e ripromettendosi dalla sua grandiosa
organizzazione, sempre più perfezionata e affinata, inauditi e insospettati
progressi di benessere per il consorzio umano.
Con quanta compiacenza e orgoglio
contemplarono l'accrescimento mondiale del commercio, lo scambio, oltrepassante
i continenti, di tutti i beni e di tutte le invenzioni e produzioni, il cammino
trionfale della diffusa tecnica moderna, superante ogni confine di spazio e di
tempo! Oggi invece che sperimentano essi nella realtà? Vedono ormai che questa
economia coi suoi giganteschi rapporti e vincoli mondiali e con la sua
sovrabbondante divisione e moltiplicazione del lavoro cooperava in mille modi a
rendere generale e più grave le crisi della umanità, mentre, non corretta da
nessun ritegno morale, e senza sguardo ultraterreno che l'illuminasse, non
poteva non terminare in un indegno e umiliante sfruttamento della persona umana
e della natura, in una trista e paurosa indigenza da una parte e in una superba
e provocante opulenza dall'altra, in un tormentoso e implacabile dissidio tra privilegiati
e non abbienti : malaugurati effetti che non sono stati all'ultimo posto nella
lunga catena di cause, che hanno condotto all'immensa tragedia odierna.
Non temano di presentarsi cotesti delusi
della scienza e della potenza economica al presepio del Figlio di Dio. Che cosa
dirà loro il Bambino, che vi è nato e viene adorato da Maria e da Giuseppe, dai
Pastori e dagli Angeli? Senza dubbio la. povertà nella stalla di Betlemme è una
condizione da Lui scelta puramente per sé, né perciò essa importa alcuna
condanna o rifiuto della vita economica in ciò che è necessario all'avanzamento
e al perfezionamento fisico e naturale dell'uomo. Ma quella povertà del Signore
e Creatore del mondo, da Lui liberamente voluta, che Lo accompagnerà anche
nella bottega di Nazareth e in tutto il tempo della sua vita pubblica,
significa e manifesta quale padronanza e superiorità Egli avesse sulle cose
materiali, indicando così con potente efficacia il naturale ed essenziale
ordinamento dei beni terreni alla vita dello spirito e ad una più alta
perfezione culturale, morale e religiosa, necessaria all'uomo ragionevole.
Coloro, che aspettavano la salute della società dal meccanismo del mercato
economico mondiale, sono rimasti così delusi, perché erano divenuti non i
signori e i padroni, ma gli schiavi delle ricchezze materiali, alle quali
avevano servito, svincolandole dal fine superiore dell'uomo e facendole fine a
se stesse.
b) COLORO, CHE RIPOSERO LA FELICITÀ NELLA
SCIENZA SENZA Dio
Non altrimenti operarono e pensarono altri
delusi del passato, i quali riponevano la felicità e il benessere unicamente in
un genere di scienza e di cultura, aliene dal riconoscere il Creatore
dell'universo ; quei pionieri e quei seguaci non della vera scienza, che è
mirabile riflesso della luce di Dio, ma di una scienza superba, la quale, non
dando alcun posto all'opera di un Dio personale, indipendente da ogni
limitazione e superiore a tutto ciò che è terreno, si vantava di poter spiegare
gli avvenimenti del mondo col solo rigido e deterministico concatenamento di
ferree leggi naturali.
Ma una tale scienza non può dare la
felicità ed il benessere. L'apostasia dal Verbo divino, per il quale furono
fatte tutte le cose, ha condotto l'uomo all'apostasia dallo spirito, così da
rendergli arduo il perseguimento di ideali e di scopi altamente intellettuali e
morali. Per tal modo la scienza apostata dalla vita spirituale, mentre
s'illudeva di aver acquistato piena libertà ed autonomia, rinnegando Dio, si
vede oggi punita con un servaggio, che non fu mai più umiliante, essendo
divenuta schiava e quasi automatica esecutrice di indirizzi e ordini, che non
tengono in alcun conto i diritti della verità e della persona umana. Ciò che a
quella scienza parve libertà fu vincolo di umiliazione e di avvilimento; e
scoronata com'è, non riprenderà la dignità primitiva, se non con un ritorno al
Verbo eterno, fonte di sapienza così follemente abbandonato e dimenticato.
A tale ritorno invita appunto il Figlio di
Dio, che è via, verità e vita, via di felicità, verità che sublima, vita che
eterna l'uomo; invita in muto penetrante linguaggio, con la sua stessa venuta
nel mondo, quei delusi, perché Egli non delude l'anima umana, ma le dà l'impeto
che la porta verso di Lui.
II — AI DESOLATI SENZA SPERANZA
Accanto a coloro, che vivono profondamente
sconcertati per il fallimento di indirizzi sociali e intellettuali, largamente
seguiti da politici e scienziati, sta la non meno numerosa schiera di quelli,
che si trovano in gran disagio e pena per il disfacimento del loro personale e
proprio ideale di vita.
a) COLORO, AI QUALI SCOPO DELLA VITA ERA
IL LAVORO
È il gran numero di coloro, a cui scopo
della vita era il lavoro, e meta delle loro fatiche una comoda esistenza
materiale, ma che nella lotta per raggiungere quel fine avevano relegato
lontano le considerazioni religiose e trascurato di dare alla loro esistenza un
orientamento sano e morale. La guerra li ha strappati da questa consueta e
amata attività, che era il pregio e sostegno del vivere loro, li ha divelti
dalla loro professione e dalla loro arte, cosicché provano in sé stessi un
vuoto pauroso. Che se alcuni possono ancora attendere all'opera loro, la guerra
ha imposto condizioni di lavoro e di vita, nelle quali è scomparsa ogni
caratteristica personale, viene meno e non è più possibile una vita familiare
ordinata, né più si trova quella soddisfazione dell'anima, che fornisce
soltanto il lavoro quale è stato nobilitato e voluto da Dio.
O lavoratori, accostatevi al presepio di
Gesù ! Non vi paia orrida quella grotta e quel rifugio del Figlio di Dio: non
per caso, ma per alto e ineffabile disegno vi troverete soltanto semplici
lavoratori: Maria, la Vergine Madre di famiglia lavoratrice, Giuseppe, il Padre
di famiglia lavoratore, i pastori custodi dei greggi, e infine i Saggi venuti dall'Oriente;
lavoratori della mano, delle vigilie e del pensiero; essi si chinano e adorano
il Figlio di Dio, che col suo cosciente e amabile silenzio, più forte della
parola, spiega a tutti loro il senso e la virtù del lavoro. Esso non è soltanto
travaglio delle membra umane privo di senso e di valore, e nemmeno una
umiliante servitù. Il lavoro è servizio di Dio, dono di Dio, vigore e pienezza
della vita umana, merito di riposo eterno. Levate e tenete alta la fronte, o
lavoratori. Mirate il Figlio di Dio, che col suo eterno Padre creò e ordinò
l'universo; e fattosi uomo pari a noi, tolto il peccato, e cresciuto in età,
entra nella grande comunanza del lavoro, e nella sua missione salvatrice fatica
consumando la sua vita terrena, Egli, Redentore del genere umano, che, con la
sua grazia penetrante il nostro essere e operare, eleva e nobilita ogni onesto
lavoro, l'alto e il basso, il grande e il piccolo, il gradevole ed il penoso,
il materiale e l'intellettuale, ad un valore meritorio e soprannaturale dinanzi
a Dio, unendo così ogni processo del multiforme operare umano in una unica
costante glorificazione del Padre nel cielo.
b) COLORO, CHE POSERO LA LORO SPERANZA NEL
GODIMENTO DELLA VITA TERRENA
Sventurati sono anche coloro che veggono
fallita la loro speranza di felicità, sognata e riposta puramente nel godimento
della passeggera vita terrena, concepita esclusivamente o come pienezza di
energie corporee e bellezza di forme e di persone, o come opulenza e
sovrabbondanza di comodità, o come possesso di forza e di potere.
Ma ecco che oggidì, nel turbine della
guerra, il vigore e la venustà di tanta gioventù, cresciuta e addestrata nei
campi sportivi, si disfanno e sfioriscono negli ospedali militari, e molti
giovani vagano, aggirandosi mutilati o infermicci fisicamente e moralmente, per
le strade di una patria, desolata e ridotta in un cumulo di rovine in varie
città delle migliori sue regioni dai bombardamenti aerei e dalle operazioni
belliche.
Se parte della gioventù maschile non ha
più forze per faticare e lavorare, le future madri della prossima generazione,
forzate come sono a un soverchio lavoro oltre ogni misura e ogni limite di
tempo, vanno perdendo la possibilità di fornire al popolo dissanguato
quell'incremento sano di corpo e di spirito, che favorisce la vita e
l'educazione dei figli, senza cui l'avvenire della patria è minacciato da un
triste tramonto.
La penosa irregolarità di lavoro e di
vita, lontano da Dio e dalla sua grazia, e dal cattivo esempio allettata e
traviata, insinua e prepara un pernicioso rilasciamento dei rapporti coniugali
e familiari, cosicché il tossico della lussuria tenta di avvelenare ora molto
più di prima la sacra sorgente della vita. Da questi dolorosi fatti e pericoli
appare con dura evidenza come, mentre il rinvigorimento della famiglia e del
popolo veniva considerato uno dei più nobili propositi in molte nazioni, si
diffondono invece e crescono spaventosamente un deperimento fisico e un
pervertimento spirituale, che solo un'azione curatrice ed educatrice di varie
generazioni potrà lentamente almeno in parte far scomparire. Se il conflitto
guerresco ha causato in tanti così vaste rovine di corpo e di spirito, non ha
risparmiato gli avidi dell'opulenza e del puro godimento della vita, i quali
stanno ora muti e perplessi dinanzi alle distruzioni, sopravvenute anche sopra
i loro beni come un uragano devastatore: ricchezze e focolari annientati dal
ferro e dal fuoco, vita comoda e di piaceri scomparsa, tragico il presente,
l'avvenire con poche speranze e molti timori.
Più triste è la visione che turba e
spaventa coloro, i quali aspirarono a possedere forza e predominio : ora
contemplano con terrore l'oceano di sangue e di lacrime che bagna il mondo, le
tombe e le fosse di cadaveri moltiplicate e sparse su tutte le regioni della
terra e le isole dei mari, il lento spegnersi della civiltà, il progressivo
scomparire del benessere anche materiale, la distruzione di insignì monumenti e
nobilissimi edifici di arte sovrana, che potevano dirsi patrimonio comune del
mondo civile, l'acuirsi e l'approfondirsi di odi, che infiammano l'uno contro
l'altro i popoli e nulla di bene lasciano sperare per l'avvenire.
III — AI FEDELI
Il conforto della fede nelle odierne
calamità
Venite ora voi, o cristiani, voi, o
fedeli, legati da un ineffabile vincolo soprannaturale col Figlio di Dio
fattosi piccolo per noi, guidati e santificati dal suo Evangelo, alimentati
dalla grazia, frutto della passione e della morte del Redentore. Anche voi
sentite il dolore, ma con la speranza di un conforto che viene dalla vostra fede.
Le presenti miserie sono pure le vostre;
la guerra distruggitrice visita e tormenta anche voi, i vostri corpi e le
vostre anime, i vostri averi e i vostri beni, la vostra casa e il vostro
focolare. La morte vi ha spezzato il cuore e inflitte ferite lente a
rimarginarsi. Il pensiero a care tombe lontane rimaste forse sconosciute,
l'ansietà per gli scomparsi o dispersi, il sospiro bramoso di riabbracciare i
vostri amati prigionieri o deportati, vi mettono in una pena che accascia il
vostro spirito, mentre un avvenire grave ed oscuro incombe su tutti, genitori e
figli, giovani e vecchi.
In ogni giorno, e più che mai in
quest'ora, il Nostro cuore di Padre si sente con profondo e immutabile affetto
presso a ciascuno di voi, diletti figli e figlie, doloranti e angustiati. Ma
tutti i nostri sforzi non possono far cessare d'un tratto questa orrenda
guerra. Non ridare la vita ai vostri cari morti. Non ricostruire il vostro
focolare distrutto. Non liberarvi pienamente dalle vostre ansietà. Molto meno è
in Nostro potere di manifestarvi il futuro, le cui chiavi sono nelle mani di
Dio, che governa il processo degli eventi e ne ha segnato il termine pacifico.
Due cose però Noi possiamo e vogliamo
compiere. La prima è, che Noi abbiamo fatto e faremo sempre quanto è nelle
Nostre forze materiali e spirituali per alleviare le tristi conseguenze della
guerra, per i prigionieri, per i feriti, per i dispersi, per i randagi, per i
bisognosi. per tutti i sofferenti e i travagliati, di ogni lingua e nazione.
La seconda è, che in questo volgere del
tristo tempo di guerra Noi vogliamo che soprattutto ricordiate il gran de
conforto che ci ispira la fede, quando c'insegna che la morte e le sofferenze
di questa vita terrena perdono la loro dolorosa amarezza per coloro, che
possono con tranquilla e serena coscienza far propria la commovente preghiera
della Chiesa nella Messa per ì defunti : « Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita
viene cambiata, non tolta, e quando è disciolta la dimora di questa abitazione
terrena, sta preparata in cielo un'abitazione eterna » (Praef . Miss.
pro defunct.). Mentre gli altri, che non hanno speranza, si trovano davanti
ad un abisso pauroso, e le loro mani, brancicando alla ricerca di un punto di
appoggio, palpano il nulla, non dell'anima loro immortale, ma di una sfumata
felicità oltremondana; voi invece, per la grazia e liberalità di Dio
misericordioso, oltre la morte certa, « certa moriendi conditio »,
avete l'ineffabile divina consolazione della promessa d'immortalità, « futurae
immortalitatis promissio ».
Da una tal fede voi attingete un'interiore
serenità, una fiduciosa fortezza morale, che non soccombono neppure alle più
crude sofferenze. Grazia sublime questa e inestimabile privilegio, che dovete
ascrivere alla benignità del Salvatore; grazia e privilegio, che esige da voi
il rispondervi con azione di esemplare costanza e richiede un apostolato
quotidiano, tendente a ridare la fiducia a chi l'ha perduta e ad avviare a
salvezza spirituale coloro i quali, come naufraghi nell'oceano delle presenti
sciagure, stanno per sommergersi e perire.
Dovere dei cristiani nell'ora presente
Il cammino dell'umanità nella presente
confusione d'idee è stato un cammino senza Dio, anzi contro Dio; senza Cristo,
anzi contro Cristo. Con ciò non vogliamo né intendiamo offendere gli erranti;
essi sono e rimangono nostri fratelli.
Conviene però che anche la cristianità
consideri quella parte di responsabilità, che a lei tocca nelle odierne prove.
O non hanno forse anche molti cristiani fatto concessioni a quelle false idee e
indirizzi della vita, tante volte disapprovati dal magistero della Chiesa?
Ogni tiepidezza e ogni inconsulto
patteggiamento col rispetto umano nella professione della fede e delle sue
massime; ogni pusillanimità e ondeggiamento tra il bene e il male nella pratica
della vita cristiana, nell'educazione dei figli e nel governo della famiglia;
ogni peccato occulto o palese; tutto questo, e quel più che si potrebbe
aggiungere, è stato ed è un lacrimevole contributo alla sciagura, che oggi
sconvolge il mondo. E chi mai avrebbe il diritto di ritenersi senza colpa
alcuna? La riflessione sopra voi stessi e le vostre opere e l'umile
riconoscimento di tale responsabilità morale vi farà scorgere e sentire nel
profondo dell'anima quanto doverosa e santa sia per voi una preghiera e
un'azione che plachi e implori la misericordia di Dio e concorra a salvare i
fratelli; ridando a Dio quell'onore, che gli fu per tanti decenni negato,
conquistando e ottenendo agli uomini quella pace interiore, la quale non si può
trovare che col riavvicinamento alla luce spirituale della Grotta di Betlemme.
All'opera, diletti figli!
All'opera dunque e al lavoro, diletti
figli! Serrate le vostre file. Non cada il vostro coraggio; non rimanete inerti
in mezzo alle rovine. Uscitene fuori alla ricostruzione di un nuovo mondo
sociale per Cristo.
Splenda su di voi la stella che guidò il
cammino dei Magi a Gesù. Lo spirito, che da Lui emana, nulla ha perduto della
sua forza e della sua potenza risanatrice della umanità decaduta. Esso trionfò
un giorno sul paganesimo imperante. Perché non dovrebbe trionfare anche oggi,
quando pene e delusioni di ogni genere mostrano a tante anime la vanità e i
traviamenti dei sentieri finora seguiti nella vita pubblica e privata? Gran
numero di intelletti vanno ricercando nuovi ideali politici e sociali, privati
e pubblici, istruttivi ed educativi, e provano intima l'ansia di appagare il
bisogno del loro cuore. Sia loro guida l'esempio della vostra vita cristiana;
l'ardente vostra parola li scuota. Mentre passa la figura di questo mondo,
mostrate loro come la vera vita è « che conoscano Te, l'unico vero Dio, e Colui
che Tu hai mandato, Gesù Cristo » (Io. 17, 3).
