INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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mercoledì 29 giugno 2022

Sinodalità e tradizione

Sinodalità e tradizione


  Nella nostra Chiesa si dà molta importanza alla tradizione, intesa come ciò che s’è fatto in passato e si ritiene che debba essere criterio di orientamento per il presente e per il futuro. V’è anche una Tradizione che è un concetto teologico e riguarda ciò che deve essere considerato come verità, vale a dire che deve essere accettato per essere considerati parte della Chiesa, ma di questo non mi voglio occupare, perché non ne ho la necessaria competenza: non sono né voglio essere un teologo.

  Trattando di tradizione, con la “t” minuscola possiamo partire da un dato storicamente evidente: non s’è mai dato di una concezione, rito, costume, norma, che non sia profondamente mutata nel tempo e che ci sia stata sempre, dovunque e per tutti. Il passato è sempre stato innanzi tutto un punto di partenza, e quindi un elemento importante per capire il senso di ciò che accade intorno a noi, ma anche, certamente, un orientamento per vivere nel presente, perché dal passato apprendiamo anche come fare molte cose, in particolare come comportarci in società. Tuttavia il presente reca sempre delle novità, innanzi tutto nelle relazioni tra i gruppi che esprimono la società, poi anche in quel sapere e saper fare che entra nella cultura collettiva, e infine anche nel succedersi delle generazioni. Questo determina i cambiamenti sociali: nessuna società umana, nemmeno le nostre Chiese, rimane sempre la stessa.

 Poiché noi, come Chiesa, pretendiamo di mantenere una relazione viva con gli insegnamenti del Fondatore, sorge il problema di individuare l’essenziale nel nostro modo di fare Chiesa, quello che non può mutare se vogliamo essere suoi seguaci.

  Realisticamente, praticamente nulla di ciò che viviamo come Chiesa c’era alle origini, e anche le narrazioni evangeliche sono il frutto di riflessioni sulla pratica delle prime Chiese successiva alle origini (il mondo del cristianesimo primitivo, per ciò che ne sappiamo, ci appare piuttosto pluralistico), così anche per i documenti neotestamentari più antichi, le Lettere attribuite a Paolo di Tarso (datate una ventina d’anni dopo la morte del Maestro), che contengono una teologia piuttosto sofisticata ed evoluta, ad esempio rispetto a quella espressa nel Vangelo secondo Marco.

  Ricordo che a catechismo il fenomeno della tradizione mi venne spiegato dicendo che, oltre agli scritti che parlavano degli insegnamenti del Maestro, c’erano altri insegnamenti che egli aveva impartito a voce agli apostoli e che, per tramite di questi ultimi, era pervenuto alla Chiesa del nostro tempo, e, attraverso Papa e vescovi, a tutti noi. Questo è senz’altro un modo per dare maggiore autorità alla dottrina, ma che poi sia realmente accaduto non mi pare storicamente dimostrabile, anche perché ciò che viene insegnato e comandato reca traccia di reazioni a fatti e problemi anche di molto successivi ai tempi del Maestro. Le stesse nostre Chiese, benché si ritenga che siano state da lui volute, sono state costruite dopo la sua morte, e, innanzi tutto, cercando di dare un senso alla sua morte. La notizia di una sua Resurrezione non risolse assolutamente tutti i problemi, come risulta chiaramente dagli stessi scritti neotestamentari.

 Fatte queste premesse, il fenomeno del mutamento delle prassi sociali e delle società nel tempo è particolarmente sensibile in tema di sinodalità ecclesiale. 

 Se ne individuano dei tipi, nelle comunità di fede primitive, che coinvolgevano tutti coloro che ne facevano parte, donne comprese, e poi, affermandosi l’episcopato monarchico, a cavallo tra il Primo e il Secondo secolo, altre forme che coinvolgevano solo gerarchi e i proto-teologi, in seguito, in particolare per tutto il Primo Millennio, forme dominate dai poteri civili, poi, per circa la metà del Secondo Millennio, forme che videro protagonisti i Papi (per un periodo più Papi regnanti contemporaneamente), i vescovi riuniti in concilio e i sovrani, a seguire forme nelle quali i sinodi erano egemonizzati dal vescovo e i concili dai Papi, fino ad arrivare, negli scorsi anni Settanta, al movimento che vorrebbe instaurare una sinodalità di nuovo allargata a tutti, e all’idea di riforma sinodale delle Chiese di papa Francesco. Le ultime fasi del processo evolutivo sono state influenzate dalle concezioni democratiche avanzate diffuse in Occidente, e in particolare in Europa, dopo la Seconda Guerra mondiale. Solo dal 1939 il Papato ha cessato di contrastare i processi democratici, arrivando nel 1991, con l’enciclica Il centenario – Centesimus annus, a indicare la democrazia come auspicabile nel governo degli stati. È comunque corrente l’idea che la Chiesa non è una democrazia, ritenendo la democrazia il regime in cui comanda la maggioranza, cosa non ammessa nella nostra Chiesa dove un’esigua  minoranza pretende di comandare. Da metà Ottocento, poi, il Papato romano si è trasformato in un’autocrazia assolutistica. Va detto che la democrazia come oggi la si intende in Occidente non consiste essenzialmente nella tirannia delle maggioranze, ma nel principio supremo della dignità sociale dell’essere umano, senza distinzioni, che comporta che non vi possano essere poteri senza limiti. L’attuale organizzazione della nostra Chiesa, basata su un Papato autocratico con potere illimitato e su una gerarchia di tipo feudale che ammette limiti solo dall’alto, non è senz’altro democratica, ma neppure sinodale a ben vedere, e appare veramente obsoleta, tanto da venire considerata come una delle cause del declino delle nostre Chiese in Occidente. Su temi molto importanti il popolo, pomposamente definito Popolo di Dio con attribuzione di una specie di infallibilità nel credere (non proprio evidente data la violenza anche stragista usata storicamente per dominarlo) salvo relegarlo in posizione di gregge, si è espresso in maniera diversa dai gerarchi ecclesiali, valendosi delle libertà civili democratiche. Una delle più dolorose conseguenze derivanti dall’antidemocraticità ecclesiale è la dura emarginazione delle donne di fede. E poi ci sono i problemi sulla via della sinodalità ecclesiale di tutti. Quella inscenata nei mesi scorsi per dovere d’ufficio, nella fase di ascolto dei processi sinodali ordinati da papa Francesco è stata solo una finzione. Sta a noi persone di fede trasformarla in qualcosa di più serio. Purtroppo su questa via abbiamo ben pochi esempi virtuosi del passato da emulare. Quando ci si è incontrati per decidere insieme, in genere le cose si sono messe male: la storia delle nostre Chiese, come quella delle società umane in genere, è stata piena di violenze, sopraffazioni, umiliazioni dei soccombenti. E, anche su piccola scala, ad esempio in una parrocchia, possiamo constatare che è ancora così. È difficile trovarsi insieme per decidere di comune accordo senza litigare di brutto, scambiandosi anche scomuniche, emulando così il peggio della tradizione. È per questo, come mi è stato riferito, che il nostro Consiglio pastorale parrocchiale da anni non si riunisce e ciò in violazione di un decreto gerarchico che lo ha ordinato come obbligatorio.

  Così dal passato possiamo imparare che quelle vie sono sbagliate perché fanno soffrire, e questo possiamo considerarlo un dato della tradizione. Non è in quel modo che agiva il Maestro, veramente tanto diverso dai nostri gerarchi di tutte le epoche. Possiamo ancora imparare tanto da lui, se solo accostiamo la sua vita senza i paraocchi della teologia di corte, al modo di un Francesco d’Assisi.

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli




martedì 28 giugno 2022

Note sulla formazione alla politica

 

Note sulla formazione alla politica

 

 Il recente incontro sulla vocazione alla politica del cristiano tenuto su piattaforma Zoom  dal MEIC Lazio mi dà l’opportunità di sviluppare alcune riflessioni sul tema.

  Va precisato che politica  è il governo delle società umane. Fin dall’antichità, è stato osservato che una delle principali caratteristiche degli esseri umani è di formare delle società con un governo. Quest’ultimo è una forma di collaborazione sociale che può essere considerata come un risultato dell’evoluzione e dà importanti vantaggi. E’ strettamente collegata al  manifestarsi di una cultura, intesa come concezioni, narrazioni, tecnologie e costumi condivisi e a ciò che viene definito mentalizzazione, che è la capacità di intuire e capire il pensiero altrui.

  Il governo si esprime anche in comandi, ma non è solo il comandare. Perché funzioni è necessaria una legittimazione sociale che è un fenomeno culturale  e che quindi necessita di condivisione. Questo al contrario di quanto avviene tra gli altri animali sociali, dove il comando si fonda essenzialmente sulla forza. La supremazia basata sulla forza si impone sugli altri, le società umane, invece, richiedono il governo. Questa richiesta è, appunto, ciò che intendiamo con vocazione alla politica. La risposta individuale dipende da molti fattori, in parte dipendenti dalla psicologia personale, in parte culturali e in parte legati alle caratteristiche proprie della società che richiede il governo. La risposta può essere individuale, ma il governo della società di riferimento è sempre un risultato collettivo, in primo luogo culturale. E’ del tutto ragionevole, quindi, pensare alla formazione della politica come ad un’attività da praticare in gruppo, in una comunità.

  Tra i fattori ambientali che condizionano la risposta alla vocazione alla politica vi è la posizione in cui la persona è collocata nella stratificazione sociale corrente: non è la stessa cosa essere inseriti in un gruppo dominante o in uno dominato. Ogni gruppo esprime interessi propri e, nel perseguirli, si scontra con altri gruppi per farli prevalere conquistando il governo della società. I gruppi dominati possono accettare di legittimare un governo espressione di interessi contrastanti con i propri se, comunque, trova un proprio tornaconto. In genere la legittimazione al governo è frutto di complesse transazioni, in cui giocano un ruolo importante anche elementi mitici e il sacro. Quest’ultimo è utilizzato per rendere stabile la legittimazione di governo.

 Il governo di una società è un risultato continuamente mutevole, in base alle dinamiche tra gli strati sociali che nella società di riferimento si scontrano e cercano transazioni o di abbattere gli avversari. In alcune epoche storiche questa mutevolezza è più sensibile e noi ci troviamo, appunto, in una di esse.

  La fede cristiana è stata storicamente il principale elemento mitico di sacralizzazione nelle società politiche europee. Questo spiega le efferate lotte in cui è stata implicata, producendo varianti religiose orientate politicamente. E’ il fenomeno per cui si è anche avuta una commistione tra linguaggio religioso e linguaggio politico ricordata dal relatore, durante il recente incontro del MEIC laziale.

  Le teologie cristiane sono state quindi impiegate per costruire mitologie adeguate agli obiettivi politici di riferimento, tra i quali, nella Chiesa cattolica, hanno avuto particolare rilevanza quelli del Papato romano.

  Nell’ultimo incontro del MEIC laziale si è un po’ sottovalutato il rilievo politico del Papato romano, in particolare in Italia e nella costruzione dell'unita nazionale  Esso è stato uno dei più pervicaci ed efferati antagonisti prima dell’unità nazionale e poi dello sviluppo democratico in Italia, cambiando orientamento solo a partire dal 1929, con il magistero del papa Eugenio Pacelli. I vertici di tale orientamento si ebbero nel 1848, quando il papa Mastai Ferretti invocò l’intervento straniero per demolire la mazziniana Repubblica Romana, e  i francesi inviarono il feroce generale Oudinot che massacrò la guardia civica e i civili, e nella seconda metà degli scorsi anni Venti, con le intese politiche con il fascismo mussoliniano che portarono ai Patti Lateranensi, del 1929. L’intransigentismo antidemocratico promosso dal Papato  a partire  dalla metà dell’Ottocento e fino al 1939 fu una tragedia italiana, alla quale i cattolici democratici riuscirono solo in parte a porre rimedio.

  Nell’ultimo incontro si è lamentata la  divisione anche in ambito religioso tra una Destra, un Centro e una Sinistra. La fede reclamerebbe infatti unità. Tuttavia le divisioni, anche in religione, hanno un senso se corrispondono  a fratture politiche: la religione ne è, allora, solo il rivestimento mitico. E’ illusorio pensare di articolare una transazione politica  di pacificazione solo su base di fede, teologica. L’intesa politica, sempre possibile, deve precedere ed è appunto a farne fare tirocinio che dovrebbe puntare la formazione alla politica, che non vi è ragione di costruire in modo diverso in ambienti religiosi o in ambienti non religiosi.

  Sicuramente in base al vangelo sono state costruite anche teologie pacificanti, non quelle però che esortano ad obbedire ad un qualche gerarca qualunque cosa ordini – Gesù certamente non fu un modello di obbedienza ai gerarchi della società in cui viveva -, bensì quelle che comandano di vivere in modo solidale, sollecito, misericordioso, facendo spazio agli altri, nello spirito di colui che serve. Storicamente queste teologie non prevalsero salvo che, in parte, da metà Ottocento, tra gli europei e gli stati di colonizzazione europea, in concomitanza con l’affermarsi delle democrazie contemporanee.

 Il fondamento di queste ultime non risiede nel principio maggioritario, ma nel principio supremo che nessun potere possa essere illimitato. Questo perché ogni potere illimitato tende fatalmente a degenerare. La democrazia si presenta quindi come un sistema di limiti e questi ultimi sono basati su valori, vale a dire orientamenti privilegiati  di forza comunitaria,  che sono variati molto nel tempo. Le democrazie di tipo europeo avanzate sono quelle che storicamente inglobano più valori nei limiti ai poteri sociali, compresi  importanti diritti sociali,  come quello alla dignità del lavoro, alla salute, alla salubrità dell’ambiente naturale.

   Va sottolineato che il Papato romano, in quanto, almeno sulla carta, potere illimitato, è costituzionalmente antidemocratico, e questo fu sempre un grosso problema per i cattolici democratici. La scelta religiosa  deliberata dall’Azione Cattolica alla fine degli anni Sessanta, di solito spiegata come concentrazione dell’associazione sulla formazione religiosa, si presentò in realtà come un processo di liberazione dall’influenza politica antidemocratica del Papato romano. Da quel momento l’associazione si definì anche palestra di democrazia, invece che strumento politico di massa del Papato quale era stata pensata alle origini, nel 1906.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

 

lunedì 27 giugno 2022

Appunti dalla conversazione sul tema “Vocazione all’impegno politico del cristiano” tenuta il 24-6-22, in video conferenza Zoom, per il MEIC – Lazio dal prof. Roberto Regoli, docente di storia contemporanea della Chiesa – a cura di Mario Ardigò – testo non rivisto dal relatore

 

Appunti dalla conversazione sul tema “Vocazione all’impegno politico del cristiano” tenuta il 24-6-22, in video conferenza Zoom,  per il MEIC – Lazio  dal prof. Roberto Regoli, docente di storia contemporanea della Chiesa – a cura di Mario Ardigò – testo non rivisto dal relatore

 

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0.   Struttura l’intervento in due momenti: una riflessione storica, come premessa, e una riflessione sul tempo presente basata sulle considerazioni storiche.

  L’argomento di oggi, la vocazione politica del cristiano, può apparire ovvio per chi viene da un cammino come quello del MEIC, quindi da un cammino cattolico che ha fatto dell’orizzonte del mondo un impegno personale. Oggi non è più così. Parlando con fratelli nella fede che sono deputati o senatori si viene a sapere che appena vengono eletti spesso sono marginalizzati nelle comunità. Si sentono messi da parte, come se dovessero giustificare la loro scelta, come se l’impegno politico non fosse più l’impegno nobile di una volta. Questo viene detto da rappresentanti di diversi partiti, senza distinzione tra destra e sinistra. La politica non è più percepita a livello pratico come una vocazione. A livello pratico, tra di noi, ce la raccontiamo in questa maniera, perché ci crediamo profondamente. Però a livello di comunità più diffusa non è così.

  Questa diversa lettura non è solamente del tempo presente. L’abbiamo avuta anche nella storia del passato.

1. conferenziere introduce delle immagini tratte dall’arte, di cui si dichiara appassionato, e dalla storia dell’arte.

 Tante volte, nel vedere l’arte religiosa, noi vediamo il rapporto che c’è tra il cristianesimo e il mondo, tra il credente e la realtà mondana.

  Le prime rappresentazioni artistiche di Cristo sono quelle di Cristo imberbe. Viene presa una figura che precedeva il cristianesimo, del pastore, senza barba. Come deve essere interpretata questa scelta a livello della storia dell’arte? Il Cristo imberbe rappresenta in qualche modo il disimpegno del cristianesimo di fronte all’impero [l’antico impero romano, nota mia], quello che oggi potremmo chiamare il mondo, la politica. C’è un contenuto teologico ma non di impegno [nel mondonota mia]. Se consideriamo altre rappresentazioni successive di Cristo, si nota che il connubio tra cristianesimo e politica è molto più chiaro. Ad esempio quando Cristo viene rappresentato come imperatore. Ormai l’impero è non solo l’orizzonte del cristianesimo, ma c’è una commistione chiara: non si può pensare l’uno senza l’altro. E questo anche se abbiamo forme di cristianesimo fuori dell’impero romano: il primo regno confessionale del mondo, nel 4° secolo, è il regno di Armenia. Ci furono dei cristiani che arrivarono fino all’India. Abbiamo però nell’impero romano un’evoluzione del cristianesimo in rapporto alla politica che è tutta speciale, unica rispetto ad altri mondi.

 A volte il cristianesimo indica anche un impegno nel mondo come predominio, per controllare la realtà. Pensate alle raffigurazioni del Cristo nelle forme carolingie, un uomo forte, con fisiognomica germanica, che controlla tutte le forze del male. E di questo passo possiamo andare avanti fino ai nostri giorni. Partiamo da un disimpegno del cristianesimo di fronte al politico, che  in qualche modo è anche una scelta politica diremmo noi con le categorie di oggi: il politico non era l’impegno del credente alle origini. Arriviamo ad altre forme in cui c’è un connubio e addirittura una sovrapposizione tra politico e religioso. Pensiamo al medioevo, con la christianitas.

 E’ interessante considerare gli imperatori medievali perché, innanzi tutto, hanno un sacramento tutto loro, la famosa Cresima dei re, che all’epoca non si sapeva se fosse un sacramentale  o un sacramento, ma che dava loro un’aura di potenza unica. Il re francese faceva miracoli dopo la sua consacrazione.

 Quella commistione tra politico e religioso si ha nello stesso imperatore quando gli veniva consentito di abbigliarsi con abiti liturgici, la stola, la dalmatica, il piviale. Pensate anche alla corona imperiale: al suo interno ha una mitria, rigirato ma c’era, sia in Austria che in Russia.

  Insomma, ci sono delle forme nel tempo in cui il politico e il religioso si vanno a sovrapporre. Detto in termini positivi: nel mondo antico c’è unità profonda, che gradualmente salta nella modernità.

  Quando si produsse una spaccatura dentro il mondo cristiano occidentale tra il cattolicesimo e i diversi mondi della protesta cristiana – e siamo quindi nel Sedicesimo secolo – questo connubio venne ripensato. Si spezzò l’unità religiosa e si ha una maggiore diversificazione tra il politico e il religioso, tanto è vero che poi si parla di secolarizzazione.  Va detto però che questa divisione condusse ad esiti differenti. Se pensiamo alle Chiese protestanti o alle Chiese ortodosse, lì c’è una stretta dipendenza del religioso dal politico. Non solo perché il sovrano è anche capo religioso, ma perché il religioso e veramente il supporto del politico. L’anomalia, dentro il cristianesimo, è quella del cattolicesimo, che si pone sempre come un’istanza critica: ciò fu dovuto principalmente alla presenza del Papato, che non permette ai diversi  cattolicesimi nazionali  di dipendere troppo dal sovrano.

 Il modo di rapportarsi alla politica dall’antichità fino ai nostri giorni è variato enormemente.

  Nell’epoca della secolarizzazione, c’è un altro passaggio importante per il nostro tema che tocca anche il cattolicesimo che conosciamo oggi. Dopo che fu avviata, nel Sedicesimo secolo, la distinzione di cui s’è detto prima, il fatto più rilevante fu quello della Rivoluzione francese. Questo perché cambiò la politica. I termini Destra e Sinistra nacquero a quell’epoca. Inizialmente per indicare dove alcuni politici, rappresentanti del popolo, sedevano nell’assemblea: da quella collocazione nello spazio si arrivò a una diversa collocazione di idee, a una diversa collocazione politica. La distinzione binaria tra Destra e Sinistra, Tradizionalista  e Progressista, Liberale e Conservatore, entrò nel linguaggio. E’ una semplificazione, certo, ma poi quel linguaggio politico, se ci pensate bene, è entrato anche nel religioso. Questo si nota benissimo anche nell’Ottocento, quindi nei primi anni dopo quella rivoluzione. Pensate ai cattolici liberali, o pensate ai cattolici ultras: si tratta di categorie politico-filosofiche che [vengono applicate in politica ma anche nel mondo religioso – testo incerto – è un mia interpretazione]. Ciò alla lunga creò delle fratture che viviamo ancora oggi nel mondo cattolico, e non solo cattolico religioso. Nei secoli passati c’è stata una certa contrapposizione in base alle visioni teologiche e dottrinali, quindi da una parte i cattolici e dall’altra i protestanti, da una parte i cristiani e dall’altra gli ebrei, ormai le contrapposizioni non sono più di questa natura: da una parte ci sono i Conservatori (cattolici, protestanti ed ebrei) e dall’altra i Progressisti (cattolici, protestanti ed ebrei). L’elemento della lettura del mondo da un punto di vista politico ha prevalso su un’interpretazione teologica del mondo.

 Noi oggi ci troviamo agli epigoni, o ai colpi di coda, di questo mondo così strutturato.

  Il sociale viene posto al centro del tutto.

  Questo modo di procedere lo troviamo anche in alcune istanze teologiche. Pensate alla teologia della liberazione: come può essere interpretata? Ce ne sono di diverse possibili. In forza di una sorta di eterogenesi dei fini, risponde ad un’istanza che fu portata avanti negli anni ’20 dal papa Pio 11°, con la teologia del Cristo Re. Nel momento in cui si riconosce Cristo come proprio Re, hai la pretesa di portare questo Regno di Cristo su questa terra. Era anche la pretesa del cristianesimo medievale, con l’idea di christianitas. D’altra parte la teologia della liberazione ha, in ultimo, la stessa pretesa. Che cosa è successo, poi, nella teologia della liberazione? E’ successo che alcuni suoi epigoni come sacerdoti hanno preso le armi. Ci sono diversi studi su questo versante. E anche la figura del povero, spesso messa al centro delle riflessioni cattoliche del Novecento, perde le caratteristiche bibliche, il povero  come colui che dipende dagli altri  per cui si idealizza questa condizione per il cristiano come colui che dipende da Dio, assumendo delle caratteristiche propriamente sociali e poi politiche. Si pensi ad esempio, nella metà del Novecento, al Peronismo e al cosiddetto Evitismo (da Evita Peron, la moglie di Peron). Il Peronismo è un primo populismo.

 Nel Novecento, a livello concettuale e poi a livello di scelte politiche, pratiche e terminologiche, un mèlange [=mescolanza – nota mia], una contaminazione tra il linguaggio politico e quello religioso, che sotto certi aspetti era cominciata già prima. Si pensi, nell’Ottocento, ciò che fu per noi italiani il Risorgimento, che significa Risurrezione. Se si considerano certi discorsi risorgimentali di un Mazzini o di un Garibaldi, uomini che fecero tutt’altre scelte rispetto a quelle del mondo cattolico: adottarono tutto un linguaggio che si rifaceva all’immaginario religioso. Questo modo di procedere si è intensificato nel Novecento. In questa cornice troviamo l’impegno dei cattolici.

  Sul versante italiano,  c’era stato un divorzio tra il Paese e il cattolicesimo per tutta la questione romana e solo alcuni gruppi di cattolici si erano impegnati nella costruzione politica. Tuttavia nel sostenere il processo di unificazione il cattolicesimo diede un contributo fondamentale. Si pensi all’apporto delle scuole, ad esempio ai salesiani e alle salesiane, che contribuivano a creare un’unità culturale: ad esempio in tutta Italia rappresentavano gli stessi spettacoli teatrali. C’erano diversi modi per un cattolico per rapportarsi alla politica, si pensi ad esempio all’intransigentismo.  Nel Novecento si sceglie l’impegno politico, che già c’era, con il Partito popolare. Durante la Seconda guerra mondiale si scelse la via del partito unico dei cattolici. Esso chiaramente non era un partito cattolico, vale a dire confessionale. Tuttavia la stragrande maggioranza dei cattolici vennero spinti in quella direzione, in un contesto in cui, però si creavano sempre più frizioni fra gli stessi cattolici. Questo perché era venuta meno una unità religiosa.

 Quando parliamo della fine dell’unità politica dei cattolici ci concentriamo sulle conseguenze di questo processo, che sono state originate dal fatto che prima era finita l’unità culturale dei cattolici, il prepolitico.

 Qual è l’aspetto forte che si vive ai nostri giorni, ma che era molto più presente negli ultimi vent’anni? Si tratta del venir meno dell’unità religiosa tra gli stessi cattolici, ma anche dei cristiani in quanto tali.

 Abbiamo vissuto la perdita dell’unità politica, prepolitica, culturale, ma anche di quella religiosa.

 In questo contesto stiamo trattando la questione della vocazione all’impegno politico del cristiano.

  Questa chiamata alla politica, nel Magistero, nell’associazionismo cattolico, e anche in altre forme di movimenti, ma non in tutti, è un dato ovvio, costante, ma, ciononostante, c’è una difficoltà attuale nell’impegno dei cattolici, in particolare dei giovani cattolici, nell’ambito politico. Non solo perché il politico è stato deprezzato nel tempo, dall’epoca di Tangentopoli in poi. Si pensi anche a tutte quelle discriminazioni che si sono fatte nei discorsi pubblici di fronte al potere, che non viene più considerato più come l’ambito e lo spazio del servizio, ma di altro, considerato losco.

  C’è stato un immaginario pubblico diffuso che non era semplicemente socio-culturale, ma che è entrato anche nella Chiesa.

 Anche un giovane credente che si vuole impegnare nella politica si deve scontrare non solo con la cultura circostante, ma anche con questo movimento che c’è stato nel tempo in cui il cattolicesimo non ha parole, e neanche religiosità [per la politica  -interpretazione mia].

 In questo contesto si pone la vocazione all’impegno politico del cristiano

 Abbiamo avuto negli anni passati degli interventi del Magistero, pensiamo alla Nota della Congregazione per la dottrina della fede ai tempi del cardinale Ratzinger [ Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti 
l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica 
-24-11-02  -
https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20021124_politica_it.html ] o agli interventi più recenti di papa Francesco, che in un incontro con l’Azione Cattolica di qualche anno fa ricordò l’impegno nel politico (e nel mondo cattolico si discusse della permanente attualità della scelta religiosa,  e come articolarla, questione che al resto del mondo non interessava, e quale dovesse essere la scelta per questo nuovo tempo).

 L’excursus sul lungo periodo di cui sopra è molto essenziale, conciso,  ma a volte la storia diviene anche un’ipoteca che ci lega a scelte di decenni passati, senza riuscire ad essere originali nel tempo presente. Il rischio di tanto mondo cattolico è quello di guardare più al passato che al futuro.

2. Il conferenziere si dedica alla formazione dei giovani alla politica e sulla base di questa esperienza passa al secondo momento dell’intervento.

  Ci sono due aspetti essenziali: il primo  è culturale. Di fronte ad un mondo sempre più parcellizzato, atomizzato, la prima risposta che può dare il cattolicesimo è di far fare ai giovani una esperienza di comunità. Proporre loro fortemente la comunità. Una comunità fondata su esperienza di fede significative, quindi anche sul saper pregare e sul pregare insieme. Saper adorare.

 Ricorda che una volta quando i  giovani della FUCI andavano a trovare qualche vecchio politico, qualche membro della Corte Costituzionale, rimanevano ammirati nel vedere che questi personaggi pubblici apprezzati tenevano sulla loro scrivania di ufficio il breviario, il rosario e nell’apprendere che andavano ogni giorno a messa. E non è che lo facessero per mostrarsi religiosi, ma perché vivevano la fede in quel modo. Bisogna proporre una unità fondata sulla fede. Tutte le divisioni che ci sono e di cui s’è parlato prima possono essere superate, dentro la compagine cattolica, da un’unità di fede.

 Fatto questo discorso di comunità, nel nostro mondo parcellizzato e aggressivo, bisogna saper riproporre il dialogo, cioè la capacità di accettare la diversità di opinioni.

  Nella sua esperienza di formazione alla politica dei giovani, vengono invitati personaggi politici che la pensano anche molto diversamente. Esponenti anche di concezioni economiche divergenti fra loro. Questo perché, in un mondo intollerante, va insegnato il sapersi confrontare con tutti, rendendo ragione delle scelte compiute.   

  Al di là dei discorsi sulla società aperta e sull’accoglienza, questo non accade nella vita reale.

  Anche il discorso della cancel culture, molto americana, ma che sta entrando anche in Europa e in Italia, indica un’incapacità di accettazione e della storia e degli altri.

  Il fatto di distruggere delle statue, di rimuovere delle immagini, indica il voler riscrivere ciò che è stato e quindi indica in  fondo una intolleranza verso l’altro o verso quella storia diversa da quella che si preferisce scrivere.

  In questo momento è importante il fatto di saper fare comunità vera, in cui il credente si scopre come l’altro credente, e, in questa uguaglianza di fede, sapersi confrontare con il diverso. Quindi anche in una comunità che ha membri di Destra, di Centro, di Sinistra, e si usano le categorie politiche perché hanno influenzato il religioso, ritornare sul religioso perché in quella comunità politica non si creino fratture così gravi per cui uno poi si trova meglio con l’altro, totalmente diverso, che con il fratello con cui divide lo stesso pane eucaristico. E’ bene sapersi trovare a proprio agio con tutti e due! Ma riconoscendo le differenze.

  Se si vuole arrivare a un vero discorso di impegno democratico, questo richiede il dialogo. E il dialogo richiede due punti di vista diversi. Per questo è molto importante aiutare anche i cattolici ad avere una identità cattolica, perché solo in quel momento, con uno diverso da sé, è possibile entrare in un dialogo, altrimenti c’è una uniformazione, una uniformità che non serve. Infatti, se non c’è un’identità serena, si corrono due rischi, o della rigidità, quindi alla contrapposizione che porta ad una guerra costante, o un adeguarsi troppo all’altro che crea un problema, perché non porta un contributo proprio.

  In questo contesto sono necessarie comunità e capacità di arrivare ad un’identità che sappia mettersi a confronto con le altre nel dialogo.

 Per quanto riguarda poi la democrazia, la scelta chiara a favore del regime democratico si è avuta negli scorsi anni Quaranta. C’erano state delle premesse già sotto il pontificato del papa Leone 13°, ma con movimento pendolare. I primi orientamenti chiari a favore della democrazia si ebbero negli scorsi anni Quaranta durante il pontificato di Leone 13°. Era ritenuta una forma di governo auspicabile.

 Il sistema democratico, che responsabilizza il singolo cittadino, richiede  la virtù  dei cittadini. Il sistema democratico funziona tanto quanto i cittadini sono virtuosi. Se vengono meno le virtù, il sistema democratico diviene una maggioranza contro una minoranza, continuamente fluttuante, con vincitori e vinti che cambiano a seconda degli umori. Il nostro attuale contesto sociale è quello degli umori, dei sentimenti, degli affetti. Il conferenziere si dichiara critico sul diritto basato sul sentimento, sul fatto che come uno sente ciò diviene fonte del suo diritto [fa una allusione al cosiddetto gender, che a suo avviso significa voler essere riconosciuti come ci si sente-  nota mia]. In un contesto in cui il sentimento è più forte della ragione, e i sentimenti possono essere orientati con una certa facilità da chi ha gli strumenti adatti, il contributo cattolico in questo momento è quello di ridare valore alla ragione, al lògos, del quale ci parla anche il Vangelo di Giovanni fin dall’inizio, e in questa ragione entrare poi in un dialogo, per un sistema democratico. Se viene meno questo, la democrazia viene meno.

  Non a caso da tempo stiamo parlando di crisi della democrazia liberale. E’ una crisi che è andata di pari passo con la crisi del religioso e del cristianesimo stesso. Nel nostro contesto, del cattolicesimo.

 La democrazia come la conosciamo noi nacque in un contesto di cultura cristiana, che presuppone le virtù cristiane. E’ esemplare il caso degli Stati Uniti d’America. La loro Costituzione dà per ovvia un certo tipo di società. Una società religiosa. Una società religiosa può sostenere meglio un discorso democratico sulle virtù.

 Certamente ci sono anche etiche non religiose, ma sono minoritarie. Il fattore religioso  è quello più diffuso al mondo.

 Nel nostro Occidente abbiamo sacche significative di non credenza, ma nel resto del  mondo non tanto, comunque molto di meno.

  Là dove viene meno il religioso è più difficile una tenuta alta di un sistema democratico che tenga conto anche dei deboli.

 Consideriamo tutta la questione dell’eutanasia, anche sui bambini, anche con la possibilità di chiedere la morte anche senza un vero motivo di non sopportazione del dolore, solo perché una persona non se la sente di andare avanti.

  Nel discorso pubblico non si parla più di virtù, non si parla più dei doveri. In questo campo il cattolicesimo potrebbe dare un contributo interessante.

 Si dà come ovvio che ci sia una vocazione politica del cristiano, il problema è come favorirla. Come generare questa vocazione come Chiesa e come comunità credente.

 Nel Novecento stiamo vivendo una crisi di tutte le vocazioni, crisi sacerdotale, dei religiosi, matrimoniali e anche la crisi della vocazione alla politica. Viviamo un momento di tante rotture o di mancata fecondità in tanti ambiti. Questo ci provoca.

  Tutto il discorso che precede vorrebbe mettere in luce che c’è una mancanza e su di essa ci deve essere un confronto di idee, di progetti, di persone, uomini e donne, che sono nutriti da una fede.

 Sarà forse difficile parlare di un pensiero cattolico mi può pensare che persone profondamente credenti diano un contributo alla società italiana.  

giovedì 23 giugno 2022

Il lato umano della sinodalità

       Il lato umano della sinodalità


  La nostra teologia normativa sulla Chiesa, quella a cui si deve aderire, da un lato mi pare povera, dall’altro disumana. La considero dall’esterno, da non teologo, naturalmente, ma ne parlo, appunto, perché è normativa e si impone a tutti. È costruita intorno ad antiche mitologie, dalle quali vengono tratte certe conseguenze. Sono queste ultime ad essere disumane. I teologi che si occupano di quella materia, tanto importante per il governo delle Chiese, comunque, più o meno tutti, vanno per la loro strada e non si ascoltano che tra loro, e naturalmente soggiacciono ai voleri della gerarchia ecclesiastica, altrimenti sono guai seri per loro. Dall’alto vengono linee guida e parole d’ordine e loro ci si applicano. Adesso è stata ordinata la sinodalità.

  È un paradosso che si ragioni di sinodalità per ordine gerarchico. Questo perché se c’è un sistema gerarchico non ci può essere vera sinodalità, almeno se esso non si faccia un po’ da parte, cosa che oggi non si avverte. Comunque per la sinodalità è un'opportunità.

  Non riconosco le comunità di fede in cui sono sempre vissuto nell’immagine di Chiesa che ne danno i teologi specializzati in questa materia. Ma, forse, mi si potrebbe obiettare, è perché la gente che va in chiesa non fa la Chiesa come si dovrebbe, e dovrebbe farsi come dicono i teologi. A me pare che proprio non ci si riesca ad essere Chiesa come la teologia consiglia, non è per esseri umani, e quando ci si prova ad esserlo si appare tristi, rigidi, cattivi, perché costretti in una forzata uniformità di vita che è povera, ma non della povertà che libera, quella scelta da Francesco d’Assisi nel rifiutare la condizione e i beni di famiglia, bensì come quella che si vive in carcere, che consiste nella privazione della vita vera.

  Nella sinodalità dovrebbe innanzi tutto emergere la nostra umanità, che, certo, ci fa essere in disaccordo spesso, ma anche ci dà le risorse per continuare comunque a cooperare in qualche cosa e, a volte, per superare le divisioni. 

  Del resto è proprio quello che accadde nei primi anni dopo la morte del Maestro, come scrivono gli storici del cristianesimo delle origini.

  Al catechismo per i più piccoli, che per molti rimane l’unico della vita, ci narrano superficialmente della Chiesa come se fin dagli inizi fosse stata quella di adesso. Per dei bambini può ancora andare, ma non più, ad esempio, per i ragazzi che si preparano per la Cresima, e tanto meno per gente più avanti negli anni. 

  Alle origini non c’era quasi nulla di ciò che adesso caratterizza la nostra Chiesa, compresa la teologia. Ma le persone erano più o meno come adesso, e infatti iniziarono subito a dividersi. In particolare tra ebrei palestinesi, che parlavano aramaico come Gesù, ed ebrei che parlavano il greco, e che venivano da fuori, come Paolo, che era nato in Asia minore. Culturalmente noi discendiamo prevalentemente  dai secondi, ma pensiamo il divino rifacendoci alle concezioni degli antichi israeliti, che abbiamo profondamente assimilato. Come furono risolte le divisioni? In realtà non si arrivò mai a risolverle del tutto. Le lettere del Nuovo Testamento attribuite a Paolo di Tarso stanno a dimostrarlo. E si prosegui così fino ad oggi, nonostante la convinzione che lo Spirito avesse continuato ad aleggiare. Ogni fazione, ogni autorità costituita, ogni aspirante riformatore pensava di averlo dalla propria parte e i dissenzienti venivano demonizzati. Tuttavia, l’idea di sinodalità come oggi la vagheggiamo nasce proprio da quella esperienza storica, dalla constatazione dei tanti apporti che alla nostra fede sono venuti e per i quali ciò che oggi crediamo reca le tracce delle moltitudini di gente di fede che ci hanno preceduti. Nonostante le divisioni abbiamo imparato, attraverso i secoli, a convivere nella fede comune. È vero che abbiamo continuato a dividerci, combatterci, anche ammazzarci, ma, anche, abbiamo continuato pervicacemente a cercarci per costruire una qualche pace. Questo è molto umano. È maturata così una cosa nuova, che prima non c’era, per la quale, proprio perché nuova, non abbiamo veramente molto da imparare dal passato. L’unità però non è costruita a partire dalla mitologia teologica, che, come ogni mitologia può avere una sua verità, ma dalla pratica della nostra concreta e reale umanità, che, quando finalmente decide di ripudiare la propria animalesca violenza, il tremendo lascito della natura che ci circonda e di cui siamo fatti,  è capace di agàpe, la convivenza solidale, sollecita, misericordiosa, benevola, quella senza la quale non riusciremo a sopravvivere in otto miliardi e oltre sul pianeta.

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma Monte Sacro, Valli









  


mercoledì 22 giugno 2022

Sapienza sinodale pratica

 

 

Sapienza sinodale pratica

 

   Dicono che lo Spirito continui ad aleggiare su di noi, ma rimango scettico quando lo si vuole veder manifestato in un certo evento, persona, gruppo, perché sono ben poco propenso alla mitizzazione e di tutto e in tutti vedo anche quello che non va: nella mia vita non mi è mai capitato di riconoscere la perfezione. Così è anche per le questioni della nuova sinodalità ecclesiale che il Papa vorrebbe porre come criterio di riforma ecclesiale. Certo, mettervi di mezzo lo Spirito ci rincuorerebbe un po’, perché una cosa del genere non è mai esistita nella Chiesa cattolica, la nostra Chiesa. Già questo insospettisce coloro che sono abituati ad adottare come criterio di verità ciò che si è fatto sempre e dovunque e da tutti fin dai tempi antichi. La storia ecclesiastica è molto complessa e ne sono state scritte opere molto impegnative: sarebbe presuntuoso da parte mia ritenere di conoscerla se non superficialmente. Ma da ciò che so ricavo questo: mai  nella travagliata storia della Chiese cristiane, non solo la nostra, si è creduto e fatto sempre, dovunque e da tutti nello stesso modo: altrimenti non sarebbe stata necessaria l’incredibile violenza politica che fu usata nei secoli per silenziare e massacrare i dissenzienti. Non c’è da scandalizzarsi in questo, perché le Chiese cristiane sono società umane fatte di esseri umani e le società umane funzionano ancora  così, e gli eventi sconvolgenti in Ucraina lo manifestano chiaramente di questi tempi. Possiamo essa diversi? E’ questa la principale convinzione della nostra fede. La sinodalità che ci viene proposta è un metodo per tentare di diventarlo.

 L’antica teologia sui Sinodi, che ci viene riproposta anche ora, era convinta che l’accordo manifestasse l’azione dello Spirito.

  Scrive Giuseppe Ruggieri nel suo contributo “Per una Chiesa sinodale”, in Sinodalità. Istruzioni per l’uso, EDB 2021:

Ciò che fa la specificità  di un autentico concilio (sia esso di alcune Chiese o di tutta la Chiesa) non è in primo luogo  la sua «infallibilità» (giacché essa non è un dato a priori, ma derivato e storicamente secondario), ma l’effettiva presenza del Cristo e del suo Spirito. Questa presenza ha come effetto suo proprio, e ultimamente rilevante, l’accordo. E’ l’accordo ciò che permette di parlare di una presenza dello Spirito e, conseguentemente, di un permanere nella verità, di una sua indefettibilità. Ovviamente, così posti i termini, entra a far parte di un concilio, e della sua repraesentatio Christi che ne costituisce il nocciolo forte, la sua capacità di suscitare consenso.

  Dunque, se non c’è accordo, non c’è neanche lo Spirito? I teologi, come Ruggieri, ne sono convinti, e non posso contraddirli, perché non ho la loro competenza sulla materia né mi sono state date particolari manifestazioni dello Spirito. Osservo che talvolta di fatto l’accordo non è possibile, perché le posizioni sono troppo distanti e un cedimento si presenta come poco virtuoso. Se consideriamo le narrazioni della vita del Maestro, certo egli non cercò a tutti i costi l’accordo con i teologi e i sacerdoti del Tempio di Gerusalemme del suo tempo, né con le autorità romane. Per queste ultime era un agitatore sociale.

 In certe condizioni  è meglio non forzare su un accordo, ma continuare a vedersi, a frequentarsi, in attesa che, conoscendosi meglio, aumenti la fiducia reciproca, ciò che però può anche non accadere. E, certo, personalmente non ritengo, allo stato, indispensabile raggiungere un accordo, fosse anche sinodale, con certi orientamenti correnti nella nostra Chiesa, le cose non sono ancora mature, ma, nello spirito dell’agàpe evangelica questo non significa che ci si debba ignorare o combattere. E’ possibile organizzare procedure per cui ci si possa avvicinare e anche collaborare in ciò in cui è possibile. Comunque ci si sia divisi, condividiamo comunque molte convinzioni, non possiamo considerarci degli estranei. Ad esempio la frazione del pane è sempre possibile: mangiare insieme. Non ci dovrebbero essere interdetti rituali tra noi, comunque la pensiamo. E, invece, purtroppo, talvolta ci sono.

  Lascio i teologi con i loro immaginifici concetti e cerco di capire la realtà in cui vivo. Non è che se sono in disaccordo con un’altra persona, quella sia contro lo Spirito. E lo stesso rivendico per me. L’accordo, il consenso non sono frutto di una sorta di magia soprannaturale, per cui invocando lo Spirito secondo le nostre belle liturgie, poi effettivamente si appianino le divergenze. Certo, poi a cose fatte può essere bello sacralizzare l’accordo, lo si faceva già prima che iniziassero le nostre Chiese: troviamo procedure simili anche nell’Antico Testamento, ma anche praticamente in tutte le antiche religioni ed anche in quelle contemporanee, comprese quelle primitive. Ma questo va fatto dopo.

  Nella concezione clericale corrente è tutto più semplice. Il Papa e i vescovi danno la linea (quando riescono a mettersi d’accordo) e noi saremmo spirituali aderendo. Questo, però, non ha nulla a che fare con la sinodalità, che è codecisione. Di fatto su molti temi il popolo cristiano di confessione cattolica si determina diversamente da come dettano Papa e vescovi, e questo è tanto evidente che non mi sento obbligato a dimostrarlo. Questo fare diversamente insieme  è una decisione sinodale, anche se non ci si è riuniti in una qualche assemblea consacrata da una liturgia. Di fatto ciò non è emerso nella striminzita fase di ascolto  che si è inscenata in Italia, per dovere d’ufficio, perché così ha voluto il Papa. Di solito si citano i temi riproduttivi, ma non sono essi al centro della divergenze, anche se clero e religiosi sono particolarmente sensibili su di essi. Del resto su di essi c’è sempre stata una marcata differenza tra ciò che veniva predicato e ciò che veniva praticato: sempre, dovunque, da tutti. Tanto che, intorno all’anno Mille e fino al Cinquecento, vi vennero coinvolti anche gli stessi Papi, alcuni dei quali, per i costumi sessuali dissoluti utilizzati anche a fini di potere politico, vennero detti pornocrati.

  No, la questione centrale è la dignità delle persone di fede, pesantemente umiliate e discriminate da un’organizzazione ecclesiastica che non può ragionevolmente ricondursi alla volontà del Maestro e che le riduce a semplice gregge. Naturalmente la gente non ci sta, soprattutto in una società avanzata come quella italiana, con un alto livello di istruzione popolare, e vorrebbe avere voce, partecipare realmente, non rimanere semplice platea. A volte ciò accade, ma non nelle istituzioni che pretendono di esprimere una forma di governo: Santa Sede, altri episcopati, parrocchie. Le persone laiche hanno la possibilità di essere assoldate nella burocrazia ecclesiastica, in particolare da consulenti, ma solo finché accettano di rimanere sottomesse alla  obsoleta gerarchia feudale che le domina. Altrimenti vengono escluse, emarginate, con una spietatezza e pervicacia che non è cambiata dal triste passato. Questo significa che non hanno alcun vero diritto di partecipazione

  Inutile attendersi che questa situazione cambi con una riforma complessiva guidata dall’alto. L’esperienza dei tentativi di dare attuazione ai deliberati del Concilio Vaticano 2° lo dimostra chiaramente. Fino al regno di papa Francesco si stava addirittura regredendo, restaurando ciò che c’era prima, e ora tutto dipende da un Papa che si è fatto molto anziano, con ciò che ne consegue.

 Radicare processi sinodali effettivi è però possibile lavorando nella base e nelle periferie: l’intuizione del Papa sulla base della sua esperienza in America Latina è valida. E’ cosa che si è già fatta e che può essere ripetuta. Bisogna, però, lavorarci sopra insieme con una certa costanza, incontrarsi, e cercare di estendere gli incontri ad altre cerchie, senza scoraggiarsi per i rifiuti. Certo, se in una parrocchia come la nostra questo movimento fosse guidato da un organismo creato appositamente per la partecipazione come il Consiglio pastorale parrocchiale, sarebbe molto meglio. E, invece, no. Si è estinto e non lo si vuole recuperare. Troppi forti i contrasti che erano emersi al suo interno. Di fronte alla  realtà, la fiducia nello Spirito pare  di fatto vacillare.  Finché se ne chiacchiera e la si sogna emoziona: ma quando si pone mano per cercare di praticare in concreto atteggiamenti spirituali  ci si demoralizza presto. Non incontrandosi, però, si diffida sempre più gli uni degli altri. I fondamentalismi e integralismi si inaspriscono, e la reazione ad essi anche. Ci si abitua a fare ciascuno per sé: il contrario della sinodalità.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

martedì 21 giugno 2022

Sinodalità e affari di stato

 

Sinodalità e affari di stato

 

 I teologi ci dicono che non dobbiamo costruire la sinodalità ecclesiale secondo la democrazia politica e lo motivano con argomenti specificamente teologici, sui quali non mi pronuncio, non essendo e non volendo nemmeno essere un teologo. Rimanendo nei limiti della mia competenza di studi, che riguarda le istituzioni pubbliche e le loro procedure, sono però d’accordo con loro. Non perché pensi, come alcuni di loro, che «la Chiesa non è una democrazia» intendendo non solo che non lo è, cosa evidente, ma che nemmeno possa esserlo, bensì perché non voglio che la Chiesa sia governata per essere uno stato.

  Non parlo della Città del Vaticano, che, stando letteralmente al Trattato Lateranense che l’istituì nel 1929, concluso da un ministro pontificio e Benito Mussolini quale Capo del governo del Regno d’Italia, usurpa la condizione di stato, in quanto in quell’Accordo non se ne parla mai come di uno stato, ma che comunque la comunità internazionale riconosce come uno stato. Mi riferisco alla nostra Chiesa e alla sua burocrazia, che ha come vertice il complesso di uffici organizzati qui a Roma, definiti come Santa Sede, che rivendica poteri simili a quelli degli Stati su tutte le comunità cattoliche del mondo, manda ambasciatori, Nunzi, che al contempo svolgono negli Stati che li ricevono funzioni sostanzialmente di prefetti rispetto agli organismi di governo ecclesiale locali, detta legge, inquisisce (per nostra buona sorte solo clero e religiosi), ha una banca centrale e un Dicastero economico per il tramite del quale amministra un significativo patrimonio immobiliare e finanziario, e tiene anche un piccolo e pittoresco esercito, perché nel mondo la forza militare è condizione della cosiddetta sovranità. Quest’ultima significa non riconoscere alcun potere sopra di sé e, per questo, possedere persone, un popolo. Da un punto di vista religioso, una Chiesa cristiana sovrana appare una contraddizione in termini, perché, insegnano i teologi, noi siamo di Cristo, non siamo possesso ecclesiale, bensì noi siamo Chiesa e come Chiesa siamo verso le altre persone come colui che serve, seguendo in ciò il Maestro. Naturalmente, poi, teologi e giuristi hanno storicamente costruito una cornice ideologica plausibile di questa sovranità, che, appunto, è messa certamente in questione dal processo di sinodalità ecclesiale.

  Quelli che temono la sinodalità pensano che chi la vorrebbe praticare si proponga di cambiare i dogmi e detronizzare il Papa. La prima paura è del tutto infondata. La costruzione dei dogmi è stata storicamente fonte di tanto male e di tante sofferenze che nello sforzo di diventare sinodali, che in fondo è solo praticare il Vangelo, dovremmo tenercene accuratamente fuori. Per carità, lasciamo le cose come stanno. Lasciamo i teologi a torturarsi su quelle materie, è la loro croce professionale in fondo. Del resto non è scritto da nessuna parte che per praticare il vangelo si debba essere teologi. Non mi sembra che abbia voluto esserlo il Maestro, che iniziò e continuò risanando la gente ed esortò a seguirlo, come spiegano i predicatori.

  Quanto al governo centrale della Chiesa, fu una costruzione storica. Gli storici spiegano che la personalizzazione del potere assoluto degli imperatori romani come padri del loro popolo iniziò ben prima dell’affermarsi dei cristianesimi intorno al bacino del Mediterraneo: dall’inizio del Secondo millennio quel ruolo sacrale fu rivendicato dal Papato romano, fino a che, nel corso dell’Ottocento, l’altroieri rispetto al corso della storia europea, si realizzò effettivamente la papizzazione della nostra Chiesa, come un’autocrazia assolutistica sovrana. Una tappa importante su questa via fu posta durante il Concilio Vaticano 1º, iniziato e sospeso nel 1870, e mai più ripreso, nel corso del quale fu deliberata come dogma l’infallibilità del Papa in materia di fede. Proprio quell’anno, per nostra buona sorte (provvidenzialmente, disse il papa Paolo 6º) fu soppresso militarmente lo Stato pontificio, così solo per pochi mesi il mondo assistette allo spettacolo di un sovrano territoriale infallibile, il quale adirato per l’affronto (provvidenzialmente) subìto scomunicò il Re d’Italia e il Presidente del consiglio dei ministri dell’epoca, Camillo Benso Cavour.

  Ma cambiare la struttura del governo centrale della nostra Chiesa richiederà molto tempo, se si pensa di farlo nel processo sinodale, che risale dal basso verso l’alto. Sicuramente non lo si farà dall’alto: è impossibile che una inveterata costruzione autocratica riformi sé stessa. Anche il fatto che l’attuale processo sinodale sia sorretto praticamente solo dalla volontà del Papa lo rende più debole, proprio perché la decisione non è stata presa sinodalmente,  e del resto non poteva esserlo.

  Noi che operiamo dalla base non dobbiamo, però, occuparci della Santa Sede. È tempo perso. Piuttosto, dobbiamo cercare di costruire in sede locale nuove procedure di partecipazione sinodali per le quali la volontà che giunge da Roma non sia più ricevuta come sovrana, nel senso che ci parli e pretenda di essere obbedita come se noi fossimo un suo possesso. Siamo sulla buona strada in questo. Lo stile del Papa regnante è, verso di noi fedeli, molto più simile a quello di un pastore in senso evangelico che a quello di un gerarca di uno stato autocratico. Ma non basta. Sarebbe bene che lo diventasse anche verso la burocrazia che l’attornia. Quest’ultima, però, dovrebbe cessare di essere tale. La nostra Chiesa non è uno stato e non dovrebbe essere governata come tale. Sulla via della riforma la Città del Vaticano, come istituzione sedicente sovrana, è controproducente, richiede uno spreco immane di energie, ma non ne dobbiamo fare un dramma. Dobbiamo sforzarci di desacralizzare in esso ciò che usurpa il sacro, ad esempio il suo pittoresco esercito (che rievoca un corpo di crudeli mercenari). Il supermercato e il benzinaio  duty-free, la farmacia in cui vendono farmaci non autorizzati in Italia, i Musei Vaticani. Ciò che si riesce a desacralizzare si può poi  cambiare.

  Il principio, riassumendo, dovrebbe essere questo: la Chiesa non è uno stato e non dovrebbe essere governata come uno stato. Ed anche: il Papato non ci possiede, così come ogni altra istituzione ecclesiastica, il parroco, il vescovo, la CEI. Noi siamo la Chiesa, l’orgoglioso motto del movimento di riforma austriaco che ha preso piede anche altrove.

Mario Ardigó- Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

lunedì 20 giugno 2022

Perché la sinodalità

 

Perché la sinodalità

 

  La sinodalità è, in genere, apertamente osteggiata, tranne che in Azione Cattolica, nella FUCI (l’organizzazione degli universitari cattolici) e nel MEIC – Movimento ecclesiale di impegno culturale. Preti e religiosi, in particolare, non vi sono stati formati e ne diffidano, pensando di avere tutto da perdere nell’accettare di parteciparvi. Purtroppo constato che l’atteggiamento prevalente pare essere quello di attendere che la buriana passi, con il successore di papa Francesco. L’organizzazione della fase di ascolto da parte della Segreteria del Sinodo, della Conferenza episcopale italiana e della nostra Diocesi è stata molto carente proprio nell’ascoltare. Non si è lasciato praticamente nessuno spazio alle persone laiche e s’è fatto tutto come per dovere d’ufficio. I pochi che hanno partecipato alle riunioni non hanno potuto tirar fuori quello che veramente avevano nel cuore, anche perché è stato scoraggiato il dialogo.

  Non per questo ci si deve perdere d’animo. 

  Scontiamo la pesante arretratezza e obsolescenza delle strutture e procedure ecclesiastiche, ma noi, pur sempre, ci siamo, e molti non sono obsoleti, vivono e partecipano nella società italiana, che è tra le più avanzate del mondo.

  L’inadeguatezza di come vanno le cose in chiesa è plateale proprio di questi tempi, dove la predicazione va avanti stancamente ripetendo cose dette e stradette, le solite cose di sempre, come se nulla fosse cambiato nel mondo, e invece siamo nel bel mezzo di una crisi epocale, e di una guerra europea nella quale l’Italia è pesantemente coinvolta  e che minaccia di degenerare in una nuova guerra mondiale. Un cristianesimo così non serve più a nulla, se non a sacralizzare certe feste di famiglia o di paese.

  In chiesa non abbiamo un tempo dove confrontarci su questo e i preti hanno timore di parlarne perché potrebbero manifestarsi posizioni contrapposte che non si sentono pronti a fronteggiare. Nel programma di un corso on-line sulla sinodalità c’è una conferenza sulla gestione dei conflitti. Preti e religiosi non sanno come fare, se non possono usare lo strumento di disciplina del terrore sacro, che oggi fa poca impressione ai più. Noi persone laiche, che viviamo in una società libera, abbiamo più pratica in queste cose, ma non contiamo nulla, perché, si dice, non sappiamo di teologia. Sotto certi profili questo però ci avvantaggia, perché così non siamo soggetti alla sfiancante polizia ideologica ancora esercitata dalla Curia vaticana. E la teologia su certi temi è un labirinto senza via d’uscita, costruito a tavolino dai teologi che poi non sanno come tirarsene fuori.  Costruiscono problemi insolubili per poi dichiararli tali.

  Ma il centro dei cristianesimi, nonostante quello che molti pensano, non sta in quelle  sofisticate teologie. Perché, altrimenti, il Maestro non avrebbe lasciato nulla di scritto? Nulla.  Nelle narrazioni evangeliche quelli che lo attorniavano e lo seguivano non ci vengono presentati nell’atto di prendere appunti. In effetti la sua esortazione non era quella di imparare a ripetere una lezione, ma di seguirlo, lo si sottolinea sempre nella predicazione anche se in genere non se ne traggono tutte le conseguenze.

 Ma, poi, seguirlo dove?

 C’è chi pensa di udire la sua voce, non io. Non ho mai avuto esperienze spirituali soprannaturali e non mi impressionano molto quando vengono narrate. Mi pare che si tratti di emozioni, che dipendono dalla nostra chimica corporea. Ma amo il vangelo perché mi dà felicità (anch’essa ha un correlato biochimico, fatto di endorfine) e mi offre una via per liberarmi dalla routine imposta dalla società intorno (questo è più reale). Anche le fantasiose creazioni dottrinali ancora correnti mi lasciano piuttosto freddo, perché troppo immaginifiche rispetto al mondo in cui sono abituato a vivere. Ma il vangelo del Samaritano misericordioso e delle Beatitudini mi coinvolge molto. Sono cose che posso leggere, ma anche cercare di mettere in pratica: la pratica mi pare molto importante nel ragionare di vangelo. La maggiore pratica del vangelo nella mia vita l’ho fatta in famiglia, in particolare come padre, ma anche nell’assistere mia madre nei suoi ultimi dolorosi anni di malattia. Come pure nelle esperienze sinodali che ho fatto, appunto, in Azione Cattolica, FUCI  e MEIC. La sinodalità è fatta di pratica del vangelo.

  C’è chi adesso ancora stravede per il vecchio catechismo fatto compilare dal papa Pio 10° all’inizio del Novecento, anni bui, di tremenda e insensata persecuzione nella nostra Chiesa. E’ un testo povero, volto principalmente a rafforzare il potere della gerarchia ecclesiastica. Non dice praticamente nulla del mondo come realmente è. La svolta del rinnovamento della catechesi negli anni ‘70 ha prodotto in Italia catechismi molto più belli e completi, che però non richiedono solo uno sforzo mnemonico, ma di iniziare a mettere in pratica l’essenziale per le persone laiche: capire insieme, quindi sinodalmente,  come vivere il vangelo tra la gente di oggi.  Segnalo, in particolare, per chi volesse pervicacemente cercare di vivere la sinodalità, quello per gli adulti fatto fare dalla Conferenza episcopale italiana, disponibile liberamente sul Web a questo indirizzo http://www.educat.it/catechismo_degli_adulti/ . Negli ultimi anni, seguendo le sollecitazioni di papa Francesco sono stati pubblicati molti libri sulla sinodalità. In questo momento ho tra le mani un testo che può essere utile per esservi introdotti, Sinodalità.Istruzioni per l’uso, a cura di Alberto Melloni, con scritti di Alberigo, Dianich, Galli, Marmion, Ruggieri, Semeraro, Theohald, edito da EDB nel 2021, pagine 138, purtroppo solo in edizione cartacea.

  Una Chiesa crudele, quella governata da papa Pio 10°, che fece soffrire molto tanta gente, comprese grandi anime, rovinando in particolare la vita a molti preti e religiosi. Per nostra buona sorte, ad un certo punto, prima che nascessimo, si girò pagina. Fu una dura maestra la Seconda guerra mondiale: nel mezzo del conflitto, il papato ordinò di costruire una democrazia basata su valori umanitari. Se ci fosse stata anche prima, forse la guerra sarebbe stata evitata, così fu detto in uno dei radiomessaggi mediante i quali quell’ordine venne trasmesso.

  Quella lezione sembra essere stata dimenticata: accade così quando di certi eventi non viene tramandata memoria realistica. L’importante ora sembra non essere  come bloccare, e quindi non combattere,  la guerra, ma da che parte schierarci. In un lavoro sinodale su questo tema si potrebbe rievocare il tremendo passato che sembra ritornare (solo che i pericoli sono enormemente aumentati).

  Perché andare in chiesa per sentirsi ripetere sempre le stesse cose, senza nessun aggancio con la realtà e quindi inutili? E, quand’anche ci si va, si ascolta distrattamente, perché, appunto,  sono sempre le stesse cose, dette  e ridette, senza alcuna capacità di mediazione. Sarebbe bello che si potesse sinodalmente, settimana dopo settimana, discutere con i predicatori quali sono i temi che ci angustiano, da portare al cospetto del vangelo per capire che fare. Si era iniziato a farlo, da qualche parte, negli anni ’60 e ’70. Ma di noi persone laiche preti e religiosi diffidano e noi li lasciamo fare, perché ci siamo abituati ad andare in chiesa non per ascoltarli, così poi non ci sono problemi: loro non ci conoscono e noi preferiamo così, perché qualcosa da rimproverarci lo abbiamo sempre. La Chiesa, però, così sta svanendo. Non è più lievito, fermento. Bastano poche persone, però, per ridiventarlo. Accadde alle origini, può accadere di nuovo. E’ a questo che con determinazione e costanza dovremmo puntare. Un piccolo gruppo di una decina di persone basta. L’importante  è non rimanere soli, perché la nostra fede non è per chi vuole fare tutto da sé.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli