Sacralizzazione e
sacramentalità
La distinzione tra sacralizzazione e
sacramentalità è molto importante nelle nostre questioni sulla sinodalità. Il
secondo concetto è strettamente legato alla teologia cristiana, il primo è
caratteristico di tutte le culture umane note ed è studiato dall’ antropologia, dalla
sociologia e anche da vari rami delle discipline giuridiche.
È sacralizzato ciò che in una cultura umana
viene considerato immodificabile perché voluto da una divinità o ad essa comunque legato. Quando si parla di un regnante come di una persona sacra è
questo che si vuole intendere.
La sacramentalità è considerata comunemente
un attributo di un’azione, di una procedura o di un’istituzione che producono
un effetto salvifico in senso cristiano, per virtù della Grazia divina.
La sacramentalizzazione è stato un processo
storico nelle Chiese cristiane, che la riconoscono in misura più o meno ampia.
Comune a tutte è quella del Battesimo. Il matrimonio, per ciò che so, è stata
la procedura di più recente sacramentalizzazione nella nostra Chiesa, risalente
al Quattrocento.
Durante
il Concilio Vaticano 2º, svoltosi a Roma tra il 1962 e il 1965, fu
approvata un’importante costituzione dogmatica, vale a dire sulle
definizioni essenziali per la nostra fede, denominata dalle sue prime parole in
latino Luce per le genti -Lumen gentium, nella quale la stessa Chiesa
viene definita sacramento:
1. Cristo è la luce
delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera
dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15),
illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto
della Chiesa. E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento,
ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto
il genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con
maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria
natura e la propria missione universale. Le presenti condizioni del mondo
rendono più urgente questo dovere della Chiesa, affinché tutti gli uomini, oggi
più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali,
possano anche conseguire la piena unità in Cristo.
A questa
sacramentalità totale della Chiesa viene collegato lo sviluppo della sinodalità
estesa che si vorrebbe porre a fondamento di una riforma ecclesiale. Essa
comporta necessariamente anche un cambiamento delle forme di esercizio del
potere ecclesiale, a tutti i livelli. Infatti l’attuale modello congegnato a
partire dall’Undicesimo secolo ad imitazione di quelli feudali all’epoca
corrente, quindi su livelli gerarchicamente ordinati di autocrati monocratici,
è incompatibile con l’idea di sinodalità diffusa, nel quale, al posto del
coordinamento gerarchico tra feudatari
dovrebbe vivere quello basato sull’agápe, vale a dire sull’intesa
solidale e sollecita, nella quale, dove non si riesce a trovare l’accordo, si
tollerano le differenze.
Ma come può riuscire? Come riesce nella
società in cui viviamo? Le democrazie avanzate contemporanee, tra le quali vi è
ancora quella italiana, funzionano così, e funzionano. Rispetto ad esse
l’organizzazione della nostra Chiesa è obsoleta - c’è chi autorevolmente
osservò che era in ritardo di due secoli -, e non funziona, se non, e da ciò
che si sente non tanto bene, nell’amministrazione di beni e personale.
La Chiesa non è una democrazia,
ripetono taluni. E perché non dovrebbe esserlo? Perché, così com’è, è stata
voluta dal Maestro, rispondono. Questo è, appunto, sacralizzazione
del potere ecclesiastico. Non sono un teologo, quindi non mi azzardo a
sostenere, con la pretesa di dire una verità, che non è così. Dico solo
che spero caldamente che non sia così e che la cosa comunque non mi
pare tanto evidente. Gli elementi sui quali i teologi di solito
fantasticano in merito mi sembrano assai scarni, poche frasi buttate lì nei
Vangeli e dal senso non proprio chiaro. La prassi delle Chiese delle origini
non andò certo in quel senso, per quello che se ne sa. Poi, certo, c’è la tradizione,
anzi “la” Tradizione. Ce n’è una letteraria, indubbiamente affascinante, che
coinvolge emotivamente. Come scrivevano bene, in genere, e tanto, quegli
antichi autori, i Padri! Ma come erano anche bellicosi, loro e le loro
Chiese! C’è anche questo in quella tradizione, ma noi in genere oggi non
pensiamo di trarne esempio. E che dire del loro feroce antigiudaismo?
La storia della sinodalitá ecclesiastica,
dalle origini fino a quasi alle soglie dell’epoca nostra, fu una tragica
sequela di compromessi e condanne, e ad ogni accordo si lanciava anche un anatema contro qualcun altro. E non solo in
ambito cattolico (tra i cattolici la si piantò solo con il Concilio Vaticano
2º). Nel Cinquecento dopo una disputa risolta sinodalmente tra protestanti
riformati a Zurigo, gli anabattisti che continuavano a dissentire furono fatti
annegare nel fiume Limmat. Ora, in genere, riteniamo di non dover seguire
quella orrida tradizione, pur giustificata da una teologia notevole.
Questo significa che ne ripudiamo la sacralizzazione: non possiamo sostenere
che quelle stragi fossero state volute dal Maestro. Forse dovremmo cominciare a
pensarla così anche con la nostra incongrua gerarchia.
Nel conflitto russo-ucraino-statunitense, che
ci sta impoverendo e incattivendo tutti, vediamo all’opera, come un tempo,
poteri ecclesiastici sacralizzati, i quali, facendosi scudo del Maestro,
incitano alla guerra e benedicono le armate. Ecco di che è fatta la tradizione
che si vorrebbe ancora sacralizzata. Personalmente, nonostante le belle
fantasticherie di certi teologi, la ripudio e la condanno, in me stesso
anzitutto. Non è sacramentale, ma solo, abusivamente, sacralizzata. Non
è sacramentale perché non ci parla del Maestro, che era mite e umile di
cuore, salvava le persone e non ammazzò nessuno, e non si comportò nemmeno come
un gerarca, pur dicendosi re. Re sì, ma non come quelli di questo
mondo.
Mario Ardigó- Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma,
Monte Sacro, Valli