Invocazione di soccorso
Per il vostro labbro rinasca nei fratelli
la conoscenza del Padre celeste, che, anche in tempi di terribile miseria,
governa il mondo con sapiente e provvida bontà; sperimentino la tranquilla
felicità, che viene da una vita ardente dell'amore di Dio. Ma l'amore di Dio
rende l'animo delicatamente sensibile anche ai bisogni dei fratelli, pronto
all'aiuto spirituale e materiale, disposto ad ogni rinunzia, affinché
rifiorisca nel cuore di tutti l'amore fervido ed attivo.
Oh forza della carità di Cristo! Noi la
sentiamo vibrante nella tenerezza del Nostro cuore di Padre, che, ugualmente
aperto e teso verso tutti, Ci fa inculcare col grido della Nostra parola
l'opera di misericordia e di soccorrevole amore.
Quante volte abbiamo dovuto ripetere con
animo straziato l'esclamazione del divino Maestro : « Misereor super
turbam », « Ho compassione di questo popolo », e quante volte
aggiungere anche Noi : « Non habent quod manducent », « Non
hanno che mangiare » (Marc. 8, 2), specialmente guardando a molte
regioni devastate e desolate dalla guerra! E non fu mai volta o momento che non
sentissimo duramente il contrasto fra le ristrettezze Nostre, non valevoli al
soccorso, e la gigantesca estensione del bisogno dei molti, che fanno pervenire
a Noi la loro voce supplichevole e il loro doloroso gemito, prima da regioni
lontane, e ora sempre più anche dalle vicine.
Di fronte a tale indigenza, ogni giorno
crescente, Noi rivolgiamo al mondo cristiano un insistente grido di paterna
invocazione di aiuto e di pietà: « Ecce sto ad ostium et pulso »,
« Ecco che sto alla porta e busso » (Apoc. 3, 20).
E non dubitiamo di rivolgerCi, con quella
fiducia che Dio C'ispira, al sentimento umano e cristiano di quei popoli e di
quelle Nazioni, a cui la Provvidenza ha risparmiato finora la diretta
sofferenza degli orrori della guerra, o che, pur essendo in guerra, vivono
ancora in condizioni che permettono ad essi di dare un generoso sfogo al loro
intento di misericordia e di porgere aiuto e sostentamento a quelli che, entro
i duri disagi del conflitto e senza soccorso esterno, difettano già oggi del
necessario e più ne difetteranno nel futuro.
Per una tale invocazione Ci sospinge e Ci
sostiene la speranza che essa incontrerà profonda eco nei cuori dei fedeli e di
quanti sentono in petto vivo spirito di umanità; mentre, fra gli urti nati e
acuiti dal conflitto mondiale, appare in luce sempre più chiara un consolante
svolgimento di pensieri e di propositi ; vogliamo dire il risveglio di una
solidaria responsabilità dinanzi ai problemi sorti dall'impoverimento generale,
originato dalla guerra. Le distruzioni e le devastazioni, che ne sono seguite,
esigono imperiosamente per tutta la estensione dei danni avvenuti un'opera di
ricostruzione e di soccorso. Gli errori del passato non molto lontano si
tramutano per gli spiriti indipendenti e illuminati in ammonizioni, alle quali,
così per ragione di prudenza, come per senso di umanità, non è mai che restino
sordi. Essi considerano il risanamento spirituale e la restaurazione materiale
dei popoli e degli Stati come un insieme organico, nel quale nulla sarebbe più
esiziale che il lasciare annidarsi focolari d'infezione, da cui domani potrebbe
nascere nuova rovina. Essi sentono che, in un nuovo ordinamento di pace, di
diritto e di operosità. non dovrebbero, per il trattamento di alcuni popoli in
modo non conforme alla giustizia, all'equità e alla saggezza, sorgere pericoli
o rimanere lacune nella struttura della intera organizzazione, che ne
metterebbero a repentaglio la consistenza e la stabilità.
Aspettazione di pace
Stretti e fedeli come vogliamo essere alla
doverosa imparzialità del Nostro ministero pastorale, esprimiamo il desiderio
che i Nostri figli diletti nulla omettano per far trionfare i principi di
illuminata ed equanime giustizia e fraternità nelle questioni così fondamentali
per la salute degli Stati. È infatti virtù propria degli spiriti saggi e dei
veri amici dell'umanità il comprendere che una pace conforme alla dignità
dell'uomo e alla coscienza cristiana non è mai che sia una dura imposizione
della spada, bensì il frutto di una previdente giustizia e di una responsabile
equità verso tutti.
Ma, se nell'aspettazione di una tale pace,
che tranquilli il mondo, voi, diletti figli e figlie, continuate a soffrire
amaramente nell'anima e nel corpo sotto i colpi dei disagi e della ingiustizia,
non dovete però domani macchiare quella pace e rendere ingiustizia con
ingiustizia, o forse commettere una ingiustizia anche maggiore.
In questa vigilia natalizia il vostro
cuore e la vostra mente si volgano al Fanciullo divino del presepio. Vedete e
meditate come in quella grotta abbandonata, esposta al freddo e ai venti, Egli
partecipi della vostra povertà e della vostra miseria. Egli, Signore del cielo
e della terra e di tutte le ricchezze, per le quali contendono gli uomini.
Tutto è suo: eppure quante volte in questi tempi ha dovuto anch'Egli
abbandonare chiese e cappelle distrutte, incendiate, crollate o pericolanti !
Forse là, dove la devozione dei vostri antenati Gli aveva dedicato magnifici
templi dagli agili archi e dalle volte sublimi, voi non potete offrirgli, in
mezzo alle rovine, fuorché una misera dimora in cappella di rifugio o in case
private. Noi vi lodiamo e ringraziamo, Sacerdoti e laici, uomini e donne, che
non di rado, sprezzando ogni pericolo della vostra vita, avete ricoverato e
custodito in luogo sicuro il Signore e Salvatore eucaristico. Il vostro zelo
non voleva che si avverasse ancora una volta ciò che fu detto di Cristo: «È
venuto nei suoi possessi e i suoi non l'hanno accolto » (Io. I, II).
Così il Signore non ha rifiutato di venire in mezzo alla vostra povertà: Egli
che già preferì Betlemme a Gerusalemme, la stalla e il presepe al grandioso
tempio del Padre suo. Povertà e miseria sono amare, ma diventano dolci se si
conserva in sé Iddio, il Figlio di Dio, Gesù Cristo, e la sua grazia e verità.
Egli rimane con voi, finché nel vostro cuore vivono la vostra fede, la vostra
speranza, il vostro amore, la vostra obbedienza e devozione.
Insieme con voi, diletti figli e figlie,
Noi deponiamo le Nostre preghiere ai piedi di Gesù Bambino e imploriamo da Lui
che sia questo l'ultimo Natale di guerra e che l'umanità possa celebrare nel
nuovo anno la ricorrenza della solennità natalizia, fulgente della luce e del
gaudio di una pace veramente cristiana.
PRINCIPI PER UN PROGRAMMA DI PACE
Ed ora voi tutti, che portate la
responsabilità, voi tutti, che per disposizione o permissione di Dio, avete
nelle vostre mani il potere sopra la sorte del vostro e degli altrui popoli :
ascoltate il supplichevole « Erudimini », che dal sanguinoso e
rovinoso abisso di questa immane guerra rintrona al vostro orecchio: fremito e
ammonimento per tutti, colpo di tromba del futuro giudizio annunziatrice di
condanna e di pena per coloro, che fossero sordi alla voce dell'umanità, che è
anche la voce di Dio.
I vostri scopi di guerra nella coscienza
della vostra forza possono ben aver abbracciato interi paesi e continenti. La
questione circa la colpa della presente guerra e la richiesta di riparazioni
possono pure indurvi ad alzare la vostra voce. Oggi però le devastazioni, che
il conflitto mondiale ha prodotte in tutti i campi della vita, materiali e
spirituali, arrivano già a così incomparabile gravezza ed estensione, e il
temuto pericolo che con la continuazione della guerra esse crescano in orrori
senza nome per ambedue le parti belligeranti, e per quanti, pur ripugnanti,
sono stati in essa travolti, appare così fosco e minaccioso al Nostro sguardo,
che Noi, per il bene e per la stessa esistenza di tutti e singoli i popoli, vi
diciamo e scongiuriamo:
Sollevatevi sopra voi stessi, sopra ogni
strettezza di giudizio e di calcolo, sopra ogni vanto di superiorità militare,
sopra ogni affermazione unilaterale di diritto e di giusti zia. Riconoscete
anche le verità sgradevoli ed educate i vostri popoli a guardarle in faccia con
serietà e fortezza.
Vera pace non è il risultato, per così
dire, aritmetico di una proporzione di forze, ma, nel suo ultimo e più profondo
significato, un'azione morale e giuridica.
Essa non si effettua in realtà senza
impiego di forza, e la sua stessa consistenza ha bisogno di appoggiarsi sopra
una normale misura di potenza. Ma la funzione propria di questa forza, se vuoi
essere moralmente retta, deve servire a protezione e a difesa, non a
diminuzione od oppressione del diritto.
Un'ora come la presente — capace non meno
di potenti e benefici progressi, che di funesti mancamenti ed errori — non si è
forse mai avuta nella storia della umanità.
E quest'ora domanda con voce imperiosa che
gli scopi di guerra e i programmi di pace siano dettati dal più alto senso
morale. Essi non debbono tendere, come a scopo supremo, se non ad un'opera
d'intesa e di concordia fra i popoli belligeranti, un'opera che lasci ad ogni
Nazione, cosciente della sua doverosa unione con la intera famiglia degli
Stati, la possibilità di associarsi degnamente, senza rinnegare o distruggere
sé stessa, alla grande futura azione mondiale di risanamento e di
ricostruzione. Naturalmente la conclusione di una tale pace non significherebbe
alcun abbandono delle necessarie garanzie e sanzioni di fronte a qualsiasi
attentato della forza contro il diritto.
Non pretendete da alcun membro della
famiglia dei popoli, anche se piccolo o debole, rinunzie a sostanziali diritti
e necessità vitali, che voi stessi, se si dovessero applicare al vostro popolo,
giudichereste inattuabili.
Date presto alla umanità ansiosa una pace,
che riabiliti il genere umano dinanzi a sé stesso e alla storia. Una pace,
sopra la cui culla non guizzino i lampi vendicatori dell'odio, non gl'istinti
di una sfrenata volontà di rappresaglia, ma risplenda l'aurora di un nuovo
spirito di comunanza mondiale, sorto dal mondiale dolore. Uno spirito di
comunanza che, sostenuto dalle indispensabili forze divine della fede
cristiana, sarà solo in grado di preservare la umanità, dopo questa infelice
guerra, dalla indicibile sciagura di una pace edificata su errati fondamenti, e
quindi effimera ed ingannevole.
Animati da questa speranza, Noi con
paterno affetto a voi, diletti figli e figlie, soprattutto a coloro, che
soffrono in maniera particolarmente dolorosa i disagi e le pene della guerra e
hanno bisogno dei divini conforti, e non ultimi a tutti quelli i quali,
rispondono alla Nostra invocazione, aprono il cuore all'amore operoso e
misericordioso, o, reggendo i destini dei popoli, sono bramosi di tranquillarli
con l'olivo di pace, impartiamo, come pegno di abbondanti favori celesti, la
Nostra Apostolica Benedizione.
*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità
Pio XII, V,
Quinto anno di Pontificato, 2 marzo 1943 - 1° marzo 1944, pp. 97-99
Tipografia Poliglotta Vaticana
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1944
1 settembre 1944
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, diffuso il 1 settembre 1944 nel 5°
anniversario dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale
Venerdì, 1° settembre 1944
I. La difesa della civiltà
cristiana
Oggi, al compiersi del quinto anno dallo
scoppio della guerra, la umanità, mentre si volge indietro a rimirare il
cammino di lagrime e di sangue affannosamente percorso in questo fosco
quinquennio di storia, inorridisce dinanzi all’abisso di miseria, in cui lo
spirito della violenza e il predominio della forza l’hanno precipitata, e pur
senza lasciarsi abbattere dal ricordo del passato, ricerca ansiosamente le
cause di una così funesta catastrofe spirituale e materiale, risoluta a
prendere ogni più efficace rimedio contro il ripetersi, in altre forme, della
immane tragedia.
Scossi dal cumulo di tante rovine, molti
animi onesti si ridestano come da un sogno angoscioso, bramosi di trovare anche
in altri campi — fino ad ora mutuamente separati e lontani — collaboratori,
compagni di via e di lotta, per la grande opera di ricostruzione di un mondo
scalzato nelle sue fondamenta e dilacerato nella sua più intima compagine.
Nulla certamente di più naturale, nulla di
più opportuno, nulla — supposte le indispensabili cautele — di più doveroso!
Per quanti si gloriano del nome cristiano
e professano la fede in Cristo con una condotta di vita inviolabilmente
conforme alle sue leggi, questa disposizione e prontezza di animo a lavorare in
comune, nello spirito di una vera solidarietà fraterna, non obbediscono
soltanto all’obbligo morale del retto adempimento dei doveri civili; essa si
eleva alla dignità di un postulato della coscienza sorretta e guidata
dall’amore di Dio e del prossimo, cui aggiungono vigore i segni ammonitori del
momento presente e la intensità dello sforzo richiesto per la salvezza dei
popoli.
Il quadrante della storia segna oggi
un’ora grave, decisiva, per tutta l’umanità.
Un mondo antico giace in frantumi. Veder
sorgere al più presto da quelle rovine un nuovo mondo, più sano, giuridicamente
meglio ordinato, più in armonia con le esigenze della natura umana: tale è
l’anelito dei popoli martoriati.
Quali saranno gli architetti che
disegneranno le linee essenziali del nuovo edificio, quali i pensatori che daranno
ad esso l’impronta definitiva?
Ai dolorosi e funesti errori del passato
succederanno forse altri non meno deplorevoli, e il mondo oscillerà
indefinitamente da un estremo all’altro? ovvero si arresterà il pendolo, grazie
all’azione di saggi reggitori di popoli, su direzioni e soluzioni che non
contraddicano al diritto divino e non contrastino con la coscienza umana e
soprattutto cristiana?
Dalla risposta a questa domanda dipende la
sorte della civiltà cristiana nell’Europa e nel mondo. Civiltà che, lungi dal
portare ombra o pregiudizio a tutte le forme peculiari e così svariate di
vivere civile nelle quali si manifesta l’indole propria di ciascun popolo,
s’innesta in esse e vi ravviva i più alti princìpi etici: la legge morale
scritta dal Creatore nei cuori degli uomini (Cf. Rom., 2, 15), il
diritto di natura derivante da Dio, i diritti fondamentali e la intangibile
dignità della persona umana; e per meglio piegare le volontà alla loro
osservanza, infonde nei singoli uomini, in tutto il popolo e nella convivenza
delle nazioni quelle energie superiori, che nessun potere umano vale anche
soltanto lontanamente a conferire, mentre, a somiglianza delle forze della
natura, preserva dai germi velenosi che minacciano l’ordine morale, di cui
impedisce la rovina.
Così avviene che la civiltà cristiana,
senza soffocare né indebolire gli elementi sani delle più varie culture native,
nelle cose essenziali le armonizza, creando in tal guisa una larga unità di
sentimenti e di norme morali — fondamento saldissimo di vera pace, di giustizia
sociale e di amore fraterno fra tutti i membri della grande famiglia umana.
Gli ultimi secoli hanno veduto, con una di
quelle evoluzioni piene di contraddizioni di cui la storia è scaglionata, da un
lato, sistematicamente minati i fondamenti stessi della civiltà cristiana,
dall’altro, invece, il patrimonio di essa diffondersi pur sempre attraverso
tutti i popoli. L’Europa e gli altri continenti vivono ancora, in diverso
grado, delle forze vitali e dei princìpi, che la eredità del pensiero cristiano
ha loro trasmessi quasi come in una spirituale trasfusione di sangue.
Alcuni giungono a dimenticare questo
prezioso patrimonio, a trascurarlo, perfino a ripudiarlo; ma il fatto di quella
successione ereditaria rimane. Un figlio può ben rinnegare sua madre; egli non
cessa perciò di essere a lei unito biologicamente e spiritualmente. Così anche
i figli, allontanatisi e straniatisi dalla casa paterna, sentono pur sempre,
talvolta inconsapevolmente, come voce del sangue, l’eco di quella eredità cristiana,
che spesso nei propositi e nelle azioni li preserva dal lasciarsi interamente
dominare e guidare dalle false idee, a cui essi, volutamente o di fatto,
aderiscono.
La chiaroveggenza, la dedizione, il
coraggio, il genio inventivo, il sentimento di carità fraterna di tutti gli
spiriti retti ed onesti determineranno in quale misura e fino a qual grado sarà
dato al pensiero cristiano di mantenere e di sorreggere l’opera gigantesca
della restaurazione della vita sociale, economica ed internazionale in un piano
non contrastante col contenuto religioso e morale della civiltà cristiana.
Perciò a tutti i Nostri figli e figlie nel
vasto mondo, come anche a coloro che, pur non appartenendo alla Chiesa, si
sentono uniti con Noi in quest’ora di determinazioni forse irrevocabili,
rivolgiamo l’urgente esortazione di ponderare la straordinaria gravità del
momento e di considerare come, al di sopra di ogni collaborazione con altre
divergenti tendenze ideologiche e forze sociali, suggerita talora da motivi
puramente contingenti, la fedeltà al patrimonio della civiltà cristiana e la
sua strenua difesa contro le correnti atee ed anticristiane è la chiave di
volta, che mai non può essere sacrificata, a nessun vantaggio transitorio, a
nessuna mutevole combinazione.
Questo invito, che confidiamo troverà
un’eco favorevole in milioni di anime sulla terra, tende principalmente ad una
leale ed efficace collaborazione in tutti quei campi, nei quali la creazione di
un più retto ordinamento giuridico si manifesta come particolarmente richiesta
dalla stessa idea cristiana. Ciò vale in modo speciale per quel complesso di
formidabili problemi, che riguardano la costituzione di un ordine economico e
sociale più rispondente all’eterna legge divina e più conforme alla dignità
umana. In esso il pensiero cristiano ravvisa come elemento sostanziale la
elevazione del proletariato, la cui risoluta e generosa attuazione apparisce ad
ogni vero seguace di Cristo non solo come un progresso terreno, ma anche come
l’adempimento di un obbligo morale.
II. Alcuni aspetti della questione
economica e sociale
Dopo anni amari d’indigenza, di
restrizioni e soprattutto di angosciosa incertezza, gli uomini attendono, al
termine della guerra, un profondo e definitivo miglioramento di così tristi
condizioni.
Le promesse di uomini di Stato, le
molteplici concezioni e proposte di dotti e di tecnici, hanno suscitato fra le
vittime di un malsano ordinamento economico e sociale una illusoria
aspettazione di palingenesi totale del mondo, un’esaltata speranza di un regno
millenario di universale felicità.
Tale sentimento offre un terreno
favorevole alla propaganda dei programmi più radicali, dispone gli spiriti a
una ben comprensibile, ma irragionevole e ingiustificata impazienza, che nulla
si ripromette da organiche riforme e tutto aspetta da sovvertimenti e da
violenze.
Di fronte a queste tendenze estreme il
cristiano, che seriamente medita sui bisogni e le miserie del suo tempo, rimane
nella scelta dei rimedi fedele alle norme che l’esperienza, la sana ragione e
l’etica sociale cristiana additano come i fondamenti e i princìpi di ogni
giusta riforma.
Già il Nostro immortale Predecessore Leone
XIII nella sua celebre Enciclica Rerum novarum enunciò
il principio che per ogni retto ordine economico e sociale « deve porsi
come fondamento inconcusso il diritto della proprietà privata ».
Se è vero che la Chiesa ha sempre
riconosciuto « il diritto naturale di proprietà e di trasmissione
ereditaria dei propri beni » (Enciclica Quadragesimo anno),
non è tuttavia men certo che questa proprietà privata è in particolar modo il
frutto naturale del lavoro, il prodotto di una intensa attività dell’uomo, che
l’acquista grazie alla sua energica volontà di assicurare e sviluppare con le
sue forze l’esistenza propria e quella della sua famiglia, di creare a sé e ai
suoi un campo di giusta libertà, non solo economica, ma anche politica,
culturale e religiosa.
La coscienza cristiana non può ammettere
come giusto un ordinamento sociale che o nega in massima o rende praticamente
impossibile o vano il diritto naturale di proprietà, così sui beni di consumo
come sui mezzi di produzione.
Ma essa non può nemmeno accettare quei
sistemi, che riconoscono il diritto della proprietà privata secondo un concetto
del tutto falso, e sono quindi in contrasto col vero e sano ordine sociale.
Perciò là dove, per esempio, il « capitalismo »
si basa sopra tali erronee concezioni e si arroga sulla proprietà un diritto
illimitato, senza alcuna subordinazione al bene comune, la Chiesa lo ha
riprovato come contrario al diritto di natura.
Noi vediamo infatti la sempre crescente
schiera dei lavoratori trovarsi sovente di fronte a quegli eccessivi
concentramenti di beni economici che, nascosti spesso sotto forme anonime,
riescono a sottrarsi ai loro doveri sociali e quasi mettono l’operaio nella
impossibilità di formarsi una sua proprietà effettiva.
Vediamo la piccola e media proprietà
scemare e svigorirsi nella vita sociale, serrata e costretta com’è ad una lotta
difensiva sempre più dura e senza speranza di buon successo.
Vediamo, da un lato, le ingenti ricchezze
dominare l’economia privata e pubblica, e spesso anche l’attività civile;
dall’altro, la innumerevole moltitudine di coloro che, privi di ogni diretta o
indiretta sicurezza della propria vita, non prendono più interesse ai veri ed alti
valori dello spirito, si chiudono alle aspirazioni verso una genuina libertà,
si gettano al servigio di qualsiasi partito politico, schiavi di chiunque
prometta loro in qualche modo pane e tranquillità. E la esperienza ha
dimostrato di quale tirannia in tali condizioni anche nel tempo presente sia
capace la umanità.
Difendendo dunque il principio della
proprietà privata, la Chiesa persegue un alto fine etico-sociale. Essa non
intende già di sostenere puramente e semplicemente il presente stato di cose,
come se vi vedesse la espressione della volontà divina, né di proteggere per
principio il ricco e il plutocrate contro il povero e non abbiente: tutt’altro!
Fin dalle origini, essa è stata la tutrice del debole oppresso contro la
tirannia dei potenti e ha patrocinato sempre le giuste rivendicazioni di tutti
i ceti dei lavoratori contro ogni iniquità. Ma la Chiesa mira piuttosto a far
sì che l’istituto della proprietà privata sia tale quale deve essere secondo i
disegni della sapienza divina e le disposizioni della natura: un elemento
dell’ordine sociale, un necessario presupposto delle iniziative umane, un
impulso al lavoro a vantaggio dei fini temporali e trascendenti della vita, e
quindi della libertà e della dignità dell’uomo, creato ad immagine di Dio, che
fin dal principio gli assegnò a sua utilità un dominio sulle cose materiali.
Togliete al lavoratore la speranza di
acquistare qualche bene in proprietà personale; quale altro stimolo naturale
potreste voi offrirgli per incitarlo a un lavoro intenso, al risparmio, alla
sobrietà, mentre oggi non pochi uomini e popoli, avendo tutto perduto, nulla
più hanno se non la loro capacità di lavoro? O si vuol forse perpetuare
l’economia di guerra per la quale in alcuni Paesi il pubblico potere ha in mano
tutti i mezzi di produzione e provvede per tutti e a tutto, ma con la sferza di
una dura disciplina? Ovvero si vorrà soggiacere alla dittatura di un gruppo
politico, che disporrà, come classe dominante, dei mezzi di produzione, ma
insieme anche del pane, e quindi della volontà di lavoro dei singoli?
La politica sociale ed economica
dell’avvenire, l’attività ordinatrice dello Stato, dei Comuni, degl’istituti
professionali, non potranno conseguire durevolmente il loro alto fine, che è la
vera fecondità della vita sociale e il normale rendimento della economia
nazionale, se non rispettando e tutelando la funzione vitale della proprietà
privata nel suo valore personale e sociale. Quando la distribuzione della
proprietà è un ostacolo a questo fine — ciò che non necessariamente né sempre è
originato dalla estensione del patrimonio privato —, lo Stato può
nell’interesse comune intervenire per regolarne l’uso, od anche, se non si può
equamente provvedere in altro modo, decretare la espropriazione, dando una
conveniente indennità. Per lo stesso scopo la piccola e la media proprietà
nell’agricoltura, nelle arti e nei mestieri, nel commercio e nell’industria
debbono essere garantite e promosse; le unioni cooperative debbono assicurare
loro i vantaggi della grande azienda; dove la grande azienda ancor oggi si
manifesta maggiormente produttiva, deve essere offerta la possibilità di
temperare il contratto di lavoro con un contratto di società (Cf.
Enciclica Quadragesimo anno).
Né si dica che il progresso tecnico si
oppone a tale regime e spinge nella sua corrente irresistibile tutta l’attività
verso aziende ed organizzazioni gigantesche, di fronte alle quali un sistema
sociale fondato sulla proprietà privata dei singoli deve ineluttabilmente
crollare. No; il progresso tecnico non determina, come un fatto fatale e
necessario, la vita economica. Esso si è fin troppo spesso docilmente chinato
dinanzi alle esigenze dei calcoli egoistici avidi di accrescere indefinitamente
i capitali; perché dunque non si piegherebbe anche dinanzi alla necessità di
mantenere e di assicurare la proprietà privata di tutti, pietra angolare
dell’ordine sociale? Anche il progresso tecnico, come fatto sociale, non deve
prevalere al bene generale, ma essere invece a questo ordinato e subordinato.
Al termine di questa guerra, che ha
sconvolto tutte le attività della vita umana e le ha lanciate verso nuovi
sentieri, il problema della futura configurazione. dell’ordine sociale farà
sorgere una lotta ardente fra le varie tendenze, in mezzo alla quale la
concezione sociale cristiana ha l’ardua, ma anche nobile missione di mettere in
evidenza e di mostrare teoricamente e praticamente ai seguaci di altre dottrine
come in questo campo, così importante per il pacifico sviluppo della umana
convivenza, i postulati della vera equità e i princìpi cristiani possono unirsi
in uno stretto connubio generatore di salvezza e di bene per quanti sanno
rinunziare ai pregiudizi e alle passioni e prestare orecchio agli insegnamenti
della verità. Noi abbiamo fiducia che i Nostri fedeli figli e figlie del mondo
cattolico, araldi della idea sociale cristiana, contribuiranno — anche a prezzo
di notevoli rinunzie — all’avanzamento verso quella giustizia sociale, di cui
debbono aver fame e sete tutti i veri discepoli di Cristo.
III. Pensieri di carità
L’esortazione alla vigilanza e alla
prontezza di tutti i cristiani per gl’immani doveri di un avvenire, che sembra
ormai prossimo, non deve farCi perdere di vista le acute angustie del presente.
Né alcuno si meraviglierà se, pur abbracciando di eguale amore tutti i popoli
della terra, la Nostra sollecitudine in questo campo e in questo momento si
porta in una maniera speciale verso l’Italia e Roma.
Le dirette operazioni di guerra, che hanno
sconvolto gran parte del suolo italico, sono ora lontane anche dalla Eterna
Città. Ma le conseguenze dirette e indirette del conflitto sono ben lungi
dall’esser cessate. L’Urbe, che Maria, « Salus populi romani »,
Madre del Divino Amore, protesse nell’ora del pericolo, non risuona più del
rombo delle battaglie. Ma la lotta contro la miseria, contro la fame, la
disoccupazione, il disagio economico, ha raggiunto in molte regioni d’Italia
una estensione tale che richiede, massime in vista dell’inverno, un pronto ed
efficace rimedio.
Nessuno ignora come di fatto nelle grandi
guerre alle dure necessità di carattere militare si dia ordinariamente la
precedenza sopra ogni diverso riguardo e considerazione. D’altra parte,
chiunque non si lasci guidare da particolari tendenze, ma rifletta sulla
imperiosa esigenza di provvedere insieme ai bisogni essenziali della vita
civile, ammetterà e riconoscerà le funeste influenze e i danni che la
sistematica requisizione, asportazione o distruzione di preziosi mezzi di
trasporto hanno cagionato al rifornimento di viveri sufficienti e acquistabili
a prezzo ragionevole. Ognuno altresì comprende come questo stato anormale,
unito con la egualmente vasta distruzione, requisizione o asportazione di
potenti mezzi di produzione, abbia provocato una paralisi nella vita economica,
le cui ripercussioni materiali e spirituali sulla popolazione divengono ogni
giorno più sintomatiche e minacciose.
Non sterili accuse porteranno rimedio a
tanto male, ma la sincera e generosa collaborazione di quanti hanno possibilità
e autorità per servire agli interessi del Paese. Non è forse desiderabile che
cooperino al bene comune persone probe, oneste, sperimentate, franche e immuni
da qualsiasi macchia di delitti o di reali abusi, anche se nel passato si
trovarono in altro campo politico, il che spianerebbe altresì la via alla
unione degli animi?
Nessun popolo, accasciato sotto il peso di
sciagure fisiche e morali, può risollevarsi da solo, con le proprie forze,
dalla sua prostrazione.
Ma d’altra parte nessun popolo,
giustamente geloso del suo onore, si adatterebbe ad attendere il suo
risorgimento unicamente dall’aiuto altrui, e non in pari tempo dallo sforzo
della propria volontà e delle proprie energie.
Perciò Noi, conoscendo la profonda miseria
in cui sono cadute estese regioni d’Italia, innanzi tutto ricordiamo a coloro,
i quali nel Paese stesso posseggono ampie scorte e abbondante raccolto di
viveri, l’obbligo di non sottrarli, per avidità di maggiori guadagni, a quelli
che languiscono di fame, memori dei tremendi castighi dal Giudice eterno
minacciati a chi è senza pietà per il fratello sofferente. Invochiamo poi dai
popoli, la cui capacità economica non è stata sostanzialmente danneggiata dalla
guerra, di porgere alla popolazione d’Italia, nei limiti del possibile e senza
pregiudizio di quanto è dovuto anche ad altre Nazioni egualmente indigenti,
quei soccorsi, di cui ha bisogno specialmente nel periodo iniziale della sua
rinascita.
Di buon animo riconosciamo ciò che è stato
fatto — e sappiamo che ancor più s’intende di fare — in tal senso dalle Potenze
alleate, come altresì volentieri apprezziamo gli sforzi compiuti dalle Autorità
italiane. Niuno più di Noi, — cui le cure dell’Apostolico Ministero mettono più
facilmente in grado di conoscere i dolori dei poveri e degli oppressi, — sente
nel cuore intima gratitudine verso quanti, in Italia e all’estero, — Governi,
Episcopato, Clero, laici, — hanno cooperato e cooperano a così nobile scopo. Se
purtroppo non Ci è stato fin qui possibile di ottenere l’uso di motovelieri o
di altre navi per il trasporto di generi alimentari e per il ritorno di
profughi alle loro terre, abbiamo tuttavia la fiducia di conseguire
prossimamente altri mezzi per arrecare sollievo a numerose sventure. E come per
il passato, così anche per il futuro serberemo profonda riconoscenza verso
quanti Ci metteranno in condizione di attenuare la dolorosa sproporzione fra la
esiguità delle Nostre proprie risorse e la grandezza incommensurabile dei più
urgenti bisogni.
Noi salutiamo in questa prestazione di
soccorsi da popolo a popolo, già iniziata durante la guerra e pur nei ristretti
limiti che questa consente, il ridestarsi di un senso di generosità, non meno
umanamente elevato che politicamente saggio; senso, che nel calore della lotta
e nell’appassionata affermazione dei contrastanti interessi può bensì
affievolirsi, ma non interamente estinguersi, e che, fondato com’è sulla natura
stessa e sulla concezione cristiana della vita, dovrà poi tornare pienamente in
onore, non appena la spada avrà compiuto la dura opera sua.
IV. Pensieri di pace
Nulla senza dubbio Noi più ardentemente
desideriamo che di vedere quanto prima splendere il giorno in cui, cessato il
fragore delle armi, saranno ridate a tanta parte della umanità torturata, e
quasi all’estremo limite delle sue forze fisiche e morali, pace, sicurezza e
prosperità.
Innumerevoli cuori sospirano questo
giorno, come i naufraghi il sorgere della stella mattutina. Molti nondimeno
avvertono fin da ora che il passaggio dalla tempesta violenta alla grande
tranquillità della pace può essere ancora penoso ed amaro; comprendono che le
tappe del cammino dalla cessazione delle ostilità allo stabilimento di
condizioni normali di vita possono nascondere più gravi difficoltà che non si
pensi. È perciò tanto più necessario che un forte sentimento di solidarietà
risorga fra i popoli, al fine di rendere più rapido e duraturo il risanamento
del mondo.
Già nel Nostro discorso natalizio
del 1939 Noi auspicavamo la creazione di organizzazioni
internazionali che, evitando le lacune e le deficienze del passato, fossero
realmente atte a preservare la pace, secondo i princìpi della giustizia e della
equità, contro ogni possibile minaccia per il futuro. Poiché oggi alla luce di
tante terribili esperienze l’aspirazione verso un simile nuovo istituto
universale di pace richiama sempre più l’attenzione e le cure degli uomini di
Stato e dei popoli, Noi volentieri esprimiamo il Nostro compiacimento e
formiamo l’augurio che la sua concreta attuazione corrisponda veramente nella
più larga misura all’altezza del fine, che è il mantenimento, a vantaggio di
tutti, della tranquillità e della sicurezza nel mondo.
Ma niuno forse tanto ansiosamente invoca
la fine del conflitto e il rinascere della mutua concordia fra le Nazioni
quanto i milioni di prigionieri e d’internati civili, costretti dalla guerra a
mangiare il duro pane della cattività o del lavoro forzato in terra straniera.
Il dolore per la protratta lontananza dalle madri, dalle spose, dai figli, per
la lunga separazione da tutte le persone e le cose amate, li strugge e li
consuma, e desta in loro un vivo senso di schianto e di abbandono, di cui può
farsi una idea soltanto chi sappia penetrare nell’intima angoscia dei loro
cuori. E poiché questa guerra, con ciò che ad essa è necessariamente o
arbitrariamente connesso, ha condotto alla più ingente e tragica migrazione di
popoli che la storia conosca, sarà opera di alta umanità, di chiaroveggente
giustizia e di sapienza ordinatrice, se a questi infelici non si farà attendere
oltre i limiti dello stretto necessario la già troppo a lungo ritardata
liberazione.
Una tale risoluzione, che naturalmente non
escluderebbe alcune cautele giudicate forse indispensabili, sarebbe per tanti
miseri un primo raggio di sole nella oscurissima notte, il simbolico
annunziatore di una nuova era, in cui con la crescente distensione degli animi
tutte le Nazioni amanti della pace, grandi e piccole, potenti e deboli,
vincitrici e vinte, avranno parte, non meno ai diritti e ai doveri, che ai
benefici di una vera civiltà.
La spada può e talvolta, purtroppo, deve
aprire la via verso la pace.
L’ombra della spada può gravare anche sul
tragitto dalla cessazione delle ostilità alla conclusione formale della pace.
La minaccia della spada può apparire
inevitabile, entro i limiti giuridicamente necessari e moralmente
giustificabili, anche dopo la conclusione della pace, per tutelare
l’osservanza dei giusti obblighi e prevenire tentativi di nuovi conflitti.
Ma l’anima di una pace degna di questo
nome, il suo spirito vivificatore, non può essere che uno solo: una giustizia
che con imparziale misura a tutti dà ciò che ad ognuno è dovuto e da tutti
esige ciò a cui ognuno è obbligato, una giustizia che non dà tutto a tutti, ma
a tutti dà amore e a nessuno fa torto, una giustizia che è figlia della verità
e madre di sana libertà e di sicura grandezza.
*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità
Pio XII, VI,
Quinto anno di Pontificato, 2 marzo 1944 - 1° marzo 1945, pp. 121-132
Tipografia Poliglotta Vaticana
24 dicembre 1944
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, ai popoli del mondo interno in occasione
della Viglia del Natale 1944
Domenica, 24 dicembre l944
Il sesto Natale di guerra
Benignitas et humanitas apparuit
Salvatoris nostri Dei (Tit. 3, 4). Già per la sesta volta, dopo l'inizio della
orribile guerra, la santa liturgia natalizia saluta con queste parole, spiranti
pace serena, la venuta fra noi del Dio Salvatore. L'umile e squallida culla di
Betlemme fa convergere verso di sé con indicibile attrattiva il pensiero di
tutti i credenti.
Nel fondo dei cuori ottenebrati, afflitti,
abbattuti, scende, e tutti li invade, un gran torrente di luce e di gioia. Le
fronti abbassate si rialzano serene, perché il Natale è la festa della dignità
umana, la festa dell'« ammirabile scambio, per il quale il Creatore del genere
umano, prendendo un corpo vivente, si è degnato di nascere dalla Vergine, e con
la sua venuta ci ha largito la sua divinità » (Ant. I in I Vesp. in Circumc.
Dom.).
Ma il nostro sguardo si porta
spontaneamente dal luminoso Bambino del presepio sul mondo che ci circonda, e
il doloroso sospiro dell'Evangelista Giovanni sale sulle nostre labbra: « Lux
in tenebris lucet et tenebrae eam non comprehenderunt » (Io. I,
5): La luce splende fra le tenebre e le tenebre non l'hanno accolta.
Poiché pur troppo anche questa sesta volta
l'alba del Natale si leva su campi di battaglia sempre più estesi, su cimiteri
ove sempre più numerose si accumulano le spoglie delle vittime, su terre
deserte, ove rare torri vacillanti indicano nella loro silenziosa tristezza le
rovine di città dianzi fiorenti e prospere, e ove campane cadute o rapite non
risvegliano più gli abitanti col loro giulivo canto di Natale. Sono altrettanti
muti testimoni che denunziano questa macchia nella storia della umanità, la
quale volontariamente cieca dinanzi alla chiarezza di Colui che è splendore e
lume del Padre, volontariamente allontanatasi da Cristo, discesa e caduta nella
rovina e nell'abdicazione della propria dignità. Anche la piccola lampada si é
estinta in molti templi maestosi, in molte modeste cappelle, ove presso il
tabernacolo aveva partecipato alle veglie dell'Ospite divino sul mondo
addormentato. Quale desolazione! quale contrasto! Non vi sarebbe più dunque
speranza per I'umanità?
Aurora di speranza
Sia benedetto il Signore! Dai lugubri
gemiti del dolore, dal seno stesso della straziante angoscia degli individui e
dei paesi oppressi, si leva un'aurora di speranza. In una schiera sempre
crescente di nobili spiriti sorge un pensiero, una volontà sempre più chiara e
ferma: fare di questa guerra mondiale, di questo universale sconvolgimento, il
punto da cui prenda le mosse un'era novella per il rinnovamento profondo, la
riordinazione totale del mondo. In tal guisa, mentre gli eserciti continuano ad
affaticarsi in lotte micidiali, con sempre più crudeli mezzi di combattimento,
gli uomini di governo, rappresentanti responsabili delle nazioni, si riuniscono
in colloqui, in conferenze, allo scopo di determinare i diritti e i doveri
fondamentali, sui quali dovrebbe essere ricostituita una comunanza degli Stati,
di tracciare il cammino verso un avvenire migliore, più sicuro, più degno della
umanità.
Antitesi strana, questa coincidenza di una
guerra, la cui asprezza tende a giungere fino al parossismo, e del notevole
progresso delle aspirazioni e dei propositi verso un'intesa per una pace solida
e durevole! Senza dubbio si può ben discutere il valore, l'applicabilità,
l'efficacia di questa o di quella proposta; il giudizio su di esse può ben
rimanere in sospeso; ma sempre vero che il movimento è in corso.
Il problema della democrazia
Inoltre — e questo è forse il punto più
importante —, sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel
cocente ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come
risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di
fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente.
Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di
un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono un sistema
di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.
Queste moltitudini, irrequiete, travolte
dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione
— dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse
mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri
pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della
guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe,
occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi è
forse da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene
largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più
efficacemente ai destini degli individui e della società?
È appena necessario di ricordare che,
secondo gl'insegnamenti della Chiesa, «non è vietato di preferire governi
temperati di forma popolare, salva però la dottrina cattolica circa l'origine e
l'uso del potere pubblico », e che « la Chiesa non riprova nessuna delle varie
forme di governo, purché adatte per sé a procurare il bene dei cittadini » (Leon.
XIII Encycl. «Libertas », 20 giugno 1888, in fin.).
Se dunque in questa solennità, che
commemora ad un tempo la benignità del Verbo incarnato e la dignità dell'uomo
(dignità intesa non solo sotto il rispetto personale, ma anche nella vita
sociale), Noi indirizziamo la Nostra attenzione al problema della democrazia,
per esaminare secondo quali norme deve essere regolata, per potersi dire una
vera e sana democrazia, confacente alle circostanze dell'ora presente; ciò
indica chiaramente che la cura e la sollecitudine della Chiesa rivolta non
tanto alla sua struttura e organizzazione esteriore, — le quali dipendono dalle
aspirazioni proprie di ciascun popolo, — quanto all'uomo, come tale, che, lungi
dall'essere l'oggetto e un elemento passivo della vita sociale, ne invece, e
deve esserne e rimanerne, il soggetto, il fondamento e il fine.
Premesso che la democrazia, intesa in
senso largo, ammette varie forme e può attuarsi così nelle monarchie come nelle
repubbliche, due questioni si presentano al Nostro esame:
l° Quali caratteri debbono
contraddistinguere gli uomini, che vivono nella democrazia e sotto il regime
democratico? 2° Quali caratteri debbono contraddistinguere gli uomini, che
nella democrazia tengono il pubblico potere?
I. CARATTERI PROPRI DEI CITTADINI IN
REGIME DEMOCRATICO
Esprimere il proprio parere sui doveri e i
sacrifici, che gli vengono imposti; non essere costretto ad ubbidire senza
essere stato ascoltato: ecco due diritti del cittadino, che trovano nella
democrazia, come indica il suo nome stesso, la loro espressione. Dalla
solidità, dall'armonia, dai buoni frutti di questo contatto tra i cittadini e
il governo dello Stato, si può riconoscere se una democrazia è veramente sana
ed equilibrata, e quale sia la sua forza di vita e di sviluppo. Per quello poi
che tocca l'estensione e la natura dei sacrifici richiesti a tutti i cittadini,
— al tempo nostro in cui così vasta e decisiva è l'attività dello Stato, la
forma democratica di governo apparisce a molti come un postulato naturale
imposto dalla stessa ragione. Quando però si reclama « più democrazia e
migliore democrazia », una tale esigenza non può avere altro significato che di
mettere il cittadino sempre più in condizione di avere la propria opinione
personale, e di esprimerla e farla valere in una maniera confacente al bene
comune.
Popolo e « massa »
Da ciò deriva una prima conclusione
necessaria, con la sua conseguenza pratica. Lo Stato non contiene in sé e non
aduna meccanicamente in un dato territorio un'agglomerazione amorfa
d'individui. Esso è, e deve essere in realtà, l'unità organica e organizzatrice
di un vero popolo.
Popolo e moltitudine amorfa o, come suol
dirsi, « massa » sono due concetti diversi. Il popolo vive e si muove per vita
propria; la massa è per sé inerte, e non può essere mossa che dal di fuori. Il
popolo vive della pienezza della vita degli uomini che lo compongono, ciascuno
dei quali — al proprio posto e nel proprio modo — è una persona consapevole
delle proprie responsabilità e delle proprie convinzioni. La massa, invece,
aspetta l'impulso dal di fuori, facile trastullo nelle mani di chiunque ne
sfrutti gl'istinti o le impressioni, pronta a seguire, a volta a volta, oggi
questa, domani quell'altra bandiera. Dalla esuberanza di vita d'un vero popolo
la vita si effonde, abbondante, ricca, nello Stato e in tutti i suoi organi,
infondendo in essi, con vigore incessantemente rinnovato, la consapevolezza
della propria responsabilità, il vero senso del bene comune. Della forza
elementare della massa, abilmente maneggiata ed usata, può pure servirsi lo
Stato: nelle mani ambiziose d'un solo o di più, che le tendenze egoistiche abbiano
artificialmente raggruppati, lo Stato stesso può, con l'appoggio della massa,
ridotta a non essere più che una semplice macchina, imporre il suo arbitrio
alla parte migliore del vero popolo: l'interesse comune ne resta gravemente e
per lungo tempo colpito e la ferita è bene spesso difficilmente guaribile.
Da ciò appare chiara un'altra conclusione
: la massa — quale Noi abbiamo or ora definita — è la nemica capitale della
vera democrazia e del suo ideale di libertà e di uguaglianza.
In un popolo degno di tal nome, il
cittadino sente in se stesso la coscienza della sua personalità, dei suoi
doveri e dei suoi diritti, della propria libertà congiunta col rispetto della
libertà e della dignità altrui. In un popolo degno di tal nome, tutte le
ineguaglianze, derivanti non dall'arbitrio, ma dalla natura stessa delle cose,
ineguaglianze di cultura, di averi, di posizione sociale — senza pregiudizio,
ben inteso, della giustizia e della mutua carità — non sono affatto un ostacolo
all'esistenza ed al predominio di un autentico spirito di comunità e di
fratellanza. Che anzi esse, lungi dal ledere in alcun modo l'uguaglianza
civile, le conferiscono il suo legittimo significato, che cioè, di fronte allo
Stato, ciascuno ha il diritto di vivere onoratamente la propria vita personale,
nel posto e nelle condizioni in cui i disegni e le disposizioni della
Provvidenza l'hanno collocato.
In contrasto con questo quadro dell'ideale
democratico di libertà e d'uguaglianza in un popolo governato da mani oneste e
provvide, quale spettacolo offre uno Stato democratico lasciato all'arbitrio
della massa! La libertà, in quanto dovere morale della persona, si trasforma in
una pretensione tirannica di dare libero sfogo agl'impulsi e agli appetiti
umani a danno degli altri. L'uguaglianza degenera in un livellamento meccanico,
in una uniformità monocroma: sentimento del vero onore, attività personale,
rispetto della tradizione, dignità, in una parola, tutto quanto dà alla vita il
suo valore, a poco a poco, sprofonda e dispare. E sopravvivono soltanto, da una
parte, le vittime illuse del fascino appariscente della democrazia, confuso
ingenuamente con lo spirito stesso della democrazia, con la libertà e
l'uguaglianza; e, dall'altra parte, i profittatori più o meno numerosi che
hanno saputo, mediante la forza del danaro o quella dell'organizzazione,
assicurarsi sugli altri una condizione privilegiata e lo stesso potere.
II. CARATTERI DEGLI UOMINI CHE NELLA
DEMOCRAZIA TENGONO IL PUBBLICO POTERE
Lo Stato democratico, sia esso monarchico
o repubblicano, deve, come qualsiasi altra forma di governo, essere investito
del potere di comandare con una autorità vera ed effettiva. Lo stesso ordine
assoluto degli esseri e dei fini, che mostra l'uomo come persona autonoma, vale
a dire soggetto di doveri e di diritti inviolabili, radice e termine della sua
vita sociale, abbraccia anche lo Stato come società necessaria, rivestita
dell'autorità, senza la quale non potrebbe né esistere né vivere. Che se gli
uomini, prevalendosi della libertà personale, negassero ogni dipendenza da una
superiore autorità munita del diritto di coazione, essi scalzerebbero con ciò
stesso il fondamento della loro propria dignità e libertà, vale a dire
quell'ordine assoluto degli esseri e dei fini.
Stabiliti su questa medesima base, la
persona, lo Stato, il pubblico potere, con i loro rispettivi diritti, sono
stretti e connessi in tal modo che o stanno o rovinano insieme.
E poiché quell'ordine assoluto, alla luce
della sana ragione, e segnatamente della fede cristiana, non può avere altra
origine che in un Dio personale, nostro Creatore, consegue che la dignità
dell'uomo è la dignità dell'immagine di Dio, la dignità, dello Stato è la
dignità della comunità morale voluta da Dio, la dignità dell'autorità politica
la dignità della sua partecipazione all'autorità di Dio.
Nessuna forma di Stato può non tener conto
di questa intima e indissolubile connessione; meno di ogni altra la democrazia.
Pertanto, se chi ha il pubblico potere non la vede o più o meno la trascura,
scuote nelle sue basi la sua propria autorità. Parimente, se egli non terrà
abbastanza in conto questa relazione, e non vedrà nella sua carica la missione
di attuare l'ordine voluto da Dio, sorgerà il pericolo che l'egoismo del
dominio o degli interessi prevalga sulle esigenze essenziali della morale
politica e sociale, e che le vane apparenze di una democrazia di pura forma
servano spesso come di maschera a quanto vi è in realtà di meno democratico.
Soltanto la chiara intelligenza dei fini
assegnati da Dio ad ogni società umana, congiunta col sentimento profondo dei
sublimi doveri dell'opera sociale, può mettere quelli, a cui è affidato il
potere, in condizione di adempire i propri obblighi di ordine sia legislativo,
sia giudiziario od esecutivo, con quella coscienza della propria responsabilità.,
con quella oggettività, con quella imparzialità, con quella lealtà, con quella
generosità, con quella incorruttibilità, senza le quali un governo democratico
difficilmente riuscirebbe ad ottenere il rispetto, la fiducia e l'adesione
della parte migliore del popolo.
Il sentimento profondo dei principi di un
ordine politico e sociale, sano e conforme alle norme del diritto e della
giustizia, è di particolare importanza in coloro che, in qualsiasi forma di
regime democratico, hanno come rappresentanti del popolo, in tutto o in parte,
il potere legislativo. E poiché il centro di gravità di una democrazia
normalmente costituita risiede in questa rappresentanza popolare, da cui le
correnti politiche s'irradiano in tutti i campi della vita pubblica — così per
il bene come per il male —, la questione della elevatezza morale, della
idoneità pratica, della capacità intellettuale dei deputati al parlamento, è
per ogni popolo in regime democratico una questione di vita o di morte, di
prosperità o di decadenza, di risanamento o di perpetuo malessere.
Per compiere un'azione feconda, per
conciliare la stima e la fiducia, qualsiasi corpo legislativo deve - come
attestano indubitabili esperienze - raccogliere nel suo seno una eletta di
uomini, spiritualmente eminenti e di fermo carattere, che si considerino come i
rappresentanti dell'intero popolo e non già come i mandatari di una folla, ai
cui particolari interessi spesso purtroppo sono sacrificati i veri bisogni e le
vere esigenze del bene comune. Una eletta di uomini, che non sia ristretta ad
alcuna professione o condizione, bensì che sia l'immagine della molteplice vita
di tutto il popolo. Una eletta di uomini di solida convinzione cristiana, di
giudizio giusto e sicuro, di senso pratico ed equo, coerente con se stesso in
tutte le circostanze; uomini di dottrina chiara e sana, di propositi saldi e
rettilinei, uomini soprattutto capaci, in virtù dell'autorità che emana dalla
loro pura coscienza e largamente s'irradia intorno ad essi, di essere guide e
capi specialmente nei tempi in cui le incalzanti necessità sovreccitano la
impressionabilità del popolo, e lo rendono più facile ad essere traviato e a
smarrirsi; uomini che nei periodi di transizione, generalmente travagliati e
lacerati dalle passioni, dalle divergenze delle opinioni e dalle opposizioni
dei programmi, si sentono doppiamente in dovere di far circolare nelle vene del
popolo e dello Stato, arse da mille febbri, l'antidoto spirituale delle vedute
chiare, della bontà premurosa, della giustizia ugualmente favorevole a tutti, e
la tendenza della volontà verso l'unione e la concordia nazionale in uno
spirito di sincera fratellanza.
I popoli, il cui temperamento spirituale e
morale è bastantemente sano e fecondo, trovano in se stessi e possono dare al
mondo gli araldi e gli strumenti della democrazia, che vivono in quelle
disposizioni e le sanno mettere realmente in atto. Dove invece mancano tali
uomini, altri vengono ad occupare il loro posto, per far dell'attività politica
l'arena della loro ambizione, una corsa ai guadagni per se stessi, per la loro
casta o per la loro classe, mentre la caccia agl'interessi particolari fa
perdere di vista e mette in pericolo il vero bene comune.
L'assolutismo di Stato
Una sana democrazia, fondata
sugl'immutabili principi della legge naturale e delle verità rivelate, sarà
risolutamente contraria a quella corruzione, che attribuisce alla legislazione
dello Stato un potere senza freni né limiti, e che fa anche del regime
democratico, nonostante le contrarie ma vane apparenze, un puro e semplice
sistema di assolutismo.
L'assolutismo di Stato (da non
confondersi, in quanto tale, con la monarchia assoluta, di cui qui non si
tratta) consiste infatti nell'erroneo principio che l'autorità dello Stato è
illimitata, e che di fronte ad essa — anche quando dà libero corso alle sue
mire dispotiche, oltrepassando i confini del bene e del male, — non è ammesso
alcun appello ad una legge superiore e moralmente obbligante.
Un uomo compreso da rette idee intorno
allo Stato e all'autorità e al potere di cui è rivestito, in quanto custode
dell'ordine sociale, non penserà mai di offendere la maestà della legge
positiva nell'ambito della sua naturale competenza. Ma questa maestà del
diritto positivo umano allora soltanto è inappellabile, se si conforma — o
almeno non si oppone — all'ordine assoluto, stabilito dal Creatore e messo in
una nuova luce dalla rivelazione del Vangelo. Essa non può sussistere, se non
in quanto rispetta il fondamento, sul quale si appoggia la persona umana, non
meno che lo Stato e il pubblico potere. È questo il criterio
fondamentale di ogni sana forma di governo, compresa la democrazia; criterio
col quale deve essere giudicato il valore morale di ogni legge particolare.
III. NATURA E CONDIZIONI DI UNA
EFFICACE ORGANIZZAZIONE PER LA PACE
La unità del genere umano e la società dei
popoli
Noi abbiamo voluto, diletti figli e
figlie, cogliere l'occasione della festa natalizia per indicare su quali vie
una democrazia, che corrisponda alla dignità umana, possa, in armonia con la
legge naturale e coi disegni di Dio manifestati nella rivelazione, pervenire a
benefici risultati. Noi infatti profondamente sentiamo la somma importanza di
questo problema per il pacifico progresso della famiglia umana; ma al tempo
stesso siamo consapevoli delle alte esigenze che questa forma di governo impone
alla maturità morale dei singoli cittadini; una maturità morale, alla quale
invano si potrebbe sperar di giungere pienamente e sicuramente, se la luce
della grotta di Betlemme non rischiarasse l'oscuro sentiero, per il quale i
popoli dal tempestoso presente s'incamminano verso un avvenire che sperano più
sereno.
Fino a qual punto però i rappresentanti e
i pionieri della democrazia saranno compresi nelle loro deliberazioni dalla
convinzione che l'ordine assoluto degli esseri e dei fini, da Noi ripetutamente
ricordato, include anche, come esigenza morale e quale coronamento dello
sviluppo sociale, la unità del genere umano e della famiglia dei popoli? Dal
riconoscimento di questo principio dipende l'avvenire della pace. Nessuna
riforma mondiale, nessuna garanzia di pace può fare da esso astrazione, senza
indebolirsi e rinnegare se stessa. Se invece quella medesima esigenza morale
trovasse la sua attuazione in una società dei popoli, che sapesse evitare i
difetti di struttura e le manchevolezze di precedenti soluzioni, allora la
maestà di quell'ordine regolerebbe e dominerebbe egualmente le deliberazioni di
questa società e l'applicazione dei suoi mezzi di sanzione.
Per lo stesso motivo si comprende come
l'autorità di una tale società dei popoli dovrà essere vera ed effettiva sugli
Stati, che ne sono membri, in guisa però che ognuno di essi conservi un eguale
diritto alla sua relativa sovranità. Soltanto in tal modo lo spirito di una
sana democrazia potrà penetrare anche nel vasto e scabroso campo della politica
estera.
Contro la guerra di aggressione
come soluzione delle controversie internazionali
Un dovere, del resto, obbliga tutti, un
dovere che non tollera alcun ritardo, alcun differimento, alcuna esitazione,
alcuna tergiversazione: di fare cioè tutto quanto possibile per proscrivere e
bandire una volta per sempre la guerra di aggressione come soluzione legittima
delle controversie internazionali e come strumento di aspirazioni nazionali. Si
son veduti nel passato molti tentativi intrapresi a tale scopo. Tutti sono
falliti. E falliranno tutti sempre, fino a quando la parte più sana del genere
umano non avrà volontà ferma, santamente ostinata, come un obbligo di
coscienza, di compire la missione che i tempi passati avevano iniziata con non
sufficiente serietà e risolutezza.
Se mai una generazione ha dovuto sentire
nel fondo della coscienza il grido: « Guerra alla guerra! », essa certamente la
presente. Passata com'è attraverso un oceano di sangue e di lagrime, quale forse
i tempi passati mai non conobbero, essa ne ha vissuto le indicibili atrocità
cosi intensamente, che il ricordo di tanti orrori dovrà restarle impresso nella
memoria e fino nel più profondo dell'anima, come l'immagine di un inferno, in
cui chiunque nutre nel cuore sentimenti di umanità non potrà mai avere più
ardente brama che di chiudere per sempre le porte.
Formazione di un organo comune
per il mantenimento della pace
Le risoluzioni finora note delle
Commissioni internazionali permettono di concludere che un punto essenziale
d'ogni futuro assetto mondiale sarebbe la formazione di un organo per il
mantenimento della pace, organo investito per comune consenso di suprema
autorità., e il cui ufficio dovrebbe essere anche quello di soffocare in germe
qualsiasi minaccia di aggressione isolata o collettiva. Nessuno potrebbe
salutare questa evoluzione con maggior gaudio di chi già da lungo tempo ha
difeso il principio che la teoria della guerra, come mezzo adatto e
proporzionato per risolvere i conflitti internazionali, è ormai sorpassata.
Nessuno potrebbe augurare a questa comune collaborazione, da attuare con una
serietà d'intenti prima non conosciuta, pieno e felice successo con maggior
ardore di chi si è coscienziosamente adoperato per condurre la mentalità cristiana
e religiosa a riprovare la guerra moderna coi suoi mostruosi mezzi di lotta.
Mostruosi mezzi di lotta! Senza dubbio il
progresso delle umane invenzioni, che doveva segnare l'avveramento di un
maggiore benessere per tutta l'umanità, è stato invece volto a distruggere ciò
che i secoli avevano edificato. Ma con ciò stesso, si è resa sempre più
evidente l'immoralità di quella guerra di aggressione. E se ora al
riconoscimento di questa immoralità si aggiungerà la minaccia di un intervento
giuridico delle Nazioni e di un castigo inflitto all'aggressore dalla società
degli Stati, cosicché la guerra si senta sempre sotto il colpo della
proscrizione, sempre sorvegliata da un'azione preventiva; allora l'umanità,
uscendo dalla notte oscura in cui è stata per tanto tempo sommersa, potrà
salutare l'aurora di una nuova e migliore epoca della sua storia.
Suo statuto escludente ogni ingiusta
imposizione
A una condizione però : e cioè che
l'organizzazione della pace, cui le mutue garanzie, e ove occorre le sanzioni economiche
e perfino l'intervento armato dovrebbero dare vigore e stabilità, non consacri
definitivamente alcuna ingiustizia, non comporti alcuna lesione di alcun
diritto a detrimento di alcun popolo (sia che appartenga al gruppo dei
vincitori, o dei vinti o dei neutrali), non perpetui alcuna imposizione o
gravezza, che può essere permessa soltanto temporaneamente come riparazione dei
danni di guerra.
Che alcuni popoli, ai cui governi — o
forse anche in parte a loro stessi — si attribuisce la responsabilità della
guerra, abbiano a sopportare per qualche tempo i rigori dei provvedimenti di
sicurezza, fino a quando i vincoli di mutua fiducia violentemente infranti non
siano a poco a poco riannodati, cosa, per quanto gravosa, altrettanto
difficilmente evitabile. Nondimeno, questi stessi popoli dovranno avere
anch'essi la ben fondata speranza — nella misura della loro leale ed effettiva
cooperazione agli sforzi per la futura restaurazione — di poter essere, insieme
con gli altri Stati e con la medesima considerazione e i medesimi diritti,
associati alla grande comunità delle nazioni. Rifiutare loro questa speranza
sarebbe il contrario di una previdente saggezza, sarebbe assumere la grave
responsabilità di sbarrare il sentiero ad una liberazione generale da tutte le
disastrose conseguenze materiali, morali, politiche del gigantesco cataclisma,
che ha scosso fin nelle ultime profondità la povera famiglia umana, ma che le
ha al tempo stesso additata la via verso nuove mète.
Le austere lezioni del dolore
Noi non vogliamo rinunziare alla fiducia
che i popoli, i quali tutti sono passati per la scuola del dolore, avranno
saputo ritenerne le austere lezioni. E in questa speranza Ci confortano le
parole di uomini che hanno maggiormente provato le sofferenze della guerra e hanno
trovato accenti generosi, per esprimere, insieme con l'affermazione delle
proprie esigenze di sicurezza contro ogni futura aggressione, il loro rispetto
dei diritti vitali degli altri popoli e la loro avversione contro ogni
usurpazione dei diritti medesimi. Sarebbe vano l'attendere che questo saggio
giudizio, dettato dall'esperienza della storia e da un alto senso politico,
venga — mentre gli animi sono ancora incandescenti — generalmente accettato
dalla pubblica opinione, od anche soltanto dalla maggioranza. L'odio,
l'incapacità di comprendersi vicendevolmente, ha fatto sorgere, tra i popoli
che hanno combattuto gli uni contro gli altri, una nebbia troppo densa da poter
sperare che l'ora sia già venuta in cui un fascio di luce spunti a rischiarare
il tragico panorama ai due lati dell'oscura muraglia. Ma una cosa sappiamo: ed
è che il momento verrà, forse prima che non si pensi, quando gli uni e gli
altri riconosceranno come, tutto considerato, non vi è che una via per uscire
dall'irretimento, in cui la lotta e l'odio hanno avvolto il mondo, vale a dire
il ritorno a una solidarietà da troppo tempo dimenticata, solidarietà non
ristretta a questi o a quei popoli, ma universale, fondata sulla intima
connessione delle loro sorti e sui diritti in egual modo loro spettanti.
La punizione dei delitti
Nessuno certamente pensa di disarmare la
giustizia nei riguardi di chi ha profittato della guerra per commettere veri e
provati delitti di diritto comune, ai quali le supposte necessità militari
potevano al più offrire un pretesto, non mai una giustificazione. Ma se essa
presumesse di giudicare e punire, non più singoli individui, bensì
collettivamente intere comunità, chi potrebbe non vedere in simile procedimento
una violazione delle norme, che presiedono a qualsiasi giudizio umano?
IV. LA CHIESA TUTRICE DELLA VERA
DIGNITÀ
E LIBERTÀ UMANA
In un tempo in cui i popoli si trovano di
fronte a doveri, quali forse non hanno mai incontrato in alcuna svolta della
loro storia, essi sentono fervere nei loro cuori tormentati il desiderio
impaziente e come innato di prendere le redini del proprio destino con maggiore
autonomia che nel passato, sperando che così riuscirà loro più agevole di
difendersi contro le periodiche irruzioni dello spirito di violenza, che, come
un torrente di lava infocata, nulla risparmia di quanto ad essi caro e sacro.
Grazie a Dio, si possono credere
tramontati i tempi, in cui il richiamo ai principi morali ed evangelici per la
vita degli Stati e dei popoli era sdegnosamente escluso come irreale. Gli avvenimenti
di questi anni di guerra si sono incaricati di confutare, nel modo più duro che
si sarebbe mai potuto pensare, i propagatori di simili dottrine. Lo sdegno da
essi ostentato contro quel preteso irrealismo si è tramutato in una
spaventevole realtà : brutalità, iniquità, distruzione, annientamento.
Se l'avvenire apparterrà alla democrazia,
una parte essenziale nel suo compimento dovrà toccare alla religione di Cristo
e alla Chiesa, messaggera della parola del Redentore e continuatrice della sua
missione di salvezza. Essa infatti insegna e difende le verità, comunica le
forze soprannaturali della grazia, per attuare l'ordine stabilito da Dio degli
esseri e dei fini, ultimo fondamento e norma direttiva di ogni democrazia.
Con la sua stessa esistenza la Chiesa si
erge di fronte al mondo, faro splendente che ricorda costantemente quest'ordine
divino. La sua storia riflette chiaramente la sua missione provvidenziale. Le
lotte che, costretta dall'abuso della forza, ha dovuto sostenere per la difesa
della libertà ricevuta da Dio, furono, al tempo stesso, lotte per la vera
libertà dell'uomo.
La Chiesa ha la missione di annunziare al
mondo, bramoso di migliori e più perfette forme di democrazia, il messaggio più
alto e più necessario che possa esservi : la dignità dell'uomo, la vocazione
alla figliolanza di Dio. È il potente grido che dalla culla di
Betlemme risuona fino agli estremi confini della terra agli orecchi degli
uomini, in un tempo in cui questa dignità è più dolorosamente abbassata.
Il mistero del Santo Natale proclama
questa inviolabile dignità umana con un vigore e con un'autorità inappellabile,
che trascende infinitamente quella, cui potrebbero giungere tutte le possibili
dichiarazioni dei diritti dell'uomo. Natale, la grande festa del Figlio di Dio apparso
nella carne, la festa in cui il cielo si china verso la terra con una
ineffabile grazia e benevolenza, anche il giorno in cui la cristianità e la
umanità, dinanzi al Presepe, nella contemplazione della « benignitas et
humanitas Salvatoris nostri Dei », divengono più intimamente
consapevoli della stretta unità che Iddio ha stabilita tra di loro. La culla
del Salvatore del mondo, del Restauratore della dignità umana in tutta la sua
pienezza, è il punto contrassegnato dalla alleanza tra tutti gli uomini di
buona volontà. Là al povero mondo, lacerato dalle discordie, diviso dagli
egoismi, avvelenato dagli odi, verrà concessa la luce, restituito l'amore e
sarà dato d'incamminarsi, in cordiale armonia, verso lo scopo comune, per
trovare finalmente la guarigione delle sue ferite nella pace di Cristo.
V. CROCIATA DI CARITÀ
Non vogliamo chiudere questo Nostro
Messaggio natalizio senza rivolgere una commossa parola di gratitudine a tutti
coloro — Stati, Governi, Vescovi, popoli —, che in questi tempi di inenarrabili
sciagure Ci hanno prestato valido aiuto nel dare ascolto al grido di dolore,
che Ci giunge da tante parti del mondo, e nel porgere la Nostra soccorrevole
mano a tanti diletti figli e figlie, che le vicende della guerra hanno ridotto
all'estrema povertà e miseria.
Ed in primo luogo giusto ricordare la
vasta opera di assistenza svolta, nonostante le straordinarie difficoltà dei
trasporti, dagli Stati Uniti d'America e, per ciò che riguarda particolarmente
l'Italia, dall'Eccm-o Rappresentante personale del Signor Presidente di
quell'Unione presso di Noi.
Né minor lode e riconoscenza Ci è grato di
esprimere alla generosità del Capo dello Stato, del Governo e del popolo
Spagnuolo, del Governo Irlandese, dell'Argentina, dell'Australia, della
Bolivia, del. Brasile, del Canadà, del Cile, dell'Italia, della Lituania, del
Perù, della Polonia, della Romania, della Slovacchia, della Svizzera,
dell'Ungheria, dell'Uruguay, che hanno gareggiato in nobile sentimento di
fratellanza e di carità, la cui eco non risonerà invano nel mondo.
Mentre gli uomini di buona volontà si
studiano di gettare un ponte spirituale di unione tra i popoli, questa pura e
disinteressata azione di bene assume un aspetto e un valore di singolare
importanza.
Allorché — come tutti ci auguriamo — le dissonanze
dell'odio e della discordia, che dominano l'ora presente, non saranno più che
un triste ricordo, matureranno con ancor più larga abbondanza i frutti di
questa vittoria dell'attuoso e magnanimo amore sul veleno dell'egoismo e delle
inimicizie.
A quanti hanno partecipato a questa
Crociata di carità, sia sprone e ricompensa la Nostra Apostolica Benedizione e
il pensiero che nella festa dell'amore da innumerevoli cuori angosciati, ma
nella loro angustia non immemori, sale al Cielo per loro la riconoscente
preghiera: Retribuere di gnare, Domine, omnibus nobis bona facientibus
propter nomen tuum, vitam aeternam!
*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità
Pio XII, VI,
Quinto anno di Pontificato, 2 marzo l944 - l° marzo l945, pp. 235-25l
Tipografia Poliglotta Vaticana
**************************************
1945
9 maggio 1945
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, «Ecco alfine terminata», in occasione della
fine in Europa della Seconda guerra mondiale
ECCO ALFINE TERMINATA
questa guerra che, durante quasi sei anni, ha tenuto l'Europa nella stretta
delle più atroci sofferenze e delle più amare tristezze. Un grido di
riconoscenza umile e ardente sgorga dal più profondo del Nostro cuore verso «il
Padre delle misericordie e il Dio di ogni consolazione» (2Cor 1,3). Ma il
Nostro cantico di azioni di grazia si accompagna con una preghiera
supplichevole per implorare dalla onnipotenza e dalla bontà divina il termine,
secondo giustizia, delle lotte sanguinose anche nell'Estremo Oriente.
Inginocchiati in spirito dinanzi alle
tombe, ai burroni sconvolti e rossi di sangue, ove riposano le innumerevoli
spoglie di coloro che son caduti vittime dei combattimenti o dei massacri
disumani, della fame o della miseria, Noi li raccomandiamo tutti nelle Nostre
preghiere e specialmente nella celebrazione del Santo Sacrificio, al
misericordioso amore di Gesù Cristo, loro Salvatore e loro Giudice. E Ci sembra
che essi, i caduti, ammoniscano i superstiti dell'immane flagello e dicano loro:
Sorgano dalle nostre ossa e dai nostri sepolcri e dalla terra, ove siamo stati
gettati come grani di frumento, i plasmatori e gli artefici di una nuova e
migliore Europa, di un nuovo e migliore universo, fondato sul timore filiale di
Dio, sulla fedeltà ai suoi santi comandamenti, sul rispetto della dignità
umana, sul principio sacro della uguaglianza dei diritti per tutti i popoli e
tutti gli Stati, grandi e piccoli, deboli e forti.
La guerra ha accumulato tutto un caos di
rovine, rovine materiali e rovine morali, come mai il genere umano non ne ha
conosciute nel corso di tutta la sua storia. Si tratta ora di riedificare il
mondo. Come primo elemento di questa restaurazione, Noi bramiamo di vedere,
dopo una così lunga attesa, il ritorno pronto e rapido, per quanto le
circostanze lo permettono, dei prigionieri, degl'internati, combattenti e
civili, ai loro domestici focolari, verso le loro spose, verso i loro figli,
verso i loro nobili lavori di pace.
A tutti poi Noi diciamo: Non lasciate
piegare la vostra energia né abbattersi il vostro coraggio; dedicatevi
ardentemente all'opera di ricostruzione, sostenuti da una robusta fede nella
Provvidenza divina. Mettetevi al lavoro, ognuno al suo posto, risoluto e
tenace, col cuore animato da un generoso, indistruttibile amore del prossimo. È
ardua, certamente, ma è pur santa la impresa che vi attende per riparare
gl'immediati e disastrosi effetti della guerra: vogliamo dire il disfacimento
dei pubblici ordinamenti, la miseria e la fame, il rilasciamento e l'imbarbarimento
dei costumi, l'indisciplinatezza della gioventù. In tal guisa, a poco a poco,
voi preparerete alle vostre città e ai vostri villaggi, alle vostre provihce e
alle patrie vostre, una sorte più accettevole e il vigore di un sangue
rinnovato.
Fugata dalla terra, dal mare, dal cielo la
morte insidiatrice, assicurata ormai dall'offesa delle armi la vita degli
uomini, creature di Dio, e quanto ad essi rimane dei privati e dei comuni
averi, gli uomini possono ormai aprire la mente e l'animo alla edificazione della
pace.
Se noi ci restringiamo a considerare
l'Europa, ci troviamo già dinanzi a problemi e a difficoltà gigantesche, di cui
bisogna trionfare, se si vuole spianare il cammino a una pace vera, la sola che
possa essere duratura. Essa non può infatti fiorire e prosperare se non in una
atmosfera di sicura giustizia e di lealtà perfetta, congiunte con reciproca
fiducia, comprensione e benevolenza. La guerra ha suscitato dappertutto
discordia, diffidenza ed odio. Se dunque il mondo vuol ricuperare la pace, occorre
che spariscano la menzogna e il rancore e in luogo loro dominino sovrane la
verità e la carità.
Innanzi tutto pertanto supplichiamo
istantemente nelle nostre preghiere quotidiane il Dio d'amore di adempire la
sua promessa fatta per bocca del profeta Ezechiele:.«Io darò loro un cuore
unanime, un nuovo spirito infonderò nel loro interno, e strapperò dalle loro
viscere il cuore di sasso e vi sostituirò un cuore di carne, affinché camminino
sulla via dei miei precetti e osservino i miei giudizi e li mettano in pratica,
ed essi siano il mio popolo e io sia il loro Dio» (Ez 11,19-20). Che il Signore
si degni di destare questo spirito nuovo, il suo spirito, nei popoli e
particolarmente nel cuore di coloro, cui è affidata la cura di ristabilire la
futura pace! Allora, e allora soltanto, il mondo risuscitato eviterà il ritorno
del tremendo flagello e regnerà la vera, stabile e universale fratellanza e
quella pace garantita da Cristo anche in terra a chi nella sua legge d'amore
vorrà credere e sperare.
(1) PIO
PP. XII, Radiomessaggio Ecco alfine terminata per la fine
della guerra in Europa, [A tutto il mondo], 9 maggio 1945: AAS 37(1945),
pp. 129-131.
2 giugno 1945
Discorso del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, «Nell’accogliere», ai Cardinali che gli
avevano presentato gli auguri per la festa di Sant’Eugenio
Agli Eminentissimi Cardinali che hanno
presentato gli auguri al Beatissimo Padre in occasione della festa di
Sant’Eugenio.
Nell’accogliere, Venerabili Fratelli, con
viva gratitudine gli auguri che a nome di voi tutti il venerando e amatissimo
Decano del S. Collegio Ci ha offerti, il Nostro pensiero Ci riporta a ben sei
anni addietro, allorché, in questa medesima ricorrenza, Ci presentavate i
vostri voti onomastici, la prima volta dopo la elevazione della Nostra indegna
persona alla Cattedra di Pietro.
Il mondo allora era ancora in pace: ma
quale pace! e quanto precaria! Col cuore pieno di angoscia, nella perplessità e
nella preghiera, Noi Ci chinavamo su questa pace, come chi si china al
capezzale d’un agonizzante e con ardente amore si ostina a contenderlo, pur
contro ogni speranza, alle strette della morte.
Nelle parole, che allora vi rivolgemmo,
traspariva la Nostra dolorosa apprensione per lo scatenarsi di un conflitto,
che sembrava farsi sempre più minaccioso, e di cui nessuno avrebbe potuto
prevedere né l’estensione né la durata.
Il successivo svolgersi degli avvenimenti
non soltanto dimostrò fin troppo vere le Nostre previsioni più tristi, ma le ha
anzi di gran lunga superate.
Oggi, dopo circa sei anni, le lotte
fratricide sono cessate, in una parte almeno di questo mondo devastato dalla
guerra. È una pace — se pure tale può chiamarsi — ben fragile ancora, e che non
potrà persistere e consolidarsi se non a prezzo di assidue cure; una pace, la
cui tutela impone a tutta la Chiesa, al Pastore e al gregge, gravi e
delicatissimi doveri: paziente prudenza, coraggiosa fedeltà, spirito di
sacrificio! Tutti son chiamati a consacrarvisi, ciascuno nel suo ufficio e al
proprio posto. Nessuno potrà mai apportarvi troppa premura né troppo zelo.
Quanto a Noi e al Nostro Apostolico
Ministero, ben sappiamo, Venerabili Fratelli, di poter fare sicuro assegnamento
sulla vostra sapiente collaborazione, sulle vostre incessanti preghiere, sulla
vostra inalterabile devozione.
I. LA CHIESA E IL NAZIONALSOCIALISMO
In Europa, la guerra è finita; ma quali
stigmate vi ha impresse! Il divino Maestro aveva detto: «Tutti quelli, che
ingiustamente metteranno mano alla spada, di spada periranno » (1).
Ora, che cosa voi vedete?
Voi vedete ciò che lascia dietro di sé una
concezione e un’attività dello Stato, che non tiene in nessun conto i
sentimenti più sacri dell’umanità, che calpesta gli inviolabili principi della
fede cristiana. Il mondo intero, stupito, contempla oggi la rovina che ne è
derivata.
Questa rovina, Noi l’avevamo veduta venir
di lontano, e ben pochi, crediamo, hanno seguito con maggior tensione
dell’animo l’evolversi e il precipitarsi della inevitabile caduta. Oltre dodici
anni, tra i migliori della Nostra età matura, avevamo vissuto, per dovere
dell’ufficio commessoCi, in mezzo al popolo germanico. In quel tempo, con la
libertà che le condizioni politiche e sociali di allora permettevano, Noi Ci
adoperammo per il consolidamento dello stato della Chiesa cattolica in
Germania. Noi avemmo così occasione di conoscere le grandi qualità di quel
popolo e Ci trovammo in relazioni personali coi suoi migliori rappresentanti.
Perciò nutriamo fiducia che esso possa risollevarsi a nuova dignità e a nuova
vita, dopo aver respinto da sé lo spettro satanico esibito dal
nazionalsocialismo, e dopo che i colpevoli (come abbiamo già avuto occasione di
esporre altre volte) avranno espiato i delitti da loro commessi.
Fin a quando non si era ancora perduto
ogni barlume di speranza che quel movimento potesse prendere un diverso e men
pernicioso indirizzo, sia per la resipiscenza dei suoi membri più moderati, sia
per una efficace opposizione della parte non consenziente del popolo tedesco,
la Chiesa fece quanto era in suo potere, per contrapporre una potente diga al
dilagare di quelle dottrine non meno deleterie che violente.
Nella primavera del 1933, il Governo
germanico sollecitò la Santa Sede a concludere un Concordato col Reich:
pensiero che incontrò il consenso anche dell’Episcopato e almeno della più gran
parte dei cattolici tedeschi. Infatti, né i Concordati già conclusi con alcuni
Stati particolari della Germania (Länder), né la Costituzione di Weimar
sembravano loro assicurare e garantire sufficientemente il rispetto delle loro
convinzioni, della loro fede, dei loro diritti e della loro libertà d’azione.
In tali condizioni, queste garanzie non potevano essere ottenute che mediante
un accordo, nella forma solenne di un Concordato, col Governo centrale del
Reich. Si aggiunga che, avendone questo fatta la proposta, sarebbe ricaduta, in
caso di rifiuto, sulla Santa Sede la responsabilità di ogni dolorosa
conseguenza.
Non già che la Chiesa, dal canto suo, si
lasciasse illudere da eccessive speranze, né che con la conclusione del
Concordato intendesse in qualsiasi modo di approvare la dottrina e le tendenze
del nazionalsocialismo, come fu allora espressamente dichiarato e spiegato (2).
Tuttavia bisogna riconoscere che il Concordato negli anni seguenti procurò
qualche vantaggio, o almeno impedì mali maggiori. Infatti, nonostante tutte le
violazioni di cui divenne ben presto l’oggetto, esso lasciava ai cattolici una
base giuridica di difesa, un campo sul quale trincerarsi per continuare ad
affrontare, fino a quando fosse loro possibile, il flutto sempre crescente
della persecuzione religiosa.
Invero la lotta contro la Chiesa si andava
sempre più inasprendo: era la distruzione delle organizzazioni cattoliche; era
la soppressione progressiva delle così fiorenti scuole cattoliche, pubbliche e
private; era la separazione forzata della gioventù dalla famiglia e dalla
Chiesa; era l’oppressione esercitata sulla coscienza dei cittadini,
particolarmente degli impiegati dello Stato; era la denigrazione sistematica,
mediante una propaganda scaltramente e rigorosamente organizzata, della Chiesa,
del Clero, dei fedeli, delle sue istituzioni, della sua dottrina, della sua
storia; era la chiusura, lo scioglimento, la confisca di case religiose e di
altri istituti ecclesiastici; era l’annientamento della stampa e della
produzione libraria cattolica.
Per resistere a questi attacchi, milioni
di valorosi cattolici, uomini e donne, si stringevano intorno ai loro Vescovi,
la cui voce coraggiosa e severa non mancò mai di risuonare fino a questi ultimi
anni di guerra; intorno ai loro sacerdoti, per aiutarli ad adattare
incessantemente il loro apostolato alle mutate necessità e circostanze; e fino
all’ultimo, con pazienza e fermezza, essi opposero al fronte dell’empietà e
dell’orgoglio il fronte della fede, della preghiera, della condotta e della
educazione francamente cattolica.
Intanto, senza esitazione, la stessa S.
Sede moltiplicava presso i governanti in Germania le sue premure e le sue
proteste, richiamandoli, con energia e chiarezza, al rispetto e all’osservanza
dei doveri derivanti dallo stesso diritto di natura e confermati nel patto
concordatario. In quei critici anni, associando all’attenta vigilanza del
Pastore la paziente longanimità del Padre, il Nostro grande Predecessore Pio XI
compì con intrepida fortezza la sua missione di Pontefice supremo.
Allorché, però, tentate invano tutte le
vie della persuasione, egli si vide con ogni evidenza di fronte alle deliberate
violazioni di un patto solenne e a una persecuzione religiosa, dissimulata o
manifesta, ma sempre duramente condotta, la domenica di Passione del 1937,
nella sua Enciclica « Mit brennender
Sorge » [=Con viva ansia],
egli svelò agli sguardi del mondo quel che il nazionalsocialismo era in realtà:
l’apostasia orgogliosa da Gesù Cristo, la negazione della sua dottrina e della
sua opera redentrice, il culto della forza, l’idolatria della razza e del
sangue, l’oppressione della libertà e della dignità umana.
* * *
Come uno squillo di tromba che dà
l’allarme, il Documento pontificio, vigoroso — troppo vigoroso, pensava già più
di uno — fece sussultare gli spiriti e i cuori.
Molti — anche fuori dei confini della
Germania, — che fino allora avevano chiuso gli occhi dinanzi alla
incompatibilità della concezione nazionalsocialista con la dottrina cristiana,
dovettero riconoscere e confessare il loro errore.
Molti, ma non tutti! Altri, nelle file
stesse dei fedeli, erano fin troppo accecati dai loro pregiudizi o sedotti
dalla speranza di vantaggi politici. L’evidenza dei fatti segnalati dal Nostro
Predecessore non riuscì a convincerli, meno ancora ad indurli a modificare la
loro condotta. È forse una mera coincidenza che alcune regioni, più duramente
poi colpite dal sistema nazionalsocialista, furono precisamente quelle ove
l’Enciclica « Mit brennender
Sorge » era stata meno o per nulla ascoltata?
Sarebbe stato forse allora
possibile, con opportune e tempestive provvidenze politiche, di frenare una
volta per sempre lo scatenarsi della violenza brutale e di mettere il popolo
tedesco in condizione di svincolarsi dai tentacoli che lo stringevano? Sarebbe
stato possibile risparmiare in tal guisa all’Europa ed al mondo l’invasione di
questa immensa marea di sangue? Niuno oserebbe di dare un sicuro giudizio. Ad
ogni modo, però, niuno potrebbe rimproverare la Chiesa di non avere denunziato
e additato a tempo il vero carattere del movimento nazionalsocialista e il
pericolo a cui esso esponeva la civiltà cristiana.
« Chi eleva la razza, o il popolo,
o lo Stato o una sua determinata forma, i rappresentanti del potere statale o
altri elementi fondamentali della società umana … a suprema norma di tutto,
anche dei valori religiosi, e li divinizza con culto idolatrico, perverte e
falsa l’ordine delle cose create e voluto da Dio » (3).
In questa proposizione dell’Enciclica si
assomma la radicale opposizione tra lo Stato nazionalsocialista e la Chiesa
cattolica. Giunte le cose a tal punto, la Chiesa non poteva più, senza venir
meno alla sua missione, rinunziare a prender posizione dinanzi a tutto il
mondo. Con questo atto, però, essa diveniva ancora una volta un « segno
di contraddizione » (4) dinanzi al quale gli spiriti contrastanti si
venivano a dividere in due opposte schiere.
I cattolici tedeschi furono, si può dire,
concordi nel riconoscere che l’Enciclica « Mit brennender
Sorge » aveva arrecato luce, direzione, consolazione,
conforto a tutti quelli che consideravano seriamente e praticavano
coerentemente la religione di Cristo. Non poteva, però, mancare la reazione da
parte di coloro che erano stati colpiti; e di fatto proprio il 1937 fu per la
Chiesa cattolica in Germania un anno d’indicibili amarezze e di terribili
procelle.
I grandi avvenimenti politici, che
contrassegnarono i due anni seguenti, e poi la guerra non attenuarono in alcun
modo l’ostilità del nazionalsocialismo contro la Chiesa, ostilità che si
manifestò fino a questi ultimi mesi, quando i suoi seguaci si lusingavano
ancora di potere, non appena riportata la vittoria militare, finirla per sempre
con la Chiesa. Testimonianze autorevoli ed ineccepibili Ci tenevano informati
di questi disegni, i quali, del resto, si svelavano da se stessi con le
reiterate e sempre più avverse azioni contro la Chiesa cattolica in Austria,
nell’Alsazia-Lorena e soprattutto in quelle regioni della Polonia, che già
durante la guerra erano state incorporate all’antico Reich: tutto fu ivi
colpito, annientato, tutto quello, cioè, che dalla violenza esterna poteva
essere raggiunto.
Continuando l’opera del Nostro
Predecessore, Noi stessi durante la guerra non abbiamo cessato, specialmente
nei Nostri Messaggi, di contrapporre alle rovinose e inesorabili applicazioni
della dottrina nazionalsocialista, che giungevano fino a valersi dei più
raffinati metodi scientifici per torturare o sopprimere persone spesso
innocenti, le esigenze e le norme indefettibili della umanità e della fede
cristiana. Era questa per Noi la più opportuna e potremmo anzi dire l’unica via
efficace per proclamare in cospetto del mondo gl’immutabili princìpi della
legge morale e per confermare, in mezzo a tanti errori e a tante violenze, le
menti e i cuori dei cattolici tedeschi negli ideali superiori della verità e
della giustizia. Né tali sollecitudini rimasero senza effetto. Sappiamo
infatti, che i Nostri Messaggi, massime quello Natalizio del 1942, nonostante
ogni proibizione ed ostacolo, furono fatti oggetto di studio nelle Conferenze
diocesane del Clero in Germania, e poi esposti, e spiegati al popolo cattolico.
Ma se i reggitori della Germania avevano
deliberato di distruggere la Chiesa cattolica anche nell’antico Reich, la
Provvidenza aveva disposto altrimenti. Le tribolazioni della Chiesa da parte
del nazionalsocialismo hanno avuto termine con la repentina e tragica fine del
persecutore!
Dalle prigioni, dai campi di
concentramento, dagli ergastoli affluiscono ora, accanto ai detenuti politici,
anche le falangi di coloro, sia del Clero che del laicato, il cui unico delitto
era stato la fedeltà a Cristo e alla fede dei Padri o la coraggiosa osservanza
dei doveri sacerdotali. Per tutti loro Noi abbiamo ardentemente pregato e Ci
siamo studiati con ogni industria, ogniqualvolta è stato possibile, di far loro
pervenire la Nostra parola confortatrice e le benedizioni del Nostro cuore
paterno.
Quanto più infatti si alzano i veli, che
nascondevano finora la dolorosa passione della Chiesa sotto il regime
nazionalsocialista, tanto più si palesa la fermezza, incrollabile spesso fino
alla morte, d’innumerevoli cattolici e la parte gloriosa che in tale nobile
agone ha avuto il Clero. Pur non essendo ancora in possesso di completi dati statistici,
non possiamo tuttavia astenerCi dal menzionare qui, come esempio, qualcuna
almeno delle copiose notizie pervenuteCi da sacerdoti e da laici che, internati
nel campo di Dachau, furono fatti degni di patir contumelia per il nome di Gesù
(5).
In prima linea, per il numero e per la
durezza del trattamento sofferto, si trovavano i sacerdoti polacchi. Dal 1940
al 1945 furono imprigionati nel campo medesimo 2800 ecclesiastici e religiosi
di quella Nazione, fra i quali il Vescovo ausiliare di Wladislavia, che vi morì
di tifo. Nell’aprile scorso ve ne erano rimasti soltanto 816, essendo tutti gli
altri morti, ad eccezione di due o tre trasferiti in altro campo. Nell’estate
del 1942 furono segnalati come colà raccolti 480 ministri del culto, di lingua
tedesca, di cui 45 protestanti e tutti gli altri sacerdoti cattolici.
Nonostante il continuo affluire di nuovi internati, specialmente da alcune
diocesi della Baviera, della Renania e della Westfalia il loro numero, a causa
della forte mortalità, al principio di quest’anno, non superava i 350. Né sono
da passare sotto silenzio quelli appartenenti ai territori occupati: Olanda,
Belgio, Francia (tra i quali il Vescovo di Clermont), Lussemburgo, Slovenia,
Italia. Indicibili patimenti molti di quei sacerdoti e di quei laici hanno
sopportato per motivo della loro fede e della loro vocazione. In un caso l’odio
degli empi contro Cristo giunse a tal segno da parodiare, in un sacerdote
internato, con fili di ferro spinati la flagellazione e la coronazione di spine
del Redentore.
Le vittime generose, che durante dodici
anni, dal 1933, in Germania hanno fatto a Cristo e alla sua Chiesa il
sacrificio dei propri beni, della propria libertà, della propria vita,
innalzano a Dio le loro mani in oblazione espiatoria. Possa il giusto Giudice
accettarla in riparazione di tanti delitti commessi contro la umanità, non meno
che a danno del presente e dell’avvenire del proprio popolo, specialmente della
infelice gioventù, e abbassare finalmente il braccio del suo Angelo
sterminatore.
Con una insistenza sempre crescente il
nazionalsocialismo ha voluto denunziare la Chiesa come nemica del popolo
germanico. L’ingiustizia manifesta dell’accusa avrebbe ferito nel più vivo i
sentimenti dei cattolici tedeschi e i Nostri propri, se fosse uscita da altre
labbra; ma su quelle di tali accusatori, lungi dall’essere un aggravio, è la
testimonianza più fulgida e più onorevole dell’opposizione ferma, costante
sostenuta dalla Chiesa contro dottrine e metodi così deleteri, per il bene
della vera civiltà e dello stesso popolo tedesco, cui auguriamo che, liberato
dall’errore che l’ha precipitato nell’abisso, possa ritrovare la sua salvezza
alle pure sorgenti della vera pace e della vera felicità, alle sorgenti della
verità, della umiltà, della carità, sgorgate con la Chiesa dal Cuore di Cristo.
II. SGUARDI VERSO L’AVVENIRE
Dura lezione quella degli ultimi anni! Che
almeno essa sia compresa e riesca proficua alle altre Nazioni! «Erudimini,
qui gubernatis terram! » (6). Questo è il voto più ardente di chiunque
ami sinceramente l’umanità. Vittima di un empio logorio, di un cinico disprezzo
della vita e dei diritti dell’uomo, essa non ha che un solo desiderio, non
aspira che a una cosa sola: condurre una vita tranquilla e pacifica nella
dignità e nell’onesto lavoro.
E per questo essa brama che si ponga
termine alla sfrontatezza, con cui la famiglia e il focolare domestico negli
anni della guerra sono stati malmenati e profanati; sfrontatezza che grida al
cielo e si è tramutata in uno dei più gravi pericoli non soltanto per la
religione e la morale, ma anche per la ordinata convivenza umana; mancanza che
ha soprattutto creato le moltitudini dei dissestati, dei delusi, dei desolati
senza speranza, i quali vanno ad ingrossare le masse della rivoluzione e del
disordine, assoldate da una tirannide non meno dispotica di quelle che si sono
volute abbattere.
Le Nazioni, segnatamente quelle medie e
piccole, reclamano che sia loro dato di prendere in mano i propri destini. Esse
possono essere condotte a contrarre, con loro pieno gradimento, nell’interesse
del progresso comune, vincoli che modifichino i loro diritti sovrani. Ma dopo
aver sostenuto la loro parte, la loro larga parte, di sacrifici per distruggere
il sistema della violenza brutale, esse sono in diritto di non accettare ché
venga loro imposto un nuovo sistema politico o culturale, che la grande
maggioranza delle loro popolazioni recisamente respinge.
Esse ritengono, e con ragione, che ufficio
principale degli organizzatori della pace è di porre un termine al giuoco criminale
della guerra, e di tutelare i diritti vitali e i reciproci doveri tra grandi e
piccoli, potenti e deboli.
Nel fondo della loro coscienza i popoli
sentono che i loro reggitori si screditerebbero, se al folle delirio di una
egemonia della forza non facessero seguire la vittoria del diritto. Il pensiero
di una nuova organizzazione della pace è scaturito — nessuno potrebbe dubitarne
— dal più retto e leale volere. Tutta l’umanità segue con ansia il progresso di
così nobile impresa. Quale amara delusione sarebbe, se essa venisse a fallire,
se fossero resi vani tanti anni di sofferenze e di rinunzie, lasciando
nuovamente trionfare quello spirito di oppressione, dal quale il mondo sperava
di vedersi finalmente liberato per sempre! Povero mondo, al quale si potrebbe
allora applicare la parola di Gesù: che la sua nuova condizione è divenuta
peggiore di quella da cui era così penosamente uscito (7)!
Le condizioni politiche e sociali Ci
mettono sul labbro queste parole ammonitrici. Purtroppo abbiamo dovuto deplorare
in più di una regione uccisioni di sacerdoti, deportazioni di civili, eccidi di
cittadini senza processo o per vendetta privata; né meno tristi sono le notizie
che Ci sono pervenute dalla Slovenia e dalla Croazia.
Ma non vogliamo perderci di animo. I discorsi
pronunziati da uomini competenti e responsabili nel corso di queste ultime
settimane lasciano comprendere che essi hanno in vista la vittoria del diritto,
non solo come scopo politico, ma anche più come dovere morale.
Perciò Noi rivolgiamo di gran cuore ai
Nostri figli e alle Nostre figlie dell’intero universo un caldo invito alla
preghiera: che esso pervenga all’orecchio di quanti riconoscono in Dio il Padre
amantissimo di tutti gli uomini creati a sua immagine e somiglianza, di quanti
sanno che nel petto di Cristo pulsa un Cuore divino ricco di misericordia,
sorgente profonda ed inesauribile di ogni bene e di ogni amore, di ogni pace e
di ogni riconciliazione.
Dalla tregua delle armi alla pace vera e
sincera, come or non è molto ammonivamo, il cammino sarà arduo e lungo, troppo
lungo per le ansiose aspirazioni di una umanità affamata di ordine e di calma.
Ma è inevitabile che così sia. E forse è anche meglio. Occorre prima lasciar
sedare la bufera delle passioni sovreccitate: « motos praestat componere
fluctus » (8). È necessario che l’odio, la diffidenza, gl’incentivi di
un nazionalismo estremo cedano il posto alla concezione di saggi consigli, al
germogliare di pacifici disegni, alla serenità nello scambio di vedute e alla
mutua comprensione fraterna.
Si degni lo Spirito Santo, luce delle
intelligenze, Signore soave dei cuori, di esaudire le preghiere della sua
Chiesa e di guidare nel loro arduo lavoro quelli che, secondo la loro alta
missione, si sforzano sinceramente, nonostante gli ostacoli e le contraddizioni,
di giungere al termine, così universalmente, così ardentemente bramato: la
pace, la vera pace degna di tal nome. Una pace fondata e confermata nella
sincerità e nella lealtà, nella giustizia e nella realtà; una pace di leale e
risoluto sforzo per vincere o prevenire quelle condizioni economiche e sociali,
le quali potrebbero, come già in passato, così anche nell’avvenire, facilmente
condurre a nuovi conflitti armati; una pace che possa essere approvata da tutti
gli animi retti di ogni popolo e di ogni Nazione; una pace che le generazioni
future possano considerare con riconoscenza come il frutto felice di un tempo
infelice; una pace che segni nei secoli una svolta risolutiva nell’affermazione
della dignità umana e dell’ordine nella libertà; una pace che sia come la Magna
Charta, la quale ha chiuso l’era oscura della violenza; una pace che, sotto la
guida misericordiosa di Dio, ci faccia passare attraverso la prosperità
temporale, in modo da non perdere la felicità eterna (9).
Ma prima di conseguire questa pace, è pur
vero che milioni di uomini, presso il focolare domestico o nella guerra, nella
prigionia o nell’esilio, devono ancora gustare l’amarezza del calice. Quanto Ci
tarda di vedere la fine delle loro sofferenze e delle loro angosce, il compimento
delle loro brame! Anche per loro, per tutta l’umanità, che con loro ed in loro
soffre, salga all’Onnipotente la nostra umile e ardente preghiera.
Ci riesce intanto d’immenso conforto,
Venerabili Fratelli, il pensiero che voi partecipate alle Nostre cure, alle
Nostre preghiere, alle Nostre speranze, e che in tutto il mondo Vescovi,
Sacerdoti, fedeli associano le loro suppliche alle Nostre nella grande voce
della Chiesa universale. In attestato della Nostra profonda gratitudine e come
pegno delle infinite misericordie e dei favori divini, a voi, a loro, a quanti
sono a Noi congiunti nel desiderio e nella ricerca della pace, impartiamo dal
fondo del cuore la Nostra Apostolica Benedizione.
(1) Cf. Matth., 26, 52.
(2) Cf. L’Osservatore
Romano, n. 174 del 2 luglio 1933.
(3) Acta Apostolicae Sedis,
tom. XXIX, 1937, pp. 149 e 171.
(4) Luc., 2, 34.
(5) Act., 5, 41.
(6) Ps. 2, 10.
(7) Cf. Luc., 11, 24-26.
(8) Verg., Aen.,
1, 135.
(9) Cf. Oratio Domin. III post Pent.
24 dicembre 1945
Discorso del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, «Negli ultimi sei anni», diffuso in occasione
della Vigilia del Natale 1945
Negli ultimi anni, noi tutti, Venerabili
Fratelli e diletti figli, dovemmo assaporare, in questa vigilia della Natività
del Signore, l’amaro contrasto fra i sentimenti di santa allegrezza, d’intima e
fraterna unione nel servizio del Signore, che la cara ricorrenza natalizia
infonde negli animi, e i tristi rancori e le brame di vendetta, imperanti nel
mondo; tra i soavi accenti del Gloria in excelsis Deo et in terra pax
hominibus, e le voci discordanti di odio nei fragori di una guerra
fratricida; tra la dolce chiarezza di Betlemme e il sinistro bagliore degli
incendi; tra il soave splendore irraggiante dal volto del celeste Infante, e il
marchio di Caino, che rimarrà ancora a lungo impresso sulla fronte del nostro
secolo.
Così, quale sospiro di sollievo uscì da
tutti i nostri petti, alla notizia che il sanguinoso conflitto aveva avuto
fine, prima in Europa, poi nell’Asia! Quante fervide suppliche erano in quei
lunghi anni di lotta salite al trono dell’Altissimo, affinché abbreviasse i
giorni dell’afflizione e arrestasse la mano degli angeli che portano le fiale
dell’ira di Dio per i peccati del mondo! Ora, per la prima volta, l’umana famiglia
celebrerà di nuovo per misericordia divina una festa natalizia, nella quale i
terrori della guerra in terra, in mare e soprattutto nell’aria non empiranno
più tanti cuori di timore e di angoscia mortale. Per questo mutamento delle
cose siano da noi tutti rese umili grazie all’Onnipotente Signore!
La pace della terra? La vera pace? No, ma
solamente il « dopo-guerra » espressione dolorosa e fin troppo significativa!
Quanto tempo sarà necessario per guarire il malessere materiale e morale,
quanti sforzi per cicatrizzare tante piaghe! Ieri si sono seminate su territori
immensi le distruzioni, le calamità, le miserie; ed oggi che si tratta di
ricostruire, gli uomini cominciano appena a rendersi con- 39 to di quanta
perspicacia e avvedutezza, di quanta rettitudine e buona volontà vi sia bisogno
per ricondurre il mondo dalle devastazioni e dalle rovine fisiche e spirituali,
al diritto, all’ordine e alla pace.
Così anche questo Natale rimane un tempo
di aspettazione, di speranza e di preghiera al Figlio di Dio fatto uomo,
affinché Egli, che è il « Rex pacificus,… cuius vultum desiderat
universa terra » (1), doni al mondo la sua pace.
[…]
LA SOPRANNAZIONALITÀ
DELLA CHIESA
La Chiesa cattolica, di cui l’Urbe è il
centro, è soprannazionale per la sua stessa essenza. Ciò ha un duplice senso,
uno negativo ed uno positivo. La Chiesa è madre, Sancta Mater Ecclesia,
una vera madre, la madre di tutte le nazioni e di tutti i popoli, non meno che
di tutti i singoli uomini, e precisamente perché madre, non appartiene né può appartenere
esclusivamente a questo o a quel popolo, e neanche ad un popolo più e ad un
altro meno, ma a tutti egualmente. È madre, e quindi non è né può essere
straniera in alcun luogo; essa vive, o almeno per la sua natura deve vivere, in
tutti i popoli. Inoltre, mentre la madre, col suo sposo e i suoi figli, forma
una famiglia, la Chiesa, in virtù di una unione incomparabilmente più stretta,
costituisce, più e meglio che una famiglia, il corpo mistico di Cristo. La
Chiesa è dunque soprannazionale, perché è un tutto indivisibile e universale.
LA INDIVISIBILE UNITÀ
DELLA CHIESA
La Chiesa è un tutto indivisibile, perché
Cristo, con la sua Chiesa, è indiviso e indivisibile. Cristo, come Capo della
Chiesa, è, per adoperare un profondo pensiero di S. Agostino (7), totus
Christus, il Cristo intero. Questa interezza di Cristo, secondo il S.
Dottore, significa la indivisibile unità del Capo e del corpo « in
plenitudine Ecclesiae », in quella pienezza di vita della Chiesa, che
congiunge tutte le zone e tutti i tempi della umanità redenta, senza eccezione
Saldamente stabilita con sì profonda
radice, la Chiesa, posta com’è nel mezzo di tutta la storia del genere umano,
nel campo agitato e sconvolto di energie divergenti e di contrastanti tendenze,
quantunque esposta a tutti gli assalti diretti contro la sua indivisibile
interezza, è così lontana dall’esserne scossa, che dalla sua propria vita di
interezza e di unità irradia e diffonde sempre nuove forze sanatrici e
unificatrici nella umanità lacerata e divisa, forze di unificante grazia
divina, forze dello Spirito unificante, di cui tutti sono affamati, verità che
sempre e dappertutto valgono, ideali che sempre e dappertutto ardono.
Da ciò apparisce che era ed è un sacrilego
attentato contro il totus Christus, il Cristo nella sua integrità,
e in pari tempo un colpo nefasto contro la unità del genere umano,
ogniqualvolta si è tentato e si tenta di far la Chiesa quasi prigioniera e
schiava di questo o di quel popolo particolare, di confinarla negli angusti
limiti di una nazione, od anche di metterla al bando. Tale smembramento della
interezza della Chiesa ha sminuito e sminuisce — tanto più, quanto più a lungo
— nei popoli, che ne sono le vittime, il bene della loro reale e piena vita.
Ma l’individualismo nazionale e statale
degli ultimi secoli non ha soltanto cercato di vulnerare l’interezza della
Chiesa, d’indebolire e di ostacolare le sue forze unitrici e unificatrici,
quelle forze che pure ebbero un tempo una parte essenziale nella formazione
dell’unità dell’Occidente europeo. Un vieto liberalismo volle, senza e contro
la Chiesa, creare la unità mediante la cultura laica e un umanesimo
secolarizzato. Qua e là, come frutto della sua azione dissolvente e al tempo
stesso come nemico, gli succedette il totalitarismo. In una parola, quale fu
dopo poco più di un secolo il risultato di tutti quegli sforzi senza e spesso
contro la Chiesa? La tomba della sana libertà umana; le organizzazioni forzate;
un mondo, che per brutalità e barbarie, per istruzioni e rovine, soprattutto
però per funesta disunione e per mancanza di sicurezza, non aveva conosciuto
l’eguale.
In un tempo turbato, qual è ancora il
nostro, la Chiesa, per il bene proprio e per quello della umanità, deve fare
del tutto per mettere in valore la sua indivisibile e indivisa interezza. Essa
ha da essere oggi più che mai soprannazionale. Questo spirito deve penetrare e
pervadere il suo Capo visibile, il Sacro Collegio, tutta l’azione della Santa
Sede, su cui specialmente ora gravano importanti doveri riguardanti non solo il
presente, ma anche più il futuro.
Si tratta qui principalmente di un fatto
dello spirito, di avere il senso giusto di questa soprannazionalità, e non di
misurarla o determinarla secondo proporzioni matematiche o su basi statistiche
rigorose circa la nazionalità delle singole persone. Nei lunghi periodi di
tempo, in cui, per disposizione della Provvidenza, la nazione italiana, più
delle altre, ha dato alla Chiesa il suo Capo e molti collaboratori al governo
centrale della Santa Sede, la Chiesa nel suo complesso ha sempre conservato
intatto il suo carattere soprannazionale. Che anzi non poche circostanze hanno
contribuito, precisamente per questa via, a preservarla da pericoli, che
altrimenti avrebbero potuto farsi più sensibili. Si pensi, per citare un esempio,
alle lotte per la egemonia degli Stati nazionali europei e delle grandi
dinastie nei secoli passati.
Anche dopo la Conciliazione fra la Chiesa
e lo Stato coi Patti Lateranensi, il clero italiano, nel suo insieme, pur senza
alcun pregiudizio del naturale e legittimo amore di patria, ha continuato ad
essere un fedele sostegno e un patrocinatore della soprannazionalità della
Chiesa. Noi Ci auguriamo e preghiamo che tale rimanga, specialmente il giovane
clero, in Italia e in tutto l’orbe cattolico; ad ogni modo le delicate
condizioni presenti esigono una particolare cura e tutela di quella
soprannazionalità e indivisibile unità della Chiesa.
LA UNIVERSALITÀ DELLA CHIESA
Soprannazionale perché abbraccia con un
medesimo amore tutte le nazioni e tutti i popoli, essa è anche tale, come
abbiamo già accennato, perché in nessun luogo è straniera. Essa vive e si
sviluppa in tutti i paesi del mondo, e tutti i paesi del mondo contribuiscono
alla sua vita e al suo sviluppo. Un tempo la vita ecclesiastica, in quanto è visibile,
si svolgeva rigogliosa a preferenza nei paesi della vecchia Europa, donde si
diffondeva, come fiume maestoso, a quella che poteva dirsi la periferia del
mondo; oggi apparisce invece come uno scambio di vita e di energie fra tutti i
membri del corpo mistico di Cristo sulla terra. Non poche regioni in altri
continenti hanno da molto tempo sorpassato il periodo della forma missionaria
della loro organizzazione ecclesiastica, sono rette da una propria gerarchia e
danno a tutta la Chiesa beni spirituali e materiali, mentre prima soltanto li
ricevevano.
Non si svela forse in questo progresso e
arricchimento della vita soprannaturale, ed anche naturale, della umanità il
vero senso della soprannaturalità della Chiesa? Essa non sta, a causa di questa
soprannazionalità, quasi sospesa, in una inaccessibile e intangibile
lontananza, al di sopra delle nazioni; ma, come Cristo fu in mezzo agli uomini,
così anche la Chiesa, in cui Egli continua a vivere, si trova in mezzo ai
popoli. Come il Figlio di Dio assunse una vera natura umana, così anche la
Chiesa prende in sé la pienezza di tutto ciò che è genuinamente umano e lo
eleva a sorgente di forza soprannaturale, dovunque e comunque lo trova.
Si compie così sempre più nella Chiesa di
oggi ciò che S. Agostino magnificava nella sua «Città di Dio »: La
Chiesa, egli scriveva, «chiama da tutte le genti i suoi cittadini, e in
tutte le lingue aduna la sua comunità peregrina sulla terra; non cura ciò che è
diverso nei costumi, nelle leggi, nelle istituzioni; nulla di ciò essa rescinde
o distrugge, ma piuttosto conserva e segue. Anche quel che è diverso nelle
diverse nazioni, è tuttavia indirizzato all’unico e medesimo fine della pace
terrena, se non impedisce la religione dell’unico sommo e vero Dio »
(8).
Come un faro potente, la Chiesa, nella sua
universale interezza, getta il suo fascio di luce in questi giorni oscuri, per
i quali passiamo. Non meno tenebrosi erano quelli, in cui il gran Dottore
d’Ippona vedeva quel mondo, che egli amava tanto, cominciare a sommergersi. Quella
luce allora lo confortava e al suo chiarore salutava, come in una visione
profetica, la novella aurora di un giorno più bello. Il suo amore verso la
Chiesa, il quale non era altro che il suo amore di Cristo, fu la sua
beatificante consolazione. Possano tutti coloro, che oggi, nei dolori e nei
pericoli della loro patria, soffrono pene simili a quelle di Agostino, trovare,
come lui, nell’amore della Chiesa, di questa casa universale, che, secondo la
divina promessa rimarrà sino alla fine dei tempi, ristoro e sostegno!
Da parte Nostra, Noi bramiamo di rendere
questa casa medesima sempre più solida, sempre più abitabile per tutti, senza
eccezione. Perciò nulla vogliamo omettere, che possa esprimere visibilmente la
soprannazionalità della Chiesa, quale segno del suo amore verso Cristo, Che
essa vede e a Cui serve nella ricchezza dei suoi membri sparsi per il mondo
intiero.
L’OPERA DI PACE
In quest’ora, in cui celebriamo la nascita
di Colui, che venne per riconciliare gli uomini con Dio e fra loro stessi, Noi
non possiamo omettere di dire una parola sull’opera di pace, che le classi
dirigenti nello Stato, nella politica e nell’economia si sono accinti ad
edificare.
Con una dovizia, finora forse non mai
avutasi, di esperienza, di buon volere, di saggezza politica e di potenza
organizzatrice, sono stati iniziati i preparativi per l’ordinamento della pace
mondiale. Giammai, forse, da che mondo è mondo, i reggitori della cosa pubblica
non si sono trovati dinanzi ad un’impresa così vasta e complessa per il numero,
la grandezza e la difficoltà delle questioni da risolvere, né così grave per i
suoi effetti in larghezza e in profondità, per il bene o per il male, come
quella di ridare oggi all’umanità — dopo tre decenni di guerre mondiali, di
catastrofi economiche e di smisurato impoverimento, — ordine, pace e
prosperità. Altissima, formidabile è la responsabilità di coloro che si
apprestano a portare a compimento un’opera così gigantesca.
Non è Nostra intenzione di entrare
nell’esame delle soluzioni pratiche che essi potranno dare a così ardui
problemi; crediamo però proprio del Nostro ufficio, in continuazione dei Nostri
precedenti Messaggi Natalizi durante la guerra, di additare i presupposti
morali fondamentali di una vera e durevole pace; ciò che ridurremo a tre brevi considerazioni:
1° L’ora presente richiede imperiosamente
la collaborazione, la buona volontà, la reciproca fiducia di tutti i popoli. I
motivi di odio, di vendetta, di rivalità, di antagonismo, di sleale e disonesta
concorrenza, debbono essere tenuti lontano dai dibattiti e dalle risoluzioni
politiche ed economiche. «Chi può dire — aggiungeremo con la Sacra
Scrittura (9) —: Ho la coscienza netta, sono puro di colpa? Doppio peso
e doppia misura, ambedue sono abominevoli presso Dio ». Chi dunque
esige la espiazione delle colpe con la giusta punizione dei criminali in
ragione dei loro delitti, deve avere ogni cura di non fare egli stesso ciò che
rimprovera ad altri come colpa o delitto. Chi vuole riparazioni, deve chiederle
sulla base dell’ordine morale, del rispetto a quegl’inviolabili diritti di
natura, che rimangono anche in coloro, che si soni arresi incondizionatamente
al vincitore. Chi domanda sicurezza per il futuro, non deve dimenticare che la
sola vera garanzia consiste nella propria forza interna, vale a dire nella
tutela della famiglia, dei figli, del lavoro, nell’amore fraterno,
nell’abbandono di ogni odio, di ogni persecuzione o ingiusta vessazione di
onesti cittadini, nella leale concordia fra Stato e Stato, fra popolo e popolo
2° A tal fine è necessario che dappertutto
si rinunzi a creare artificiosamente, con la potenza del danaro, di una
arbitraria censura, di giudizi unilaterali, di false affermazioni, una
cosiddetta pubblica opinione, che muove il pensiero e il volere degli elettori
come canne agitate dal vento. Si dia il debito valore alla vera e grande
maggioranza, formata da tutti quelli che onestamente e tranquillamente vivono
del loro lavoro in mezzo alle loro famiglie e vogliono fare la volontà di Dio.
Ai loro occhi le contese per più favorevoli confini, la lotta per i tesori
della terra, anche se non sono necessariamente e a priori immorali in se
stesse, costituiscono pur sempre un giuoco pericoloso, che non si può
affrontare se non a rischio di cagionare un cumulo di rovine e di morte. È la
vasta maggioranza dei buoni padri e madri di famiglia, che vorrebbero
proteggere e difendere l’avvenire dei propri figli contro la pretesa di ogni
politica di pura forza, contro gli arbitri del totalitarismo dello Stato forte.
3° La forza dello Stato totalitario!
Crudele e sanguinante ironia! Tutta la superficie del globo, rossa del sangue
versato in questi anni terribili, proclama altamente la tirannia di un tale
Stato.
L’edificio della pace riposerebbe sopra
una base crollante e sempre minacciosa, se non ponesse fine a un siffatto
totalitarismo, il quale riduce l’uomo a non essere più che una pedina nel
giuoco politico, un numero nei calcoli economici. Con un tratto di penna esso
muta i confini degli Stati; con una decisione perentoria sottrae l’economia di
un popolo, che pure è sempre una parte di tutta la vita nazionale, alle sue
naturali possibilità; con una mal dissimulata crudeltà scaccia anch’esso
milioni di uomini, centinaia di migliaia di famiglie, nella più squallida
miseria, dalle loro case e dalle loro terre, e le sradica e le strappa da una
civiltà e una cultura, alla cui formazione avevano lavorato intiere
generazioni. Anch’esso pone arbitrari limiti alla necessità, e al diritto di
migrazione e al desiderio di colonizzazione Tutto ciò costituisce un sistema
contrario alla dignità e al bene del genere umano. Eppure, secondo
l’ordinamento divino, non è la volontà e la potenza di fortuiti e mutevoli
gruppi d’interesse, ma l’uomo nel mezzo della famiglia e della società col suo
lavoro, il signore del mondo. Così quel totalitarismo fallisce in ciò che è
l’unica misura del progresso, vale a dire nel creare sempre maggiori e migliori
condizioni pubbliche, affinché la famiglia possa esistere e svilupparsi, come
unità economica, giuridica, morale e religiosa.
Nei confini di ciascuna Nazione
particolare, come in seno alla grande famiglia dei popoli, il totalitarismo
dello Stato forte è incompatibile con una vera e sana democrazia. Come un
pericoloso bacillo, esso avvelena la comunità delle Nazioni e la rende incapace
di essere la garante della sicurezza dei singoli popoli. Esso rappresenta un
continuo pericolo di guerra. La futura opera di pace vuol bandire dal mondo
ogni uso aggressivo della forza, ogni guerra offensiva. Chi potrebbe non
salutare di cuore un tale proposito, e specialmente la sua efficace attuazione?
Se però questo non deve essere soltanto un bel gesto, occorre escludere ogni
oppressione e ogni arbitrio dal di dentro e dal di fuori.
Di fronte a questo incontestabile stato di
cose, un’unica soluzione rimane: il ritorno a Dio e all’ordine stabilito da
Dio.
Quanto più si sollevano i veli circa il
sorgere ed il crescere delle forze che hanno scatenato la guerra, tanto più
chiaro appare che esse erano le eredi, le portatrici e le continuatrici di errori,
dei quali un elemento essenziale era la noncuranza, il sovvertimento, la
negazione e il disprezzo del pensiero e dei principi cristiani.
Se dunque qui giace la radice del male,
non vi è che un solo rimedio: tornare all’ordine fissato da Dio anche nelle
relazioni fra gli Stati e i popoli; tornare a un vero cristianesimo nello Stato
e fra gli Stati. Né si dica che questa non è politica realistica. La esperienza
dovrebbe aver insegnato a tutti che la politica orientata verso le eterne
verità e le leggi di Dio è la più reale e concreta delle politiche. I politici
realisti, che altrimenti pensano, non creano che rovine.
[…]
(1) 1 Antiph. I, in I
Vesp. Nativ. Domini.
(2) Cf. Ex. 24, 1. 9.
(3) Clem. XI P. M., Orationes
consistor., Romae 1722, p. 32.
(4) Op. cit., p. 38.
(5) Arch. Consist. Acta
Vicecancell. 2, fogli 39 e 40.
(6) Cf. Pii VII, Allocutio habita
in Cons. Secr. die 8 Martii 1816.
(7) Serm. 341 c. 1 – Migne,
PL., t. 39, col. 1493.
(8) De civit. Dei, 1. 19,
c. 17 – Migne, PL., t. 41, col. 646.
(9) Prov. 20, 9-10.