Pluralità
Vi sono animali che vivono tutta la vita o parte di essa in gruppi di individui della loro stessa specie. Ad un osservatore disattento appaiono indistiguibili dai loro simili, se non per il sesso o l’accrescimento. Quindi vediamo che ci sono maschi e femmine, piccoli e adulti. Eppure, accostandoli per più tempo, come accade agli allevatori (da ragazzo fui allevatore di polli) ci si accorge che ciascuno ha una sua propria individualità. Si somigliano, ma non sono uguali: nessuno è la copia identica dell’altro. Per gli esseri umani è lo stesso, ma le differenze diventano più marcate perché si esprimono in molti aspetti culturali e sociali. Per essi i gruppi umani si manifestano come società, che possono diventare molto complesse perché le maggiori capacità cognitive degli individui rendono possibili forme di collaborazione estese e raffinate. Così la cultura, intesa in senso antropologico, come l’insieme delle concezioni e dei costumi di riferimento, insieme divide e unisce. Questo accade anche in religione.
Pretendere una intensa uniformità tra le persone in tutto, e in particolare nelle cose che nella vita sono più importanti, e l’amore è tra esse, è, quindi, disumano. Però ciclicamente essa viene considerata un valore. Lo si vede, ad esempio, nelle vesti di chi appartiene a certi ordini religiosi, nelle tonache dei preti di una volta e dei sedicenti tradizionalisti contemporanei, nelle divise militari. Ma finché questo riguarda l’esteriorità o, al più, certi momenti della vita, non disturba, o non tanto. Se invece si vogliono uniformare addirittura le coscienze, cominciano i problemi, perché la persona umana ne soffre. Talvolta sembra, però, che la formazione religiosa punti proprio a quello.
I guai si fanno più grossi quando si pretende di cucire addosso alle altre persone un abito sociale e individuale insostenibile, caricandole di pesi insopportabili. Accade spesso, nella nostra Chiesa, sulle questioni di moralità sessuale, dove un ceto di celibi per scelta vorrebbe imporre alle persone che invece accettano di amarsi obblighi insensati. Non lo si fa per cattiveria, naturalmente. Ma si fa tanto soffrire, in particolare proprio i coniugi cristiani, che si amano più intensamente e a lungo.
Ecco che, ad esempio, l’altro giorno si è detto che la formazione al matrimonio dovrebbe essere molto lunga e complicata, alla pari di quella dei preti cattolici (che comunque, alla prova dei fatti, manifesta gravi carenze, in particolare nelle attitudini relazionali verso le persone laiche), durare molti anni, e praticamente tutta la vita (senza poter imparare nulla dall’esperienza, ma avendo sempre di mezza il teologo morale). Nel frattempo bisognerebbe mantenersi casti, nel senso di vietarsi la tenerezza, fino alla stipula del matrimonio canonico. Chiunque ama e ha amato sa quanto questa pretesa sia crudele e insensata. Tanto più in una società come quella italiana, in cui ci si sposa tardi, da trentenni. Su questo penso che la maggioranza delle persone laiche si attenga ad altri criteri, non certo banalizzando il sesso, ma nemmeno demonizzandolo. E’ facile, per chi predica da celibe per scelta, ribadire la dottrina tradizionale, come si suol dire, senza tener conto del male che fa, anzi credendo in buona fede, per deliberata o anche solo inconsapevole ignoranza, di far bene. D’altra parte, l’efferata polizia ideologica che ancora viene praticata nella nostra Chiesa stronca la vita dei predicatori che non parlano così. E loro, poveretti, lo devono fare: non sono persone libere, uno dei più gravi loro problemi. Le persone laiche ascoltano, ma loro e i predicatori sanno che le cose non andranno secondo quelle prediche. Chi si ama ha, così, preso, sinodalmente, una decisione su quella questione, senza però farne un dramma. E nemmeno i pastori ragionano diversamente, nell’accostarsi a chi la pensa in quel modo. I teologi morali sanno che poche persone praticheranno la via da loro insegnata, e in genere non per molto tempo, e, anche loro, però, non si stracciano le vesti e non colpevolizzano più di tanto. Ci si intende tutti sul principio morale di non banalizzare le relazioni sessuali, che possono anche avere aspetti giocosi, ma non sono un gioco. Una volta andava molto peggio, c’era una dura pressione sociale, per cui certe cose si facevano di nascosto, ma si facevano comunque, in una complessiva qual ipocrisia. La repressione sociale si abbatteva in particolare, molto duramente, sulle donne, in genere la parte debole di quelle relazioni, e ancora oggi, in definitiva, le rampogne che si fanno su quei temi mirano essenzialmente a colpire le donne, certe volte definite spregiudicatamente addirittura come criminali. Un costume che, in una riforma sinodale, andrebbe decisamente cambiato e che personalmente non ho mai praticato. Possiamo stupirci, allora, nel leggere che le indagini demoscopiche segnalano una progressiva disaffezione delle donne alle nostre liturgie (e di solito erano rimaste più o meno solo loro a frequentarle con continuità)?
Ma anche su altri temi ci facciamo del male, in religione, idealizzando l’uniformità. Nelle parrocchie, e in altri ambienti di prossimità, ci si accapiglia e ci si scomunica (arbitrariamente). Chi la vuole in un modo non tollera che altre persone facciano o pensino diversamente. E magari si tratta di partiti presi poco informati, basati su una formazione religiosa approssimativa.
Un rimedio ci sarebbe e si chiama aggiornamento, una delle parole chiave del Concilio Vaticano 2°, usata al posto di riforma, che evocava antiche paure.
Ad esempio, l’Ufficio catechistico della nostra Diocesi organizza, a richiesta, corsi presso le parrocchie per contribuire a diffondere una cultura catechistica al passo con i tempi. Ai tempi in cui le mie figlie andarono a catechismo nella nostra parrocchia certamente non lo era. Rimediammo noi genitori, che avevamo ricevuto una formazione più completa, ma non sempre può andare così, e gli errori educativi rimangono tali e poi disamorano i giovani alla fede.
Mi parve sensata, allora, la linea della Diocesi di Milano in tema di fatti d’amore di un po’ di tempo fa, di lasciare certe cose alla spiritualità e alla responsabilità personali di chi si ama, puntando a far emergere religiosamente l’amore dove il consumismo corrente celebra una sorta di ginnastica del sesso.
In una vita ecclesiale capace di sinodalità bisognere puntare piuttosto a sapersi parlare ed intendere fin dove si riesce e a lasciare le cose come stanno dove non ci si riesce, in attesa di intendersi meglio in futuro, rimanendo però vicini e in relazione. Spesso, invece, di fronte alle difficoltà si preferirebbe separarsi o non incontrarsi, ognuno per sé. Quest’ultimo modello, se vissuto in parrocchia, è quello che ho definito condominiale, per cui si cerca di intendersi più che altro per concordare una fruizione degli spazi comuni in modo tale da non doversi avvicinare troppo. Un po’ come, nelle piscine, ci sono i giorni per gli uomini e quelli per le donne.
Così, certo, personalmente non seguo la spiritalità dei santi, santuari e relativi eventi miracolanti, ma non vorrei che chi la pratica fosse additato come una persona che sbaglia. Ci sono vissuto in mezzo fino ad ora senza problemi e vorrei continuare così. Non mi arrogo il diritto di rampognare chi non fa come me. Attacco solo la violenza, l’arbitrio, la pretesa di imporre la propria verità e di escludere i dissenzienti, di prendersi tutto. Quando mai il Maestro insegnò a fare così?
Ma non è che così ci troveremmo tante persone strane intorno?, si teme. Può accadere e del resto è sempre accaduto. Molto di ciò che diciamo di credere ha l’apparenza di vaneggiamenti. Visioni, sogni, esperienze che definiremmo paranormali ci sono sempre stati e sono narrati anche nella Bibbia. Le persone umane funzionano anche così. Siamo organismi viventi e la nostra è una mente emotiva, dicono gli specialisti. Molte delle esperienze mistiche rivelano psicologie alterate, certo, con relativa circolazione di endorfine e dopamina: di questo appunto è fatta la nostra emotività, di qualcosa (che per noi talvolta è percepita come qualcuno) dentro che ci spinge ancor prima che riusciamo a razionalizzarne il perché. Il canto, il mangiare insieme, anche ritualmente nella nostra Cena, certi gesti compiuti insieme, generano quelle emozioni, che sono strettamente implicate in ciò che intendiamo per felicità. Ad esempio l’atteggiamento orante che assumiamo recitando il Padre nostro, con le braccia aperte, o la lavanda dei piedi, il Giovedì santo, il segno della Croce sono esempi di gesti che uniscono emotivamente, e danno indubbiamente gioia. Li facciamo e ci avviciniamo, pur rimanendo differenti gli uni dagli altri.
Imparare a convivere amichevolmente pur se diversi è alla base di ciò che con il greco neotestamentario viene definito agàpe e che è al centro della nostra fede. E’ anche al centro di ciò che chiamiamo sinodalità ecclesiale.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli