INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

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Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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giovedì 27 dicembre 2018

Giustizia: alle origini culturali della dottrina sociale


Giustizia: alle origini culturali della dottrina sociale 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 25, 31-46)

[31] Quando il Figlio dell'uomo (* v. nota sotto) verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. [32] E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, [33] e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. 
[34]   Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. 
[35]   Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, [36] nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. 
[37]   Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? [38] Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? [39] E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? 
[40] Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. 
[41] Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. 
[42] Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; 
[43] ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. 
[44] Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? 
[45] Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. 
[46] E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna".
[traduzione italiana CEI 2008, come gli altri testi biblici trascritti di seguito]

(*) dalla voce “Gesù Cristo” dell’Enciclopedia Treccani, di Leone TONDELLI - Giuseppe FILOGRASSI - Alberto PINCHERLE - Guillaume DE JERPHANION - Enciclopedia Italiana (1932).
 Il Figlio dell'uomo e il Figlio di Dio. - Fondatore del Regno messianico, redentore di molti nel proprio sangue, maestro di una nuova dottrina che sarà "luce del mondo", trionfatore nel suo ritorno finale: tale presenta sé stesso Gesù [in seguito “G.”]. Ma queste prerogative non illuminano il mistero della sua persona. G. applica frequentemente a sé una frase, a primo aspetto almeno, assai umile: "il figlio d'uomo", o più esattamente, secondo la versione datane dai Vangeli: "il figlio dell'uomo". Il titolo è usato nelle profezie di Ezechiele: "Or tu, figlio d'uomo, prendi una tavoletta d'argilla" (Ezech., IV, 1, e passim). Ma è Dio o un angelo che così chiama il profeta; Ezechiele non l'usa mai di sé, come invece lo usa G.: "Perché voi sappiate che il Figlio dell'uomo ha sulla terra il potere di rimettere i peccati, àlzati (dice al paralitico), prendi la tua stuoia e va' a casa tua" (Marco, II, 10-11). Dinnanzi al sinedrio G. dirà: "Da qui innanzi vedrete il Figlio dell'uomo, seduto alla destra della potenza di Dio, venire sulle nubi del cielo" (Matt., XXVI, 64), con frase che già aveva usata altra volta riguardo al suo proprio ritorno (Matt., XXIV, 30).
In questi due casi è perspicua l'allusione al testo di Daniele che descrive, dopo quattro grandi imperi successivi, simboleggiati da quattro fiere, il Regno eterno del "popolo dei santi dell'Altissimo": "Quand'ecco venire tra le nuvole del cielo uno dalla sembianza di Figlio d'uomo che si avanzò fino al Vegliardo dei giorni antichi..., e questi gli conferì la podestà, l'onore e il Regno: tutti i popoli, le schiatte e le lingue serviranno a lui" (Dan., VII, 13 segg.). Le cosiddette Parabole dell'Apocrifo etiopico di Enoch (v. enoch) avevano ripreso la frase "Figlio d'uomo", per indicare l'eletto da Dio per l'avvento messianico. La difficoltà più seria contro l'interpretazione messianica del titolo è anzi la sua trasparente chiarezza; perché G., il quale evitò agl'inizî della vita pubblica di proclamarsi Messia e proibì severamente a Pietro di dirlo ad alcuno quando l'ebbe come tale riconosciuto, non avrebbe potuto senza contraddirsi usare un termine che ne fosse esplicito equivalente. Ma nella frase "Figlio dell'uomo" il significato politico nazionale del messianesimo era meno evidente, e nell'incertezza del suo significato preciso essa si prestava bene a quel piano di manifestazione graduale che G. s'era fissato. Se "Figlio d'uomo" presso Daniele sottolineava la natura umana nella sua distanza da Dio, presso G. designa la natura umana in quanto vela un essere o un'autorità ad essa superiore. Così il "Figlio dell'uomo" ha il potere di rimettere i peccati, è padrone del sabato; "il Figlio dell'uomo" benché proclamato Messia dai suoi, deve patire e morire per poi risorgere: ma questo stesso "Figlio dell'uomo" deve sedere alla destra di Dio e venire sulle nubi a giudicare le nazioni della terra secondo la profezia di Daniele.
Il titolo "il Figlio dell'uomo" usato da G. di sé stesso pone un problema complesso. In aramaico "il figlio dell'uomo", bar nāshã, indica "l'uomo" in generale: il Lietzmann e il Wellhausen ne dedussero che G. non poteva averlo usato di sé, e il suo uso nei Vangeli doveva mettersi a carico della tradizione più che di lui. Ma si fece osservare giustamente che la tradizione della Chiesa primitiva, quale ci è nota dai documenti neotestamentarî, evita costantemente di attribuire a G. il titolo di Figlio d'uomo, usando termini più onorifici, quali "Signore" e "Figlio di Dio". Alle ragioni grammaticali risposero G. Dalman, Die Worte Jesu (Lipsia 1908), e P. Fiebig, Der Menschensohn (Tubinga 1901). Il titolo, per il richiamo al libro di Enoch, fu uno degli appoggi della teoria escatologica. La frase equivarrebbe a Messia; interpretazione accettata anche da cattolici, come il Tillmann. Ma tende a prevalere un'idea mitigata, che salvaguardi il fatto della graduale manifestazione messianica curata da G. La scuola comparatista (religionsgeschichtliche) ha ricercato a sua volta le origini della frase e dell'idea soggiacente, identificando questa con un mito dell'Uomo primigenio (Urmensch), di cui si troverebbero tracce nella religione egiziana, nelle concezioni iraniche, babilonesi e mandee. Ma l'identificazione della concezione dell'Uomo primigenio e del suo ufficio nella storia con quella del Figlio dell'Uomo è tutt'altro che dimostrata. La prima è rimasta d'altronde estranea allo ebraismo, mentre non si ha altro esempio di persona che si sia appropriato il titolo di Figlio dell'uomo, all'infuori di G. L'uso fattone da questo non ha alcun accenno a quelle ideologie mitologiche. V. F. Tillmann, Der Menschensohn (Friburgo in B. 1907), e, con maggiore aderenza ai testi evangelici, M. J. Lagrange, Évangile sSMarc, p. XCXXV segg., e in RevBiblique, 1908, pp. 280-293. Più semplice la tesi di G. Meloni, ripresa da Pr. Vannutelli (Il Figlio dell'Uomo, Roma 1923), che la frase fosse usata da G. nel senso di quest'uomo=io. Ma per accoglierla occorre astrarre dall'uso messianico della frase nel libro di Enoch (v. anche sotto: Storiografia critica; Bibliografia).
Il titolo quindi invita a ricercare in G. qualcosa di più grande che non sia l'umano. G. stesso si proclama più grande di Giona e di Salomone, dei profeti (Matt.., XII, 41-42; XIII, 17) e di Mosè di cui perfeziona l'insegnamento e le leggi. Egli compie, da padrone della natura, i miracoli più strepitosi: non solo, ma ne comunica il potere ai Dodici, senza appellarsi a Dio, in nome proprio: "Andate: guarite i malati, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demonî: gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date" (Matteo, X, 8; Marco, XVI, 17-18). Non solo rimette i peccati attirandosi l'accusa di bestemmiatore come usurpatore dei diritti divini (Matt., IX, 2), ma ne dà il potere ai Dodici: "Quanto avrete legato sulla terra sarà legato nei cieli: quanto avrete sciolto sulla terra sarà sciolto nel cielo" (Matt., XVIII, 18). Su loro farà scendere lo Spirito Santo: "Ecco ch'io farò scendere su voi il promesso del Padre mio. Rimanete nella città sin quando voi siate rivestiti d'una virtù dall'alto" (Luca, XXIV, 49). Il giudizio finale di tutte le genti, penetrante nel fondo delle coscienze di ciascuno degli umani passati e futuri, quale si attribuisce G., non può essere prerogativa d'uomo, per quanto elevato in dignità. Né il titolo di Messia né quello di Figlio dell'uomo sono quindi sufficienti ad esprimere la realtà della sua persona. G. effettivamente parlerà di sé come "Figlio di Dio".
Che G. si sia presentato come "Figlio di Dio", da nessuno (o quasi) è messo in discussione. S'è cercato piuttosto di diminuire e d'interpretare quel titolo in senso meno trascendente di quello affermato dal cattolicesimo. "Figlio di Dio" egli si chiamava: o in quanto egli, che aveva rivelato l'universale paternità divina, era in un contatto speciale con Dio; o in quanto l'anima di lui, più ancora che non i profeti, era pervasa da Dio in modo che egli solo poteva conoscere a fondo il Padre, come lui solo era dal Padre conosciuto. Ovvero "Figlio di Dio" sarebbe stato un equivalente di Re Messia, del quale appunto era stato detto nell'Antico Testamento: "oggi io ti ho generato", con allusione alla sua incoronazione a re (Salmo II, 7). Ma la fede delle prime comunità e della grande tradizione cristiana, non si è tenuta a queste interpretazioni.
In realtà le prerogative attribuitesi da G. non si esplicano con un concetto di filiazione morale, e neppure con quello di Messia, se non si riconosca un Messia divino. Esse sono prerogative e diritti divini.

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  Ieri, cercando di far capire le origini culturali della dottrina sociale, secondo quanto ho appreso in un lungo tirocinio iniziato tra gli universitari cattolici della FUCI, ho trascritto questa lettura biblica, tratta dal Primo libro dei Re (1Re 12,19-20; 25-33]:

[19] Israele si ribellò alla casa di Davide fino ad oggi. 
[20] Quando tutto Israele seppe che era tornato Geroboamo, lo mandarono a chiamare perché partecipasse all'assemblea; lo proclamarono re di tutto Israele. Nessuno seguì la casa di Davide, se non la tribù di Giuda.
[…]
 [25] Geroboamo fortificò Sichem sulle montagne di Efraim e vi pose la residenza. Uscito di lì, fortificò Penuèl. 
[26] Geroboamo pensò: "In questa situazione il regno potrebbe tornare alla casa di Davide. 
[27] Se questo popolo verrà a Gerusalemme per compiervi sacrifici nel tempio, il cuore di questo popolo si rivolgerà verso il suo signore, verso Roboamo re di Giuda; mi uccideranno e ritorneranno da Roboamo, re di Giuda". 
[28] Consigliatosi, il re preparò due vitelli d'oro e disse al popolo: "Siete andati troppo a Gerusalemme! Ecco, Israele, il tuo dio, che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto". [29] Ne collocò uno a Betel e l'altro lo pose in Dan. [30] Questo fatto portò al peccato; il popolo, infatti, andava sino a Dan per prostrarsi davanti a uno di quelli. 
[31] Egli edificò templi sulle alture e costituì sacerdoti, presi qua e là dal popolo, i quali non erano discendenti di Levi. 
[32] Geroboamo istituì una festa nell'ottavo mese, il quindici del mese, simile alla festa che si celebrava in Giuda. Egli stesso salì sull'altare; così fece a Betel per sacrificare ai vitelli che aveva eretti; a Betel stabilì sacerdoti dei templi da lui eretti sulle alture. 
[33] Il quindici dell'ottavo mese salì sull'altare che aveva eretto a Betel; istituì una festa per gli Israeliti e salì sull'altare per offrire incenso. 
   
  In quel brano biblico  si racconta la costituzione del regno di Israele, dalle tribù stanziate nel nord della regione di Canaan che si separarono così dal regno unitario centrato su Gerusalemme e il suo Tempio, in Giudea, a sud. Il suo primo re viene indicato in Geroboamo, già funzionario del re Salomone, originario del nord. Si narra che il nuovo re del regno settentrionale trovò politicamente pericoloso l’antico culto che aveva i suoi sacerdoti e le sue liturgie a Gerusalemme e ne inventò un altro, costituendogli anche una classe sacerdotale nei nuovi templi costruiti a Betel. Questo modo di fare  è stato piuttosto comune nei potenti di ogni epoca. Nelle religioni che prendono come riferimento gli scritti biblici, ci si ragiona sopra anche a partire dalla narrazione della costituzione del regno di Geroboamo: il risultato  è una critica durissima del potere politico che si comporti in quel modo. La si svolge nello spirito e con le argomentazioni degli antichi profeti, come Osea in questo brano, che pure ho trascritto ieri (dove con Efraim, si indica il regno di Israele,  nel nord):

[Os 6, 4-11]
[4] Che dovrò fare per te, Efraim?
che dovrò fare per te, Giuda? 
Il vostro amore è come una nube del mattino, 
come la rugiada che all'alba svanisce. 

[5] Per questo li ho colpiti per mezzo dei profeti, 
li ho uccisi con le parole della mia bocca 
e il mio giudizio sorge come la luce: 

[6] poiché voglio l'amore e non il sacrificio, 
la conoscenza di Dio più degli olocausti. 

[7] Ma essi come Adamo hanno violato l'alleanza, 
ecco dove mi hanno tradito. 

[8] Gàlaad è una città di malfattori, 
macchiata di sangue. 

[9] Come banditi in agguato 
una ciurma di sacerdoti 
assale sulla strada di Sichem, 
commette scelleratezze. 

[10] Orribili cose ho visto in Betel; 
là si è prostituito Efraim, 
si è contaminato Israele. 

[11] Anche a te, Giuda, io riserbo una mietitura, 
quando ristabilirò il mio popolo. 


  Quel passo del libro del profeta Osea, in cui si richiama l’episodio dell’instaurazione di un nuova religione da parte del re Geroboamo, è molto importante perché richiamato in un insegnamento evangelico e, in particolare, nelle parole attribuite al Maestro:

Dal Vangelo secondo Matteo  (Mt 9,10-13)

[10] Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. 
[11] Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: "Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?". 
[12] Gesù li udì e disse: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati.
[13] Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori". 

 Nel contesto evangelico il rimprovero mosso ad integralisti religiosi è lo stesso che il profeta Osea aveva lanciato contro l’esperienza religiosa di Geroboamo: quindi molto, molto duro, molto più duro di ciò che appare testualmente nel brano evangelico se non lo si riferisce al precedente biblico del re  d’Israele che si era fatto una nuova religione. E, infatti, in genere non lo si intende in tutta la sua durezza, di sconfessione  religiosa.


[4] […] Il vostro amore è come una nube del mattino, 
come la rugiada che all'alba svanisce. 
[6] poiché voglio l'amore e non il sacrificio, 

la conoscenza di Dio più degli olocausti.
[7] Ma essi come Adamo hanno violato l'alleanza, 

ecco dove mi hanno tradito. 

aveva profetizzato Osea. L’amore è la nuova legge, chi non lo intende non ha capito l’essenziale, ha tradito. Nel brano evangelico la parola che la Bibbia CEI 2008 traduce con  misericordia  è èleos, da intendersi come  ciò che lacera l’animo, che affligge [da Carlo Rusconi,Vocabolario del Greco del Nuovo Testamento, EDB, 1997], quindi compassione, un patimento nel vedere le tristi condizioni degli altri che spinge all'azione in soccorso. Nel brano di Osea si trattava del giusto atteggiamento religioso, verso il Cielo, nel brano evangelico di come affrontare i reietti sociali. Nel passaggio dall’uno all’altro c’è la novità dell’azione sociale proposta dal cristianesimo. Nel primo l’emotività, l’amore, che si chiede al fedele è rivolta verso il Santo, nel secondo la misericordia  che si propone come legge universale è rivolta verso reietti sociali ed è analoga all’atteggiamento del Santo verso il popolo descritto in Osea 6,3-8:

[3] Egli perdona tutte le tue colpe, 

guarisce tutte le tue malattie; 

[4] salva dalla fossa la tua vita, 
ti corona di grazia e di misericordia; 

[5] egli sazia di beni i tuoi giorni 
e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza. 

[6] Il Signore agisce con giustizia 
e con diritto verso tutti gli oppressi. 

[7] Ha rivelato a Mosè le sue vie, 
ai figli d'Israele le sue opere. 

[8] Buono e pietoso è il Signore, 
lento all'ira e grande nell'amore. 


  Inutile tentare di placare il Cielo costruendogli santuari o compiendo ingenti sacrifici rituali. Occorre altro.
 Il potere politico è sempre disposto a venire a patti con quello religioso spendendo per santuari e liturgie, molto meno a praticare su larga scala la misericordia. Questo perché ragiona secondo la misura del proprio interesse particolare.
  Il discorso ci porta al primo brano evangelico che ho citato, tratto dal Vangelo di Matteo. E’ in linea con il detto: “Misericordia io voglio e non sacrificio”. E’ molto duro, perché contiene una maledizione “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli.“ L’accusa:
“[42] Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiareho avuto sete e non mi avete dato da bere
[43] ero forestiero e non mi avete ospitatonudo e non mi avete vestitomalato e in carcere e non mi avete visitato.”
  L’insegnamento evangelico definisce un tipo di religiosità che non si fonda sui riti nei santuari, ma che onora il Cielo manifestandogli l’amore dovuto nei  suoi fratelli più piccoli, da intendere, secondo l’impostazione del brano, come i forestieri, gli affamati, gli assetati, gli ignudi,  i carcerati, i malati, dando loro ciò di cui hanno bisogno. Li si deve amare e soccorrere con lo stesso spirito con cui il Cielo li ama e li soccorre. La prospettiva è quella indicata nel Vangelo di Giovanni  (Gv 15,12-14)

[12] Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati.
[13] Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.
[14] Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando.

 Facendo questo ai più piccoli è come se lo si facesse al Santo ("ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me", Mt 25,40). Questa è  giustizia, intesa come  dare a ciascuno il suo, ma nella prospettiva evangelica. Comunemente la si intende invece come una certa proporzione, negli scambi, tra ciò che si dà e si riceve, ma anche  come principio di adeguamento della sanzione per un reato accertato, secondo l'antica legge del taglione per cui si fa al colpevole un male proporzionato al male commesso. Nel brano evangelico di Matteo 25, 31-46 la misura del dare è definita dal bisogno di chi riceve, senza contraccambio, senza proporzione. In quel contesto chi riceve non ha da contraccambiare. Non c'è un limite nel criterio di proporzionalità.  Invece si è in genere disposti ad una certa magnanimità, ma fissandole un limite, che viene considerato ragionevole. Anche di recente si è inteso interpretare in questo modo l’insegnamento evangelico in sede politica. La dottrina sociale si muove al contrario nella reale prospettiva evangelica e cerca, in particolare, di dare indicazioni e principi per la costruzione di una società in cui i bisognosi vengano effettivamente soccorsi secondo le loro necessità, a prescindere dalla loro utilità sociale per cui ci si possa aspettare poi un certo contraccambio. L’impegno è  livello globale, proprio perché condotto con animo religioso. Se la sua misura è su scala nazionale, le cose possono farsi più semplici, ma ciò comporta l’esclusione di chi è considerato straniero e come tale è fuori del campo della misericordia. Il suo destino non ci scuote le viscere, non ci taglia l’animo. Tuttavia, nella prospettiva evangelica, nel  forestiero [nel greco del brano evangelico si dice xènos, da cui la nostra parola xenofobia, l’avversione per lo straniero] bisogna essere capaci di vedere colui che nel brano evangelico viene indicato come Figlio dell’Uomo, il re del regno preparato per i  giusti fin dalla fondazione del mondo.
 La dottrina sociale contemporanea ci avverte: se non saremo capaci di muoverci nella prospettiva evangelica, in un mondo globalizzato e interdipendente dove nessuno è veramente straniero e tutti hanno necessità di tutti ciò comporterà la nostra rovina sociale, perché il complesso sistema sociale che garantisce la sopravvivenza globale si incepperà. L’ammonizione, in democrazia, riguarda tutti coloro che da cittadini hanno voce in capitolo, non solo chi ricopre cariche pubbliche. Le colpe si diffondono, non restano confinate in alto, nella misura in cui anche il potere è diffuso e quindi lo è la responsabilità. In effetti una certa durezza di cuore si coglie a livello della gente e, nelle persone religiose, è anche durezza di cervice, nell’intendere le esigenze della fede secondo la sintesi del profeta Osea nel brano sopra citato:
“poiché voglio l'amore e non il sacrificio, 

la conoscenza di Dio più degli olocausti.”
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli