Sinodalità e tradizione
Nella nostra Chiesa si dà molta importanza alla tradizione, intesa come ciò che s’è fatto in passato e si ritiene che debba essere criterio di orientamento per il presente e per il futuro. V’è anche una Tradizione che è un concetto teologico e riguarda ciò che deve essere considerato come verità, vale a dire che deve essere accettato per essere considerati parte della Chiesa, ma di questo non mi voglio occupare, perché non ne ho la necessaria competenza: non sono né voglio essere un teologo.
Trattando di tradizione, con la “t” minuscola possiamo partire da un dato storicamente evidente: non s’è mai dato di una concezione, rito, costume, norma, che non sia profondamente mutata nel tempo e che ci sia stata sempre, dovunque e per tutti. Il passato è sempre stato innanzi tutto un punto di partenza, e quindi un elemento importante per capire il senso di ciò che accade intorno a noi, ma anche, certamente, un orientamento per vivere nel presente, perché dal passato apprendiamo anche come fare molte cose, in particolare come comportarci in società. Tuttavia il presente reca sempre delle novità, innanzi tutto nelle relazioni tra i gruppi che esprimono la società, poi anche in quel sapere e saper fare che entra nella cultura collettiva, e infine anche nel succedersi delle generazioni. Questo determina i cambiamenti sociali: nessuna società umana, nemmeno le nostre Chiese, rimane sempre la stessa.
Poiché noi, come Chiesa, pretendiamo di mantenere una relazione viva con gli insegnamenti del Fondatore, sorge il problema di individuare l’essenziale nel nostro modo di fare Chiesa, quello che non può mutare se vogliamo essere suoi seguaci.
Realisticamente, praticamente nulla di ciò che viviamo come Chiesa c’era alle origini, e anche le narrazioni evangeliche sono il frutto di riflessioni sulla pratica delle prime Chiese successiva alle origini (il mondo del cristianesimo primitivo, per ciò che ne sappiamo, ci appare piuttosto pluralistico), così anche per i documenti neotestamentari più antichi, le Lettere attribuite a Paolo di Tarso (datate una ventina d’anni dopo la morte del Maestro), che contengono una teologia piuttosto sofisticata ed evoluta, ad esempio rispetto a quella espressa nel Vangelo secondo Marco.
Ricordo che a catechismo il fenomeno della tradizione mi venne spiegato dicendo che, oltre agli scritti che parlavano degli insegnamenti del Maestro, c’erano altri insegnamenti che egli aveva impartito a voce agli apostoli e che, per tramite di questi ultimi, era pervenuto alla Chiesa del nostro tempo, e, attraverso Papa e vescovi, a tutti noi. Questo è senz’altro un modo per dare maggiore autorità alla dottrina, ma che poi sia realmente accaduto non mi pare storicamente dimostrabile, anche perché ciò che viene insegnato e comandato reca traccia di reazioni a fatti e problemi anche di molto successivi ai tempi del Maestro. Le stesse nostre Chiese, benché si ritenga che siano state da lui volute, sono state costruite dopo la sua morte, e, innanzi tutto, cercando di dare un senso alla sua morte. La notizia di una sua Resurrezione non risolse assolutamente tutti i problemi, come risulta chiaramente dagli stessi scritti neotestamentari.
Fatte queste premesse, il fenomeno del mutamento delle prassi sociali e delle società nel tempo è particolarmente sensibile in tema di sinodalità ecclesiale.
Se ne individuano dei tipi, nelle comunità di fede primitive, che coinvolgevano tutti coloro che ne facevano parte, donne comprese, e poi, affermandosi l’episcopato monarchico, a cavallo tra il Primo e il Secondo secolo, altre forme che coinvolgevano solo gerarchi e i proto-teologi, in seguito, in particolare per tutto il Primo Millennio, forme dominate dai poteri civili, poi, per circa la metà del Secondo Millennio, forme che videro protagonisti i Papi (per un periodo più Papi regnanti contemporaneamente), i vescovi riuniti in concilio e i sovrani, a seguire forme nelle quali i sinodi erano egemonizzati dal vescovo e i concili dai Papi, fino ad arrivare, negli scorsi anni Settanta, al movimento che vorrebbe instaurare una sinodalità di nuovo allargata a tutti, e all’idea di riforma sinodale delle Chiese di papa Francesco. Le ultime fasi del processo evolutivo sono state influenzate dalle concezioni democratiche avanzate diffuse in Occidente, e in particolare in Europa, dopo la Seconda Guerra mondiale. Solo dal 1939 il Papato ha cessato di contrastare i processi democratici, arrivando nel 1991, con l’enciclica Il centenario – Centesimus annus, a indicare la democrazia come auspicabile nel governo degli stati. È comunque corrente l’idea che la Chiesa non è una democrazia, ritenendo la democrazia il regime in cui comanda la maggioranza, cosa non ammessa nella nostra Chiesa dove un’esigua minoranza pretende di comandare. Da metà Ottocento, poi, il Papato romano si è trasformato in un’autocrazia assolutistica. Va detto che la democrazia come oggi la si intende in Occidente non consiste essenzialmente nella tirannia delle maggioranze, ma nel principio supremo della dignità sociale dell’essere umano, senza distinzioni, che comporta che non vi possano essere poteri senza limiti. L’attuale organizzazione della nostra Chiesa, basata su un Papato autocratico con potere illimitato e su una gerarchia di tipo feudale che ammette limiti solo dall’alto, non è senz’altro democratica, ma neppure sinodale a ben vedere, e appare veramente obsoleta, tanto da venire considerata come una delle cause del declino delle nostre Chiese in Occidente. Su temi molto importanti il popolo, pomposamente definito Popolo di Dio con attribuzione di una specie di infallibilità nel credere (non proprio evidente data la violenza anche stragista usata storicamente per dominarlo) salvo relegarlo in posizione di gregge, si è espresso in maniera diversa dai gerarchi ecclesiali, valendosi delle libertà civili democratiche. Una delle più dolorose conseguenze derivanti dall’antidemocraticità ecclesiale è la dura emarginazione delle donne di fede. E poi ci sono i problemi sulla via della sinodalità ecclesiale di tutti. Quella inscenata nei mesi scorsi per dovere d’ufficio, nella fase di ascolto dei processi sinodali ordinati da papa Francesco è stata solo una finzione. Sta a noi persone di fede trasformarla in qualcosa di più serio. Purtroppo su questa via abbiamo ben pochi esempi virtuosi del passato da emulare. Quando ci si è incontrati per decidere insieme, in genere le cose si sono messe male: la storia delle nostre Chiese, come quella delle società umane in genere, è stata piena di violenze, sopraffazioni, umiliazioni dei soccombenti. E, anche su piccola scala, ad esempio in una parrocchia, possiamo constatare che è ancora così. È difficile trovarsi insieme per decidere di comune accordo senza litigare di brutto, scambiandosi anche scomuniche, emulando così il peggio della tradizione. È per questo, come mi è stato riferito, che il nostro Consiglio pastorale parrocchiale da anni non si riunisce e ciò in violazione di un decreto gerarchico che lo ha ordinato come obbligatorio.
Così dal passato possiamo imparare che quelle vie sono sbagliate perché fanno soffrire, e questo possiamo considerarlo un dato della tradizione. Non è in quel modo che agiva il Maestro, veramente tanto diverso dai nostri gerarchi di tutte le epoche. Possiamo ancora imparare tanto da lui, se solo accostiamo la sua vita senza i paraocchi della teologia di corte, al modo di un Francesco d’Assisi.
Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli