Società,
civiltà, mondi vitali
1. Nel 1980, mio zio
Achille, sociologo bolognese, pubblicò un libro divulgativo, quindi diretto a
un pubblico di non specialisti, Crisi di
governabilità e mondi vitali, oggi leggibile solo nelle biblioteche perché
non più in commercio, in cui individuava le ragioni della crisi di governabilità
manifestatasi nell’Italia di allora in una crisi del collegamento tra mondi vitali quotidiani della gente e il sistema sociale, per cui
quest’ultimo aveva perso consenso e quindi traballava. La politica, una delle
parti più importanti del sistema sociale, aveva preso allora a comprare il consenso delle
masse mediante elargizioni pubbliche consistenti in servizi pubblici,
protezione dei diritti sociali e nell’impiego dell’impresa pubblica per
sostenere l’occupazione e l’imprenditoria privata. Questo sistema veniva
chiamato consociativo o neo-corporativo perché era basato su una sorta di contratto tra i maggiori attori sociali, che erano lo
Stato, gli imprenditori privati, i sindacati dei lavoratori di dipendenti, il
mondo del volontariato e le Chiese. L’oggetto del contratto era lo scambio tra consenso ed elargizioni pubbliche. Questo
modo di acquistare il consenso politico provocò un incremento
disordinato della spesa pubblica e, conseguentemente, una crisi fiscale che si
manifestò in un rapido incremento del debito pubblico, non bastando a queste politiche di spesa ciò che si ricavava dai tributi. Negli anni ’70
il debito pubblico italiani veniva acquistato in larga parte dalla Banca d’Italia,
senza alcun limite e secondo le direttive del Ministero del Tesoro, e dai
privati, in particolare dalle famiglie, per l’alta rendita nominale che
offriva. Quello acquistato dalla Banca d’Italia comportava sostanzialmente l’emissione
di moneta e andava ad aggravare l’inflazione, che si ha quando circola troppo
moneta rispetto alle esigenze degli scambi economici e allora la moneta si
deprezza rispetto ai beni e servizi sul mercato, per cui questi ultimi costano
di più in termini monetari. Quando nel 1981 il ministro del Tesoro Beniamino
Andreatta e il Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi misero fine all’obbligo
della Banca d’Italia di acquistare illimitatamente titoli del debito pubblico
italiano, lo Stato per finanziarsi dovette ricorrere al mercato dei titoli
finanziari. Ciò permise nel giro di circa quindici anni di mettere l’inflazione
sotto controllo e ci consentì, nel 1999, di entrare nel sistema della moneta unica
europea, l’Euro, che iniziò a circolare dal 2002. I risparmi delle famiglie, in
precedenza falcidiati, come si dice, dall’inflazione, furono posti al sicuro e
anche i tassi di interesse a debito sui mutui, in particolare quelli per
comprare casa, calarono molto. Il nuovo sistema comportava però un impegno non
tanto per contenere la spesa pubblica, ma per tenerla in equilibrio rispetto
alle entrate realisticamente prevedibili. Questo principio fu inserito nella
nostra Costituzione nel 2012, all’articolo 81, in occasione di una gravissima
crisi recessiva internazionale e dei conseguenti accordi presi in sede europea
per fronteggiarla. Come aveva previsto mio zio Achille nel libro che ho citato,
questo l’attuazione di questo principio determinò la crisi del consociativismo,
del sistema basato sullo scambio politico
tra elargizioni pubbliche e consenso. Le misure di contenimento della spesa, in
particolare, andarono a discapito prevalentemente degli strati meno ricchi
della popolazione e non si ebbe la forza politica di correggere, per via
tributaria, le crescenti diseguaglianza che un economia improntata sempre più a
principi liberisti andava determinando, da noi come in tutto l’Occidente, con l’accentramento
di quote sempre maggiori di ricchezza nel dominio di quote sempre minori di
popolazione. Mio zio consigliava per porvi rimedi di riattivare una transazione
virtuosa tra mondi vitali e società
politica, la ricetta che viene proposta dalla politica prevalente di oggi è
quella, invece, di tornare al sistema dello scambio consociativo. Questo però
si scontra con la normativa, le politiche e le istituzioni europee, che, per
altro, sono state determinate anche da noi italiani, e con le dinamiche dei
mercati finanziari internazionali, che non sono vincolate all’autorità della
nostra politica. Da un lato, proseguendo per quella via, si è spinti fuori del
sistema della moneta unica, dall’altro questo ci scredita dal punto di vista
economico e deprezza i titoli del nostro debito pubblico.
ll debito pubblico può servire, in certi
tempi in cui un sistema economico con grandi potenzialità è bloccato da crisi
di sfiducia, a finanziare un’azione pubblica nell’economia per rimetterla in
marcia, ad esempio con un programma di opere pubbliche o istituendo un sistema di incentivi alle
imprese private. Si è visto, infatti,
che questa azione ha effetti sull’economia molto maggiori delle risorse
investite: è questa la teoria del moltiplicatore
formulata negli anni Venti del secolo scorso dall’economista inglese John Maynard Keynes (da
cui deriva il nome di keynesiane alle politiche di spesa pubblica per
riattivare l’economia). Si è in tutt’altro ordine di idee se invece si pensa
essenzialmente di riattivare mediante la spesa pubblica il circuito dello scambio politico tra consenso ed
elargizioni pubbliche. Se non sono sufficienti le entrate tributarie, e non si vuole
aumentarle mediante una normativa che punti a correggere le diseguaglianze
sociali, l’una e l’altra politica comporta un aumento del debito pubblico, che,
però, nel secondo caso, non porta reali benefici al sistema economico,
risolvendosi sostanzialmente in politiche assistenziali. Nella logica dello scambio si punterà, infatti, ad ottenere un ritorno elettorale e si tenderà quindi ad allargare la platea dei
beneficiari tenendo d’occhio essenzialmente le loro intenzioni di voto, nel
caso invece di politiche realmente keynesiane
si studieranno i settori che possono
produrre l’effetto moltiplicatore desiderato, perché hanno ancora potenzialità
inespresse, e si dirigeranno da quella parte gli interventi.
2. Riattivare il circuito virtuoso tra mondi vitali e sistema
politico è meno costoso in termini di spesa pubblica, ma molto più difficile,
richiedendo un cambio di mentalità nell’una e nell’altra parte, una conquista culturale.
Innanzi tutto il mondo vitale.
Mio zio Achille ne ricavò la nozione dal
pensiero del filosofo tedesco Edmund Husserl (1859-1938) e del sociologo
tedesco Alfred Shutz (1899-1959). Leggo nel libro che ho citato (pag. 11):
«In un periodo per alcuni aspetti simile a quello attuale - d’inizio
degli anni 80- e cioè negli anni immediatamente successivi alla “grande crisi”
economica esplosa tra il 1929 e il 1933, un filosofo mitteleuropeo, Edmund
Husserl, fece la grande e semplice scoperta che il pensiero scientifico era in
crisi perché aveva perduto il legame con le sue radici e con il proprio fine,
entrambi -questa la scoperta husserliana- radicati nel mondo (prescientifico)
della vita quotidiana e delle nostre
familiari relazioni con persone e cose che ci sono vicini e familiari,
intime.
Il mondo della vita quotidiana è quello in
cui noi abbiamo e acquisiamo le nostre certezze, pur prescientifiche, e siamo
capaci di giungere a comprendere il senso
dell’esperire vivente [il corsivo è mio], e dell’agire, nostro e altrui.
Fino quasi a poterci mettere nei panni di altre persone che ci sono familiari e
viceversa.»
Il sistema
sociale è invece, scrisse mio zio
Achille (ma si tratta di un’acquisizione sociologica condivisa) un insieme di relazioni sociali tipizzate e
dotate di alcune proprietà, capace di sopravvivenza e d’autodirezione, in un
dato tempo e nei confronti di un dato ambiente, strutturato attorno a quella
trama di istituzioni e rapporti dai
quali dipendono la stabilità e l’identità sociale. Dal sistema sociale dipende la complessa
organizzazione che ci consente la sopravvivenza. Esso ha necessità di consenso
sociale di massa per poter funzionare e quest’ultimo richiede una transazione con i mondi vitali quotidiani. Questi ultimi,
però, per poter essere vitali, sono
necessariamente limitati, definiscono
infatti una rete di relazioni più intime e quindi un Noi che è costruito per esclusione. La transazione che serve
necessita quindi di corpi intermedi che ne siano mediatori: questa è stata la grande intuizione della moderna
dottrina sociale. La crisi della società che stiamo vivendo di questi tempi,
che è in realtà un modo di considerare la metamorfosi
della nostra società dal punto di
vista di ciò che c’è stato prima,
consiste appunto nella crisi di questi corpi intermedi, tra i quali, dal punto
di vista sociale e culturale, vi è anche la nostra Chiesa, ma vi sono altre
aggregazioni come i partiti e i sindacati. Questa crisi è stata determinata dal
fatto che quei corpi intermedi proponevano spiegazioni degli eventi obsolete,
nel senso di non più valide a sorreggere la transazione
con il sistema sociale. Quest’ultimo
ha iniziato a organizzarsi e ad agire facendo sempre meno riferimenti ai mondi
vitali quotidiani della gente, in particolare secondo logiche economiciste di
competizione, secondo le quali chi prevale in società lo ha meritato e non ha
obblighi verso gli altri per il fatto di avere di più, e per questo è entrato
in crisi di consenso. Chi soffre vorrebbe migliorare la propria situazione e si
rivolge alla società, che però gli replica che ha avuto quel che si è meritato
e non ha diritto ad altro. Chi in società è privilegiato non se ne fa una
colpa, anzi: vorrebbe liberarsi dai residui obblighi sociali. E’ disposto a
pagare tributi, ma solo se e nella misura in cui riceve un contraccambio più o meno equivalente, non per sostenere il reddito altrui. Il di più lo ritiene un furto e cerca di esentarsene in qualche modo o
cercando di ottenere un abbassamento delle aliquote o sottraendo per vie di
fatto parte delle proprie risorse all’imposizione fiscale.Questa la logica dello
slogan "Meno tasse!”, che la maggior
parte della politica italiana fa proprio. L’idea di un comune destino e,
quindi, di una comune responsabilità è ancora sostenuta dalla dottrina sociale,
ma con argomenti che fanno sempre meno presa, da un lato perché si è sempre più
confinati nei propri mondi vitali quotidiani, senza capacità di transazione con
ciò che c’è intorno, e così posizionati si è restii ad assumersi responsabilità
sociali, nell’interesse anche di altri, dall’altro perché la logica della
competizione e del merito, nel senso
che ho spiegato, ha preso piede anche tra chi sta peggio, e tutto viene visto
in quell’ottica, che finisce per distruggere la società, che richiede un certo
livello di solidarietà.
Stiamo vivendo una metamorfosi della società
che è, nello stesso tempo, anche di civiltà, vale a dire quel complesso di usi,
costumi, norme, istituzioni, concezioni storicamente stabilizzati che
definiscono un modo di vivere e pensare largamente diffuso e persistente nelle
popolazioni che lo condividono. Si è parlato (ad esempio Samuel Phillibps Huntigton in un libro del 1996) di scontro di civiltà, riferendosi a quello
tra la civiltà Occidentale e le altre, ma in realtà, a ben vedere, si tratta
essenzialmente di una metamorfosi nella società Occidentale, che ancora impronta di sé
il mondo interno, in particolare nel contesto planetario di economia globalizzata. Le dinamiche di globalizzazione che hanno
consentito di produrre dove il costo del lavoro costava meno e di vendere dove
i prezzi sono più alti, e anche di trasferire le produzioni dove i salari erano più bassi, stanno sfumando in
un altro contesto, quello dell’intelligenza artificiale, dei sistemi robotici
in grado non tanto di emulare, ma di superare gli esseri umani in ogni campo. Questo è il
futuro prossimo, non fantascienza. In questo contesto masse sempre più estese
stanno diventando semplicemente inutili, sono, come dice papa Francesco, degli scarti nel sistema sociale. Queste masse, che
riuscirono ad elevarsi alla politica nel quadro della ideologia democratiche
quando divennero consapevoli della loro forza sociale, conteranno sempre di
meno in un società dominata da minoranza sempre più esigue formate da coloro
che controllano la produzione e l’economia valendosi dei sistemi di
intelligenza artificiale e dei robot. Da qui poi la crisi della politica
democratica, che è servita a dar voce alle masse. Ai tempi nostri, a chi
comanda basta sondarle e influenzarle mediante sistemi di
intelligenza artificiale capace di mandare ad ogni persona connessa, purché sia
connessa, gli stimoli giusti per provocare una certa reazione, che si tratti di
comprare qualcosa o di votare. Ad un certo punto ci si chiederà a che serve
votare per eleggere assemblee rappresentative
delle masse, vale a dire costituite
per renderle presenti. Ho scritto usando il
futuro, ma in realtà è questione che rientra nel dibattito attuale. Si tratta
naturalmente di prospettive ideologiche di corto respiro, che lasciano
intravvedere la catastrofe che preparano: in un sistema economico che, per ora,
si regge su consumi di massa, se le masse di consumatori, ridotti
progressivamente a scarti, si
riducono sempre più, vengono a mancare i
presupposti dello sviluppo. A questo si è
proposto di rimediare istituendo quello che va sotto il nome di reddito di
cittadinanza, ma che si dice meglio reddito
universale, un livello di reddito che dovrebbe avere ogni essere umano solo
perché tale e a prescindere dal lavoro che fa e dai redditi che autonomamente,
nella competizione economica, riesce ad accaparrarsi. Questo effettivamente
salverebbe la società ed è anche la prospettiva della dottrina sociale. Ma non
può farsi semplicemente prendendo a prestito i soldi che servono, perché in tal
caso si finirebbe per far saltare un’economia molto evoluta che richiede la
stabilità monetaria per la sicurezza dei traffici e l’affidabilità delle
previsioni: è necessario quindi
ristrutturare il sistema dei redditi riequilibrandolo, facendo quello che Ugo
La Malfa, un politico italiano della mia giovinezza, chiamava politica di redditi, in modo da trovare le risorse tra quelle che
effettivamente si producono in un dato tempo. Significa però riscoprire la
propria responsabilità sociale e accettare di buon grado i doveri che essa
comporta, mettere in contatto i mondi vitali di ciascuno e renderli compatibili
all’interno del sistema sociale. Serve un consenso dato nell’interesse comune,
per realizzare quello che la dottrina sociale definisce come bene comune, che significa un società in
cui a tutti è data la felicità, il proprio vero bene, una vita di affetti
libera dal bisogno, secondo ciò che lo sviluppo tecnologico sempre più porterà
alla nostra portata. Sono però sempre meno gli ambienti dove possa realizzarsi
questa che è propriamente una i conquista
culturale, l’inizio di una nuova civiltà che potrebbe far sì che la
metamorfosi sociali in corso non finisca male. La parrocchia può diventare uno
di essi: del resto può contare su una delle ideologie sociali oggi più
avanzate, la moderna dottrina sociale, fondata su un’idea di giustizia sociale
che risale all’antichità (1- si vedano sotto le citazioni contenute nella Costituzione pastorale La gioia e la speranza - Gaudium et spes del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965) e che troviamo compiutamente esposta ad esempio nel
pensiero di un uomo religioso del Duecento come Tommaso D’Aquino. Essa però è
ancora, credo, troppo poco conosciuta e soprattutto, per mancanza di tempo, è
assente dalla formazione religiosa di base.
(1)
Dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa
nel mondo contemporaneo Gaudium et spes - La gioia e la speranza, del
Concilio Vaticano 2° (1962-1965)
69. I beni della terra e loro
destinazione a tutti gli uomini
Dio ha destinato la terra e tutto
quello che essa contiene all'uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e
pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la
regola della giustizia, inseparabile dalla carità (147). Pertanto, quali che
siano le forme della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli
secondo circostanze diverse e mutevoli, si deve sempre tener conto di questa
destinazione universale dei beni. L'uomo, usando di questi beni, deve
considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come
proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a
lui ma anche agli altri (148). Del resto, a tutti gli uomini spetta il diritto
di avere una parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. Questo
ritenevano giusto i Padri e dottori della Chiesa, i quali insegnavano che gli
uomini hanno l'obbligo di aiutare i poveri, e non soltanto con il loro
superfluo (149). Colui che si trova in estrema necessità, ha diritto di procurarsi
il necessario dalle ricchezze altrui (150). Considerando il fatto del numero
assai elevato di coloro che nel mondo intero sono oppressi dalla fame, il sacro
Concilio richiama urgentemente tutti, sia singoli che autorità pubbliche,
affinché - memori della sentenza dei Padri: « Dà da mangiare a colui che è
moribondo per fame, perché se non gli avrai dato da mangiare, lo avrai ucciso »
(151) realmente mettano a disposizione ed impieghino utilmente i propri beni,
ciascuno secondo le proprie risorse, specialmente fornendo ai singoli e ai
popoli i mezzi con cui essi possano provvedere a se stessi e svilupparsi.
Nelle società economicamente meno
sviluppate, frequentemente la destinazione comune dei beni è in parte attuata
mediante un insieme di consuetudini e di tradizioni comunitarie, che assicurano
a ciascun membro i beni più necessari. Bisogna certo evitare che alcune
consuetudini vengano considerate come assolutamente immutabili, se esse non
rispondono più alle nuove esigenze del tempo presente; d'altra parte però, non
si deve agire imprudentemente contro quelle oneste consuetudini che non cessano
di essere assai utili, purché vengano opportunamente adattate alle odierne
circostanze. Similmente, nelle nazioni economicamente molto sviluppate, una
rete di istituzioni sociali per la previdenza e la sicurezza sociale può in
parte contribuire a tradurre in atto la destinazione comune dei beni. Inoltre,
è importante sviluppare ulteriormente i servizi familiari e sociali,
specialmente quelli che provvedono agli aspetti culturali ed educativi. Ma
nell'organizzare tutte queste istituzioni bisogna vegliare affinché i cittadini
non siano indotti ad assumere di fronte alla società un atteggiamento di
passività o di irresponsabilità nei compiti assunti o di rifiuto di servizio.
(147) Cf. S. TOMMASO, Summa Theol.,
II-II, q. 32, a. 5 ad 2; Ibid. q. 66, a. 2; cf. la spiegazione in LEONE XIII,
Encicl.Rerum Novarum: ASS 23
(1890-1891), p. 651 [Dz 3267]; cf. anche PIO XII, Discorso 1° giugno 1941: AAS
23 (1941), p. 199; ID., Messaggio radiofonico natalizio Ecce ego declinabo 1954: AAS 47
(1955), p. 27.
(148) Cf. S. BASILIO, Hom. in
illud Lucae: Destruam horrea mea, n. 2: PG 31, 263; LATTANZIO, Divinarum
Institutionum, lib. V, sulla giustizia: PL 6: 565B; S. AGOSTINO, In Ioann.
Ev., tr. 50, n. 6: PL 35, 1760; ID., Enarratio in Ps. CXLVII,
12: PL 37, 1922; S. GREGORIO M., Homiliae in Ev., om. 20, 12: PL 76, 1165;
ID., Regulae Pastoralis liber, pars III, c. 21: PL 77, 87; S.
BONAVENTURA, In III Sent., d. 33, dub. 1: ed. Quaracchi III, 728; ID., In IV
Sent., d. 15, p. II, a. 2, q. 1: ibid., IV, 371b; Quaest. de superfluo: ms.
Assisi, Bibl. comun. 186, ff. 112a-113a; S. ALBERTO M., In III Sent, d. 33, a.
3, sol. I: Ed. Borgnet XXVIII, 611; ID., In IV Sent., d. 15, a. 16: ibid.,
XXIX, 494-497. Quanto alla determinazione del superfluo ai nostri tempi, cf.
GIOVANNI XXIII, Messaggio
radiotelevisivo 11 sett. 1962: AAS 54 (1962), p. 682: “Dovere di ogni
uomo, dovere impellente del cristiano è di considerare il superfluo con la
misura delle necessità altrui, e di ben vigilare perché l’amministrazione e la
distribuzione dei beni creati venga posta a vantaggio di tutti”.
(149) Vale in tal caso l’antico
principio: “In estrema necessità tutto è in comune, cioè da comunicare”.
D’altra parte, per il criterio, l’estensione e il modo con cui si applica il
principio proposto nel testo, oltre ai sicuri autori moderni, cf. S.
TOMMASO, Summa Theol., II-II, q. 66, a. 7. Com’è evidente, per una
corretta applicazione del principio, si devono osservare tutte le condizioni
moralmente richieste.
(150) Cf. Gratiani Decretum,
c. 21, dist. LXXXVI: ed. Friedberg, I, 302. Questo detto si trova già in PL 54,
491A e in PL 56, 1132B. Cf. in Antonianum 27 (1952), pp. 349-366.
(151) Cf. LEONE XIII, Encicl.Rerum Novarum: ASS 23 (1890-91), pp. 643-646 [in parte Dz 3265-67]; PIO XI, Encicl. Quadragesimo anno: AAS 23 (1931), p. 191; PIO XII,Messaggio radiofonico 1° giugno 1941: AAS 33 (1941), p. 199; ID., Messaggio radiofonico nella vigilia del Natale del Signore 1942 Con sempre nuova freschezza: AAS 35 (1943), p. 17; ID., Messaggio radiofonico, 1° set. 1944 Oggi al compiersi: AAS 36 (1944), p. 253; GIOVANNI XXIII, Encicl.Mater et Magistra: AAS 53 (1961), pp. 428-429.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli