Materiali
per un tirocinio alla democrazia - 2016/2017
Parte 2°
Ripubblico, raccolte in un unico documento,
suddiviso in tre parti le riflessioni di politica svolte sul blog
<acvivearomavalli.blogspot.it> dal settembre 2016 all'agosto 2017.
Possono essere utili come materiale per un tirocinio alla democrazia.
Indice sommario:
30. Pace, perdono e indole personale
31. Un mondo sta finendo
32. Impegno
religioso e impegno politico: la particolarità italiana
33. Consapevolezza storica e partecipazione responsabile
34.
Nuove modernità
35. Crisi della parrocchia e crisi della politica
36.
La religione come problema sociale
37. Prepararsi a lavorare in società
38. I guai politici delle religioni tradizionali
39.
Affrontare con uno stesso spirito la crisi religiosa e la crisi politica
40. La radice politica dei problemi religiosi
41. Rivolti all’interno o rivolti all’esterno
42. L’immaginazione al
potere?
43. Scuola popolare di pensiero sociale
44. Ribelli
45. Il Cielo in una stanza
46. La
“Politica” con la maiuscola
47. La questione democratica
48. Informazioni sulla
democrazia.
49.
Pensare il popolo
50.
Costruire il popolo
51. Processi democratici nella costruzione di un popolo: la festa
52. Un
lavoro di lungo respiro: il serio dialogo fondato sulla buona volontà
53. Imparare la democrazia
54. Democrazia
e virtù
55. La salvezza dell’umanità come problema religioso e politico
56. Educare alla
democrazia globale
57. Il contributo della religione ad una nuova democrazia globale
58. Sperimentare soluzioni nuove: rivitalizzare i mondi
vitali
59. Festa della Repubblica
60. Il lavoro dell’istituzione
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30. Pace, perdono e indole personale
Dal Messaggio per la 50° Giornata
mondiale della pace di papa Francesco
La radice domestica di una politica nonviolenta
5. Se l’origine da cui scaturisce la violenza
è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentiero della
nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente di
quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo nell’Esortazione
apostolica Amoris laetitia [= La
gioia dell’amore], a conclusione di due anni di riflessione da parte della
Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo
attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a
comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove
gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza,
ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia
e il perdono. Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga
nel mondo e si irradia in tutta la società. D’altronde, un’etica di
fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può
basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla
responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un
appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle
armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca
assicurata non possono fondare questo tipo di etica Con uguale urgenza supplico
che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini.
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In una riunione del gruppo parrocchiale
di AC ci siamo interrogati sulle radici personali e familiari della vita pacificata.
Preferiamo essere amati o temuti? Ci
conosciamo veramente, o siamo troppo indulgenti con noi stessi nel riconoscere
caratteristiche della nostra indole come l’aggressività, l’intransigenza, la
durezza, che portano inevitabilmente a situazioni di conflitto. Abbiamo letto
un brano della Regola di Benedetto da Norcia (480-547),
nella quale si consiglia ai capi di comunità di cercare di farsi amare più che
temere, e un brano tratto dal Principe di Niccolò Machiavelli
(1469-1527) in cui si dà l’indicazione opposta, perché il capo che faccia conto
sull’amore dei suoi sottoposti viene in genere tradito nelle avversità, mentre
il timore dura per sempre e rende coese le società. Infine con l’aiuto di don
Giorgio abbiamo meditato sul brano evangelico con la parabola detta del Servo
malvagio (Mt 18, 21-35), in cui a un servo viene condonato un debito
rilevantissimo, ma poi rifiuta di condonare a sua volta a un suo debitore un
debito molto più piccolo, facendolo gettare in prigione, subendo lo sdegno del
suo padrone. Siamo capaci di perdonare, di condonare agli
altri i debiti che pensiamo abbiano contratto verso di noi? Il parroco, che è
da poco tornato da un viaggio in Uganda per incontrare alcuni missionari che là
operano, ci ha raccontato dei duri conflitti tribali che travagliano quella
parte dell’Africa e che non si riesce a sopire: la soluzione, attuata in altre
parti dell’Africa, potrebbe basarsi sul perdono, al modo in cui lo si è fatto
in Italia alla caduta del fascismo. Vendetta chiama vendetta e di vendetta in
vendetta si distrugge il contesto civile, come ancora osserviamo in alcune zone
del nostro Meridione. Abbiamo infine richiamato alla memoria il passo del
recente Messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace di
papa Francesco, in cui si esorta a “percorrere il sentiero della nonviolenza
in primo luogo all’interno della famiglia”. Infatti, ha scritto il Papa, “l’origine
da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini”.
In quel messaggio il Papa indica la
necessità di una politica nonviolenta a partire dalla
realtà domestica. Quest’ultima non sempre è pacificata e
fonte di gioia. Vive tensioni che possono sfociare in violenza, come le
cronache ci raccontano sempre più spesso. Per certi versi i mali sociali si
riflettono sulle realtà familiari, le quali a loro volta ne sono anche sono
espressione e origine. Parlare di pace è facile e bello, praticare la
pace è molto più difficile. E, quando si vive in famiglia, sono appunto
le pratiche quotidiane di vita che possono fare soffrire
e che, dunque, bisognerebbe cambiare. Nella famiglia si può educare alla pace
o, al contrario, alla violenza e alla sopraffazione. E’ lì che si può
cominciare a sperimentare la sopraffazione tra esseri umani, ad esempio tra
maschi e femmine, tra genitori e figli e tra fratelli. Le tradizioni etniche,
religiose e politiche della società in cui la famiglia è immersa la possono
condizionare pesantemente anche in senso negativo. In religione, in
particolare, è in genere ancora piuttosto critica la questione del ruolo delle
donne nella famiglia, sia nel rapporto coniugale sia in quello filiale. E’ in
famiglia che si forma la nostra indole, certe nostre caratteristiche che
tendono a permanere nel corso di tutta la vita, e la psicologia ce ne dà la
spiegazione. Ma non dobbiamo sottovalutare la capacità di cambiamento che una
persona può avere nel corso della propria vita, solo che riesca a prendere
coscienza della radice del male che c’è in lei e nella società intorno ed avere
gli amici giusti. Di solito i problemi sociali non derivano solo e in primo
luogo dall’indole degli individui, ma dall’organizzazione sociale che una
civiltà ha prodotto e che è alla base della produzione e distribuzione delle
risorse e di ciò che la gente desidera per sé per raggiungere la felicità, come
anche delle regole della vita delle famiglie. E’ qui che la pace diventa un
problema politico. Se non si riesce a compiere il passaggio dal particolare,
dall'individuo e dalla sua famiglia alla società intorno, non si passa mai alla
dimensione politica e anche le soluzioni ai mali sociali sfuggono. Spesso però
in religione si è indicata una via della pace attraverso il perdono che si
esprimeva nella rinuncia alla lotta, per cui la religione è apparsa, è non di
rado lo è effettivamente diventata, uno dei modi con cui le classi dominanti
tiranneggiavano quello sottoposte. L’ingenua ideologia corporativa delle
origini della dottrina sociale in sostanza consisteva proprio in questo: non
era capace di apprezzare il potenziale di liberazione attraverso coscienza
collettiva e lotta sociale espresso da certe politiche, ad esempio quelle nonviolente che
furono proprie di Mohandas Gandhi in India e di Martin Luther King negli Stati
Uniti d’America.
“Dall’interno della famiglia la gioia
dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società”, si legge
nel Messaggio del Papa: questa, in realtà, più che una
constatazione di ciò che veramente accade, è un auspicio e un’esortazione. E’
però tanto difficile passare dalla dimensione domestica a quella sociale, fino
a comprendere tutto il mondo. Il mondo fa paura e allora non di rado veniamo
consigliati a rinchiuderci nelle realtà familiari, appagandocene. E’, in fondo,
una via neo-tribale ad una religione difensiva, di
protezione contro i mali del mondo, la comunità di fede come neo-tribù di
famiglie. Difficile però far sopravvivere un mondo di sette miliardi di persone
con organizzazioni neo-tribali: in questo modo, in realtà, ritirandosi
sostanzialmente dalla politica, si lascia il campo alle forze che, a livello
globale, diffondono un’organizzazione ingiusta e predatoria delle società,
creando tanta sofferenza e, in particolare, privando progressivamente, nel nome
della libertà, le organizzazioni pubbliche dei poteri e risorse che loro
competono per realizzare il bene comune, in particolare l’equità sociale.
L’ideologia globale proclama la legge della giungla, quella del forte che
mangia il debole e rifiuta ogni limite posto dalle collettività a fini di
giustizia sociale: preferisce rapporti bilaterali, tra un forte e
un debole, e in questo modo finisce come deve finire. Così una persona può
cercare di essere buona e di farsi amare, e anche di costruire una famiglia
basata su questi principi, ma se poi non si occupa di politica,
quindi di ciò che c’è appena oltre la porta di casa, non fa tutto il suo
dovere, anche in senso religioso. E’ docile, non usa la
violenza, ma questo diventa in fondo una manifestazione di resa al male, di arrendevolezza. Capire
la società per influirvi consapevolmente è però più difficile che capire la
propria famiglia, fondata su rapporti elementari. Anche perché la società si è
fatta molto più complessa di una volta: siamo tanti di più di prima al mondo. E
non bastano i testi sacri per orientarsi. Dunque una formazione religiosa fatta
solo di questi ultimi, di qualche istruzione liturgica e di famiglia è
insufficiente. Fin da molto piccoli, fin dalle società di bambini, ci si
confronta con il male sociale, ma se non si ha avuta, in famiglia o a scuola o
in religione, una formazione specifica non si riesce ad affrontarlo. Lavorarci
su richiede di creare un’organizzazione, fin da molto giovani. Una realtà
sociale come la parrocchia dispone delle strutture giuste per attuarla. E’ una
grande responsabilità. Come partire, o ripartire, nei casi in cui si è
interrotta una tradizione, una memoria. Certe cose vanno riscoperte e riprese.
Innanzi tutto occorre creare occasioni di incontro in parrocchia molto più
prolungate delle usuali liturgie ed esercizi spirituali. Un ragazzo dovrebbe
abituarsi a venire a studiare da noi, insieme agli altri: così la religione
inizierebbe ad apparirgli utile per la vita. Ci vorrebbe un ambiente adatto,
con molti libri, connessione wi-fi e strumenti multimediali. E
un’organizzazione di volontariato per custodirlo e curarlo. Poi un programma di
riflessione, basato su certi libri di testo, e gente che spieghi come si lavora
insieme in queste cose, delle quali i più non hanno più esperienza, in modo che
il tempo insieme non sia tempo perso o solo impiegato per lo studio personale.
E' infatti dal confronto tra tanti punti di vista che
scaturisce un'immagine affidabile della realtà intorno.
Serve
materiale, soprattutto servono libri, che ora sono divenuti più accessibili in
formato digitale. Se non se ne ha a sufficienza o non se ne ha del tutto, come
fare a capire la società?
Ricordo
che la sala della Rettoria di S. Ivo alla Sapienza, a corso Rinascimento,
nell’antica sede dell’Università Sapienza, dove si riunivano i soci del
movimento romano dei Laureati cattolici che tanta parte ebbero nella
ricostruzione politica ed economica dell’Italia dopo la caduta del fascismo,
era appunto un luogo di incontro con un tavolo e tante sedie e, intorno, tanti
libri. Lì si attuò il passaggio virtuoso, il tirocinio innanzi tutto, dalla
religione individuale e domestica alla politica animata dai valori di fede,
attraverso la costruzione di una sapienza collettiva. Era un posto all'interno
dell'Università, proprio lì dove gli universitari e i loro docenti passavano
gran parte del giorno: al centro della società non in suo angolino appartato.
31. Un mondo sta finendo
Le autorità che
parteciparono alla firma del Trattato del 1951 di Parigi che istituì la prima
delle Comunità Europee, la Comunità
Europea del Carbone e dell’Acciaio, tra Belgio, Germania, Francia, Italia,
Lussemburgo e Olanda fuorono: Paul Van Zeeland, ministro degli esteri belga,
Joseph Bech, ministro degli esteri del Lussemburgo, Joseph Meurice, ministro
del Commercio estero del Belgio, Carlo Sforza, ministro degli esteri italiano,
Robert Shuman, ministro degli esteri francese, Konrad Adenauer, capo del
governo e ministro degli esteri tedesco, Dirk Stikker, ministro degli esteri
olandese, Johannes van de Brink, ministro degli affari economici olandese.
L’iniziativa del trattato fu del francese Robert Shuman, per mettere fine alle
situazioni di potenziale conflitto tra Francia e Germania. L’azione della
Germania, che nella firma del trattato fu rappresentata al più alto livello, fu
determinante. Ma senza la partecipazione dell’Italia il trattato sarebbe
rimasto, in definitiva, un accordo franco-tedesco limitato, non l’abbozzo di
un’Europa unita a livello continentale. L’Unione Europea si dissolverà quando
uno di questi stati fondatori, Francia, Germania e Italia, la dovesse lasciare.
[Dal Manifesto di Ventotene, scritto
nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
Un'Europa libera e unita è
premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l'era
totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era sarà riprendere
immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i
privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici che ne
impedivano l'attuazione, saranno crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà
essere sfruttata con coraggio e decisione. La rivoluzione europea,
per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè
dovrà proporsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse
di condizioni più umane di vita.
La bussola di orientamento per i
provvedimenti da prendere in tale direzione, non può essere però il principio
puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali
di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in
linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La
statizzazione generale dell'economia è stata la prima forma utopistica in cui
le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione del giogo
capitalista, ma, una volta realizzata a pieno, non porta allo scopo sognato,
bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita
alla ristretta classe dei burocrati gestori dell'economia, come è avvenuto in
Russia.
Il principio veramente
fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione
generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello
secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma - come
avviene per forze naturali - essere da loro sottomesse, guidate, controllate
nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime. Le
gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall'interesse individuale,
non vanno spente nella morta gora della pratica "routinière"
[=secondo un programma sempre uguale] per trovarsi poi di fronte all'insolubile
problema di resuscitare lo spirito d'iniziativa con le differenziazioni dei
salari, e con gli altri provvedimenti del genere dello stachanovismo
dell'U.R.S.S. [Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il regime
politico che aveva sostituito quello imperiale zarista nel dominio della Russia
e delle popolazioni asiatiche conquistate dai russi in epoca zarista, durato
dal 1917 al 1991], col solo risultato di uno sgobbamento più diligente. Quelle
forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di
sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli
argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la
collettività.
La proprietà privata deve
essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente
in linea di principio.
Questa direttiva si inserisce
naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea
liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa
possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici
oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi
comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. La soluzione razionale
deve prendere il posto di quella irrazionale anche nella coscienza dei
lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di
questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le modalità di ogni punto
programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto
oramai indispensabile dell'unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:
a. non si possono più lasciare ai privati
le imprese che, svolgendo un'attività necessariamente monopolistica, sono in
condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad esempio le industrie
elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni
di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi,
sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l'esempio più notevole di questo
tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le
imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai
occupati, o per l'importanza del settore che dominano, possono ricattare gli
organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa(es. industrie
minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). E' questo il
campo in cui si dovrà procedere senz'altro a nazionalizzazioni su scala
vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti;
b. le caratteristiche che hanno avuto in passato
il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di
accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà
distribuire, durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per
eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gl'istrumenti di
produzione di cui abbisognano, onde migliorare le condizioni economiche e far
loro raggiungere una maggiore indipendenza di vita. Pensiamo cioè
ad una riforma agraria che, passando la terra a chi coltiva, aumenti
enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che
estenda la proprietà dei lavoratori, nei settori non statizzati, con
le gestioni cooperative, l'azionariato operaio, ecc.;
c. i giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al
minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In particolare la scuola
pubblica dovrà dare la possibilità effettiva di perseguire gli studi fino ai gradi
superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà
preparare, in ogni branca di studi per l'avviamento ai diversi mestieri e alla
diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente
alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi
pressappoco eguali, per tutte le categorie professionali, qualunque
possano essere le divergenze tra le rimunerazioni nell'interno di ciascuna
categoria, a seconda delle diverse capacità individuali;
d. la potenzialità quasi senza limiti
della produzione in massa dei generi di prima necessità con la tecnica moderna,
permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente
piccolo, il vitto, l'alloggio e il vestiario col minimo di conforto necessario
per conservare la dignità umana. La solidarietà sociale verso coloro che
riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le
forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui
conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che
garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un
tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così
nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro
iugulatori;
e. la liberazione delle classi
lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti
precedenti: non lasciandole ricadere nella politica economica dei sindacati
monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi
sopraffattori caratteristici specialmente del grande capitale. I lavoratori debbono tornare a essere
liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni a
cui intendono prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici
per garantire l'osservanza dei patti conclusivi; ma tutte le tendenze
monopolistiche potranno essere efficacemente combattute, una volta che saranno
realizzate quelle trasformazioni sociali.
Questi sono i cambiamenti necessari
per creare, intorno al nuovo ordine, un larghissimo strato di cittadini
interessati al suo mantenimento e per dare alla vita politica una consolidata
impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale. Su
queste basi le libertà politiche potranno veramente avere un contenuto concreto
e non solo formale per tutti, in quanto la massa dei cittadini avrà
una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un efficace e
continuo controllo sulla classe governante.
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Mie considerazioni
Quando si ragiona di politica,
bisognerebbe tenere sempre tra le mani l’ultimo volume del corso di storia
delle scuole superiori. Quello è un libro da cui non separarsi per tutta la
vita. E se, per qualche motivo, non lo si ha più in casa, bisogna ricomprarlo.
I libri sono tra le cose più a buon mercato nella nostra civiltà. Ma ce ne sono
molti di inutili, semplice solletico per la mente. Non è così per quelli di
storia delle scuole. Senza quel libro di storia di cui ho detto, da dove
partire? Si fanno solo delle chiacchiere, riprendendo quelle ascoltate in
televisione o, peggio, quelle che si fanno sulle reti sociali sul WEB.
Quando sono nato, erano passati solo
dodici anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) e nove anni
dall’istituzione della Repubblica italiana democratica. Si viveva in un’epoca
di forte sviluppo economico, nonostante che le ferite tremende della
guerra fossero ancora aperte nella società e nei luoghi dove la gente viveva.
L’economia nazionale era influenzata favorevolmente dalla cooperazione
internazionale e dalle condizioni di mercato dell’epoca, con basso costo
del lavoro e dell’energia. Negli anni successivi un certo benessere si diffuse
anche nelle masse popolari, generando varie rivendicazioni sociali. Questo
ciclo economico ebbe fine all’inizio degli anni ’70. Seguirono circa dieci anni
di ciclo depressivo, poi circa altri dieci anni di ripresa economica, poi
iniziò l’era dell’economia mondiale che stiamo ancora vivendo, basata sulla
globalizzazione dei mercati con vantaggi e svantaggi per la gente e, infine,
una lunga depressione economica in Europa, arrivata nel 2008 dagli Stati Uniti
d’America e ancora non superata.
Dunque, dicevo, sono nato a dodici anni
dalla fine della guerra mondiale.
Se oggi andiamo indietro di dodici anni
che troviamo? Più o meno l’Europa di adesso. Un continente sicuro e
pacificato. Ma sarebbe così anche andando più indietro nel tempo.
Fino agli anni ’80 troveremmo un’Europa divisa in due da regimi
politico-economici molto diversi: quelli capitalistici nella parte occidentale,
quelli comunisti in quella orientale. Il confine, che Winston Churchill
definì “Cortina di ferro” per la sua impenetrabilità, correva lungo
le due parti della Germania in cui quello stato era stato diviso politicamente
dopo la caduta del regime nazista, lungo il confine tra l’Austria e l’Ungheria
e quello tra l’Italia e la Jugoslavia, uno stato che oggi non c’è più, ma che
all’epoca federava Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia e
Montenegro, e infine lungo il confine tra l’Italia e l’Albania e quello
tra quest'ultima, la Bulgaria, da una parte, e la Grecia dall'altra. Ma
l’Europa occidentale, e l'Italia in particolare, non era molto diversa da
ora.
Nel 2012 i saggi del Premio Nobel
attribuirono quello per la pace all’Unione Europea. Infatti è proprio questo
più eclatante effetto del processi di cooperazione e integrazione europea: un
lunghissimo periodo di pace, quale le generazioni europee precedenti non
avevano mai vissuto. Quando ero bambino, facevo le elementari, mia nonna
Rosa, nata all'inizio del Novecento, mi raccontava che nella sua vita
c’era stata una guerra più o meno ogni dieci anni, perché a quelle mondiali bisognava
aggiungere quelle coloniali. E si stupiva che non ne fosse
ancora iniziata una: si era all’inizio degli anni Sessanta. Anche il mio
maestro delle elementari la pensava nello stesso modo. Per lui ci sarebbero
state a breve altre guerre e noi, ci diceva, dovevamo prepararci, perché
sicuramente saremmo stati chiamati a combatterne una, non appena avessimo
raggiunto la maggiore età, che all’epoca era a ventuno anni. Ma quelle guerre
non vennero da noi. Negli anni ’90 scoppiarono in Jugoslavia, nel processo di
dissoluzione di quello stato, e anche l’Italia vi partecipò, ma solo con
l’aviazione militare e nel quadro di un’azione della NATO. Fu un conflitto
limitato, interno alla stessa Jugoslavia. Oggi la Slovenia e la Croazia, che
combatterono quelle guerre, sono parte dell’Unione Europea, e Bosnia-Erzegovina
e Serbia sono in procinto di diventarlo.
A che cosa è stato dovuto quel lungo
periodo di pace?
Dopo la fine della Seconda Guerra
Mondiale il mondo si polarizzò intorno alle due maggiori potenze vincitrici, i
maggiori tra gli Alleati che avevano combattuto i fascismi europei, tra i quali
quello italiano, precursore e modello di tutti i fascismi europei: Stati Uniti
d’America, una potenza americana, e Unione Sovietica, una potenza
euroasiatica; la prima ad economia capitalista avanzata, la secondo ad economia
capitalista. Entrambe volevano esportare il loro modello politico ed economico
in tutto il mondo. Oguna riteneva l'altra un pericolo mortale ed entrambe, in
funzione essenzialmente difensiva come dichiaravano i loro capi, si dotarono di
armi nucleari sempre più potenti e sofisticate. Se usate, esse avrebbero
portato alla distruzione del mondo intero, compresi gli stati che le avevano
lanciate. Per farsi un’idea della situazione dell’epoca si può vedere il film Il
dottor Stranamore, ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la
bomba, del regista Stanley Kubrik, realizzato nel 1964, (in commercio su
DVD ad €7,43) e il romanzo di Nevil Shute, L’ultima spiaggia, del
1957 (disponibile in e-book ad €3,99). Un conflitto globale, mondiale,
con il coinvolgimento di quelle due super-potene divenne impossibile. In
questo una grande anima come Giorgio La Pira vide la manifestazione di un
disegno provvidenziale. In realtà conflitti locali, più limitati, continuarono
ad essere combattuti, anche tra la grandi potenze, come nella guerra in Corea
(1950-1953) e nella lunghissima guerra in Indocina (Vietnam, Laos, Cambogia),
dal 1955 al 1975. Ma non in Europa, in particolare lungo la frontiera tra
Germania e Francia, al centro dell’Europa, che divideva i sistemi politici dai
quali erano originate le due Guerre mondiali del Novecento. Perché? E’ stato
merito del processo di integrazione e cooperazione europea che ha
progressivamente eliminato le ragioni di conflitto e avvicinato i popoli
europei, fino a rendere inutili i posti di frontiera tra nazioni che si erano
lungamente e strenuamente combattute. Un processo che non ha riguardato le
nazioni integrate nell’analogo organismo di cooperazione europea promosso
nell’area dominata dai sovietici, il COMECON, con la conseguenza
che gli stati che hanno aderito all’Unione Europea dopo essere stata inclusi
dal 1945 nell’area di influenza sovietica appaiono molto meno integrati tra
loro di quanto appaiono le nazioni dell’Europa occidentale. In particolare fra
di essi è ancora molto forte il nazionalismo che il processo di integrazione
europeo ha fortemente contrastato.
Il processo di pacificazione tra i
popoli europei attuato progressivamente nel quadro di politiche internazionali
europeiste ha comportato incisive riforme sociali, nel senso di quelle
auspicate dagli autori del Manifesto di Ventotene, in particolare
nel settore dell’economia, del lavoro e della sicurezza sociale. Esse
erano nel programma politico dei partiti socialisti europei, fin
dall’Ottocento. La Chiesa cattolica inizialmente le contrastò: del resto
la prima enciclicasociale, intitolata Le novità,
diffusa nel 1891 dal papa Gioacchino Pecci, regnante in religione come Leone
13°, era diretta in primo luogo contro il socialismo. Poi, seguendo in questo
le impostazioni dei partiti popolari democratici europei, ne ha recepito
diversi elementi, tanto che ho letto che al nuovo presidente statunitense il
Papa attuale appare sospetto di socialismo. Ma la giustizia sociale, in
particolare una ragionevole distribuzione delle ricchezze che consenta alle
masse di liberarsi dalla povertà e di condividere il benessere reso possibile
dai moderni mezzi di produzione, quindi ciò che si intende con
l’espressione sicurezza sociale, che significa anche assistenza
nella malattia e negli altri rovesci della vita (come i disastri naturali),
sostegno nella vecchiaia, e protezione del lavoro dagli arbitri di chi
controlla i processi produttivi, trova giustificazione in sé stessa e non dipende
da questa o quella ideologia. Anche ai nostri tempi, nei quali quasi
nessuno osa più definirsi socialista, in particolare in
Italia per il discredito che è legato a questa denominazione per le ultime
vicende storiche del partito che da noi al socialismo si richiamava
espressamente e per le conseguenze disumane del sistema socialista
sovietico, l’idea di giustizia sociale può continuare ad avere corso, in
particolare seguendo ideali umanitari che anche in religione possono trovare
fondamento. Piuttosto è l’idea di lotta di classe, quindi di
conflitti sociali violenti, che appare meno attuale, perché viviamo in società
democratiche in cui, almeno in teoria, le masse hanno gli strumenti per far
valere certe pretese con metodi nonviolenti. E questo anche se il
conflitto è latente in ogni società umana: in democrazia esso può però essere
gestito pacificamente. Da ciò consegue, però, che la crisi dei processi
democratici mette le società a rischio di una ripresa di lotte sociali
violente.
Una delle prime riforme italiane del
Secondo dopoguerra fu quella agraria, che comportò espropriazione dei latifondi
improduttivi e la distribuzione delle terre ai lavoratori. Si arrivò alla
nazionalizzazione della produzione di energia elettrica, secondo gli auspici
degli autori delManifesto e fu stabilito che a) la proprietà
privata dovesse essere regolata in modo da assicurarne la funzione
sociale e di renderla accessibile a tutti (art.
42 della Costituzione) e che b) l’impresa privata non potesse svolgersi
in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza,
alla libertà, alla dignità umana (art. 41 della Costituzione). Il sistema di
previdenza sociale per la vecchiaia, l’invalidità e la malattia fu esteso a
tutte le categorie di lavoratori, anche autonomi e, con la riforma sanitaria
del 1978, la maggior parte delle cure divenne accessibile a tutti gratuitamente
o a costi molto contenuti. Per il lavoratori dipendenti si stabilirono minimi
salariali e disposizioni che li tutelassero da licenziamenti arbitrari,
prevedendo una valida tutela giudiziaria dei diritti del lavoro. Fu garantita
l’istruzione pubblica, fino ai livelli più elevati, per larghe fasce della
popolazione. Riforme analoghe furono attuate anche negli altri stati europei interessati
dal processo di unificazione sfociato nell’Unione Europea. In sostanza, le
riforme disegnate dagli autori del Manifesto di Ventotene vennero
attuate e questo fu un fattore importante di pacificazione delle società
europee che si stavano integrando economicamente e politicamente. Tutti i
diritti scaturiti da quelle riforme vengono ancora oggi considerati scontati e
irrinunciabili dalla maggior parte della gente, e invece non lo sono nella
maggior parte del mondo. In origine chi ne proponeva l’istituzione veniva
considerato un socialista rivoluzionario. E penso che vi sia ancora chi,
leggendo oggi il brano del Manifesto di Ventotene che ho sopra
trascritto, si scandalizzerà, leggendo di socialismo. IlManifesto è
un documento molto citato ma poco letto e conosciuto in dettaglio. E in esso il
socialismo c’è.
Il mondo della pace sociale e
internazionale europea sta improvvisamente e rapidamente finendo. Questa è la
novità dei nostri tempi. Si stanno nuovamente creando le condizioni per
guerre mondiali ed europee. Ad un bambino delle elementari di oggi non sarei in
grado di garantire che non dovrà combattere una qualche guerra. E anche la
società italiana si è fatta instabile, man mano che le conquiste sociali dei
passati decenni vengono messe in discussione. In una nazione ancora tra le più
ricche del mondo, sembra che non ce ne sia più per tutti. E’ stato osservato
che sono molto aumentate le diseguaglianze sociali, in modo corrispondente e
progressivo al decadere dei meccanismi di perequazione economica tra le classi
e di protezione di quelle più deboli. L’area del benessere si va restringendo,
il lavoro si va facendo insicuro, la protezione per la vecchiaia non è più
certa per coloro che oggi sono giovani e tutti per tutti i servizi sociali, in
particolare per la sanità, le risorse diminuiscono. Le condizioni di lavoro si
vanno avvicinando a quelle dei lavoratori asiatici che finora hanno prodotto le
merci di uso comune che in Europa acquistiamo a bassissimo prezzo. Nonostante
che il costo del lavoro in Italia sia tra i più bassi in Europa, non vi è una
ripresa dell’occupazione, anche per il diffondersi sempre più di processi
produttivi automatizzati. Ma il fattore che sta determinando il cambiamento è
il mutamento radicale di impostazione politica negli Stati Uniti d’America, la
potenza di riferimento per le nazioni europee, finora fortemente integrata
economicamente e politicamente con l’Europa. Negli anni passati gli
statunitensi hanno assecondato il processo di unificazione europea, prima in chiave
antisovietica e successivamente come fattore di stabilizzazione europea
per gestire la dissoluzione del sistema politico dominato dai sovietici. La
riunificazione delle due Germanie, l’assorbimento nell’Unione Europea dei paesi
baltici e di quelli ex comunisti fino alla Polonia e alla Romania sono stati
gestiti in ambito europeo. Dalla crisi Ucraina in avanti, quindi dal
2014, la politica statunitense è cambiata, e ancor più sta cambiando in questi
giorni. Le due super-potenze che avevano determinato l’ordine politico europeo
dal 1945 non sembrano più interessate ad un’Europa unificata e manovrano per
indebolirla. Stati Uniti d’America e Russia in Europa sono in rotta di
collisione, in particolare sulle questioni delle minoranze russe nelle nazioni
baltiche, su quelle dell’Ucraina e su quella del rafforzamento della forza NATO
in Polonia. La crisi Ucraina ha dimostrato che guerre internazionali possono
ancora essere combattute in Europa, senza scatenare un conflitto
autodistruttivo, quindi senza necessariamente impiegare le armi nucleari.
In Europa i politici populisti
addebitano al processo di integrazione europea mali che derivano invece dalla
degenerazione dei sistemi capitalistici. Questo indebolisce ulteriormente la
base politica del processo di unificazione europea. Le masse sono spinte a
sostenere politiche protezionistiche che sono suicide per nazioni di un
continente come quello europeo che ha prosperato solo nelle fasi di
integrazione economica. E a ripudiare la moneta unica, l’Euro, con il rischio di
ricadere nella situazione, ormai sperimentata solo da chi ha sessanta e più, in
cui i risparmi delle famiglie, così come i salari dei lavoratori, venivano
rapidamente erosi da tassi di inflazione altissimi, prodotti da spregiudicate
politiche monetarie dei governi nazionali.
Un quadro di crisi globale che, per la
prima volta, viene realisticamente e sinteticamente esposto in un documento di
un Papa: nell’enciclica Laudato si’. Le soluzioni proposte sono
abbastanza simili a quelle pensate da Spinelli, Rossi e Colorni, quindi da
socialisti critici, consapevoli sia dei mali dei sistemi capitalistici che di
quelli dei sistemi totalitari basati sul comunismo di impronta sovietica.
Ma certamente in quel documento, destinato ad un pubblico globale, l’Europa
non c’è. Del resto è scritto da un americano. Occorre quindi, nel processo di
formazione all’azione sociale dei laici di fede italiani, integrarlo, in
particolare vincendo i sospetti di laicismo che negli ultimi anni hanno
guastato il confronto tra il mondo della nostra fede e quello delle politiche
europeiste.
32. Impegno
religioso e impegno politico: la particolarità italiana
Nell’enciclica Laudato si’, del 2015, vi è un forte
appello all’impegno politico delle persone di fede. Non è un insegnamento nuovo,
ma questa volta è inserito in un’analisi realistica di come va il mondo oggi e
delle cause dei principali mali sociali.
E’ dalla metà dell’Ottocento che il
papato romano, principalmente per opporsi al processo di unificazione nazionale
italiana e poi per reagire ad esso, ha attivato politicamente le masse,
costituendo quello che Guido Formigoni, nel libro Alla prova della
democrazia - Chiesa cattolici e modernità nell’Italia del ‘900, Il
Margine, 2008, ha definito movimentoguelfo (nel Medioevo erano guelfi i
Comuni che seguivano la politica del papato romano). A lungo quest’ultimo ebbe
carattere sovversivo, opponendosi ai partiti di governo dell’epoca, tanto da
essere colpito dall’applicazione di leggi sulla sicurezza nazionale.
Quest’azione incise profondamente nell’assimilazione dei principi
democratici da parte dei fedeli e favorì la fusione, più o meno tra il 1930 e
il 1938, tra ideologia fascista e ideologia del cattolicesimo politico. Il
fascismo ebbe in comune con il movimento guelfo il carattere
di opposizione ai principi della politica liberale, l’autoritarismo, il
corporativismo anti-socialista, quindi la visione della società come di un
corpo vivente in cui le singole parti per il bene comune dovessero accettare
una gerarchianaturale di pochi sui molti senza che questi ultimi
potessero influire nelle scelte collettive se non eseguendo direttive
superiori, una concezione della famiglia di tipo patriarcale maschilista
centrata sull’autorità di un padre, modello di tutta
l’organizzazione sociale. Entrambi i movimenti erano iniziati come sovversivi,
ma entrambi vennero poi accettati dalla classe dominante, che in Italia era
costituita da un borghesia imprenditoriale che chiedeva protezione
statale dei propri affari e un trattamento preferenziale nelle
commesse pubbliche, in funzione di stabilizzazione dell’ordine sociale. Alla
caduta del fascismo, nel 1945, il movimento guelfo rimase come attore politico
principale integrandosi con i neo-cattolici democratici di Alcide De Gasperi e
Giuseppe Dossetti, e loro epigoni. Tutte le fasi della politica democratica
italiana dal Secondo dopoguerra fino all’inizio del regno di papa Francesco
furono mediate dal movimento guelfo controllato dal papato romano, anche dopo
la varie metamorfosi del cattolicesimo democratico dovute alla fine dei regimi
di osservanza sovietica nell’Europa orientale, con la contemporanea metamorfosi
del Partito Comunista Italiano, il più grande partito comunista dell’Occidente.
All’importanza del ruolo politico delle
masse dei fedeli in Italia non è corrisposta un’adeguata azione di formazione
alla democrazia. Ci si aspettava, come all’inizio della dottrina
sociale moderna, a fine Ottocento, che i cittadini che
erano anche fedeli seguissero fedelmente le direttive di azione sociale diffuse
dal papato romano attraverso vari tipi di documenti normativi, limitandosi
ad applicarle, con poco margine operativo. I principi del
cattolicesimo democratico erano diversi e questo comportò la persistente
diffidenza verso i suoi esponenti, i quali, definendosi persone di fede adulte,
volevano emanciparsi. Quest’orientamento rimase anche dopo che, a seguito delle
decisioni del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), si cercò di sollecitare i
laici di fede ad un impegno più intenso, creativo e autonomo, definendo un loro
specifico campo d’azione nelle cose temporali, intese come ciò che
riguardava la scienza e la politica, nelle quali si riconobbe la necessità di
ragionamenti con un certo margine di autonomia in quanto la teologia era
insufficiente a capirle e ad orientarle. Sviluppare questa autonomia fu il
problema più critico degli anni del dopo-Concilio. Il movimento per il
rinnovamento della catechesi doveva servire anche a questo, ma i risultati
furono incerti. Con la lunga fase del papato di Karol Wojtyla tutto in sostanza
venne sospeso, in attesa di tempi migliori. E questo anche se nel 1991, con
l’enciclica Il Centenario, a cento anni dalla prima enciclica della
dottrina sociale moderna, Le novità, del papa Gioacchino Pecci, il
papato romano propose alla nuova Europa uscita dalla fine del regime comunista
sovietico la via dell’organizzazione democratica. Una neo-democrazia di
osservanza papale per l’Italia? Detta così suona male, ma in effetti è proprio
a questo che si pensò. D’altra parte c’erano dei risultati: il cattolicesimo
italiano sembrava resistere meglio di altri al processo disecolarizzazione europeo,
quello appunto basato sull’autonomia delle cose temporali, per cui per
decidere in politica non si fa appello alla religione né la si considera come
elemento di discriminazione. In realtà questo può essere visto non tanto come
un successo della religione all’italiana, quanto come un portato
della particolare integrazione tra politica e religione che si era prodotta in
Italia per la sua particolare storia, per cui le masse cattoliche erano
state indotte a coalizzarsi intorno al papato romano in un processo
secolare che è partito da metà Ottocento, nell’opposizione al processo di
unificazione nazionale, che è poi proseguito con l’integrazione con il fascismo
e poi, in epoca democratica, sotto le bandiere del cattolicesimo democratico.
Se si scava un po’ a fondo, interrogando le persone, senza distinzione di età,
prova che si è realizzata una tradizione in questo
campo, si può facilmente avere la dimostrazione che l’ideologia sottostante ha
risentito poco del processo di assimilazione alla democrazia che i cattolici
democratici volevano produrre: riemergono idee caratteristiche
dell’integrazione con il fascismo storico. Il modello del buon cattolico in
politica è ancora quello là. Ma influenze sensibili si colgono anche nelle
questioni relative alla famiglia. Quell’integrazione riguarda il fascismo
mussoliniano maturo, appunto quello sviluppatosi tra il 1930 e il 1938, tra
l’epoca in cui le ultime resistenze di parte cattolica ai Trattati Lateranensi
del 1929 vennero sopite e l’inizio della legislazione razzista anti-ebraica,
che segnò il principio di una presa di distanza da parte del papato romano, non
il fascismo rivoluzionario delle origini né quello repubblicano della fine. Le
principali resistenze ad un formazione politica alla democrazia nel quadro
dell’iniziazione religiosa, per preparare i laici di fede al compito che da
loro si attende per promuovere nelle società del loro tempo i valori di fede,
sono motivate con argomenti che ricalcano quelli di quel tipo di fascismo. Oggi
questo tipo di politica sembra addirittura l’unico in grado di salvare l’Italia
dalneo-populismo egoistico che minaccia di dissolverla e che è in
linea con il trumpismo statunitense. E’ venuto a
mancare, però, l’ingrediente principale di ogni movimento guelfo: un
Papa che voglia essere anche un capo politico populista come
lo furono i suoi predecessori. Papa Francesco indica un’altra strada, più
difficile, più impegnativa, che è poi il linea con quel grande manifesto del
cattolicesimo democratico che è la Costituzione La gioia e la
speranza, del Concilio Vaticano 2°.
33. Consapevolezza storica e partecipazione responsabile
[dal Manifesto di Ventotene,
scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
Sugli istituti costituzionali sarebbe
superfluo soffermarci, poiché, non potendosi prevedere le condizioni in cui
dovranno sorgere ed operare, non faremmo che ripetere quello che tutti già sanno
sulla necessità di organi rappresentativi per la formazione delle leggi,
dell'indipendenza della magistratura - che prenderà il posto dell'attuale - per
l'applicazione imparziale delle leggi emanate, della libertà di stampa e di
associazione, per illuminare l'opinione pubblica e dare a tutti i cittadini la
possibilità di partecipare effettivamente alla vita dello stato. Su due sole
questioni è necessario precisare meglio le idee, per la loro particolare
importanza in questo momento nel nostro paese, sui rapporti dello stato con la
chiesa e sul carattere della rappresentanza politica:
a. la Chiesa cattolica continua inflessibilmente a considerarsi
unica società perfetta, a cui lo stato dovrebbe sottomettersi, fornendole le
armi temporali per imporre il rispetto della sua ortodossia. Si presenta come
naturale alleata di tutti i regimi reazionari, di cui cerca approfittare per
ottenere esenzioni e privilegi, per ricostruire il suo patrimonio, per stendere
di nuovo i suoi tentacoli sulla scuola e sull'ordinamento della famiglia. Il
concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l'alleanza col fascismo
andrà senz'altro abolito, per affermare il carattere puramente laico dello
stato, e per fissare in modo inequivocabile la supremazia dello stato sulla vita
civile. Tutte le credenze religiose dovranno essere ugualmente rispettate, ma
lo stato non dovrà più avere un bilancio dei culti, e dovrà riprendere la sua
opera educatrice per lo sviluppo dello spirito critico;
b. la baracca di cartapesta che il fascismo ha costruito con
l'ordinamento corporativo cadrà in frantumi, insieme alle altre parti dello
stato totalitario. C'è chi ritiene che da questi rottami si potrà domani trarre
il materiale per il nuovo ordine costituzionale. Noi non lo crediamo. Nello
stato totalitario le Camere corporative sono la beffa, che corona il controllo
poliziesco sui lavoratori. Se anche però le Camere corporative fossero la
sincera espressione delle diverse categorie dei produttori, gli organi di
rappresentanza delle diverse categorie professionali non potrebbero mai essere
qualificati per trattare questioni di politica generale, e nelle questioni più
propriamente economiche diverrebbero organi di sopraffazione delle categorie
sindacalmente più potenti.
Ai sindacati spetteranno ampie funzioni
di collaborazione con gli organi statali, incaricati di risolvere i problemi
che più direttamente li riguardano, ma è senz'altro da escludere che ad essi
vada affidata alcuna funzione legislativa, poiché risulterebbe un'anarchia
feudale nella vita economica, concludentesi in un rinnovato dispotismo
politico. Molti che si sono lasciati prendere ingenuamente dal mito del
corporativismo potranno e dovranno essere attratti all'opera di rinnovamento,
ma occorrerà che si rendano conto di quanto assurda sia la soluzione da loro
confusamente sognata. Il corporativismo non può avere vita concreta che nella
forma assunta degli stati totalitari, per irreggimentare i lavoratori sotto
funzionari che ne controllano ogni mossa nell'interesse della classe governante.
*****************************************
Gli autori del Manifesto di
Ventotene scrivevano quando ancora l’Italia era dominata dal
regime fascista mussoliniano. Quest’ultimo aveva ancora il consenso largamente
maggioritario, direi quasi totalitario, dei cattolici italiani. Ogni resistenza
era stata vinta non molto dopo la conclusione degli accordi tra il papato
romano e il Regno d’Italia dominato del Mussolini, nel 1929, con i Patti
Lateranensi. Il regime aveva soppresso ogni libertà democratica e, in
particolare, quella sindacale, instaurando, in un processo compiuto tra il 1926
e il 1939, un ordinamento corporativo, nel quale furono istituiti nuovi
sindacati come istituzioni dello stato, che venivano proposti come
rappresentativi delle varie categorie dei lavoratori e dei datori di lavoro,
per eliminare il conflitto sociale. Queste istituzioni era controllate dal
Partito Nazionale Fascista, l’unico partito all’epoca ammesso, dal Ministro
delle Corporazioni e da quello dell’Interno: ogni nomina di dirigente, ad ogni
livello doveva ottenere l’approvazione ministeriale, inoltre l’organizzazione
delle corporazioni era fortemente gerarchica. Nel 1939 la Camera dei deputati
venne sostituita con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, con
funzioni solo consultive, nella quale sedevano anche rappresentanti delle
Corporazioni. La fine della libertà sindacale avvantaggiò i datori di lavoro, i
quali erano la parte dominante nei rapporti di lavoro dipendente e
storicamente si erano associati in sindacati principalmente per reagire
al sindacalismo operaio. Nel regime fascista lo sciopero e la serrata, la
chiusura di una fabbrica per reagire a moti operai, erano vietati. Storicamente
l’affermazione del fascismo era stata favorita da industriali e imprenditori agrari
anche come protezione contro il sindacalismo socialista. Il fascismo maturo,
quello che fu veramente totalitario in Italia negli anni ’30, restò legato a
quegli ambienti sociali. La contrattazione sindacale fu fortemente
limitata dalla parte dei lavoratori, che venivano privati del loro principale
strumento di pressione sulle controparti, quello dello sciopero. In contratti
nazionali di lavoro divennero norme dello stato e, pur contenendo gli eccessi
da parte dei datori di lavoro, ma i lavoratori, nell’ordinamento corporativo
fascista, finirono effettivamente, come ricordato nel Manifesto per
“irreggimentare i lavoratori sotto funzionari che ne controllavano ogni
mossa nell'interesse della classe governante.”
Anche la prima dottrina sociale della Chiesa
aveva proposto il corporativismo come regime preferibile nei rapporti di
lavoro, anche se non nella forma attuata dal fascismo, ma come sistema di
intese amichevoli tra lavoratori e datori di lavoro ispirate ad equità e
umanità. Negli anni ’30, comunque, il regime fascista presentò l’ordinamento
corporativo come l’attuazione degli insegnamenti della dottrina sociale, non
venendo smentito, ma anzi trovando apprezzamento nella gerarchia cattolica, nel
nuovo clima di collaborazione instauratosi con il papato romano dopo la
conclusione, nel 1929, dei Patti Lateranensi.
Ecco infatti che cosa si legge
nell’enciclica Il Quarantennale, diffusa nel 1931 dal papa Achille
Ratti, regnante come Pio 11° in occasione dell’anniversario dei quarant’anni
dalla prima enciclica della dottrina sociale, la Le novità,
del papa Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13°:
92. Recentemente, come tutti sanno, venne iniziata una speciale
organizzazione sindacale e corporativa, la quale, data la materia di questa
Nostra Lettera enciclica, richiede da Noi qualche cenno e anche qualche
opportuna considerazione.
93. Lo Stato riconosce giuridicamente il
sindacato e non senza carattere monopolistico, in quanto che esso solo, così
riconosciuto, può rappresentare rispettivamente gli operai e i padroni, esso
solo concludere contratti e patti di lavoro. L'iscrizione al sindacato è
facoltativa, ed è soltanto in questo senso che l'organizzazione sindacale può
dirsi libera; giacché la quota sindacale e certe speciali tasse sono
obbligatorie per tutti gli appartenenti a una data categoria, siano essi operai
o padroni, come per tutti sono obbligatori i contratti di lavoro stipulati dal
sindacato giuridico. Vero è che venne autorevolmente dichiarato che il
sindacato giuridico non escluse l'esistenza di associazioni professionali di
fatto.
94. Le Corporazioni sono costituite dai
rappresentanti dei sindacati degli operai e dei padroni della medesima arte e
professione, e, come veri e propri organi ed istituzioni di Stato, dirigono e
coordinano i sindacati nelle cose di interesse comune.
95. Lo sciopero è vietato; se le parti non si
possono accordare, interviene il Magistrato.
96. Basta poca riflessione per vedere i vantaggi
dell'ordinamento per quanto sommariamente indicato; la pacifica collaborazione
delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati socialisti,
l'azione moderatrice di une speciale magistratura. Per non trascurare nulla in argomento di
tanta importanza, ed in armonia con i principi generali qui sopra richiamati, e
con quello che inibito aggiungeremo, dobbiamo pur dire che vediamo non mancare
chi teme che lo Stato si sostituisca alle libere attività invece di limitarsi
alla necessaria e sufficiente assistenza ed aiuto, che il nuovo ordinamento
sindacale e corporativo abbia carattere eccessivamente burocratico e politico,
e che, nonostante gli accennati vantaggi generali, possa servire a particolari
intenti politici piuttosto che all'avviamento ed inizio di un migliore assetto
sociale.
97. Noi crediamo che a raggiungere quest'altro
nobilissimo intento, con vero e stabile beneficio generale, sia necessaria
innanzi e soprattutto la benedizione di Dio e poi la collaborazione di tutte le
buone volontà. Crediamo ancora e per necessaria conseguenza che
l'intento stesso sarà tanto più sicuramente raggiunto quanta più largo sarà il
contributo delle competenze tecniche, professionali e sociali e più ancora dei
principi cattolici e della loro pratica, da parte, non dell'Azione Cattolica
(che non intende svolgere attività strettamente sindacali o politiche), ma da
parte di quei figli Nostri che l'Azione Cattolica squisitamente forma a quei
principi ed al loro apostolato sotto la guida ed il Magistero della Chiesa;
della Chiesa, la quale anche sul terreno più sopra accennato, come dovunque si
agitano e regolano questioni morali, non può dimenticare o negligere il mandato
di custodia e di magistero divinamente conferitole.
98. Se non che, quanto abbiamo detto circa la
restaurazione e il perfezionamento dell'ordine sociale, non potrà essere
attuato in nessun modo, senza una riforma dei costumi come la storia stessa ce
ne dà splendida testimonianza. Vi fu un tempo infatti in cui vigeva un
ordinamento sociale che, sebbene non del tutto perfetto e in ogni sua parte
irreprensibile, riusciva tuttavia conforme in qualche modo alla retta ragione,
secondo le condizioni e la necessità dei tempi. Ora quell'ordinamento è già da
gran tempo scomparso; e ciò veramente non perché non abbia potuto, col
progredire, svolgersi e adattarsi alle mutate condizioni e necessità di cose e
in qualche modo venire dilatandosi, ma perché piuttosto gli uomini induriti
dall'egoismo ricusarono di allargare, come avrebbero dovuto, secondo il
crescente numero della moltitudine, i quadri di quell'ordinamento, o perché,
traviati dalla falsa libertà e da altri errori e intolleranti di qualsiasi
autorità, si sforzarono di scuotere da sé ogni restrizione.
99. Resta adunque che, dopo aver nuovamente
chiamato in giudizio l'odierno regime economico, e il suo acerrimo accusatore,
il socialismo, e aver dato giusta ed esplicita sentenza sull'uno e sull'altro,
indaghiamo più a fondo la radice di tanti mali e ne indichiamo il primo e più
necessario rimedio, cioè la riforma dei costumi.
Il Papa, quindi, esortò i membri
dell’Azione Cattolica di allora a collaborare con l’ordinamento corporativo
fascista con il “contributo delle competenze tecniche,
professionali e sociali e più ancora dei principi cattolici e della loro
pratica”, invito che effettivamente venne accolto.
Quanto ho sopra sintetizzato, spiega
perché gli autori del Manifesto di Ventotene, al confino
nell’isola dopo periodi di detenzione in carcere e nel pieno del regime
fascista, nel pensare la nuova Europa che immaginavano sarebbe seguita ai
nazi-fascismi europei, dedicarono alla Chiesa cattolica e al corporativismo
fascismo quei due periodi che ho sopra trascritto.
Nella formazione alla fede di solito si
sorvola su quei fatti, che oggi sono ritenuti disonorevoli. Si preferisce
ricordare il lavoro di progettazione di una nuova democrazia che si compì
effettivamente tra ristrettissime elite dell’Azione
Cattolica, in particolare tra gli universitari della FUCI e tra i membri
del Movimento Laureati, su impulso di Giovanni Battista
Montini e di altri, l’impegno dei cattolici democratici nella Resistenza tra il
1943 e il 1945, e infine il contributo determinante di questi ultimi,
molti dei quali usciti dalle fila della FUCI e delMovimento Laureati,
nella fondazione politica e nello sviluppo della Repubblica democratica e delle
istituzioni europee. Ma l’integrazione con il fascismo vi fu effettivamente e
fu molto profonda. Ancora oggi se ne risente. Si evidenziano generalmente le
incompatibilità tra i due regimi totalitari del fascismo e del cattolicesimo
romano, che indubbiamente c’erano dal punto di vista ideologico: tuttavia il
fascismo aprì la strada ad un’egemonia della gerarchia cattolica sul popolo
italiano alla quale essa da tempo ambiva e per il fascismo la legittimazione
come regime provvidenziale da parte del papato fu
determinante nel controllo politico totalitario della nazione. In sostanza: due
totalitarismi che si integrarono creando una sorta di dottrina comune che
definì il profilo del benpensante. Che cosa sono dieci anni
nella storia di una nazione? Eppure gli anni ’30 furono nel bene e nel male
fondamentali per ciò che a lungo si produsse dopo. Nel bene perché la
Repubblica democratica deriva da un pensiero che in quegli anni si sviluppò,
sia in ambito cattolico democratico, sia in ambito socialista che in ambito
liberale, le tre componenti di base del nuovo regime democratico post-fascista.
Nel male perché il modello fascista del benpensante creò
una persistente e radicata tradizione popolare, per cui, ad esempio, certe cose
che si sentono dire ai nostri giorni nei confronti di gente di altre etnie e
religioni e su come dovrebbe essere la famiglia risalgono a quel tempo là,
anche se se ne è in genere persa consapevolezza.
C’è infine una importante lezione che
ci viene dalla storia: quella italiana degli ultimi due secoli fu potentemente
influenzata dalla politica espressa dalla Chiesa cattolica. Essa però, in
democrazia, non può più rimanere una faccenda solo da preti. Se ne deve poter
discutere ad ogni livello anche negli ambienti religiosi. Ciò non sempre
è agevole, perché la struttura istituzionale ecclesiale è rimasta
sostanzialmente feudale e totalitaria. In un’associazione come l’Azione
Cattolica si può fare tirocinio di democrazia e, ad esempio, come è ieri è
avvenuto nell’Assemblea diocesana, confrontarsi e votare anche su
singole frasi di un documento programmatico, ma questo in genere non avviene in
una realtà di base come quella parrocchiale, pur essendo prevista qualche sede
rappresentativa. Dove di certe cose non si discute e non si fa tirocinio, non
si acquista una consapevolezza del proprio ruolo sociale e questo impedisce di
resistere alle degenerazioni, di mettere in questione scelte discutibili, di
solidarizzare con coloro che vengono ingiustamente emarginati, di bilanciare
certi eccessi, di mantenere un pluralismo di opzioni, di chiedere a chi
esercita un’autorità di rendere periodicamente e pubblicamente il conto
di ciò che ha fatto e di ciò che progetta di fare. Oggi ci troviamo, in
parrocchia, a dover rimediare a problemi che si sono generati anche per questo
motivo, per cui molta gente del quartiere, non sentendosi il linea con una
certa impostazione, mi pare che si sia allontanata ed ora è tanto faticoso
farle riprendere familiarità tra noi.
34.
Nuove modernità
[da:
Peter Berger, Grace Davie, Effie Fokas, America
religiosa, Europa laica? - Perché il secolarismo europeo è un’eccezione, Il
Mulino, 2010, € 18,50]
[pag.192]
[…] se una società desidera fare uso di
certe tecnologie, deve adattare le sue istituzioni e i suoi valori culturali in
maniera tale da formare persone che possano impiegare queste tecnologie. Per
esempio, il pilota di un aereo moderno non può agire sulla base delle
assunzioni metafisiche o degli incantesimi di uno sciamano, almeno finché
siede nella cabina di pilotaggio. Ma quando il pilota torna a casa - per
esempio in un villaggio primitivo - può fare proprie ogni sorta di idee e
pratiche magiche.
La modernità è un fatto culturale, anche se la
parola richiama l’idea di una successione di epoche. Si ha quando una società
ritiene di aver fatto dei progressi rispetto ad una sua forma precedente, per
cui comprende meglio e più realisticamente i fatti della vita, e innanzi tutto
sé stessa, e sviluppa tecnologie più efficaci e potenti. E’ un processo che ha
caratterizzato tutta la storia dell’umanità e la gran parte delle culture
umane, ma solo dall’Ottocento, in Europa, la modernità è divenuta anche
ideologia e non comporta solo una constatazione di come un certo presente si
presenta a confronto con un suo passato ma anche propositi per il futuro.
Dall’Ottocento essere moderni significa anche voler essere sempre più moderni. In questa accezione modernità è strettamente connessa con progresso. L’obiettivo delle società moderne non è più stata la stabilità, ma il miglioramento
incessante sulla via della modernità.
Il processo di modernizzazione ha riguardato anche la religione, che fino
alla metà dell’Ottocento ha preteso di sbarrare la strada all’ideologia
della modernità, appunto perché
comprendeva anche una modifica del ruolo della religione nella società e una
diversa comprensione dei concetti e precetti religiosi. Il Novecento si è
aperto in Europa con l’ultima delle persecuzioni religiose attuate nella nostra
confessione, che è stata quella contro il modernismo.
All’inizio del Novecento, la battaglia della religione contro la modernità scientifica era già persa, ma era ancora in corso quella
contro la modernità sociale, che
riguardava concezione e costumi sociali. Un portato di quest’ultima era la democrazia, contro la quale il papato romano combatté
strenuamente in Italia fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, quando
provò a trovare un accomodamento anche in questo campo. Ma il divieto assoluto
di modernizzare rimase in campo religioso e si dovette
arrivare agli anni Sessanta del secolo scorso per un primo cambiamento. Bisogna
anche dire che la pretesa della modernità di svelare la natura e la
dinamica dei fatti sociali colpiva anche la religione con l’accusa, senz’altro
in genere fondata, di essere stata lo strumento con cui le classi dominanti
avevano asservito le masse popolari, fascinandole con una serie di miti, di fantasiose narrazioni che si
pretendeva descrivessero fedelmente la realtà. Questa prospettazione veniva
fatta sia dai democratici liberali, che dominarono il Regno d’Italia dalla sua
fondazione nel 1861 all’avvento del fascismo mussoliniano nel 1922, sia dai
socialismo, il movimento politico che in Italia si sviluppò nella seconda metà
dell’Ottocento: per il socialismo ottocentesco la liberazione sociale delle
classi di quelli che stavano peggio avrebbe dovuto comportare anche la
liberazione delle masse dai miti religiosi. Quest’ultimo compito fu assunto con
molto impegno e rigore dal comunismo sovietico, regime che nel 1917 si
impadronì dell’impero zarista russo, e dai regimi che ad esso si ispirarono o
da esso comunque vennero imposti.
Nel corso del Concilio Vaticano 2° si venne
ad una nuova sistemazione culturale: la modernità venne accettata ma
essenzialmente con fatto laicale, destinato a rimanere in quello che venne
definito il temporale, nel senso di soggetto a rapidi
cambiamenti e quindi opposto all’eternità
che caratterizza la dimensione
soprannaturale. I laici vennero incoraggiati a trattare degli affari temporali, sviluppando una competenza autonoma, nel senso che, se dovevano
pilotare un aereo di linea, dovevano farlo secondo le regole della fisica e
della tecnologia aeronautica, non confidando sulle proprie concezioni religiose
e prendendo come riferimento i testi di teologia. Nelle questioni relative al soprannaturale ci si propose di introdurre aggiornamenti e, innanzi tutto, di
studiare di più e meglio le Scritture. Questo può sembrare un portato della modernità, e lo è effettivamente, ma,
per non violare certi divieti religiosi che vennero mantenuti (per cui non ci
fu mai un’ammissione di colpe per la persecuzione antimodernista, che oggi a
molti appare veramente sconsiderata), si presentò la cosa come un ritorno alle origini, quindi come un tornare indietro, alla purezza dei primi
tempi, quando si era molto più vicini alla prima predicazione del Maestro, per
cui si supponeva che si fosse anche più vicini alla verità eterna. Questo ha configurato una modernità di tipo religioso,
quindi non ostile e incompatibile con la religione, per cui, ad esempio, in
Vaticano i Papi mantengono dal 1936 un consiglio di scienziati, che dagli anni
’76 possono essere credenti e non credenti, conta solo la competenza nelle cose
temporali.
Ora, l’atteggiamento dei saggi del Concilio
nei confronti della modernità è diventato comune a tutte le culture che
hanno avuto uno sviluppo tecnologico seguendo gli europei. Vale a dire che,
come sostengono i sociologi Berger, Davie e Fokas nel libro che ho sopra
citato, non c’è più solo una modernità, in particolare quella europea di
tipo antireligioso, ma più modernità, alcune delle quali democratiche e
altre democratiche, alcune delle quali religiose e altre secolarizzate, vale a
dire portate a confinare la religione nel privato individuale escludendola
nelle scienze e marginalizzandola in società. I menzionati autori citano ad
esempio una modernità russa ispirata
dall’Ortodossia, una modernità islamica,
una modernità indiana hindu e anche una modernità integralmente cattolica che a loro dire è stata realizzata
con successo dall’Opus Dei.
Bisogna dire che il riparto di competenze stabilito dai saggi dell’ultimo Concilio, un
grande progresso negli anni Sessanta scorsi, non soddisfa più.
Voleva essenzialmente ripartire le competenze tra clero e laici, quando già
però questa distinzione non era più attuale, in particolare in Italia, dove il
clero era stato determinante nei fatti sociali temporali in particolare a
partire dai processi democratici a cavallo tra Ottocento e Novecento, e i laici avevano messo bocca ampiamente
nelle questioni del soprannaturale,
vale a dire anche nella teologia, in particolare contestandone il carattere
arretrato e antidemocratico.
A quale modernità facciamo riferimento in
parrocchia? Ne vedo proposti più di una, ma in genere non esplicitamente
(essere moderni nella nostra confessione induce ancora un
certo sospetto di indisciplina ideologica, se non di vera e propria eresia).
Ognuno pensa che la sua sia quella giusta. E anche questa è una situazione moderna, perché la modernità comprende in
genere (non sempre) anche un certo pluralismo, e comunque la modernità europea nasce come pluralista.
35. Crisi della parrocchia e crisi della politica
La gente viene molto meno in parrocchia
che negli anni ’70 e quando ci viene è restia ad impegnarsi: viene
prevalentemente per consumare servizi religiosi. E’ un
riflesso della crisi della politica, per cui sono spariti i partiti che
vengono considerati tradizionali. Si tratta, in realtà, di
una metamorfosi della società molto profonda che è stata descritta
scientificamente dalla sociologia più recente. La sociologia si propone
di capire la società e di prevederne gli
sviluppi: ai tempi nostri non riesce più a fare bene il secondo lavoro
perché la società evolve in modo molto più caotico di una volta. Mio zio
Achille fu un grande sociologo italiano, insegnava all’università di Bologna in
un corso avanzato e, da scienziato sociale, parlava e scriveva
molto difficile. Cercò anche di essere un divulgatore e in
questo era molto ascoltato. Le sue conferenze erano sempre piene di
gente. Scrisse anche alcuni libri per spiegare ciò che accadeva nella società
del suo tempo e, in particolare, nella Chiesa. I due sicuramente più importanti
furono: Toniolo: il primato della riforma sociale, per ripartire dalla
società civile, del 1978, e Crisi di
governabilità e mondi vitali del 1980, oggi introvabili.
Volevano divulgare, ma rimanevano libri difficili. Mio zio
Achille, quindi, era molto più ascoltato che letto.
Dalla metà degli anni ’70 alla metà degli anni 80, un decennio fondamentale per
la trasformazione della società italiana, fu molto ascoltato in
particolare nel partito principale di governo, la Democrazia
Cristiana(era membro del suo Consiglio nazionale), e dal mondo cattolico.
Alcune strategie tentate all’epoca per rivitalizzare politica e Chiesa furono
sostanzialmente ispirate dal suo insegnamento. Mi pare che l’apice della sua
influenza in entrambi i mondi si toccò nel 1986, quando la Festa
Nazionale dell’Amicizia, la grande festa annuale del partito, si tenne a
Cervia, in Romagna, nella piazza davanti a casa sua. All’epoca consigliava al
partito, ma anche ad esempio alla FUCI, di fare grandi raduni nazionali in
piccoli paesi, per impregnarli totalmente ed evocare così una realtà di mondo
vitale, vale a dire di quella collettività che dà
senso all’esistenza umana. Per lui la crisi di questi mondi
vitali era alla base di quella della società nel suo insieme. La cura
per la società era quindi quella di rivitalizzarli. Poi tutto cambiò molto
velocemente in Italia, in politica e in religione, e iniziò la situazione in
cui ci troviamo adesso e da cui non riusciamo a liberarci, anche se ci causa
tanti problemi. La metamorfosi accadde a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni
’90, come manifestazione acuta di una crisi iniziata nei
vent’anni precedenti e progressivamente aggravatasi. Il partito si dissolse e
la Chiesa cambiò profondamente, seguendo la via proposta da Karol
Wojtyla. Mio zio criticò pubblicamente il vescovo della sua città sulla
questione degli immigrati, che il vescovo preferiva fossero cristiani, e fu
duramente e lungamente emarginato. Non fu più ascoltato né letto dalla
generalità. Fu ancora letto dagli scienziati sociali e
dagli amministratori che si occupavano di sanità e assistenza agli anziani, il
suo campo principale di studio e di azione negli ultimi anni. Per diversi anni
amministrò uno dei principali ospedali ortopedici nazionali, il Rizzoli di
Bologna. Fu lui a ideare il CUP, il Centro Unico di Prenotazione, che
ebbe in Emilia Romagna la prima organica attuazione. Egli, sostanzialmente,
fece poi la fine del grillo parlante nella favola di
Pinocchio. Ma la storia gli ha dato ragione. Ho sempre pensato che la sua sorte
fosse dipesa dal fatto di non riuscire ascrivere nel linguaggio
comune della gente. Ascoltare non basta, per generare
fatti profondi occorre poter leggere. La nostra fede non è, in
fondo, basata su Scritture? In questa prospettiva, potete
capire perché mi addolora tanto la dispersione della biblioteca parrocchiale,
che, per ciò che so, è stata attuata molto velocemente e per motivi che non ci
sono stati spiegati, e mi auguro siano stati buoni motivi. Quando si è
insediato il nuovo parroco, già non c'era più. Probabilmente il fatto
è dipeso da spese indifferibili che occorreva fare o dalla necessità di
venire incontro alle molte famiglie in difficoltà che assistiamo, che in questi
anni sono sempre più aumentate: in questi casi in famiglia ci si priva anche
dei gioielli più cari. Faccio delle ipotesi: in realtà non è stata
fornita alcuna spiegazione.
Il sociologo Zygmun Bauman fu, invece,
molto più letto che ascoltato. Egli non
aveva con una Chiesa e con un partito un rapporto forte come quello di
mio zio Achille. Quindi, se non avesse saputo farsi leggere, non
sarebbe stato inteso, perché pochi erano disposti semplicemente ad ascoltarlo.
Il suo libro divulgativo fondamentale è Modernità liquida, del
2000, in Italia pubblicato da Laterza, €16,00, che si trova anche in e-book. Lo
consiglio come libro di testo ai gruppi di approfondimento dell’impegno
politico e sociale che sorgono nelle parrocchie dopo le esortazioni contenute
nell’enciclica Laudato si'. In quel libro viene spiegato che cosa
sta succedendo nel mondo di oggi e perché sta diventando tanto diverso da
quello che c’è stato fino agli anni ’80. Bauman ha scritto molti altri
interessanti libri divulgativi, che fondamentalmente approfondiscono i temi
di Modernità liquida. Bauman è morto il 9 gennaio di
quest’anno, quando era molto anziano, e ora avremmo bisogno di un altro profeta come
lui.
In un certo senso mio zio Achille
e Bauman svolsero le funzioni che nell’antichità biblica ci si attendeva
dai profeti: spiegavano alla gente il senso ultimo di ciò che stava
accadendo. In mio zio Achille, rispetto a Bauman, la fede religiosa era una
componente fondamentale, in un modo che i suoi discepoli faticano a spiegare,
perché li imbarazza. Si pensa infatti che la sociologia, come le altre scienze,
debba mantenersi neutrale rispetto alle idee religiose, ma
certamente mio zio Achille in materia religiosa neutrale non
era, con riflessi nella sua attività scientifica e nella sua azione politica,
perché egli, oltre che scienziato sociale, fu anche un politico. Questo
gli consentì, per molti anni, dal Secondo dopoguerra, quando qui a Roma, con
Dossetti, partecipò con molti altri ingegni brillanti, all’ideazione della
nuova Repubblica democratica, fino agli anni ’80, quando tutto rapidamente
cambiò, di essere molto ascoltato, ma fu anche all’origine della
sua dura successiva emarginazione. Perché la nostra Chiesa è ancora strutturata
come un sistema totalitario, ed è insofferente del pluralismo e del dissenso,
in particolare quando si traduce in lesa maestà verso la
gerarchia, anche se si sforza di non esserlo (questo va riconosciuto,
soprattutto parlando di papa Francesco), ma proprio non le riesce. Ma quella,
dell'emarginazione o peggio, è appunto, in genere, la sorte deigrilli
parlanti quando parlano in società e alla
società, dicendo ciò che in società non si gradisce udire. Se però il grillo della
storia di Pinocchio si fosse limitato a scrivere, forse non
sarebbe finito acciaccato al muro, perché Pinocchio, incolto e
analfabeta, non lo avrebbe letto, e amen. Si dice
infatti che le parole dette volano, mentre quelle scritte rimangono, ma
se uno non sa, non può o non vuole leggerle, queste ultime diventano inutili.
Però le rivoluzioni, i cambiamenti radicali, sono guidate da quelle scritte.
Bauman sostiene che si sta passando da
una società di cittadini ad una di consumatori e
questo sta sfasciando i rapporti sociali, perché ognuno non solo pensa di poter
fare da sé, ma è anche spinto a farlo: se non lo fa, non merita. In
definitiva era anche l'analisi di mio zio Achille, benché riferita ad una
situazione in cui certi fenomeni erano appena gli esordi. L'ideologia consumista distrugge
i mondi vitali che davano e danno senso alle vite delle
persone. Quelle vite ora frullano qua e là disordinatamente, andando dietro
all'infinita generazione di desideri, mai appagati, come vuole appunto
l'ideologia consumista. Un tempo l'appagamento si trovava
nelle relazioni di mondo vitale, ma anche ora è così e infatti è comune
nei consumatori la sensazione di inappagamento.
Un cittadino non è solo uno che vive in
società, ma è una persona che ha una qualche voce in capitolo in essa e di cui
comunque la società non vuole fare a meno. In una società di cittadini si
cerca di ridurre al minimo gli scarti sociali.
Questo accade sia nelle società democratiche che in quelle totalitarie. Bauman
sostiene che questo era legato con il sistema sociale dell’economia, che aveva
necessità di riserve umane in buona salute, da impiegare
all'occorrenza nella produzione. La prima legislazione sociale in favore dei
lavoratori, quella britannica dell'Ottocento, partì dalle constatazione che la
salute dei lavoratori, nelle grandi città industriali, stava rapidamente
peggiorando.
In una società di consumatori,
sostiene Bauman, conta solo il credito al
consumo che si ha, per cui ci sono molti scarti umani dei
quali non mette conto di prendersi cura perché non hanno credito e
quindi non servono al sistema. La loro sofferenza umana
non conta e li si squalifica perché sono nella condizioni di scarti:
si pensa che sia colpa loro l'essere stati scartati, perché non
hanno meritato abbastanza. Si fossero dati da fare, non
sarebbero diventati scarti. In realtà è la società che decide chi scartare.
Prende dalle persone tutto quello che possono dare, e finché ne hanno;
poi, quando ne rimangono senza, ad esempio perché diventano anziane o malate o
tutte e due, le scarta. I poveri che vengono da fuori, gli immigrati
economici, come vengono definiti, automaticamente vengono inseriti tra
gli scarti. Se si pensa che ognuno debba risolvere da sé i propri
problemi, meritando, la società non deve più occuparsi di
lui, diventa inutile farlo. In un certo senso però
diventa inutile anche la stessa società, in particolare nella
sua dimensione politica, e, per questo motivo, essa si va sfasciando:
perché non serve più a certe cose. I problemi
sociali allora diventano problemi di sicurezza pubblica, da risolvere con la
polizia. Fondamentalmente lo stato, in quest'ordine di idee, un po’ secondo
l’ideologia del liberalismo della seconda metà dell’Ottocento, dovrebbe ridursi
al minimo, occupandosi di diritto, polizia e di protezione dei confini esterni.
Poi ognuno si arrangi come può: meriti.
Questo sviluppo della società del
nostro tempo ha colpito duramente ipartiti.
Si parla di partito tradizionale,
ma in che senso?
Il modello di partito tradizionale,
quello a cui pensiamo istintivamente quando parliamo di partito, è
sorto dopo la Seconda guerra mondiale, ed è stato il Partito Nazionale
Fascista - PNF. Quest’ultimo aveva preso a modello il partito comunista
bolscevico, che nella Russia zarista nel 1917 aveva preso il potere con una
rivoluzione violenta. Si trattava, quest'ultimo, di un partito organizzato come
un esercito, con una struttura gerarchica molto ben definita e rigida, in cui le
direttive scendevano dall’alto. I suoi iscritti erano militanti fortemente
ideologizzati. Il PNF mussoliniano volle essere qualcosa di simile,
comprendendo però, obbligatoriamente, tutta la gente, senza più distinzione di
classi, di fatto cristallizzando la situazione di dominio di classe esistente.
Mussolini si formò politicamente nel socialismo italiano, differenziandosene
sempre più alla vigilia della Prima Guerra Mondiale sulla questione della
partecipazione alla guerra, a cui si manifestò favorevole dopo che prima era
stato di contraria opinione. Egli considerava la partecipazione alla guerra,
quindi la milizia bellica, il fattore per
unificare politicamente e militarmente il popolo italiano, per iniziarlo
velocemente alla milizia politica, e vide giusto. Fu infatti
proprio dai reduci di quella guerra che scaturì la classe dei primi militanti
fascisti.
Il partito comunista bolscevico,
strutturato secondo l’ideologia di Lenin[Lenin, Vladimir
Il′ič. - Pseudonimo del rivoluzionario e statista russo Vladimir Il′ič Ul′janov(
Simbirsk1870 - Gorki, Mosca, 1924 - fonte:
http://www.treccani.it/enciclopedia/vladimir-il-ic-lenin/] era un partito
di classe. In una società, quella russa zarista, dominata da una vasta
classe di nobiltà terriera, quindi in un impero in cui una classe di nobili di
fedeltà zarista dominava su masse di contadini, quel partito si proponeva di
annientare, anche fisicamente, la classe dominante, affidando il potere a una
classe di rivoluzionari di professione che mutasse con la
forza il sistema economico, politico e sociale per metterlo al servizio
dei bisogni della classe dominata e, inoltre, di
costruire l’uomo nuovo vale a dire di fare delle masse un popolo di
militanti ideologicamente consapevoli, quindi con una
coscienza di classe. Questo programma politico comprendeva anche
l’annientamento dell’influenza politica della Chiesa ortodossa, che era
fortemente federata con il sistema zarista. Il PNF era invece un partito corporativo.
La sua ideologia si proponeva di fare del popolo italiano, in tutte le sue
componenti, una massa militante, ma comprendendovi tutte la
classi sociali, sia quelle dominanti che quelle dominate, cristallizzando i
rapporti di forza che vedevano i pochi dominare sui più. Nell’Italia degli anni
’20 le classi dominanti erano la grande borghesia industriale settentrionale e
quella agraria. La nascita del PNF fu appoggiata da entrambe queste componenti.
Il corporativismo però non rientrava nell’ideologia socialista dalla quale
proveniva Mussolini. In particolare, all'origine il fascismo era anti-borghese.
Il corporativismo rientrava invece nell'ideologia della dottrina sociale
moderna della Chiesa cattolica, a partire da quella che viene considerata la
sua prima manifestazione, l’enciclica Le Novità, del 1891,
diffusa del papa Vincenzo Gioacchino Pecci, in religione Leone 13°. Il
corporativismo della dottrina sociale concepiva la società come un corpo
vivente, in cui ognuno aveva una sua funzione importante, in cui quindi tutte
le classi dovessero collaborare nell’interesse comune, ciascuna persona però
restando al proprio posto, di privilegiata o di non privilegiata, ricca o
povera. Si considerava impossibile eliminare l'ingiustizia sociale: essa
poteva essere solo mitigata (lo si afferma esplicitamente nell'enciclica Le
Novità). Il suo modello era il corporativismo medievale, nel quale
datori di lavoro e lavoratori erano inquadrati in corporazioni di
mestiere e c’era solidarietà nelle singole corporazioni e tra le corporazioni,
nel quadro di un'organizzazione politica cittadina. In questo quadro, nella
prima dottrina sociale, il conflitto sociale veniva dissimulato, il
sindacalismo sconsigliato, lo sciopero vietato. Era una visione premoderna e
irrealistica, come Giuseppe Toniolo cercò incessantemente di far capire ai Papi
della sua epoca, con scarsi risultati. Il fascismo mussoliniano l’adottò come
base della sua rivoluzione sociale. La pace sociale venne imposta dal regime,
non era frutto di accordi sociali. Comportando la cristallizzazione dei
rapporti di classe, venne appoggiata dalla classe dominante, la borghesia
italiana di quel tempo. Ma anche le masse speravano in un tornaconto. Ognuno
doveva rimanere al proprio posto, ordinatamente: se lo faceva il regime
garantiva che ci si sarebbe presi cura di lui, attraverso una vasta rete di
istituzioni sociali che effettivamente vennero costituite. Aderire al
fascismo, prendere la tessera, e impegnarsi pubblicamente a
seguirne l’ideologia, divenne obbligatorio solo per chi volesse impieghi
pubblico, per gli altri era raccomandato come segno di buona condotta sociale.
In un certo senso l'adesione al fascismo era una specie di assicurazione
sociale. Il dissenso, l'eresia, come in religione, venne condannato in quanto
metteva a rischio l'integrità del corpo sociale e il benessere che
esso diffondeva attraverso le sue istituzioni. Negli anni ’30 l’adesione
degli italiani al fascismo divenne quasi totalitaria e nel 1931, il papa
Achille Ratti, regnante come Pio 11°, nell’enciclica sociale Il
Quarantennale, in occasione dei quarant’anni dalla prima enciclica
sociale Le Novità, invitò i membri dell’Azione Cattolica a
collaborare nelle istituzioni corporative fasciste. Si realizzò così, a
quell’epoca, una profonda integrazione tra Chiesa cattolica italiana e regime
fascista, mediante la quale entrambe le istituzioni si rafforzarono nel popolo
italiano. Il PNF divenne il Partito della Nazione, il partito unico
degli italiani, ciò che nessun partito del Regno d’Italia era mai potuto essere
prima per la strenua opposizione politica del papato romano, che ostacolava la
partecipazione dei fedeli cattolici alla politica democratica dello Stato a
causa della conquista del Regno pontificio da parte del Regno d’Italia: la
cosiddetta questione romana. La controversia fu risolta nel 1929
con una serie di accordi, complessivamente denominati Patti Lateranensi,
conclusi dal papa Achille Ratti con il Regno d’Italia rappresentato dal
Mussolini. Questo patto tra Chiesa e Stato, così come il fascismo, sarebbe
potuto durare molto a lungo, come nella Spagna di Francisco Franco (il suo
regime fascista morì con lui, nel 1975) e nel Portogallo di Antonio De Olivera
Salazar (il suo regime fascista gli sopravvisse e durò fino al 1974), se il
Mussolini fosse rimasto neutrale nella Seconda Guerra Mondiale, come Franco e
Salazar. Ma l’ideologia del Mussolini era fortemente bellicista e lo spinse a
seguire la Germania nazista e gli altri regimi fascisti suoi alleati nel
conflitto. Non potendo realizzare una vera giustizia sociale mediante una più
equa redistribuzione di risorse tra gli italiani, il regime si proponeva di
predarle ad altri popoli, come altre nazioni europee facevano da tempo. La
sconfitta bellica ruppe il patto ideologico con il papato e l'incantamento
verso gli italiani. Ma ancora negli anni Cinquanta la gerarchia cattolica
simpatizzava per il franchismo spagnolo: se ne lamentava Lorenzo
Milani.
La Chiesa, con il patto concluso nel 1929, recuperò una potente capacità
di influenza nel popolo italiano, in particolare attraverso il sistema
scolastico. Vide inoltre contrastati duramente i suoi principali nemici
dall'Ottocento: il liberalismo e il socialismo atei e, in Italia, atei
essenzialmente in quanto anticlericali, ritenendo la Chiesa un ostacolo
all'emancipazione delle masse come lo era stata nel processo di unificazione
nazionale.
Nel dopoguerra, una parte
dell’ideologia corporativa fascista, di matrice cattolica, fu inglobata
nell’ideologia del partito cristiano (come lo chiamava lo
storico Gianni Baget Bozzo), la Democrazia Cristiana. Da corporativismo divenne interclassimo:
in ambiente democratico la collaborazione delle classi non fu più imposta, ma
raccomandata e perseguita politicamente, con una serie di riforme sociali e
anche mediante l'intervento pubblico nel sistema economico. La Democrazia
Cristiana, sulla via della dottrina sociale della Chiesa, pensava ad uno stato
che si occupasse dei bisogni di tutti e introducesse norme che prevenissero il
conflitto sociale, impedendo forme estreme di sfruttamento in danno della
classe lavoratrice. Si parlava di stato sociale, perché
l’iniziativa privata e la proprietà dovevano trovare un limite nell’utilità
sociale. Poi, con espressione più moderna, di welfare state, stato
per il benessere collettivo. Il principio che nei rapporti di lavoro dipendente
il lavoratore dovesse avere un’equa retribuzione, non solo proporzionata al
lavoro svolto, ma anche sufficiente per mantenere una vita dignitosa per lui e
per la sua famiglia. divenne una norma costituzionale, all’art.36 della
Costituzione.
A cavallo tra gli anni ’80 e
’90 la concezione della società come di un corpo organico venne
progressivamente abbandonata. Al fondo di ciò c’era l’idea che, nel sistema
economico globalizzato, dove occasioni di profitto potevano trovarsi in tutto
il mondo e non più solo all'interno di un singolo sistema statale, in un mondo
senza più frontiere per il capitale, non tutti erano veramente necessari
per il benessere collettivo. C’era gente di scarto che era solo un peso
sociale. Le pensioni agli anziani e l’assistenza sanitaria gratuita
alla popolazione cominciarono ad essere considerate solo come un costo. Del
resto l’industria dimostrava di poter fare sempre più a meno di mano d’opera e,
comunque, di poterla sostituire rapidamente ed efficacemente, spostando
produzioni e richiamando altre persone. Il sistema economico non aveva più
bisogno di riserve umane in buona salute. Chi merita,
vale a dire trova un modo di cavarsela, ha diritto di sopravvivere, gli altri
no: per loro c’è solo l’assistenza caritativa, lasciata al buon cuore degli
altri. Chi protesta crea un problema di sicurezza pubblica, da risolvere
mediante la polizia. Ma la gente protesta sempre meno: in fondo è convinta della
bontà dell’ideologia meritocratica. Solo, spera di essere nella parte
che merita, e, se non riesce ad esserlo, se ne vergogna, si
colpevolizza. Se lo stato non è più sociale, non assicura più
di occuparsi dei bisogni fondamentali di tutti, perché parteciparvi? La
corporazione sociale si è sciolta, ognuno fa per sé. I conflitti di classe che
sono sempre rimasti attivi, solo mitigati dalla legislazione sociale sul lavoro
che però progressivamente in questi anni si sta cercando di rendere meno
pervasiva e incisiva, esplodono liberamente e allora vince il più forte, come
nella legge della giungla, animale grosso mangia animale piccolo. I rapporti di
lavoro non sono mai paritari: c’è sempre una parte più forte, che è quella dei
datori di lavoro, ed è questa che prevale. La politica, in questa situazione,
diviene inutile, così come la società, e lo è anche
quella, virtuosa, ancora diffusa dalla dottrina sociale, quella che oggi si
vuole approfondire in parrocchia. Ecco perché la gente non viene in parrocchia
quando si parla di questi temi. La soluzione? E’ difficile, impegnativa, e
riguarda la politica come la parrocchia. Occorre innanzi tutto avere una
visione realistica della società e comprendere che los carto è
generato da ristrette classi dominanti; che chi soffre non è che abbia demeritato, ma
soffre perché è vittima della legge della giungla del capitalismo globale; che
quando si va da soli alla guerra secondo la legge della giungla si
è vittima dei più forti; che però una reazione collettiva di massa può ancora
cambiare le cose. E, quindi, innanzi tutto, ripeto: conseguire una visione
realistica delle dinamiche sociali.
Un indizio della causa di ciò che
accade, dei mali sociali, è nella proposta, che viene da più parti, di un reddito
di cittadinanza. Sembra una stranezza, ma molti economisti lo consigliano
per tenere in piedi la società. Non solo funzionerebbe, secondo loro, ma
occorre per mantenere in piedi il sistema consumistico. Un
tempo lo stato si occupava dei bisogni della gente e distribuiva risorse che
poi venivano spese, si traducevano quindi in consumi di
massa; ora che non se ne occupa più perché ci si è trasformati da
cittadini a consumatori e ognuno fa per sé, accade che la platea dei
consumatori si riduca sempre di più, man mano che la legge della giungla fa le
sue vittime e produce i suoi scarti umani. Così però il sistema
rischia di saltare per insufficienza di consumatori: ecco la necessità
di crearne artificialmente recuperando una parte degli scarti.
E' una cosa che nelle politiche di governo degli ultimi anni ha prodotto,
ad esempio, elargizioni più o meno generalizzate degli "80 euro". Che
significa, in fondo? L’attuale sistema economico globalizzato va verso la
rovina se lasciato alle sue dinamiche selvagge; va verso l’autodistruzione,
perché si occupa di porzioni progressivamente sempre più piccole di
popolazione, incrementando le diseguaglianze sociali. Seguendo l’ideologia
della globalizzazione non riusciremo più, a lungo andare, a garantire la
sopravvivenza sul pianeta di sette miliardi di persone, sempre in aumento. Alla
fine il sistema si bloccherà. E’ necessario quindi cambiare, ma non lo si potrà
fare che collettivamente, con movimenti di massa, questa volta però sulla base
di un cambiamento interiore molto più profondo, non solo politico,
ma anche di natura religiosa perché legato al senso
della vita, come appunto quello che viene raccomandato nella Laudato
sì, perché, ed è questa la novità di ciò che accade oggi, ognuno,
ogni consumatore, proprio consumando, si fa carnefice
di una parte dell’umanità, rafforzando il sistema che genera la sofferenza
sociale e che, infine, travolgerà anche lui. Non si può quindi cambiare
il mondo che sta per travolgerci senza cambiare noi stessi,
riscoprendo, così facendo, la cittadinanza.
36.
La religione come problema sociale
Negli anni ’80 si visse in Italia una fase di riflusso sociale,
di disimpegno e ritorno nell’individualismo personale, fenomeno che coinvolse
anche l’aspetto religioso e il nostro
quartiere. Sembrò allora che il pluralismo avrebbe significato dispersione e
avrebbe compromesso la residua efficacia della proposta religiosa della
parrocchia. Si perse fiducia nelle spiritualità fondate su dialogo e
pluralismo: il primo come mezzo per comporre il secondo in una collettività
armoniosa.
Le religioni sono fatti sociali. Servono a dare stabilità
alle società. L’etica che diffondono è molto importante. Per dare
stabilità, inglobano una certa dose di fondamentalismo e
di integralismo. Fondamentalismo è quando si cerca
di mantenere costanti alcune concezioni, integralismo è
quando si cerca di contrastare le tendenza all’assimilazione da parte di altri
gruppi. Il compito di dare stabilità alle società è
fondamentalmente politico, e infatti fin dalle società
primitive le religioni hanno svolto un ruolo politico. Fede e politica sono
state sempre intrecciate strettamente. Una fede impolitica non può essere
considerata una vera religione, ma è essenzialmente magia: quando si crede che
certi riti possano cambiare le cose. Le religioni basate sul soprannaturale
hanno sviluppato in genere una complicata teologia e una raffinata
giurisprudenza, per stabilire ciò che è buono e ciò che non lo è, ma fondandosi
su relazioni con l’invisibile sono anche piuttosto duttili e questo consente un
loro adattamento alle esigenze politiche dei tempi. Chi può smentire certe
affermazioni? Trovano una sponda nell’emotività umana e sono state in un certo
senso l’archetipo di ogni persuasore occulto. Le moderne tecnologie
di marketing vi si richiamano implicitamente, facendo
risaltare la fondamentale irrazionalità delle scelte del consumatore e
proponendo quindi immaginifici miti di consumo, vere proprie religioni del
consumo con proposte salvifiche. Le grandi religioni storiche hanno mantenuto
costanti certi connotati, ma si sono profondamente evolute, e ciò è
particolarmente vero per la nostra. La nostra religione non è assolutamente
quella stessa delle origini. Questo risalta particolarmente se si considerano
le concezioni politiche ad essa correlate. Ora, non è la fantasiosa mitologia
espressa dalle religioni che in genere costituisce un problema sociale, ma la
politica che esse esprimono, e che riguarda, in particolare, le relazioni tra i
fedeli e tra questi ultimi e la società intorno. Dall’ultimo conclave ci è
venuto nel 2013 un capo, un Padre,
dall’altra parte del mondo, che ci ha portato la voce di comunità tanto
diverse da noi, e in particolare di un organismo vivace e innovatore come il
CELAM il Consiglio episcopale latino americana. Ho letto che
l’esortazione La Gioia del Vangelo e l’enciclica Laudato
si’, contengono molto di un documento molto importante prodotto
dal Celam, al termine della Conferenza di Aparecida, nel maggio del
2007. Su suo impulso si è cominciato a
cambiare orientamento negli affari sociali, proponendo una diversa concezione di politica
di ispirazione religiosa, vale a dire quella che non considera più il
pluralismo una minaccia, che spinge a eliminare le dogane che controllano i
flussi con ciò che è all’esterno degli spazi liturgici e, anzi, invita a uscire
fuori delle nostre chiese per intessere nuove relazioni virtuose con la gente
intorno, innanzi tutto per partecipare alla risoluzione dei problemi comuni, a
partire da quelli minimi, come la fontana di quartiere. Siamo
quindi spinti a ridurre la quota di fondamentalismo
e di integralismo delle nostre spiritualità. Ciò non significa
creare un mondo dove le posizioni religiose di prima siano ribaltate, i
dominatori di un tempo ridotti a sconfitti, e gli sconfitti di un tempo nel
ruolo di dominatori, ma creare un’organizzazione dove non vi siano più
dominatori e sconfitti, inclusi ed esclusi. Significa anche essere capaci di
relazioni sociali virtuose, amichevoli e solidali tra diversi orientamenti, non
quindi al modo delle assemblee condominiali in cui si decide insieme pur
detestandosi e aspettando il momento di cancellare l’opinione difforme. Finora
abbiamo diffidato gli uni degli altri, non perdendo occasione per azzannarci e
aspettando il momento in cui ogni presenza diversa dalla nostra cessasse per
estinzione naturale o per ordine dell'autorità; ora, come dice sempre il
parroco qui a San Clemente papa, bisognerebbe cominciare a volerci bene.
Questo però richiede, per cominciare, un atteggiamento che in genere è
molto difficile da ottenere, in particolare da chi a lungo si è abituato ad
avere mano libera: l’autocritica. Senza di questo non si inizia neppure. Senza
di questo gli egemoni di un tempo saranno solo gli sconfitti di oggi,
aspettando la rivincita al prossimo conclave. Ci si continuerà
francamente a detestare e su questo non può crescere nulla di buono. Il seme
cadrà tra le pietre e le spine e il seminatore sprecherà il suo tempo e la sua
fatica.
37. Prepararsi a lavorare in società
Il modello di pratica religiosa che a
lungo è prevalso in Italia è stato quello della fede come medicina dell’anima.
Ci si metteva a scuola di spiritualità per sanare ferite invisibili. Questa
esigenza ha conformato le comunità orientandole verso l’interno. Poiché la
dottrina era stata ideata per altri scopi, la si è integrata: analogamente si è
fatto con la liturgia. E’ una tendenza molto diffusa nel mondo e, anzi, la
possiamo considerare al centro della de-secolarizzazione che è in corso a
livello globale. Si riprende ad avere fiducia nelle spiegazioni delle
religioni, ma più che altro nelle questioni più personali e nelle relazioni di
prossimità.
In questo quadro irrompe il pensiero di
Bergoglio/Francesco che è situato su un altro livello e chiama alla grande
politica, a livello globale. La gente in Italia è impreparata a questo, ma non
solo in religione, più in generale a livello di cittadinanza. La crisi delle
istituzioni statali è proceduta parallela a quella delle istituzioni religiose.
Lo ha notato, ad esempio, lo storico Paolo Prodi, morto recentemente, in un
articolo dal titolo Senza Stato né Chiesa - L’Europa a cinquecento anni
dalla Riforma, pubblicato sull’ultimo numero della rivista bolognese Il
Mulino. A questo problema si è cercato di rimediare in Italia con il Progetto
culturale della Conferenza Episcopale Italiana (informazioni su
http://www.progettoculturale.it/), per recuperare una capacità di intervento
sulle ideologie-guida della società e della politica italiane. Si è cercato
anche di recuperare una certa unità tra le visioni di fede correnti nelle
nostre collettività, al sevizio dell’universalità delle proposte, e questo ha
depresso il dialogo, per cui è sembrato che si preferisse far cadere certe idee
dall’alto.
Nella nostra parrocchia, con il
nuovo corso, inaugurato nell’ottobre 2015 con l’arrivo di un nuovo parroco e di
una nuova squadra di preti, si è avviato un processo di formazione
all’intervento sociale, inaugurato da un incontro con don Luigi Ciotti e
proseguito sistematicamente con l’approfondimento di temi della dottrina
sociale, innanzi tutto per spiegarne i principi fondamentali. Questa attività
ha però coinvolto in prevalenza coloro che, fin da giovani, erano stati
abituati a cose come queste, vale a dire persone che oggi sono
ultracinquantenni. E, nonostante la vivace animazione degli amici del
ciclo Immischiati, quegli incontri sono stati vissuti
prevalentemente come conferenze. Non si è potuto verificare il punto di
partenza culturale degli uditori, né verificare quanto e come avessero recepito
di ciò che era stato loro proposto. Quindi quest’anno si stanno utilizzando
tecniche di laboratorio culturale per stimolare la
partecipazione. Ma i più giovani? Innanzi tutto i genitori dei bambini che ci
portano i loro figli al catechismo per la prima formazione religiosa? Si tratta
delle classi di età più attive, impegnate sul lavoro e in famiglia, quelle che
contano di più nell’immagine della società, quelle che hanno ancora le forze
per occuparsi dei più giovani e la pazienza per relazionarsi positivamente con
i più anziani, insomma le generazioni panino, strette
tra i doveri verso i più giovani e quelli verso i più anziani, i
trenta/quarantenni che mandano avanti le cose in società. Sono molto impegnati.
La religione come medicina dell’anima, in genere, non è loro utile. Quando si
corre tutto il giorno, spesso non si ha tempo per porsi certi problemi. Vivono
in una società in cui certi grandi ideali umanitari e le corrispondenti
politiche sono a rischio. C’è un senso religioso e politico di tutto questo e
in un documento come l’enciclica Laudato si’, del 2015, esso viene
sintetizzato. Si tratta di un testo che, in questo, è veramente molto diverso
dalla precedente letteratura pontificia. Ma richiede approfondimenti e
impegni di vita: si tratta di risanare la società, e a livello mondiale,
non le singole persone.
La religione come medicina dell’anima
si è sentita accusare, fondatamente, di essere solo un anestetico locale, una
droga dello spirito, per consolare artificialmente persone in catene sociali,
e, in questo senso, di essere, come gli stupefacenti, una specie di veleno. Ma
si tratta di una evoluzione piuttosto recente, una manifestazione della
crisi che ha coinvolto anche altre istituzioni pubbliche. Storicamente la
religione non si è mai concentrata solo sul privato e sul micro-mondo, tanto è
vero che ha cambiato profondamente, non sempre in bene, le società in cui si è
immersa. E’ a questo che, in particolare, ci si riferisce quando si parla
di radici religiose dell’Europa.
Il nostro problema è quello di
riavvicinare le classi più giovani al lavoro che si fa in parrocchia in vista
dell’impegno in società. Bisogna dire che, per un tempo lunghissimo, non c’è
stato più nulla che potesse veramente interessarle. Si riparte quasi da zero.
E, innanzi tutto, occorrerebbe organizzare spazi accoglienti per accogliere
quella gente. Sotto un certo punto di vista le attrezzature che servono per la
pratica religiosa - medicina dell’anima sono molto più semplici e meno costose.
Infatti in questo settore si lavora molto di fantasia. Se invece si vuole
proporre visioni realistiche della società, per iniziare a lavorarci sopra,
occorre di più. Gli strumenti e i luoghi vanno protetti, occorre stabilire
un’organizzazione, che sarebbe meglio fosse auto-organizzazione, e delle
regole. Sotto questo profilo in parrocchia si è ancora piuttosto disordinati, e
la conformazione delle stanze in cui si svolgono attività collettive cambia
continuamente. Abbiamo vissuto una sorta di privatizzazione delle
attività parrocchiali, che è stata corrispondente all’impostazione privatistica della
proposta religiosa, tutta centrata sul micro-personale.
38. I guai politici delle religioni tradizionali
E’ facilmente dimostrabile che i
problemi che le religioni tradizionali incontrano nelle società contemporanee
sono essenzialmente politici, quindi relativi alle questioni di governo
pubblico. Infatti la gente non manifesta alcun problema nei confronti di ogni
tipo di soprannaturale e di ogni sorta di immaginifica spiegazione in merito,
ma resiste a chi le vuole imporre che pensare, che dire, che fare, come
relazionarsi con gli altri.
Quello della laicità è
un problema essenzialmente politico e riguarda i rapporti tra una gerarchia e
un popolo che le è semplicemente soggetto. Non si manifesta solo in religione.
E’ stato osservato che esso si è prodotto anche nelle società post-comuniste
dell’Europa orientale.
Spesso si considera il termine laico come
equivalente a non credente, ma non è questo il punto. Storicamente,
negli ordinamenti religiosi della nostra fede, il laico è
stato costituito dalla presenza di un potere gerarchico esercitato da un clero.
Tra il popolo dei persuasi nella fede religiosa si è
prima enucleato un clero, a cui si è attribuito il governo,
la profezia, il sacerdozio, praticamente tutto in religione, e per sottrazione
sono risultati i laici, che progressivamente sono stati
assimilati al popolo intero, come se il clero non
ne facesse più parte.Popolo erano coloro che erano sudditi del
clero, al mondo in cui lo erano verso i signori feudali. In questo
l’organizzazione delle nostre collettività ha imitato quella delle società
civili sue contemporanee lungo i quasi due millenni del suo potere religioso.
Il problema dellaverità è venuto a coincidere con
quello dei gerarchi della verità: la verità era ritenuta tale
perché proclamata da un’autorità religiosa, dal clero. E’
quest’ultimo che non vuole essere relativizzato, che pretende di
rimanere sempre sul campo come assoluto. Quindi il problema del laicato non
riguarda tanto la libertà dalla verità, ma da gerarchi assoluti della verità.
L’impegno sociale ispirato dalla fede,
ciò che si fa rientrare nell’idea didottrina sociale, venne proclamato
inizialmente come verità di origine gerarchica, al modo degli altri
dogmi. In questo campo si è assistito ad una democratizzazione della
produzione di verità sociali, non senza persistenti frizioni: problemi,
appunto, politici.
La scelta religiosa che
l’Azione Cattolica fece negli anni ’60, dopo il Concilio Vaticano 2°
(1962-1965) viene presentata spesso come una presa di distanza dalla politica
espressa dal partito cristiano dell’epoca, dalla Democrazia
Cristiana. In realtà si è trattato di un processo molto più profondo. Si scelse
di liberare il pensiero sociale, e la conseguente politica, dal potere assoluto
della gerarchia, che era abituata a organizzare le masse di fedeli a sostegno
delle proprie istanze politiche e a richiederne l’obbedienza politica
senza tanti complimenti e discussioni. Al centro di questa processo fu l’autonomia del
laicato, che doveva essere conquistata attraverso un’impegnativa opera di
auto-formazione. Era questo un modo di vedere che fino ad allora era stato
proprio solo delle organizzazioni intellettuali di Azione
Cattolica, FUCI, Laureati, Insegnanti cattolici, medici e giuristi cattolici.
E’ stato difficile farne un’esperienza di massa, anche per le resistenze della
gerarchia, che si fecero sempre più pressanti sotto il lunghissimo regno
religioso del Wojtyla.
Si tratta di problemi che vediamo
ben rappresentati nell’organizzazione della nostra parrocchia. La gerarchia è
rappresentata dal parroco e dai preti suoi collaboratori e detiene tutto il
potere di tipo amministrativo, che si manifesta nel lavoro della parrocchia
come ASL spirituale, e civile, che riguarda, ad esempio, il patrimonio
parrocchiale. Il laicato è rappresentato da vari gruppi che
convivono ignorandosi, in una situazione di precario condominio, che, a ben
vedere, riguarda solo le questioni delle loro relazioni reciproche e poco di
più. Ma questi gruppi sono interessati quasi
esclusivamente a ciò che accade al loro interno e qui l’autonomia della persona
di fede ha poco campo per esprimersi. Si seguono metodi e orientamenti
predefiniti: ogni gruppo ha sviluppato una propria gerarchia, che a
volte ricalca quella del clero. Si ripropongono all’interno dei gruppi i
problemi dello sviluppo dell’autonomia laicale che caratterizzarono gli anni
Sessanta e Settanta su scala più vasta. Allora si trattò di suscitare
l’autonomia laicale delle masse verso la gerarchia, ora di tratta di suscitarla
nei gruppi, che, dal canto loro, hanno sviluppato un assetto
piuttosto rigido senza il quale si sentono persi.
In questa situazione non esiste
una vera comunità parrocchiale, come ideologicamente ce se la raffigura.
Andrebbe creata avanzando delle pretese verso le formazioni che attualmente
dominano la vita parrocchiale. E creando un’organizzazione parrocchiale che
consenta una vera partecipazione laicale. Si tratterebbe di suscitarla
pazientemente, perché la gente ha perso familiarità al lavoro collettivo e,
senza una formazione sufficiente, tutto decade ad assemblea di condominio. In
prospettiva dovrebbe potersi riunire un’assemblea parrocchiale, come quella che
dovrebbe eleggere alcuni componenti del consiglio pastorale. La gestione
patrimoniale della parrocchia dovrebbe essere spiegata ai parrocchiani in una
qualche forma, in modo da avere consapevolezza dei relativi problemi. Le offertedovrebbero
diventare contributi e dovrebbe essere spiegato come
questi ultimi sono impiegati. Le strutture parrocchiali sono utilizzate con
troppa libertà dai gruppi. Bisognerebbe dare delle regole più
stringenti e stabilire una cabina di regia in merito.
Il tutto è complicato dalla
circostanza che si stanno cambiando costumi che si erano cristallizzati in un
tempo lunghissimo, trent’anni, corrispondenti addirittura ad una
generazione.
Al fondo rimane il problema politico:
l’impegno sociale che si inizia nuovamente a pretendere pressantemente dai
fedeli deve farsi su base di autonomia laicale, per avere una visione
realistica della società e per radunare le competenze che occorrono per
intervenire. Questo richiedere di imparare a lavorare collettivamente, E
la religione da sola, e particolarmente certe sue immaginifiche
semplificazioni, non basta.
39.
Affrontare con uno stesso spirito la crisi religiosa e la crisi politica
Una volta raggiunta la consapevolezza che la crisi religiosa e
quella politica sono espressione di un medesimo processo, ci si può anche
convincere che le possibili soluzioni siano comuni ad entrambe e che, quindi,
lavorando sull’aspetto religioso si possa contribuire anche a migliorare quello
politico e viceversa. Questa convinzione è al centro del pensiero espresso
nell’enciclica Laudato si’.
I problemi della nostra organizzazione
comunitaria di fede sono analoghi a quelli degli stati. Del resto la nostra è
una confessione che ha voluto farsi stato. Viviamo in una situazione di
sostanziale anarchia, in cui religioni e stati faticano a mantenere il
controllo e, soprattutto, e qui mi riporto al pensiero di Zygmunt Bauman, sono
realtà confinate in limiti sempre più ristretti: si sta riducendo di molto la
competenza loro riconosciuta negli affari sociali. Ognuno è spinto a fare da
sé, a risolvere da sé i propri guai. Vengono progressivamente meno i correttivi
sociali agli abusi di posizioni dominanti. Si sta riproponendo una divisione in
classi della società: quella di chi domina il nuovo corso e quella, che
comprende la grande maggioranza della popolazione della terra, che è dominata.
Per chi riesce a entrare nella prima non vi sono più frontiere, per gli altri
le frontiere diventano sempre più impenetrabili.
Bauman osserva che in un regime di
interdipendenza globale, la mobilità, il poter andare dove ci sono le occasioni
più favorevoli, diventa una risorsa quanto mai preziosa ed ambita. La
desideriamo per i nostri figli e siamo orgogliosi quando riescono ad andare a
studiare o a lavorare all’estero, perché non ci vanno nelle condizioni dei
nostri migranti dell’Ottocento, ma come partecipi di una classe privilegiata.
Ma il 98% della popolazione mondiale, osserva Bauman, non si trasferisce mai
dal luogo di residenza: deve vivere e lavorare dove la sorte l’ha piazzata,
accettando quello che c’è. E questo contribuisce al nostro benessere, di
privilegiati che vivono in Occidente. Ci consente di acquistare a prezzi molto
bassi beni di consumo quotidiano, praticamente tutti.
Scrive Bauman in La società
sotto assedio, del 2002, pubblicato in Italiano da Editori Laterza:
“Allo smantellamento di tutte le
barriere che ostacolano il libero movimento del capitale e dei suoi agenti si
abbina l’erezione di nuove barriere, sempre più alte e scoraggianti , contro la
massa di persone desiderose di adeguarsi e andare là dove spuntano le
opportunità. Il viaggiare per profitto viene incoraggiato; il viaggiare per
sopravvivenza viene condannato, con grande gioia dei trafficanti
di «immigrati illegali» e a dispetto di occasionali ed effimere
ondata di orrore e di indignazione provocate dalla vista
di «emigranti economici» finiti soffocati o annegati nel vano tentativo di
raggiungere la terra in grado di sfamarli. Il mondo globalizzato è un luogo
accogliente e amichevole per i turisti, ma inospitale e ostile per i
senzatetto. Ai secondo è vietato seguire il modello instaurato dai primi, che
però, in fondo, non ea mai stato progettato per loro. Inoltre, qualora fosse un
modello liberamente perseguibile dalle grandi masse anziché un privilegio
esclusivo di una ristretta cerchia di persona ben protette, non
arrecherebbe certo quei vantaggi per i quali è stato vantato dai suoi
fautori e beneficiari”(pag.77-78).
E’ evidente la rilevanza anche religiosa della situazione.
C’è però difficoltà a capire che, quando
insorgiamo contro i migranti economici e vorremmo rispedirli a casa
loro, alla fine condanniamo anche noi stessi alla loro sorte, e in
particolare i nostri figli. I problemi della gran parte di noi hanno la stessa
causa di quelli di quei migranti. Sotto certi aspetti in Occidente beneficiamo
dell’economia globalizzata, che infierisce senza più freni pubblici sui
lavoratori che producono la gran parte delle cose di nostro uso comune,
ma questo comporta che anche da noi si segua la stessa linea
liberista e che, anzi, una delle residue funzioni degli stati sia proprio
questa. “Un obiettivo”, scrive Bauman in quel libro, “probabilmente
raggiungibile mediante costanti riduzioni fiscali, riducendo al minimo
indispensabile la regolamentazione delle condizioni di lavoro, pacificando o
imbavagliando le organizzazioni di difesa dei lavoratori, e soprattutto
non applicando alcuna restrizione al libero movimento in entrate e in uscita
del capitale. Nel complesso, la conditio sine qua [=la condizione
senza la quale = indispensabile] per rendere felici
gli «investitori globali» e indurli a cercare profitti nel proprio paese
anziché in un altro è rendere la condizione dei produttori e consumatori
locali il più precaria possibile” (pag.75).
Che c’entra la parrocchia con tutto
questo? C’entra se si riprende contatto con il quartiere, perché in
quest’ultimo sono presenti, su scala locale, tutti i problemi che si presentano
su scala globale. La dimensione locale fa sì però che li si possa affrontare
con una qualche efficacia tentando soluzioni di prossimità, ad esempio creando
o potenziando iniziative solidali, ricreando quella rete sociale di resistenza
che in passato ha funzionato molto bene e che ancora si intravvede nel vasto
fenomeno del volontariato. Se però la religione viene vissuta prevalentemente
come un gioco di ruolo, in comunità confinate e con pretesa di autosufficienza,
alla lunga diventa inutile.
In questi giorni nel gruppo
parrocchiale di AC stiamo meditando sulla beatitudine dei poveri
in spirito. I più ritengono che si debba fare uno sforzo per
diventare poveri in spirito, in quanto pensano di aver raggiunto un
certo benessere e, essendosi affrancati dalla povertà materiale, di essere
soggetti alla tentazione dell’arrogante autosufficienza. Abbiamo letto il
messaggio del Papa del 2014 in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù
di quell’anno, che trattava di quel tema e invitava a una conversione
verso i poveri, per rimettere al centro della cultura umana la solidarietà.
Se riuscissimo a capire che, in realtà, la nostra condizione si sta
progressivamente avvicinando a quella di coloro che ci appaiono realmente poveri,
e che in definitiva, lasciando le cose andare avanti così, non ci sarà più
tanto difficile ammettere di dover mendicare tante cose
che oggi sono ancora affermate come diritti, questa conversione ci
verrebbe più facile.
Mi pare che in
parrocchia ci siano due distinte visioni religiose dei problemi che stiamo
vivendo collettivamente, a cui corrispondono distinte e divergenti soluzioni.
Comporle non sarà facile. Autosufficienza religiosa o espansione solidale nello
spirito dellaLaudato si’?
40. La radice politica dei
problemi religiosi
Riporto in fondo il testo delle omelie del Papa nella
Veglia Pasquale e nella Messa nel Giorno nella solennità di Pasqua.
Eccone alcuni brani su cui vorrei iniziare una riflessione:
“[…] se facciamo uno sforzo con la nostra
immaginazione, nel volto di queste donne [Maria di Magdala e l’altra Maria nel
racconto della scoperta del Sepolcro vuoto in Mt 28,1-8] possiamo trovare i
volti di tante madri e nonne, il volto di bambini e giovani che
sopportano il peso e il dolore di tanta disumana ingiustizia.
Vediamo riflessi in loro i volti di tutti quelli che, camminando per la città,
sentono il dolore della miseria, il dolore per lo sfruttamento e la
tratta. In loro vediamo anche i volti di coloro che sperimentano il
disprezzo perché sono immigrati, orfani di patria, di casa, di famiglia; i
volti di coloro il cui sguardo rivela solitudine e abbandono perché hanno mani
troppo rugose. Esse riflettono il volto di donne, di madri che
piangono vedendo che la vita dei loro figli resta sepolta sotto il peso della
corruzione che sottrae diritti e infrange tante aspirazioni, sotto l’egoismo
quotidiano che crocifigge e seppellisce la speranza di molti, sotto la
burocrazia paralizzante e sterile che non permette che le cose cambino. Nel
loro dolore, esse hanno il volto di tutti quelli che, camminando per la città,
vedono crocifissa la dignità.
Nel volto di queste donne ci sono molti volti,
forse troviamo il tuo volto e il mio. Come loro possiamo sentirci spinti a
camminare, a non rassegnarci al fatto che le cose debbano finire così.
[…]
Il nostro cuore sa che le cose possono essere diverse, però, quasi
senza accorgercene, possiamo abituarci a convivere con il sepolcro, a
convivere con la frustrazione. Di più, possiamo arrivare a convincerci che
questa è la legge della vita anestetizzandoci con evasioni che non
fanno altro che spegnere la speranza posta da Dio nelle nostre mani.
[…]
Il palpitare del Risorto ci si offre come dono, come regalo, come
orizzonte. Il palpitare del Risorto è ciò che ci è stato donato e che
ci è chiesto di donare a nostra volta come forza trasformatrice, come fermento
di nuova umanità. Con la Risurrezione Cristo non ha solamente
ribaltato la pietra del sepolcro, ma vuole anche far saltare tutte le
barriere che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei nostri calcolati
mondi concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre ossessionate
ricerche di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di giocare con la
dignità altrui.
[…]
Ed ecco ciò che questa notte ci chiama ad
annunciare: il palpito del Risorto, Cristo vive!
E la Chiesa non cessa di dire alle nostre
sconfitte, ai nostri cuori chiusi e timorosi: “Fermati, il Signore è risorto”.
Ma se il Signore è risorto, come mai succedono queste cose? […] a nessuno di noi viene chiesto:
“Ma sei contento con quello che accade nel mondo? Sei disposto a portare avanti
questa croce?”. E la croce va avanti, e la fede in Gesù viene giù.
[…]
In questa cultura dello scarto dove quello che non serve prende la
strada dell’usa e getta, dove quello che non serve viene scartato, quella
pietra – Gesù - è scartata ed è fonte di vita. E anche noi, sassolini per
terra, in questa terra di dolore, di tragedie, con la fede nel Cristo Risorto
abbiamo un senso, in mezzo a tante calamità.
[…]
La pietra scartata non risulta veramente scartata. I sassolini che
credono e si attaccano a quella pietra non sono scartati, hanno un senso e con
questo sentimento la Chiesa ripete dal profondo del cuore: “Cristo è risorto”.
Nel proporvi queste meditazioni faccio riferimento anche ad
idee che sono diffuse in parrocchia. In sintesi: viene rivisitato l’antico
ebraismo e in qualche modo ce se ne appropria con una certa disinvoltura. La
Pasqua ebraica racconta la storia di una emigrazione di molta gente di una
certa etnia: se ne andò perché stava male nell’Egitto dominato dalle dinastie
dei Faraoni. Il problema erano le condizioni di lavoro, è scritto,
che si erano fatte molto dure. Usciti dall’Egitto gli antichi israeliti si
trovarono a lungo nella condizioni degli attuali migranti economici:
infatti, stando a quel racconto, erano essenzialmente questo. Non avevano
patria, né cittadinanza. Riuscirono a rimanere un gruppo coeso, al modo dei
nomadi, che da quelle parti ancora ci sono. Questa condizione durò, secondo la
narrazione biblica, fino a quando non si introdussero nella terra di Canaan, dove
oggi ci sono lo stato di Israele e l’autorità palestinese, non la terra
santa da noi immaginata, e si conquistarono militarmente
un regno, poi frammentatosi in diverse entità politiche, che dovettero
difendere da molti invasori, infine soccombendo definitivamente ai Romani.
Nello sforzo di organizzare regni giusti gli antichi israeliti
colsero chiaramente la rilevanza religiosa dei problemi politici e viceversa.
Questo è ancora molto attuale, in particolare nel nuovo ordine religioso della
nostra fede. Il nostro problema di oggi, politico, non è organizzare uno nostro stato
da qualche parte, ma di riorganizzare addirittura l’ordine politico
mondiale su basi di giustizia: esso ha valenza specificamente
religiosa perché riguarda la stessa sopravvivenza dell’umanità. Gran parte dei
dominatori del mondo sono ancora oggi della nostra fede. Questo significa che
gran parte degli sfruttatori sono gente che segue la nostra religione.
L’Italia, una delle maggiori potenze industriali, è tra i dominatori del
mondo. Questo comporta una evidente responsabilità morale verso coloro che
stanno peggio, dei quali il Papa ha fatto un elenco nelle omelie che ho citato.
Quelli che stanno peggio sono gli scarti di un
sistema che noi dominiamo. In religione questo è un peccato, ma noi ci
autoassolviamo sostenendo che non ci possiamo fare nulla. E, anzi, inventandoci
di sana pianta una sorta di neo-identità ebraica, immaginiamo di essere,
collettivamente, tra gli sfruttati, tra quelli che stanno peggio e invochiamo
la liberazione. Immaginiamo di essere tra gli oppressi perché minacciati
dalla contaminazione del mondo di fuori: quindi ci barrichiamo culturalmente
per respingere l’attacco. In questo modo effettivamente lasciamo fuori quelli
che stanno realmente peggio e che vengono tra noi
chiedendo aiuto. Il Papa allora, e fa semplicemente il suo mestiere, ci
rimprovera e noi, convinti sinceramente di essere quello che non siamo,
diventiamo insofferenti delle sue tirate d’orecchi e lo invitiamo a non
impicciarsi nelle cose della nostra politica. E’ questo
il succo di un discorso fatto in Francia da un’importante personalità. Non
abbiamo forse il diritto di difenderci? Ma il Papa ci ricorda
che le migrazioni di quelli che vorremmo respingere, innanzi tutto privandoli
della loro dignità umana, e ciò mentre paradossalmente vorremmo immaginarci una
dignità degli animali simile a quella umana che neghiamo agli umani, sono
un sottoprodotto, uno scarto, del sistema
economico e politico di cui noi siamo i dominatori e principali beneficiari.
Riteniamo in ciò di esercitare il nostro buon diritto e siamo
disposti a far guerra a chi minaccia questo nostro stile di vita.
Il Papa parla di nostre ossessionate ricerche di sicurezza e di
smisurate ambizioni capaci di giocare con la dignità altrui e le
critica.
Ma non è solo il Papa a farci questo discorso. Abbiamo da
confrontarci con sempre più grilli parlanti che si rivolgono a
noi, pinocchietti presuntuosi.
Uno di essi è, ad esempio, Vladimiro Zagrebelsky, nel
suo Diritti per forza, Einaudi, uscito quest’anno, anche in
e-book, che vi consiglio.
Scrive Zagrebelsky, nel capitolo Stili di vita:
“Se non si prenderà coscienza della valenza aggressiva dei diritti
accampati da chi può nei confronti di chi non può, nel mondo che ha un
solo confine che cinge l’intera umanità, ci si disporrà ad annichilire quanti,
vivendo con noi e vicino a noi, ci sottraggono dall’interno quello che
consideriamo il nostro spazio vitale e minacciano il nostro «stile di vita». La
guerra che un tempo si faceva da parte di eserciti schierati sulle linee delle
frontiere esterne, gli uni di fronte agli altri, oggi si trasferisce
all’interno, gli uni mescolati con gli altri. Nuove frontiere si creano
ormai dentro un unico spazio globale in cui non esiste più una «casa del
tutto nostra» e una «casa del tutto loro», ma tutti siamo tenuti a
regolarci come in una grande casa comune. Il motto «padroni a casa propria»,
con il quale si vuole negare l’evidenza delle interdipendenza che ci avvolgono
da ogni parte e si vuol respingere al di fuori dei nostri pretesi confini
esterni, restaurati con muri, filo spinato, cannoniere e divieti legali, i
fattori di con-fusione che caratterizzano il tempo presente, è solo un patetico
ricordo d’un tempo che non c’è più.”
Scrive anche, Zagrebelsky, che il mondo globalizzato è
paradossalmente divenuto più piccolo, non ha più spazi vuoti, come per certi
versi fu il West nel Nord-America, dove fuggire per
sottrarsi all’oppressione e a condizioni di vita troppo dure, come fecero gli
antichi israeliti, spingendosi nel deserto, abbandonando la civiltà egiziana.
L’esercizio di ogni nostro diritto ha
un’influenza, spesso negativa, da qualche altra parte e la globalizzazione
dell’informazioni che lo fa capire chiaramente: nessuno può dirsi
all’oscuro. Gli oppressi rivendicano come diritto la giustizia, i
dominatori il loro piacere: è chiaro che noi, nell’Italia di oggi, consumatori innanzi
tutto, siamo poco sensibili alla giustizia, perché siamo parte dei dominatori
del mondo, gelosi innanzi tutto del nostro piacere. Che ci importa, infatti,
come sono prodotti, con quale sofferenza umana, le merci e i servizi che
ci danno piacere e che vogliamo sempre nuovi, pronti all’uso, rapidamente
consegnati (le cronache segnalano che nei servizi di logistica, di
consegna merci, talvolta si notano ritmi di lavoro particolarmente duri a
fronte di paghe molto basse)? C’è un’etica da ricostruire, anche a livello
personale. Il nostro peccato sociale si manifesta
innanzi tutto nel modo in cui siamo consumatori. E’ un tema
che mi pare piuttosto trascurato nella formazione religiosa, specialmente in
quella dei più giovani, in cui, ad un certo punto, ci si sfianca (inutilmente)
sulle faccende del sesso.
Un altro dei grilli parlanti di cui
dicevo è stato il sociologo Zygmunt Bauman, che ci ha lasciato
tanti testi interessanti, scritti con un linguaggio accessibile ai più e che
spiegano realisticamente ciò che dobbiamo fronteggiare.
In La società sotto assedio, del 2002, edito da
Laterza, un altro testo che vi consiglio, scrive (pag.223-235):
“La «negazione» è la risposta a domande inquietanti quali «come
reagiamo alla nostra consapevolezza dell’altrui sofferenza e cosa implica per
noi tale consapevolezza?» - le domanda che sorgono ogni qual
volta «persone, organizzazioni o intere società acquisiscono informazioni
troppo inquietanti, minacciose o astruse per essere pienamente assorbite o
apertamente riconosciute. Questa informazioni vengono quindi in qualche modo
represse, ripudiate, accantonate o reinterpretate» [cita Stanley Cohen].
[…] colui che perpetra il male e colui che lo vede, lo
sente, ma non muove un dito, si trovano […] entrambi esposti alla
possibilità che le loro azioni (o la loro passività) gli si possano
rivoltare contro, essendo state dichiarate inique, esecrabili e punibili […]
avvertono quindi il pressante e perenne bisogno di negare in modo
enfatico e perentorio. […] Esistono molte forme di negazione della colpa
(o di rivendicazione d’innocenza, che è la stessa cosa), ma gli argomenti
impiegati sono straordinariamente simili […] Ridotti all’osso, tutti gli
argomenti rivelano l’uno o l’altro dei due modelli: «Non sapevo», o «Non potevo
farci niente». […] Nell’epoca delle autostrade informatiche, le
argomentazioni sull’ignoranza vanno rapidamente perdendo di credibilità […] E
così, l’unica scusa che ci resta è «non potevo farci niente» o «non potevo fare
di più». […] Lo stratagemma del «non potevo fare di più di quanto ho fatto»
dissolve la colpa - penalmente perseguibile- associata alla perpetrazione di un
misfatto nella universale e quindi esecrabile ma non punibile
condizione dell’«essere spettatore». In un mondo fatto d’interdipendenza
globale, la differenza tra spettatore e co-esecutore, complice o favoreggiatore
dell’azione malvagia diventa sempre più tenue. La responsabilità per le
disgrazie umane, per quanto distanti possano essere da chi ne è testimone, non
può assolutamente essere negata, almeno in modo convincente. Mai, quindi, la
domanda di varianti sempre nuove e più raffinate di negazione di responsabilità
del tipo «non potevo farci niente» è stata così grande e in forte espansione
come oggi.
[…]
Praticamente nessuna azione umana, per quanto localmente
confinata e compressa, può essere certa che non avrà conseguenze sul destino
del resto dell’umanità, così come qualsiasi segmento dell’umanità non può
limitarsi a se stesso e dipendere totalmente solo dalle azioni dei suoi membri.
Nel commentare il memorabile intervento del 1979 di Edward
Lorenz, il cui titolo è da allora diventato una delle frasi più note del secolo
scorso («il battito d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado
nel Texas”), Roberto Toscano afferma che «oggi la realtà dell’interconnessione
globale impone, nelle relazioni internazionali, standard etici che vanno ben
oltre un concetto di responsabilità strettamente legalistico. La farfalla
non conosce le conseguenze di un suo battito d’ali; essa
tuttavia non può escludere quella conseguenza. Passiamo così dalla nozione di
responsabilità a un concetto simile, ma più restrittivo, quello di
precauzione».
[…]
La sofferenza «come appare in TV» è nella gran parte dei
casi trasmessa attraverso le immagini dei corpi emaciati degli affamati e dai
volti sfigurati dal dolore dei malati. […] Nulla si sa e niente viene
detto sulle cause della carestie e delle malattie
croniche. Non un minimo accenno alla costante distruzioni dei mezzi di
sussistenza causata dal commercio senza frontiere, allo
smantellamento delle reti di sicurezza sociale sotto la pressione della
finanza senza frontiere, o alla devastazione di terreni e comunità
da parte di monoculture imposte dai mercanti di semi geneticamente modificati
in stretta collaborazione con i missionari delle motivazioni economiche della
Banca mondiale o del Fondo monetario internazionale. Piuttosto, un pervasivo e
persuasivo suggerimento che «ciò che appare in TV» sia un disastro
autoinflitto abbattutosi su tribù distanti, esotiche e «molto diverse da
noi» che si sono colpevolmente alienate una decente vita umana. E che - grazie
a Dio (o alla nostra prudenza) esistono persone fortunate e di buon cuore come
noi, fortunate perché sensibili e industriose, pronte a salvare lo sventurato
dalle raccapriccianti conseguenze della sua sfortuna e della sua condotta
insensata causata da ignoranza e indolenza.”
Alla luce delle parole di
Bauman, acquista un senso sinistro l’invito, che talvolta si fa in religione,
a non pretendere troppo da sé stessi, perché in fin dei conti siamo
peccatori ma lassù siamo amati lo stesso così come siamo, perché richiama
l’argomento «non potevo farci niente» o «non potevo fare di più». Il
punto non sta nell’amore soprannaturale incondizionato, nonostante
la condizione di peccato, ma nel non voler pretendere
troppo (abbastanza?) da noi stessi, quindi in questa
autolimitazione tutto sommato arbitraria, ingiustificata, nello sforzo di
essere migliori, per cui poi, in definitiva, possiamo
finire per «abituarci a convivere con il sepolcro, a convivere con la
frustrazione» e «di più, possiamo arrivare a convincerci che
questa è la legge della vita». Dovremmo proprio, invece,
pretendere un po’ di più da noi stessi. Ad esempio come consumatori:
ci sono modi sbagliati di esserlo. Bisogna prestare più attenzione a come
viene prodotto quello che compriamo, a quanto sofferenza ingloba.
Animati dal «palpito del Risorto» occorre
invece, secondo l’esortazione del Papa, divenire “forza trasformatrice, come
fermento di nuova umanità” e “far saltare tutte le
barriere che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei nostri calcolati
mondi concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre ossessionate
ricerche di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di giocare con la
dignità altrui”. Non è cosa che si consegue magicamente, senza
un nostro impegno collettivo. Se non ci spendiamo in questo, e innanzi tutto
non ci formiamo a questo, la religione diventa inutile, “la croce va avanti,
e la fede in Gesù viene giù.” Dobbiamo lavorare per trasformare
la realtà, con un impegno politico che ha anche un senso per la fede, non
cercare di immedesimarci in un qualche immaginifico gioco di ruolo
a sfondo religioso.
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Veglia Pasquale nella Notte santa
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Sabato Santo, 15 aprile 2017
«Dopo il sabato, all’alba del primo
giorno della settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare il
sepolcro» (Mt 28,1). Possiamo immaginare quei passi…: il tipico
passo di chi va al cimitero, passo stanco di confusione, passo debilitato di
chi non si convince che tutto sia finito in quel modo… Possiamo immaginare i
loro volti pallidi, bagnati dalle lacrime… E la domanda: come può essere che
l’Amore sia morto?
A differenza dei discepoli, loro sono lì
– come hanno accompagnato l’ultimo respiro del Maestro sulla croce e poi
Giuseppe di Arimatea nel dargli sepoltura –; due donne capaci di non fuggire,
capaci di resistere, di affrontare la vita così come si presenta e di
sopportare il sapore amaro delle ingiustizie. Ed eccole lì, davanti al
sepolcro, tra il dolore e l’incapacità di rassegnarsi, di accettare che tutto
debba sempre finire così.
E se facciamo uno sforzo con la
nostra immaginazione, nel volto di queste donne possiamo trovare i volti di
tante madri e nonne, il volto di bambini e giovani che sopportano il peso e il
dolore di tanta disumana ingiustizia. Vediamo riflessi in loro i volti di tutti
quelli che, camminando per la città, sentono il dolore della miseria, il dolore
per lo sfruttamento e la tratta. In loro vediamo anche i volti di coloro che
sperimentano il disprezzo perché sono immigrati, orfani di patria, di casa, di
famiglia; i volti di coloro il cui sguardo rivela solitudine e abbandono perché
hanno mani troppo rugose. Esse riflettono il volto di donne, di madri che
piangono vedendo che la vita dei loro figli resta sepolta sotto il peso della
corruzione che sottrae diritti e infrange tante aspirazioni, sotto l’egoismo
quotidiano che crocifigge e seppellisce la speranza di molti, sotto la
burocrazia paralizzante e sterile che non permette che le cose cambino. Nel
loro dolore, esse hanno il volto di tutti quelli che, camminando per la città,
vedono crocifissa la dignità.
Nel volto di queste donne ci sono
molti volti, forse troviamo il tuo volto e il mio. Come loro possiamo sentirci
spinti a camminare, a non rassegnarci al fatto che le cose debbano finire così. E’
vero, portiamo dentro una promessa e la certezza della fedeltà di Dio. Ma anche
i nostri volti parlano di ferite, parlano di tante infedeltà – nostre e degli
altri –, parlano di tentativi e di battaglie perse. Il nostro cuore sa
che le cose possono essere diverse, però, quasi senza accorgercene, possiamo
abituarci a convivere con il sepolcro, a convivere con la frustrazione. Di più,
possiamo arrivare a convincerci che questa è la legge della vita
anestetizzandoci con evasioni che non fanno altro che spegnere la speranza
posta da Dio nelle nostre mani. Così sono, tante volte, i nostri
passi, così è il nostro andare, come quello di queste donne, un andare tra il
desiderio di Dio e una triste rassegnazione. Non muore solo il Maestro: con Lui
muore la nostra speranza.
«Ed ecco, ci fu un gran terremoto» (Mt 28,2).
All’improvviso, quelle donne ricevettero una forte scossa, qualcosa e qualcuno
fece tremare il suolo sotto i loro piedi. Qualcuno, ancora una volta, venne
loro incontro a dire: «Non temete», però questa volta aggiungendo: «E’
risorto come aveva detto!» (Mt 28,6). E tale è l’annuncio che,
di generazione in generazione, questa Notte santa ci regala: Non
temiamo, fratelli, è risorto come aveva detto! Quella stessa vita
strappata, distrutta, annichilita sulla croce si è risvegliata e torna a
palpitare di nuovo (cfr R. Guardini, Il Signore, Milano 1984,
501). Il palpitare del Risorto ci si offre come dono, come regalo, come
orizzonte. Il palpitare del Risorto è ciò che ci è stato donato e
che ci è chiesto di donare a nostra volta come forza trasformatrice, come
fermento di nuova umanità. Con la Risurrezione Cristo non ha solamente
ribaltato la pietra del sepolcro, ma vuole anche far saltare tutte le barriere
che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei nostri calcolati mondi
concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre ossessionate ricerche
di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di giocare con la dignità
altrui.
Quando il Sommo Sacerdote, i capi
religiosi in complicità con i romani avevano creduto di poter calcolare tutto,
quando avevano creduto che l’ultima parola era detta e che spettava a loro
stabilirla, Dio irrompe per sconvolgere tutti i criteri e offrire così una
nuova possibilità. Dio, ancora una volta, ci viene incontro per stabilire e
consolidare un tempo nuovo, il tempo della misericordia. Questa è la promessa
riservata da sempre, questa è la sorpresa di Dio per il suo popolo fedele:
rallegrati, perché la tua vita nasconde un germe di risurrezione, un’offerta di
vita che attende il risveglio.
Ed ecco ciò che questa notte ci chiama ad
annunciare: il palpito del Risorto, Cristo vive! Ed è ciò che cambiò il passo di Maria
Maddalena e dell’altra Maria: è ciò che le fa ripartire in fretta e correre a
dare la notizia (cfr Mt 28,8); è ciò che le fa tornare sui
loro passi e sui loro sguardi; ritornano in città a incontrarsi con gli altri.
Come con loro siamo entrati nel sepolcro,
così con loro vi invito ad andare, a ritornare in città, a tornare sui nostri
passi, sui nostri sguardi. Andiamo con loro ad annunciare la notizia, andiamo…
In tutti quei luoghi dove sembra che il sepolcro abbia avuto l’ultima parola e
dove sembra che la morte sia stata l’unica soluzione. Andiamo ad annunciare, a
condividere, a rivelare che è vero: il Signore è Vivo. E’ vivo e vuole
risorgere in tanti volti che hanno seppellito la speranza, hanno seppellito i
sogni, hanno seppellito la dignità. E se non siamo capaci di lasciare che lo
Spirito ci conduca per questa strada, allora non siamo cristiani.
Andiamo e lasciamoci sorprendere da quest’alba
diversa, lasciamoci sorprendere dalla novità che solo Cristo può dare. Lasciamo
che la sua tenerezza e il suo amore muovano i nostri passi, lasciamo che il
battito del suo cuore trasformi il nostro debole palpito.
Domenica di Pasqua della Resurrezione del
Signore
SANTA MESSA DEL GIORNO
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Piazza San Pietro
Domenica di Pasqua, 16 aprile 2017
Oggi la Chiesa ripete, canta, grida:
“Gesù è risorto!”. Ma come mai? Pietro, Giovanni, le donne sono andate al
Sepolcro ed era vuoto, Lui non c’era. Sono andati col cuore chiuso dalla
tristezza, la tristezza di una sconfitta: il Maestro, il loro Maestro,
quello che amavano tanto è stato giustiziato, è morto. E dalla morte non si
torna. Questa è la sconfitta, questa è la strada della sconfitta, la strada
verso il sepolcro. Ma l’Angelo dice loro: “Non è qui, è risorto”. E’ il primo
annuncio: “E’ risorto”. E poi la confusione, il cuore chiuso, le apparizioni.
Ma i discepoli restano chiusi tutta la giornata nel Cenacolo, perché avevano
paura che accadesse a loro lo stesso che accadde a Gesù.
E la Chiesa non cessa di dire
alle nostre sconfitte, ai nostri cuori chiusi e timorosi: “Fermati, il Signore
è risorto”. Ma se il Signore è risorto, come mai succedono queste cose? Come
mai succedono tante disgrazie, malattie, traffico di persone, tratte di
persone, guerre, distruzioni, mutilazioni, vendette, odio? Ma dov’è il Signore?
Ieri ho telefonato a un ragazzo con una malattia grave, un ragazzo colto, un
ingegnere e parlando, per dare un segno di fede, gli ho detto: “Non ci sono
spiegazioni per quello che succede a te. Guarda Gesù in Croce, Dio ha fatto
questo col suo Figlio, e non c’è un’altra spiegazione”. E lui mi ha risposto:
“Sì, ma ha domandato al Figlio e il Figlio ha detto di sì. A me non è stato
chiesto se volevo questo”. Questo ci commuove, a nessuno di noi viene
chiesto: “Ma sei contento con quello che accade nel mondo? Sei disposto a
portare avanti questa croce?”. E la croce va avanti, e la fede in Gesù viene
giù.
Oggi la Chiesa continua a dire:
“Fermati, Gesù è risorto”. E questa non è una fantasia, la Risurrezione di
Cristo non è una festa con tanti fiori. Questo è bello, ma non è questo è di
più; è il mistero della pietra scartata che finisce per essere il fondamento
della nostra esistenza. Cristo è risorto, questo significa. In questa
cultura dello scarto dove quello che non serve prende la strada dell’usa e
getta, dove quello che non serve viene scartato, quella pietra – Gesù - è
scartata ed è fonte di vita. E anche noi, sassolini per terra, in
questa terra di dolore, di tragedie, con la fede nel Cristo Risorto abbiamo un
senso, in mezzo a tante calamità. Il senso di guardare oltre, il senso
di dire: “Guarda non c’è un muro; c’è un orizzonte, c’è la vita, c’è la gioia,
c’è la croce con questa ambivalenza. Guarda avanti, non chiuderti. Tu
sassolino, hai un senso nella vita perché sei un sassolino presso quel sasso,
quella pietra che la malvagità del peccato ha scartato”.
Cosa ci dice la Chiesa oggi davanti a
tante tragedie? Questo, semplicemente. La pietra scartata non risulta
veramente scartata. I sassolini che credono e si attaccano a quella pietra non
sono scartati, hanno un senso e con questo sentimento la Chiesa ripete dal
profondo del cuore: “Cristo è risorto”. Pensiamo un po’, ognuno di noi
pensi, ai problemi quotidiani, alle malattie che abbiamo vissuto o che qualcuno
dei nostri parenti ha; pensiamo alle guerre, alle tragedie umane e,
semplicemente, con voce umile, senza fiori, soli, davanti a Dio, davanti a noi
diciamo “Non so come va questo, ma sono sicuro che Cristo è risorto e io ho
scommesso su questo”. Fratelli e sorelle, questo è quello che ho voluto dirvi.
Tornate a casa oggi, ripetendo nel vostro cuore: “Cristo è risorto”.
41. Rivolti all’interno o rivolti all’esterno
Una comunità può essere rivolta al proprio interno o verso
l’esterno, verso il mondo intorno. Le sette sono prevalentemente del primo
tipo, le religioni prevalentemente del secondo. Una setta religiosa ha quindi,
in genere, al suo interno una contraddizione. Di solito quest’ultima viene
risolta con l’immaginazione, costruendo un contesto esterno
compatibile con l’ideologia di chiusura praticata. L’uscita da una setta
religiosa viene spesso vissuta come un ritorno alla realtà.
Perché si aderisce a una setta? Vengono
riconosciuti vari moventi. Le sette propongono, in genere, visioni semplificate
ma immaginifiche, quindi accattivanti e coinvolgenti, della realtà: chi ha
difficoltà con una società complessa vi può trovare conforto. Inoltre esse
sembrano dare protezione a chi vi aderisce, anche se solo fino a che vi
aderisce, e l’adesione in genere comporta l’esigenza di sottomissione acritica
ad un gruppo di comando, che può essere anche una singola figura dominante o,
più spesso e nelle realtà più vaste, una gerarchia più complessa. In una setta
si è in genere sottoposti a continue prove di fedeltà. Una setta religiosa
della nostra fede sarà, ad esempio, particolarmente legata al racconto biblico
del (mancato) sacrificio di Isacco, che inscena appunto una prova di fedeltà,
arrivando addirittura (forzando abbastanza il testo biblico) a immedesimarsi in
Isacco, piuttosto che in Abramo.
Esperienze di setta sono state vissute
ciclicamente anche nelle nostre collettività di fede. In genere l’educazione
alla fede conduce a non dipenderne, perché la nostra religiosità ha una forte
connotazione missionaria e dunque rivolta verso l’esterno. Non ci si appaga
veramente di esperienze chiuse.
In un’esperienza aperta è
centrale la partecipazione, che consente il dialogo e
quindi l’interazione e il coinvolgimento di
gente nuova. Non è sufficiente la fedeltà, occorre collaborare
per capire ciò in mezzo a cui ci si trova. Più si
è, meglio si capisce, perché si guarda il mondo da diversi punti di vista; ma
senza il dialogo le visioni parziali rimangono
tali. Si cerca di essere più aderenti alla realtà, acquisendo competenze spendibili
in società; si fanno progetti per migliorare la
convivenza. Aprirsi comporta il rischio, e la fatica, di
confrontarsi con la complessità. Solo nelle fantasie la realtà si adatta
perfettamente alle concezioni ideali. Una religiosità che si propone come cattolica, quindi
universale, vive senz’altro nella modalità dell’apertura. Questo
comporta di rinunciare al monopolio del bene, che è un intento
tipico della religiosità di setta, secondo la quale non vi è vero bene al di
fuori di essa.
In una modalità aperta si
può riconoscere, ad esempio, il valore religioso di una importante conquista
civile, come quella del nostroParco delle Valli, evolutosi dal
semplice pratone delle origini a parco pubblico mediante
quella che viene definita cittadinanza attiva, quindi una
mobilitazione popolare di lungo periodo di cui la gente della parrocchia è
stata componente fondamentale. Questo modo di vedere le cose è al centro
delle argomentazioni che troviamo nell’enciclica Laudato si’.
Una setta può abitare un
luogo senza essere veramente interessata a ciò che c’è intorno, tanto più se è
fatta di gente che viene da fuori. Una parrocchia, inviata a gente di un certo
posto, non può organizzarsi così, è necessariamente una struttura aperta,
interessata alla vita del quartiere. Molti tipi di impegni insieme civili e
religiosi sono vissuti, ad esempio, nelle esperienze che si riconoscono
in Libera, di cui ci ha parlato l’anno scorso don Ciotti. Un
impegno così richiede una presenza molto più costante di quella di un gruppo
con connotati di setta, in cui si va solo per i periodici appuntamenti
programmati, ad orari fissi, nel quadro di un certo metodo e
per le prove di fedeltà e verifiche relative. La parrocchia dovrebbe essere una
struttura abitata molto più a lungo che, ad esempio, una sede
periferica di un’associazione. Dovrebbe promuovere una partecipazione attiva,
non da semplici utenti o spettatori. Dovrebbe poter funzionare anche senza copioni da
seguire pedissequamente e senza una vera e propria regia. Ad
esempio, ciò che gli studenti apprendono a scuola dovrebbe poter arricchire la
vita parrocchiale e viceversa. Non si dovrebbe entrare in parrocchia come in
un parco a tema, un po’ come quando si va nella vicina chiesona
vaticana con tutti i suoi pittoreschi personaggi e relative scenografie.
Entrando in parrocchia non ci dovrebbe trovare in un altro mondo,
ad esempio in un fantasioso neo-mondo a sfondo biblico,
una realtà totalmente ricostruita al modo in cui a lungo lo si è fatto a Cinecittà,
ai tempi d’oro del nostro cinema, ma nella realtà verae, in
particolare, in una specie di officina in cui si lavora
sulla realtà vera e su gente vera, non con
persone che fanno qualcun altro, immaginando di
esserlo, almeno durante l’incanto.
Occorre riflettere su queste idealità
che ci sono state proposte dai saggi dell’ultimo Concilio:
1. Intima unione della Chiesa con l'intera
famiglia umana.
Le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che
soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei
discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel
loro cuore.
La loro comunità, infatti, è composta di
uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo
nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un
messaggio di salvezza da proporre a tutti.
Perciò la comunità dei cristiani si sente
realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.
[dalla Costituzione pastorale La
gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)]
42. L’immaginazione al
potere?
L’immaginazione
al potere fu un’idea diffusa negli
anni Sessanta del secolo scorso per reagire contro un sistema sociale che trasformava,
e riduceva, l’essere umano ad
ingranaggio. Bisognava immaginarsi
un altro modo di vita sociale e
renderlo possibile in concreto con l’impegno politico. Era una concezione
fondata sull’ideologia del filosofo tedesco Herbert Marcuse, stabilitosi negli
Stati Uniti d’America negli anni Trenta. Fu appunto la realtà statunitense al
centro della sua critica sociale:
quest’ultima però si adatta bene al modo di vivere dell’intero Occidente, anche
di quello attuale, ma in fondo anche dell’intera civiltà globalizzata contemporanea
nelle sue manifestazioni sociali più evolute. Quella critica sociale portava ad
organizzare azioni di contrasto, di opposizione, contro sistemi sociali che
erano oppressivi in un modo diverso da come lo erano stati storicamente e lo
erano i totalitarismi, essenzialmente riducendo l’essere umano a una
sola dimensione, quella appunto che ne faceva un ingranaggio sociale. Quindi un’immaginazione come forza di cambiamento sociale. L’accusa che si fa ai giovani degli anni
Sessanta e Settanta che seguirono l’idea dell’immaginazione al potere è in
genere quella di aver troppo immaginato e di aver poco realizzato, ma si tratta di un addebito ingeneroso, perché
effettivamente moltissimo cambiò in
Occidente e i problemi vennero quando, dagli anni ’80, l’immaginazione come critica sociale ebbe sempre meno potere.
In religione si fa un certo uso
dell’immaginazione. Chi lo può negare. I nostri scritti sacri sono pieni di
cose del genere. Li abbiamo ricevuti dall’antichità, in cui si ragionava così. E questo è un punto molto importante: ragionare per visioni è comunque un ragionare. La nostra più grande
teologia si basa su quelle visioni.
Ma è cosa che vediamo anche nell’esperienza ebraica, dove lo studio è centrale e ha prodotto luminose scuole di
pensiero su base religiosa, quindi fondate su quel tipo di visioni, che troviamo espresse nella letteratura talmudica (da Talmud,
il testo in cui è raccolto il frutto di
quelle riflessioni, che significa appunto studio).
Ma immaginando
si può anche prendere congedo dalla
realtà e allora non si ragiona più, ma solamente ci si emoziona. La critica più
seria alla religione, seria in quanto fondata, è di essere stata una sorta di immaginifica droga per il controllo sociale delle moltitudini di
chi stava peggio, dei dominati sociali. Quindi di essere stata al servizio dei
dominatori. Un’immaginazione che
perpetua una condizione di servaggio è cattiva anche dal punto di vista
religioso. Se ragioniamo sulle visioni proposte dai nostri testi sacri possiamo
arrivare a convincercene. E’ passata da poco la nostra Pasqua, in cui abbiamo
fatto memoria della liberazione degli antichi israeliti dal dominio degli
antichi egiziani, che li opprimevano con condizioni di lavoro molto dure.
Grandi maestri della nostra spiritualità, come
Ignazio di Lojola e Giovanni della Croce, insegnano ad imparare a fare a meno
dell’immaginazione approfondendo la propria esperienza religiosa. Progredire
nella fede, allora, è come sbucciare gli strati di una cipolla, togliendo ciò
che non è essenziale. Si arriva in una notte oscura, dove si intuisce
misticamente il fondamento di tutto. Rimane la convinzione che si tratti di
misericordia, compassione, benevolenza universale: questa la grande novità
della nostra fede rispetto alle antiche religioni politeistiche.
Woody Allen, nel suo film Crimini e misfatti, che vi consiglio di acquistare e vedere in DVD,
fa dire ad un personaggio che gli antichi ebrei immaginarono un fondamento
amorevole, ma anche con l’immaginazione non riuscirono a concepirlo totalmente benevolente, tanto che troviamo l’episodio del
(mancato) sacrificio di Isacco. Eppure anche nelle scritture troviamo una
progressione nella riflessione sul fondamento e in essa la misericordia ha un
posto sempre più importante. C’è un’immaginazione che stronca l’inimicizia e le
guerre e che possiamo considerare buona, perché
è anche fonte di liberazione.
Gli antichi greci svalutarono molto l’immaginazione e il sogno. Consigliavano di rimanere aderenti alla realtà. l’essere
umano sognante lo vedevano incatenato in fondo ad una caverna, con il volto
rivolto verso il fondo, potendo vedere solo ombre della realtà come proiettate sul muro. Vi è chi vi ha visto l’anticipazione
della nostra civiltà dell’immagine.
L’immaginazione
comunitaria è la più potente di
tutte. Insieme si arriva a convincersi dell’inverosimile, si attenua il
controllo sulla realtà. Le comunità dispotiche usano l’immaginazione per
tenersi stette i propri adepti. Questa non è la via della nostra religione. Lo
vediamo, ad esempio, nelle comunità monastiche, dove le regole dei fondatori sono
molto rigide nel cercare di impedire che la comunità prenda il sopravvento. Non
tutto ciò che è comunitario, infatti, è conforme alla fede. Ne parlano a lungo
le scritture. Bisogna sempre vedere se l’immaginazione conduce a ragionare
sulla realtà per modificarla in meglio, per distaccarsene in ciò che in essa
non va, per convincersi che un mondo migliore è possibile, o se serve a legare
la gente ad un ordine ingiusto.
A volte le comunità, anche molto coese, non
sono un bello spettacolo, soprattutto quando prendono congedo dalla realtà e
dalla gente intorno e diventano un universo concentrato solo su sé stesso.
Stimolano l’emotività collettiva per separare ed escludere ciò che c’è fuori.
Ciò che viene escluso non cambia e il cambiamento che si vive nelle comunità
dispotiche è solo immaginario nel senso di apparente.
Se si vuole lavorare con efficacia sulla
realtà, come oggi siamo spinti a fare anche in religione, occorre in primo
luogo esercitarsi sulla critica dell’immaginario
che si impiega. E’ buono o cattivo?
43. Scuola popolare di pensiero sociale
L’enciclica Laudato si’ può essere
utilizzata come libro di testo di una scuola popolare di pensiero e di azione
sociale. E’ infatti un documento molto diverso dalla letteratura pontificia
precedente del genere dichiarato dal suo autore, l’enciclica appunto. Riassume
idee correnti sulle cause delle sofferenze sociali contemporanee,
accreditandone alcune. Si rivolge alle masse ed è scritta in lingua corrente.
E’ materiale che è naturalmente soggetto a verifica. Non basta che venga da
fonte autorevole per condividerne l’impostazione. Quest’ultima non deriva per
via di deduzione logica da una dottrina teologica, dalle cose della fede. La
fede non ha la soluzione dei mali sociali di oggi, ma può individuarli perché
fanno soffrire. La sofferenza è una produzione sociale e può essere corretta.
Per capire la via migliore bisogna rifletterci molto su, insieme, collettivamente,
in ogni realtà sociale. Questo benché molti pensino che non ci si possa fare
nulla perché si tratta di fenomeni su scala troppo grande, addirittura
mondiale. E’ appunto la scala su cui ragiona l’autore dell’enciclica.
Nella Laudato si’ non
ci si estenua su polemiche dottrinali che erano ancora piuttosto evidenti
in un altro recente documento del nostro pensiero sociale, l’enciclica Carità
nella verità, del 2009. Non si fa una lezione di etica ai governanti.
C’è un appello alla mobilitazione popolare, di massa, per cambiare una società
che, a livello mondiale, causa sofferenza e mette a rischio la sopravvivenza
dell’umanità. Siamo tutti invitati a cambiare i nostri stili di vita, ma non
tanto per meritare sul piano religioso, quanto per
esercitare una sana pressione su coloro che detengono il potere politico,
economico e sociale, e, così facendo, salvare il mondo, visto come casa
comune. Ecco dove se ne parla, un punto molto importante del documento:
206.
Un cambiamento negli stili di vita potrebbe arrivare ad esercitare una sana
pressione su coloro che detengono il potere politico, economico e sociale. È
ciò che accade quando i movimenti dei consumatori riescono a far sì che si
smetta di acquistare certi prodotti e così diventano efficaci per modificare il
comportamento delle imprese, forzandole a considerare l’impatto ambientale e i
modelli di produzione. È un fatto che, quando le abitudini sociali intaccano i
profitti delle imprese, queste si vedono spinte a produrre in un altro modo. Questo
ci ricorda la responsabilità sociale dei consumatori. «Acquistare è sempre un
atto morale, oltre che economico». Per questo oggi «il tema del degrado ambientale chiama in
causa i comportamenti di ognuno di noi».
Riesce difficile alla gente comune
capire chi comanda il mondo e, dunque, con chi ce
la si debba prendere per ciò che genera sofferenza. Si scrive di potere
globale, di multinazionali, da noi di Europa,
insomma qualcosa di impersonale che domina le nostre vite senza che si possa
fare nulla per reagire, se non tentare di scamparla volta per volta.
Scoppia la rabbia, si scende in piazza per manifestarla, ma nessuno dei potenti
che vorremmo trascinare davanti ad una specie di tribunale del popolo accetta
di venire a rispondere. Tutti si dicono nelle nostre stesse condizioni. Da
ultimo il maligno viene indicato nel mercato, che
dispoticamente può distruggere in un attimo le nostre vite, o, al contrario,
trasformarle in meglio a livelli inimmaginabili. Ma il mercato non
ha nulla di soprannaturale. E’ fatto di norme giuridiche e di una massa di
attori che si scambia dei beni. Chi compra e chi vende. Anche il lavoro di
ciascuno di noi. Sono le norme giuridiche che consentono lo scambio: sono il
frutto di accordi internazionali. Negli scambi ci sono parti forti e parti
deboli e le parti forti fanno il prezzo. Sono forti le parti che hanno il
potere di negare agli altri beni molto ambiti, perché molto necessari o per
alti motivi. Questo potere è assegnato dalle norme giuridiche. Ci sono due modi
di incidere sulle dinamiche di mercato: cambiare le norme giuridiche e
fronteggiare le parti forti con un’azione di massa. Sono le strategie che nella
seconda metà del Novecento hanno molto migliorato le posizioni dei lavoratori
dipendenti in Occidente. Funzionerebbero certamente anche per correggere il
mercato. Ma ci sono due nuovi problemi. Noi stessi, masse di consumatori
Occidentali, siamo le parti forti. Dunque dovremmo fare autocritica e cambiare
le nostre abitudini di vita, sentirci responsabili per le sofferenze che
generiamo. Ma tra le nostre condotte sul mercato e quelle delle multinazionali
non ci sono vere differenze; abbiamo interessi comuni e resistiamo nello stesso
modo e per gli stessi motivi al cambiamento; rifiutiamo di sentirci responsabili
delle sofferenze altrui che generano vantaggi per noi, ad esempio consentendoci
di acquistare a prezzi molto bassi merci di uso quotidiano. Inoltre,
poiché i problemi sono globali, dovremmo muoverci su scala globale. Invece
pensiamo di risolvere i nostri guai rinchiudendoci, serrandoci dietro antiquate
frontiere, in sistemi politici che non hanno la forza di cambiare le norme
giuridiche che regolano il mercato.
Quelli a cui ho accennato sono problemi
che hanno un valore anche religioso, perché riguardano la sopravvivenza
dell’umanità e la sofferenze di immense moltitudini. Questo richiede di
occuparsene anche nelle nostre collettività di fede, arricchendo di molto il
nostro pensiero sociale, per comprendere meglio le società del nostro tempo, e
ponendo al centro delle nostre attività. Adesso la dottrina
sociale è un settore complementare, non ritenuto essenziale
nella formazione alla fede, in cui infatti se ne parla poco e quindi se ne sa
poco. In parrocchia tutto ruota intorno a liturgia, catechesi, carità, i
classici settori dell’impegno religioso. Il ramo “Presenza nel
mondo” è poco curato, in particolare dove si teme molto di
esserne contaminati. “Grande è la posta in gioco”, scrive l’autore
della Laudato si’, “ e abbiamo bisogno di controllarci e di
educarci l’un l’altro” [n.214]. E anche: “Tutte le
comunità cristiane hanno un ruolo importante da compiere in questa educazione”.
Quando cominciare? Da molto presto e
dai molto piccoli. La realtà del mercato globale irrompe
veramente precocemente nella vita delle persone: quando a un bimbo capita tra
le mani il suo primo telefono cellulare egli inizia ad essere un attore nel
mercato globale. La prima educazione è quella di capire quanta sofferenza
generano le nostre azioni quotidiane e quanta sofferenza inglobano le cose che
sono sul mercato ed averne compassione. Sembra facile, ma non lo è, perché ad
un certo punto sono necessarie delle rinunce. E’ il nostro stile di vita di
Occidentali che va mutato. E’ qualcosa per cui tutti i presidenti statunitensi,
senza eccezione, si sono detti disposti a far guerra. In Europa è un po’
diverso perché la classe dirigente della politica europea in genere di certe
cose ad un certo punto si è cominciata a vergognare, questo perché in Europa ci
si è tanto combattuti per difendere stili di vita contrastanti che divenivano
incompatibili perché tenuti a poche distanze gli uni dagli altri, per cui, ad
un certo punto, non si poteva proprio fare a meno di eliminare gli altri. Le
due guerre mondiali del Novecento ci hanno molto cambiato in Europa, si è
iniziato ad avere orrore di tutta quella violenza. Il processo di
unificazione europea è stata l’espressione della concreta volontà di cambiare
le cose. Quando lo si è voluto, e finché lo si è voluto, ci si è riusciti.
L’Europa, una politica continentale, ha le dimensioni giuste per incidere
sul mercato globale.
Di seguito incollo un brano molto
importante della Laudato si’. Lavoriamoci un po’ su in questo lungo
ponte primaverile che si conclude con la festa della Liberazione, un compito
sempre attuale, di generazione in generazione.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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IV. POLITICA ED ECONOMIA IN DIALOGO PER LA
PIENEZZA UMANA
189. La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve
sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi,
pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e
l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita,
specialmente della vita umana. Il salvataggio ad ogni costo delle banche,
facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere
e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che
non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e
apparente cura. La crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per
sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova
regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza
virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri
obsoleti che continuano a governare il mondo. La produzione non è sempre
razionale, e spesso è legata a variabili economiche che attribuiscono ai
prodotti un valore che non corrisponde al loro valore reale. Questo determina
molte volte una sovrapproduzione di alcune merci, con un impatto ambientale non
necessario, che al tempo stesso danneggia molte economie regionali. La
bolla finanziaria di solito è anche una bolla produttiva. In definitiva, ciò
che non si affronta con decisione è il problema dell’economia reale, la quale
rende possibile che si diversifichi e si migliori la produzione, che le imprese
funzionino adeguatamente, che le piccole e medie imprese si sviluppino e creino
occupazione, e così via.
190. In questo contesto bisogna sempre
ricordare che «la protezione ambientale non può essere assicurata solo sulla
base del calcolo finanziario di costi e benefici. L’ambiente è uno di quei beni
che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o di promuovere
adeguatamente». Ancora una volta, conviene evitare una concezione magica
del mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano solo con la
crescita dei profitti delle imprese o degli individui. È realistico aspettarsi
che chi è ossessionato dalla massimizzazione dei profitti si fermi a pensare
agli effetti ambientali che lascerà alle prossime generazioni? All’interno
dello schema della rendita non c’è posto per pensare ai ritmi della natura, ai
suoi tempi di degradazione e di rigenerazione, e alla complessità degli
ecosistemi che possono essere gravemente alterati dall’intervento umano.
Inoltre, quando si parla di biodiversità, al massimo la si pensa come una
riserva di risorse economiche che potrebbe essere sfruttata, ma non si
considerano seriamente il valore reale delle cose, il loro significato per le
persone e le culture, gli interessi e le necessità dei poveri.
191. Quando si pongono tali questioni,
alcuni reagiscono accusando gli altri di pretendere di fermare irrazionalmente
il progresso e lo sviluppo umano. Ma dobbiamo convincerci che rallentare un
determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità
di progresso e di sviluppo. Gli sforzi per un uso sostenibile delle risorse
naturali non sono una spesa inutile, bensì un investimento che potrà offrire
altri benefici economici a medio termine. Se non abbiamo ristrettezze di
vedute, possiamo scoprire che la diversificazione di una produzione più
innovativa e con minore impatto ambientale, può essere molto redditizia. Si
tratta di aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di
fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di
incanalare tale energia in modo nuovo.
192. Per esempio, un percorso di sviluppo
produttivo più creativo e meglio orientato potrebbe correggere la disparità tra
l’eccessivo investimento tecnologico per il consumo e quello scarso per
risolvere i problemi urgenti dell’umanità; potrebbe generare forme intelligenti
e redditizie di riutilizzo, di recupero funzionale e di riciclo; potrebbe
migliorare l’efficienza energetica delle città; e così via. La diversificazione
produttiva offre larghissime possibilità all’intelligenza umana per creare e
innovare, mentre protegge l’ambiente e crea più opportunità di lavoro. Questa
sarebbe una creatività capace di far fiorire nuovamente la nobiltà dell’essere
umano, perché è più dignitoso usare l’intelligenza, con audacia e
responsabilità, per trovare forme di sviluppo sostenibile ed equo, nel quadro
di una concezione più ampia della qualità della vita. Viceversa, è meno
dignitoso e creativo e più superficiale insistere nel creare forme di
saccheggio della natura solo per offrire nuove possibilità di consumo e di
rendita immediata.
193. In ogni modo, se in alcuni casi lo
sviluppo sostenibile comporterà nuove modalità per crescere, in altri casi, di
fronte alla crescita avida e irresponsabile che si è prodotta per molti
decenni, occorre pensare pure a rallentare un po’ il passo, a porre alcuni
limiti ragionevoli e anche a ritornare indietro prima che sia tardi. Sappiamo
che è insostenibile il comportamento di coloro che consumano e distruggono
sempre più, mentre altri ancora non riescono a vivere in conformità alla
propria dignità umana. Per questo è arrivata l’ora di accettare una certa
decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa
crescere in modo sano in altre parti. Diceva Benedetto XVI che «è necessario
che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire
comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di
energia e migliorando le condizioni del suo uso».
194. Affinché sorgano nuovi modelli di
progresso abbiamo bisogno di «cambiare il modello di sviluppo
globale», la qual cosa implica riflettere responsabilmente «sul
senso dell’economia e sulla sua finalità, per correggere le sue disfunzioni e
distorsioni». Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la
natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il
progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel
disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo
tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita
integralmente superiore, non può considerarsi progresso. D’altra parte, molte
volte la qualità reale della vita delle persone diminuisce – per il
deteriorarsi dell’ambiente, la bassa qualità dei prodotti alimentari o
l’esaurimento di alcune risorse – nel contesto di una crescita dell’economia.
In questo quadro, il discorso della crescita sostenibile diventa spesso un
diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista
all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia, e la responsabilità
sociale e ambientale delle imprese si riduce per lo più a una serie di azioni
di marketing e di immagine.
195. Il principio della massimizzazione
del profitto, che tende ad isolarsi da qualsiasi altra considerazione, è una
distorsione concettuale dell’economia: se aumenta la produzione, interessa poco
che si produca a spese delle risorse future o della salute dell’ambiente; se il
taglio di una foresta aumenta la produzione, nessuno misura in questo calcolo
la perdita che implica desertificare un territorio, distruggere la biodiversità
o aumentare l’inquinamento. Vale a dire che le imprese ottengono profitti
calcolando e pagando una parte infima dei costi. Si potrebbe considerare etico
solo un comportamento in cui «i costi economici e sociali derivanti dall’uso
delle risorse ambientali comuni siano riconosciuti in maniera trasparente e
siano pienamente supportati da coloro che ne usufruiscono e non da altre
popolazioni o dalle generazioni future». La razionalità strumentale, che
apporta solo un’analisi statica della realtà in funzione delle necessità del
momento, è presente sia quando ad assegnare le risorse è il mercato, sia quando
lo fa uno Stato pianificatore.
196. Qual è il posto della politica?
Ricordiamo il principio di sussidiarietà, che conferisce libertà per lo
sviluppo delle capacità presenti a tutti i livelli, ma al tempo stesso esige
più responsabilità verso il bene comune da parte di chi detiene più potere. È
vero che oggi alcuni settori economici esercitano più potere degli Stati
stessi. Ma non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe
incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti
della crisi attuale. La logica che non lascia spazio a una sincera
preoccupazione per l’ambiente è la stessa in cui non trova spazio la
preoccupazione per integrare i più fragili, perché «nel vigente modello “di
successo” e “privatistico”, non sembra abbia senso investire affinché quelli che
rimangono indietro, i deboli o i meno dotati possano farsi strada nella vita».
197. Abbiamo bisogno di una politica che
pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale,
includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi. Molte
volte la stessa politica è responsabile del proprio discredito, a causa della
corruzione e della mancanza di buone politiche pubbliche. Se lo Stato non
adempie il proprio ruolo in una regione, alcuni gruppi economici possono apparire
come benefattori e detenere il potere reale, sentendosi autorizzati a non
osservare certe norme, fino a dar luogo a diverse forme di criminalità
organizzata, tratta delle persone, narcotraffico e violenza molto difficili da
sradicare. Se la politica non è capace di rompere una logica perversa, e
inoltre resta inglobata in discorsi inconsistenti, continueremo a non
affrontare i grandi problemi dell’umanità. Una strategia di cambiamento reale
esige di ripensare la totalità dei processi, poiché non basta inserire
considerazioni ecologiche superficiali mentre non si mette in discussione la
logica soggiacente alla cultura attuale. Una politica sana dovrebbe essere
capace di assumere questa sfida.
198. La politica e l’economia tendono a
incolparsi reciprocamente per quanto riguarda la povertà e il degrado
ambientale. Ma quello che ci si attende è che riconoscano i propri errori e
trovino forme di interazione orientate al bene comune. Mentre gli uni si
affannano solo per l’utile economico e gli altri sono ossessionati solo dal
conservare o accrescere il potere, quello che ci resta sono guerre o accordi
ambigui dove ciò che meno interessa alle due parti è preservare l’ambiente e
avere cura dei più deboli. Anche qui vale il principio che «l’unità è superiore
al conflitto».
44. Ribelli
La Preghiera
del ribelle
di Teresio Olivelli, resistente e ribelle
italiano (1916-1945)
Signore, che fra gli uomini drizzasti la Tua
Croce segno di contraddizione,
che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli
interessi dominanti, la sordità inerte della massa,
a noi, oppressi da un giogo numeroso e crudele che in noi e prima di noi ha
calpestato Te fonte di libera vita,
dà la forza della ribellione.
Dio che sei Verità e Libertà, facci liberi e
intensi:
alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà, moltiplica le nostre
forze, vestici della Tua armatura.
Noi ti preghiamo, Signore.
Tu che fosti respinto, vituperato, tradito,
perseguitato, crocifisso, nell'ora delle tenebre ci sostenti la Tua vittoria:
sii nell'indigenza viatico, nel pericolo sostegno, conforto nell'amarezza.
Quanto più s'addensa e incupisce l'avversario,
facci limpidi e diritti.
Nella tortura serra le nostre labbra.
Spezzaci, non lasciarci piegare.
Se cadremo fa' che il nostro sangue si unisca al
Tuo innocente e a quello dei nostri Morti a crescere al mondo giustizia e
carità.
Tu che dicesti: ``Io sono la resurrezione e la
vita'' rendi nel dolore all'Italia una vita generosa e severa.
Liberaci dalla tentazione degli affetti: veglia Tu
sulle nostre famiglie.
Sui monti ventosi e nelle catacombe della città,
dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai
dare.
Signore della pace e degli eserciti, Signore che
porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore.
********************************************************************************
Il 23 aprile scorso, a Milano, sono stati presentati i due
libri con tutti gli scritti di Lorenzo Milani, pubblicati dall’editrice
Mondadori nella collana I Meridiani. Chi fu Lorenzo Milani? Potrete saperne di
più leggendo la sua biografia sul Web a questo indirizzo:
http://www.treccani.it/enciclopedia/lorenzo-milani-comparetti_(Dizionario-Biografico)/ .
Il Papa, in occasione dell’evento, ha
inviato un videomessaggio che trovate trascritto qui sotto.
E’ importante che un Papa ci abbia
invitato ad accostarci al pensiero di Lorenzo Milani con affetto,
come a quello di un testimone di Cristo e del Vangelo. Tenendo conto che
la Chiesa fu la prima persecutrice di Milani, in sostanza emarginandolo proprio
per ciò per cui oggi lo addita come testimone di Cristo e del Vangelo.
Le si accodarono anche altri. Milani fu processato dalla giustizia penale
italiana per un articolo scritto in risposta all'ordine del giorno dei
cappellani militari della Toscana in congedo, pubblicato dalla Nazione del 12
febbraio 1965 (p.11), in cui era scritto che essi consideravano «un insulto
alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che,
estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà». Lo
trovate sul Web a questo indirizzo:
http://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/milani/l_obbedienza_non_e_piu_una_virtu/html/milani_d.htm
Successivamente scrisse anche al Tribunale
penale che lo giudicava. Potete trovare sul Web il testo della sua lettera
all’indirizzo:
http://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/milani/l_obbedienza_non_e_piu_una_virtu/html/milani_e.htm
Perché è importante l'invito del Papa?
Perché un Papa impersona la Chiesa di sempre. E’ tradizione che un Papa non ne
smentisca esplicitamente un altro, in particolare trattando di personalità
religiose e quindi di temi che implicano questioni di fede. Quindi il suo
giudizio rimarrà stabile.
Il Papa, all’inizio del suo videomessaggio,
ha ricordato che Milani scrisse di non volersi mai ribellare alla Chiesa. E ha
tenuto a precisare che la sua inquietudine non fu frutto di ribellione. Ed
effettivamente Milani accettò di essere confinato in una piccolissima
parrocchia di montagna dal suo vescovo. Anche da lassù la sua luce di grande
anima continuò a brillare, ispirando molti nell’indifferenza dei
più.
Nella Chiesa non si è fatti santi se ci
si ribella alla gerarchia. Dunque, il fatto che il Papa abbia attestato che
Milani non era ribelle è un buon inizio.
Ma è tanto grave ribellarsi?
Oggi è la festa della Liberazione in cui
si celebra la Resistenza storica al fascismo italiano e agli occupanti nazisti.
Eventi che si produssero come fatti di massa tra il 1943 e il 1945. Anche prima
vi furono resistenti, ma erano molto di meno. Gli italiani furono in massa
fascisti, guidati a ciò dalla loro Chiesa.
Oggi chiamiamo partigiani quei
resistenti di allora, ma loro in genere si definivano ribelli. Qui
sopra ho trascritto la Preghiera del ribelle di uno di loro, il
resistente cristiano Teresio Olivelli. Ho incollato anche la pagina di una
pubblicazione promossa dall’Olivelli e dai suoi compagni di lotta, intitolata
Il ribelle. “Non lasciarci piegare … dà la forza della
ribellione ... ascolta la preghiera di noi ribelli per amore”, così pregava
Olivelli. Celebrando la Resistenza, noi celebriamo una ribellione. Da essa è
sorta la nostra Repubblica democratica. La ribellione non era solo
rivolta, ma affermazione di principi umanitari che poi sono stati scritti nella
nostra Costituzione, come quello che il lavoro è al centro del moto di
liberazione delle masse e quindi del nostro sistema politico e
istituzionale. Celebrando la Resistenza storica, facciamo anche autocritica
perché per gli italiani il fascismo è sempre stato, ed è ancora, una forte
tentazione. Il Papato romano non ne è mai stato capace, anche se,
oggettivamente, essendosi storicamente federato con il regime fascista ed
avendo recepito parti importanti della sua ideologia, doveva considerarsi tra
gli sconfitti della guerra di resistenza. Il culmine di questo processo si
raggiunse con Achille Ratti e con la sua enciclica Il quarantennale,
del 1931, in occasione dell’anniversario dei quarant’anni dal primo documento
della moderna dottrina sociale, l’enciclica Le novità, del 1891. In
essa troviamo l’apprezzamento dell’ordinamento corporativo fascista in
particolare per “la repressione delle organizzazioni e dei conati
socialisti”.
C’è un’evidente continuità tra la politica
dei clerico-fascisti degli anni Trenta e la persecuzione di Milani trent’anni
dopo. Ma nemmeno un Papa, giuridicamente al vertice di tutto, riesce a
concedersi un’autocritica in merito. Egli, al tempo della repressione contro
Milani, era trentenne e gesuita: ha quindi l’età per farla e i gesuiti
dell'epoca furono tra i più duri e implacabili critici del Milani.
La persecuzione contro Milani fu uno
spreco umano e religioso enorme, del resto nella linea di tanti altri casi come
il suo prima di lui. Dobbiamo seguirlo nella sua mansuetudine verso coloro che
uno come Aldo Capitini, anche luigrande anima, chiamava,
ribellandosi, gerarchi religiosi? Se si fosse ribellato, non gli
sarebbe più stato consentito di fare il prete e quindi avrebbe perso i suoi ragazzi.
Sarebbe stato un insegnante senza più scolari. Nessuna grande anima deve
essere più posta in questo dilemma. Penso che occorra avere la forza di
ribellarsi a cose come queste.
“L’obbedienza non è più una virtù, ma la più
subdola delle tentazioni” scrisse però Milani ai sui giudici:
A Norimberga e a Gerusalemme
son stati condannati uomini che avevano obbedito.
L'umanità intera consente che essi non
dovevano obbedire, perché c'è una legge che gli uomini non hanno forse ancora
ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte
dell'umanità la chiama legge di Dio, l'altra parte la chiama legge della
Coscienza. Quelli che non credono né nell'una né nell'altra non sono che
un'infima minoranza malata. Sono i cultori dell'obbedienza cieca.
Condannare la nostra lettera equivale a
dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che
devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li avrà
comandati.
E invece bisogna dir loro che Claude
Eatherly, il pilota di Hiroshima, che vede ogni notte donne e bambini che
bruciano e si fondono come candele, rifiuta di prender tranquillanti, non vuol
dormire, non vuol dimenticare quello che ha fatto quand'era «un bravo ragazzo,
un soldato disciplinato» (secondo la definizione dei suoi superiori) «un povero
imbecille irresponsabile» (secondo la definizione che dà lui di sé ora).
(carteggio di Claude Eatherly e Günter Anders
- Einaudi 1962).
Ho poi studiato a teologia morale un
vecchio principio di diritto romano che anche voi accettate. Il principio della
responsabilità in solido. Il popolo lo conosce sotto forma di proverbio:
«Tant'è ladro chi ruba che chi para il sacco».
Quando si tratta di due persone che
compiono un delitto insieme, per esempio il mandante e il sicario, voi gli date
un ergastolo per uno e tutti capiscono che la responsabilità non si divide per
due.
Un delitto come quello di Hiroshima ha
richiesto qualche migliaio di corresponsabili diretti: politici, scienziati,
tecnici, operai, aviatori.
Ognuno di essi ha tacitato la propria
coscienza fingendo a se stesso che quella cifra andasse a denominatore. Un
rimorso ridotto a millesimi non toglie il sonno all'uomo d'oggi.
E così siamo giunti a quest'assurdo che
l'uomo delle caverne se dava una randellata sapeva di far male e si pentiva.
L'aviere dell'era atomica riempie il serbatoio dell'apparecchio che poco dopo
disintegrerà 200.000 giapponesi e non si pente.
A dar retta ai teorici dell'obbedienza
e a certi tribunali tedeschi, dell'assassinio di sei milioni di ebrei
risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel
delitto non è mai avvenuto perché non ha autore.
C'è un modo solo per uscire da questo
macabro gioco di parole.
Avere il coraggio di dire ai giovani
che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma
la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né
davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico
responsabile di tutto.
A questo patto l'umanità potrà dire di
aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al
suo progresso tecnico.
Si fa un esame di coscienza e ci
si avvede del tanto conformismo che impronta le nostre vite. Quante cose
sarebbero potute andare diversamente se ci fossimo veramente ribellati,
non solo a parole. E invece per quieto vivere spesso ci si fa da parte. Così,
grandi anime come il Milani finiscono emarginate. Che sarebbe stato se si
fosse insorti in massa, in religione, per il trattamento che gli fu riservato?
“Dacci la forza della ribellione!”, bisognerebbe pregare in certi casi.
45. Il Cielo in una stanza
Il
cielo in una stanza [di Gino Paoli]
Quando sei qui con me
questa stanza non ha più
pareti
ma alberi, alberi
infiniti:
quando sei qui vicino a
me
questo soffitto viola
no, non esiste più.
Io vedo il cielo sopra
noi
che restiamo qui
abbandonati
come se non ci fosse più
niente, più niente al
mondo.
Suona un'armonica:
mi sembra un organo
che vibra per te e per
me
su nell'immensità del
cielo.
Per te, per me:
nel cielo, nel cielo.
La visione
del Cielo è strettamente legata alle comunità in cui si vive. La religione è
stata sempre un fatto sociale. Comunità chiuse pensano Cieli piccoli, a
misura loro, e questo anche se cercano di comprendervi l’infinito, tutta la
storia umana e la produzione e destino dell’Universo, di tutto ciò che esiste.
La cultura aiuta
a spingersi più in là, nel tempo e nello spazio. Anche le religioni hanno loro
culture e, anzi, da un certo punto di vista sono culture. Questo può preoccuparci perché le culture
evolvono e ad un certo punto finiscono. Finirà anche la nostra religione?
Attualmente è in grande ripresa in tutto il mondo, fuorché in Europa, dove si è
raggiunta una visione più realistica delle cose, essenzialmente riuscendosi a
fare memoria sincera di una storia più lunga. La nostra religione ha avuto un
inizio e poi è divenuta dominante intorno al Mediterraneo e anche un po' più in
là in Europa, nel Quarto secolo, quando le religioni più antiche furono vietate
per decreto imperiale. Si è sviluppata con molta violenza. Ad un certo punto è
divenuta la religione dei dominatori del mondo, deicolonizzatori: si è diffusa nel mondo seguendo il dominio degli
Europei. C’è stata un momento in cui non ha avuto bisogno della violenza
per affermarsi? Le prime nostre collettività di fede, che ai tempi nostri si
vuole idealizzare abbastanza, erano piuttosto bellicose, per ciò che ne
sappiamo, e non ne sappiamo molto, a parte le aspre controversie ideologiche
che le caratterizzarono fortemente. E poi non è che sia andata molto meglio. La
nostra religione però si sta attualmente trasformando in una sua versione più
pacifica, che vorrebbe pacificare il mondo e in questo incontra coloro che,
anche al di fuori di concezioni religiose, ritengono che questa sia l’unica via
della sopravvivenza del genere umano. Del resto questa evoluzione si accorda
con la dottrina secondo cui il fondamento di tutto è agàpe, la benevolenza che fa posto a tutti.
Ma al
dunque, nella pratica corrente delle nostre vite, non ci è veramente utile
spingere tanto in là, in avanti e indietro, il pensiero, se non per ciò che ci
serve per non ripetere errori del passato. Più utile, ed anzi
imprescindibile, è cercare di capire il mondo in cui viviamo, e ciò richiede
di arrivare con lo sforzo di conoscenza molto al di là dei confini del
nostro ambiente sociale quotidiano, fino ad abbracciare tutto il globo. La
nostra organizzazione religiosa è divenuta veramente mondiale e ci può aiutare
in questo. Nelle università pontificie romane c'è gente di tutta la Terra.
Basta che guardiamo le scritte “made in…” che sono impresse negli oggetti di uso
quotidiano per convincerci che comprendere il mondo ci è divenuto
indispensabile. Questo significa un particolare impegno di apertura,
perché, in un certo senso, il mondo sta arrivando molto vicino a noi,
addirittura tra noi nel
grande rimescolamento di popoli che stiamo vivendo, un fenomeno epocale e molto
significativo. Avere a che fare con persone vere a volte ci sorprende, perché
gli altri spesso non sono come ce li immaginiamo, anche in religione. In un certo senso, con gli
altri che vengono tra noi, il cielo, il mondo, la storia, l’umanità nel suo
complesso, vengono veramente nelle nostre stanze domestiche. Così il nostro mondo cambia e noi con
esso. Se si studia la storia si capisce che è sempre stato così e, allora, può
prevedersi che così sarà sempre, finché l’umanità avrà una storia. Nulla di
nuovo sotto il sole, si dice, ed è anche scritto in un libro biblico: è
sapienza molto antica, anche se, facendone personale esperienza, sembra nuova.
Ma c’è qualcosa che non cambia, che resterà? Le Scritture ci dicono che sarà l’agàpe: una buona prospettiva per una
fede come la nostra che vorrebbe essere fondata sull’agape. Il Cielo, in definitiva, è agàpe. E tutta la nostra religione ha come scopo di
fare entrare il Cielo nelle nostre stanze, quindi molto vicino a noi. E’
immaginifica illusione? Vivendo la
religione (non accostandola nella realtà virtuale) si può fare l’esperienza che non lo è. In Italia è più
comodo che da altre parti nel mondo. Si esce di casa e c'è la parrocchia.
Bastano pochi passi e si è dentro. Venite
e vedete.
46. La
“Politica” con la maiuscola
Nel discorso del Papa all’Azione Cattolica del
30 aprile scorso i commentatori hanno notato l’invito a fare Politica con la maiuscola. Non sorprende, perché la Chiesa
cattolica è il principale agente politico del momento. In passato lo è stato il
Papato, e non è la stessa cosa. La differenza sta nella collaborazione dei
laici. L’Azione cattolica, dalle sue origini, si è specializzata nel fare
proprio questo. Ma, è importante ricordarlo, l’Azione Cattolica non ha 150
anni. Essa non deriva dalle organizzazioni di azione sociale ispirata
dall’ideologia del papato sorta da metà Ottocento e confluite dell’Opera dei
Congressi, anzi sorge, per così, dire sulle loro ceneri. Nasce infatti per
iniziativa del papato romano nel 1905, dopo lo scioglimento d’autorità di
quelle, per emergere di correnti democratiche, in particolare di quella di democrazia cristiana che ebbe tra i suoi principali esponenti il
prete Romolo Murri, successivamente scomunicato. Si era nel pieno della
persecuzione anti-modernista. Il modernismo era un movimento religioso che, a livello europeo, proponeva un aggiornamento nelle concezioni religiose. In Italia le
correnti democratiche di azione sociale ispirate dalla fede furono
sbrigativamente assimilate al modernismo
e con essa condannate. Questo perché, all’epoca, in principi dell’azione
sociale erano ritenuti integralmente compresi nella dottrina, quindi negli
insegnamenti normativi, del papato romano, senza alcuna autonomia dei laici.
Chi la manifestava era considerato eretico. L’Azione Cattolica nacque quando il
papato romano intese che la politica fino ad allora seguita, di intransigente rifiuto del sistema politico democratico
liberale che reggeva il Regno d’Italia, non aveva futuro. Organizzò quindi una
propria forza politica e sociale profondamente integrata, e quindi controllata,
dalla gerarchia. Di un’organizzazione simile non vi sono procedenti.
Naturalmente non c’era solo questo nell’Azione cattolica, perché in essa è
stata molto importante la formazione alla fede e il suo approfondimento. Ma l’azione dell’Azione Cattolica era fondamentalmente
sociale e politica. Essa seguì sempre gli orientamenti politici del papato
romano, sia nella compromissione con il fascismo, sia nello sviluppo
democratico. Dal 1945, con la mediazione di Alcide De Gasperi, l’Azione
Cattolica si integrò profondamente con il partito
cristiano, la Democrazia Cristiana. La politica di quest’ultima risultava
da un compromesso tra il papato romano e il movimento dei cattolico democratici
italiani, che aveva partecipato al rovesciamento del regime fascista con cui il
papato romano si era federato, con i Patti Lateranensi conclusi nel 1929 con il
Regno d’Italia dominato dal fascismo mussoliniano. La Democrazia Cristiana ebbe
necessità delle masse cattoliche organizzate nell’Azione Cattolica per
affermare la sua egemonia nel sistema politico democratico italiano. Ma
l’Azione Cattolica era anche la sua principale scuola di formazione alla
politica. In questa stagione, ai politici
cattolici venne riconosciuta dal
papato romano un maggiore autonomia nell’applicazione
delle soluzioni che il papato romano
riteneva giuste per l’Italia. Questo assetto terminò a seguito del Concilio
Vaticano 2° (1962-1965), quando i laici, riconosciuti come competenti nelle vicende
sociali e politiche, indicate con l’espressione temporali, vale a dire soggette a continui mutamenti con i
progredire del tempo, distinte da quelle spirituali,
ritenute eterne, vennero sollecitati
a collaborare alla definizione dei principi
di azione sociale. Questo lavoro avrebbe richiesto di trasformare le
strutture sociali di base della Chiesa anche il laboratorio di pensiero e
azione politica, dove i diversi orientamenti potessero confrontarsi. L’Azione
Cattolica, verso la fine degli anni ’60 e sotto la presidenza di Vittorio Bachelet,
rivide la propria organizzazione per svolgere al meglio questa opera sociale.
Il nuovo corso durò circa dieci anni. L’autonomia riconosciuta al
laicato ne comportò la frammentazione, in particolare tra le correnti
democratiche e quelle neo-intransigenti.
Non si riuscì mai a far posto, nell’organizzazione ecclesiastica ancora di tipo
feudale, a laici autonomi. Tutto fu sospeso, come congelato, e cominciò quella
che ho definito era glaciale. Fu il
tempo in cui il papato romano si federò sostanzialmente con l’Occidente
capitalista. Stavano crollando i regimi comunisti che dominavano nell’Europa
orientale: si ritenne che questa fosse la scelta migliore. Il papato romano
ebbe una svolta neo-intransigente per quanto riguarda la politica specificamente
italiana, che stava manifestando di dirigersi in direzione contraria. Il papato
si avvalse maggiormente delle componenti neo-intransigenti
del laicato, piuttosto che
dell’Azione Cattolica. Quest’ultima ha resistito fino all’ultima svolta del
papato romano, nel 2013, perché profondamente radicata nella società italiana,
in particolare tra i ceti colti. Ha continuato ad essere una delle principali
scuole italiane di politica e di azione
sociale in genere e ad esprimere un ceto politico ai vertici dello Stato.
Con il regno di papa Francesco, iniziato nel 2013, i fedeli laici, senza
più considerare principalmente quelli italiani, sono stati esortati ad una
nuova azione politica per salvare l’intero mondo dalla rovina. E’ questa la Politica con la maiuscola, i cui principi sono
sintetizzati nell’enciclica Laudato si’
del 2015. Quest’ultimo documento recepisce le conclusioni di diverse scienze
contemporanee, sull’ecologia, sull’economia e sulla politica. Non si tratta
propriamente più di una dottrina, ma di una prospettazione che,
innanzi tutto, deve essere confermata dall’analisi, perché la situazione
mondiale è in continua e rapida evoluzione, e poi sviluppata. Questo sviluppo,
che comprende anche i principi di azione sociale, è il campo proprio dei laici. Le componenti neo-intransigenti, mondi chiusi e in lotta ciò che è al loro
esterno, non sono adatte a questo lavoro. Solo l’Azione Cattolica e altre
componenti laicali che seguono il suo metodo, il dialogo e la mediazione
culturale, lo sono. Questo il senso dell’appello del Papa.
47. La questione democratica
Un altro Campo, dove tra il giovane Clero si va trovando pur troppo
ansia ed eccitamento a professare e propugnare la esenzione da ogni giogo di
legittima autorità, è quello della cosi detta azione popolare cristiana. Non
già, o Venerabili Fratelli, perché questa azione sia in sé riprovevole o porti
di sua natura al disprezzo dell'autorità; ma perché non pochi, fraintendendone
la natura, si sono volontariamente allontanati dalle norme che a rettamente
promuoverla furono prescritte dal Predecessore Nostro d'immortale memoria [il papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone
13°]
[…]
Del resto, Venerabili Fratelli, a
porre un argine efficace a questo fuorviare di idee ed a questo dilatarsi di
spirito di indipendenza, colla Nostra autorità proibiamo d'oggi innanzi
assolutamente a tutti i chierici e sacerdoti di dare il nome a qualsiasi
società che non dipenda dai Vescovi. In modo più speciale, nominatamente,
proibiamo ai medesimi, sotto pena pei chierici di inabilità agli Ordini sacri e
pei sacerdoti di sospensione ipso facto a divinis, di
iscriversi alla Lega democratica nazionale, il cui programma fu
dato da Roma-Torrette il 20 ottobre 1905, e lo Statuto, pur senza nome
dell'autore, fu nell'anno stesso stampato a Bologna presso la Commissione
provvisoria.
[dall’enciclica Con animo pieno (di salutare timore) diffusa nel 1906 dal
papa Giuseppe Sarto - Pio 10°]
Quando
si parla di “150 anni di storia dell’Azione Cattolica” non si fa
memoria fedele, e quindi purificata, di quella storia: se ne fa una
versione emendata dei tratti più duri. L’Azione cattolica
nasce nel 1905 nel mezzo della persecuzione antimodernista, che oggi stupisce
per la sua indiscriminata violenza. Il modernismo fu essenzialmente un movimento
intellettuale che proponeva un aggiornamento della cultura religiosa. Fu
colpito perché violava il monopolio che in questo campo era rivendicato dal
papato romano nelle cose spirituali. In Italia venne confuso con le correnti
democratiche del movimento cattolico, che contrastavano invece il monopolio
politico all’epoca rivendicato dal papato romano. Esse avevano una forte
impronta sociale, per venire incontro alle classi lavoratrici, in particolare
nel settore dell’agricoltura in Emilia Romagna, ed erano animate da molti
giovani preti. Uno di essi fu Romolo Murri, fondatore nel 1896 della
Federazione Universitaria Cattolica Italiana - FUCI, poi integrata nell’Azione
Cattolica pur mantenendo autonomia organizzativa, e nel 1905 della Lega
Democratica Nazionale, che può essere considerato il primo partito politico
di ispirazione religiosa. La reazione disciplinare del papato romano colpì
aspramente le correnti democratiche del movimento cattolico assimilandole al
modernismo, quindi ad un movimento considerato come eretico. Ma l’eresia dei
cattolico-democratici era fondamentalmente la loro pretesa di indipendenza dal
papato romano nelle questioni politiche e il loro parteggiare per le classi più
umili della società.
La diffidenza del
papato romano per i processi democratici lo portò poi, in Italia, a
compromettersi con il fascismo, dopo aver consentito, molto cautamente, con
molte riserve e vietando denominazioni come democrazia cristiana e
simili, esperimenti di politica democratica tra il 1912 e il 1926. La
disfatta del fascismo lo costrinse ad accettare la collaborazione dei
cattolico-democratici, i quali, formatisi in buona parte nelle organizzazioni
intellettuali dell’Azione Cattolica, la FUCI e il Movimento Laureati, avevano
partecipato alla guerra di Resistenza. Esso quindi accettò, non senza riserve,
la proposta politica di Alcide De Gasperi.
Negli anni ’60, la
svolta impressa dal Concilio Vaticano 2° nei rapporti con le società civili,
consentì lo sviluppo di processi democratici nel movimento cattolico nazionale,
in particolare nell’Azione Cattolica, la quale, con il nuovo statuto del 1969,
sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, volle definirsi palestra
di democrazia. L’accettazione senza riserve della democrazia politica da
parte del papato romano risale però solo al 1991, con l’enciclica Il
Centenario, di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°. Non vi sono però molte
sedi, in religione, per fare pratica di democrazia, al di fuori dell’Azione
Cattolica. In particolare, non la si fa, in genere, nelle parrocchie. L’impegno
politico richiesto oggi del papato romano, la richiederebbe. Infatti non si
tratta più di preservare il potere politico del papato in Italia, ma,
addirittura, di salvare il mondo, progettando un nuovo modello di sviluppo economico.
Questo esige di collaborare con altre componenti sociali e lo si può fare solo
con metodo democratico, quello basato sul dialogo. E l’esortazione al dialogo è
stata al centro del recente messaggio di papa Francesco all’Azione Cattolica.
Dal papato romano non è
mai venuta alcuna autocritica per la lunga persecuzione antidemocratica, ma
essa è necessaria per chi voglia procedere con metodo democratico. L’idea di
democrazia non deve più essere accostata a quella di indisciplina e addirittura
di eresia. Questo comporta un processo di riforma, che non verrà dall’alto per
i limiti intrinseci all’organizzazione feudale delle nostre organizzazioni
religiose. Esso può invece cominciare ad essere sperimentato dal basso,
su scala più piccola, per diffondersi ed estendersi in ciò che di buono
produrrà. Il primo passo è di fare tirocinio di democrazia nelle decisioni
delle esperienze sociali di prossimità, a tutte le età, fin da molto piccoli.
48. Informazioni sulla
democrazia.
48.1. La democrazia è una forma di organizzazione
della società in cui si vuole realizzare un’ampia partecipazione alle decisioni
comuni.
Democrazia è una
parola greca che si compone di altre due parole greche: dèmos, che
significa popolo, e cràtos, che significa potere.
Dunque significa il potere del popolo.
Gli antichi greci furono tra i primi a
ragionare sul potere sociale.
Contrapponevano la democrazia,
il potere dei più, alla monarchia, il potere di uno solo, e
alla oligarchia, il potere di pochi.
Anche in democrazia i capi sono pochi,
ma devono rispondere ai più, non hanno un potere illimitato e possono essere
periodicamente sostituiti.
Ciò che distingue una democrazia da una
oligarchia è dunque la possibilità di critica sociale e
l’esistenza di regole che limitino il
potere dei capi e ne prevedano la periodica sostituzione con metodi che
coinvolgano i più.
Schematicamente: in una democrazia il
potere tende a salire dal basso, perché i più possono scegliere i pochi che
saranno i loro capi; in una oligarchia il potere scende dall’alto, perché i
pochi che comandano scelgono i loro successori e quelli che comanda ai
livelli inferiori.
Ogni democrazia, degenerando, tende a
diventare una oligarchia, mentre ogni oligarchia è insidiata dai processi
democratici, così come ogni monarchia.
Nelle società complesse non esistono
vere monarchie: queste ultime, a ben vedere, sono in genere delle oligarchie
dinastiche, quindi basate su una rete di famiglia, per cui il potere supremo
rimane tra parenti che se lo trasmettono di generazione in generazione.
Un altro tipo di oligarchia è la ierocrazia
(un'altra parola greca composta da ieròs, che significa sacro,
e da cràtos): in essa i capi ritengono di essere stati scelti in
modo soprannaturale per fare da tramite tra il Cielo e il mondo umano.
Attualmente la nostra Chiesa è, dal
punto di vista dell’organizzazione del potere, una oligarchia-ierocrazia in cui
si stanno sviluppando processi democratici.
La Repubblica italiana è invece
attualmente una democrazia in cui si stanno sviluppando processi oligarchici:
questa è una tendenza che è in atto in tutto il mondo, salvo che in pochi
stati.
Paradossalmente le monarchie
dell’Europa settentrionale sono i sistemi politici in cui i processi
democratici sono più attivi e al sicuro. La degenerazione oligarchica è
segnalata dalla restrizione della possibilità di critica sociale, ad esempio di
quella giornalistica, dell’ampliamento in durata ed estensione dei poteri dei
capi e dal contemporaneo indebolirsi dei limiti a questi poteri, ad esempio
della possibilità di ricorrere in giudizio contro le loro decisioni, e
dalla difficoltà della periodica sostituzione di chi comanda ai vertici
supremi.
Le monarchie e le oligarchie in genere
cadono a seguito di processi rivoluzionari, più o meno violenti. Le democrazie
possono evolvere in oligarchie senza atti formalmente rivoluzionari.
Queste informazioni vengono date di
solito agli studenti all’inizio dei corsi di Legge, Scienze politiche e
Sociologia, ma dovrebbero rientrare nel patrimonio culturale di tutti i
cittadini. Se ne dovrebbe parlare anche in parrocchia, se si vuole che prepari
i laici di fede a svolgere in società i compiti impegnativi indicati
nell’enciclica Laudato si’.
48.2 Ogni forma di organizzazione
sociale cambia continuamente. Questa è la lezione che ci viene dallo studio dei
fatti umani, fin da quelli più antichi.
Possiamo farci un’idea di come si era in
tempi molto lontani studiando le società umane meno evolute che ancora ci sono
e che verosimilmente vivono come i primitivi.
L’evoluzione delle società umane è stata
favorita dalla conquista del linguaggio e soprattutto da quella della
scrittura. Con la produzione di documenti scritti inizia la storia umana. A quel punto le società
erano già piuttosto complesse.
Dal punto di vista biologico discendiamo da
esseri viventi sociali. Come erano i nostri progenitori non umani? Si pensa che
fossero simili alle scimmie antropomorfe (parola che significa: con aspetti fisici e movenze simili a quelle
umane) che vivono in gruppi sociali dominati da un maschio che si accoppia con
molte femmine e al quale altri maschi sono sottomessi. L’evoluzione biologica è
sociale ha reso possibile organizzazioni più complesse, dominate da oligarchie
di maschi o, più raramente, di femmine. Tra i maschi probabilmente contavano di
più i cacciatori e i guerrieri e gli anziani, questi ultimi perché sapevano
come andavano le cose del mondo sulla base di una lunga esperienza. Nelle
società primitive contemporanee i capi sono anche mediatori con le divinità.
Fin dalle origini probabilmente era così. Gli esseri umani capivano di essere
dominati da potenze non umane, innanzi tutto quelle della natura, e le
deificavano. Per rendersele propizie si escogitarono dei riti, delle cerimonie
simboliche, che avevano bisogno di chi compisse le azioni prescritte: questo
era il compito dei sacerdoti. I re, le figure dominanti tra gli oligarchi,
erano in genere sacerdoti. Fin dalle origini troviamo quindi il potere connesso
con la religione. Uno dei compiti degli oligarchi, e i particolare dei re, era
quello di risolvere le controversie civili e religiose: questo produsse una
giurisprudenza, vale a dire una tradizione nelle decisioni con cui si
risolvevano le liti, connotata religiosamente. C’era un ordine nell’universo, di
carattere sacro perché non in dominio umano, e, nel caso
venisse turbato, occorreva rimediare per ripristinarlo. La religione e il diritto servivano a questo e venivano
somministrati da giudici/sacerdoti. A ben vedere qualcosa delle origini rimane
anche nelle contemporanee ideologie religiose e giuridiche e questa è una
costante nelle cose umane, sia di quelle biologiche che sociali.
Ai tempi nostri si ha talvolta l’idea che le
società umani siano radicate in certi posti. Questo è uno sviluppo politico relativamente
recente nella storia umana, che si è avuto probabilmente con lo sviluppo
dell’agricoltura tra i 20.000 e i 10.000 anni addietro. Le società umane delle
origini erano verosimilmente nomadi e troviamo tracce di loro lunghissime
migrazioni per tutta la Terra. Abbiamo indizi molto convincenti che i
progenitori degli attuali Europei provenissero dal centro dell’Africa.
Il radicamento
politico su un territorio sviluppò
molto la concezione giuridica della proprietà,
sulla base delle controversie che sorgevano. Si divenne proprietari di terra e
anche di altri esseri umani. I re, che concepivano sé stessi inizialmente come
figure paterne, come padri
del loro popolo, iniziarono ad agire
come proprietari di esso. Cercarono a lungo un’investitura
divina. E’ significativo che, ad un certo punto, gli antichi imperatori romani
assumessero anche la carica di pontefice
massimo, il più importante sacerdote dei lori tempi. E sommo Pontefice è uno dei
nomi con cui oggi si indica il Papa. Il potere politico veniva in questo modo
collegato all’ordine universale, cosmico (cosmo
è una parola del greco antico che significa universo).
Si ebbe così una sacralizzazione del potere, che significa appunto collegare il
potere all’ordine cosmico. Quest’ultimo veniva considerato come voluto dagli dei soprannaturali. Ciò che riguardava le cose
soprannaturali era sacro, nel senso
di sottratto religiosamente al potere degli esseri umani sotto pena di gravi
conseguenze. Solo speciali mediatori tra gli umani e il soprannaturale potevano
accostare il sacro. Sacralizzare il potere significò volerlo sottrarre alle
contestazioni e ad altri pretendenti. Il potere sacerdotale, di mediazione tra umani e soprannaturale, era
accentrato in chi deteneva il potere politico
e costituiva un’arma in più a presidio di quel potere. Vi furono anche
re che vollero farsi dei, ma in genere dei tra altri dei: vollero essere
considerati una delle potenze soprannaturali del mondo. Questa sacralizzazione del potere è ancora molto forte nella nostra
organizzazione religiosa.
48.3.
La sacralizzazione del potere politico
spiega perché i processi democratici siano stati considerati anche delle eresie e
l’importanza che ha per la loro affermazione il principio della laicità delle
istituzioni pubbliche.
Secondo il principio
della laicità dello stato, le istituzioni pubbliche non devono far
ricorso alla religione per motivare quello che fanno ed è vietata ogni
discriminazione su base religiosa.
La sacralizzazione del potere si è
sviluppata in varie forme nelle civiltà del mondo. In un discorso sulla
democrazia, però, interessa particolarmente il modo europeo, perché è da
europei che sono state ideate le prime democrazie contemporanee. E poi noi
italiani siamo europei.
Dal Quarto secolo della nostra
era, in Europa, la sacralizzazione del potere avvenne secondo la teologia della
nostra fede. Questo la mette in questione e ci mette in
questione, come persone di fede, parlando di democrazia. I sistemi politici che
scelsero come sede suprema del loro potere la città di Bisanzio, nella
regione greca della Tracia, furono il modello originario di quella
sacralizzazione: di là dominarono l’imperoromano, ridottosi
poi progressivamente a porzioni sempre più piccole del territorio originario,
procedendo le invasioni di popoli dal nord Europa e quelle arabe nel
meridione. Quello fu anche il modello della magnificenza liturgica dei
cerimoniali del potere europei. Ogni sovrano europeo vi si richiamò, compresi i
Papi. E’ significativo che tutti i Concili ecumenici, vale
a dire le assemblee deliberative comprendenti tutti i capi religiosi della
nostra fede, del primo Millennio della nostra era siano stati indetti
dagli imperatori di Bisanzio. In questo modello c’era
un sovrano celeste, soprannaturale, di cui quello terreno, l’imperatore era
un delegato. Le culture dei popoli che dal nord Europa avevano conquistato la
parte occidentale dell’Impero romano lo assimilarono. Nel Nono secolo della
nostra era, oligarchie di popolazioni germaniche costituirono un Sacro
Romano Impero, un’organizzazione politica sacralizzata secondo la nostra
fede durata circa mille anni. Possiamo riconoscere che la sacralizzazione del
potere politico funzionò bene nel renderlo più stabile. Traccia di questa
sacralizzazione la troviamo nei preamboli delle leggi del Regno d’Italia,
piuttosto vicino a noi nel tempo, dove è scritto che il sovrano regna e
legifera “per grazia di Dio”. Il Trattato tra la Santa
Sede e l’Italia, concluso l’11-2-1929 tra il papato romano, regnante
Achille Ratti - Pio 11°, e il Regno d’Italia, rappresentato da capo del Governo
dell’epoca Benito Mussolini, Duce del Fascismo, inizia con “In nome della
Santissima Trinità”. Formule analoghe furono impiegate negli atti
legislativi e di governo degli stati europei, ma il riferimento alla divinità
si trova anche in quelli di diversi stati islamici contemporanei.
La sacralizzazione giustifica il
potere assoluto, vale a dire senza limiti, del
sovrano. Non c’è autorità più alta di quella celeste, dunque anche quella del delegato
terreno di quella potenza non può riconoscerne un’altra superiore nel mondo. La
sacralizzazione del suo potere spiega perché, ancora oggi, il Papa è, secondo
il diritto canonico, quello della nostra organizzazione religiosa, un sovrano
assoluto. Si tratta, nelle nostre organizzazioni religiose, di un processo che
si è sviluppato nel secondo millennio della nostra era, non era originario
nella nostra fede. Nei secoli precedenti il papato, all’inizio, era stato
politicamente subordinato all’imperatore romano, in realtà al
potere politico supremo con sede in Bisanzio. Successivamente divenne
politicamente un feudatario (che significa principe di
livello inferiore, legato alla fedeltà ad un sovrano superiore) degli
imperatori germanici e da questi ebbe il suo regno nell’Italia centrale. Nel
secondo millennio della nostra era volle costituirsi come un impero religioso,
come supremo mandatario (che significa delegato) celeste, con un
potere più alto di quello dell’imperatore civile. Da qui una serie molto lunga
di conflitti politici tra il papato romano e le monarchie civili europee, e tra
queste ultime per ragioni anche religiose che coinvolgevano la loro sacralizzazione, quindi
la giustificazione del loro potere assoluto, con alterne vicende, fino a che,
tra il Cinquecento e il Seicento cominciò a svilupparsi il processo di laicizzazione del
potere politico. Questo consentì lo sviluppo e l’affermazione dei processi
democratici. Indebolitasi la giustificazione sacrale del
potere, ne occorreva trovare un’altra. Ma come giustificare, in questo nuovo
quadro, un potere assoluto, per di più attribuito a una sola
persona, scelta nelle generazioni di un’unica famiglia, come accadeva nelle
monarchie europee dinastiche? La persistente attuale, forte, sacralizzazione
del potere del papato romano ha impedito finora l’affermazione di processi
analoghi nella nostra organizzazione religiosa.
48.4.
Gli esseri umani,
nella loro biologia e nella loro psicologia, quindi nel corpo e nella
mente, e le loro organizzazioni sociali, in ogni loro aspetto,
mutano continuamente. Se non se ne è convinti, è inutile procedere
con i ragionamenti sulla democrazia, in particolare sulla democrazia come la si
concepisce dalla metà del secolo scorso. Perché, appunto, quel tipo di democrazia
serve a far cambiare la società pacificamente, ma a farla cambiare. La sacralizzazione del
potere politico serve invece a contrastare la tendenza delle società a
cambiare, travolgendo che le domina. In una società dominata da un potere sacralizzato un
cambiamento può essere solo rivoluzionario e violento. Un potere è sacralizzato quando
lo si ritiene frutto di una volontà soprannaturale, la volontà del Cielo. Si
istituisce così un continuità tra l’ordine dell’universo e quello politico, che
si ritiene scaturire da una medesima volontà. Ciò che è sacro si
ritiene sottratto al dominio umano sotto pena di gravi conseguenze, di
punizioni divine. Un potere sacralizzato, in cui chi domina
concepisce sé stesso come delegato del Cielo, si sentirà autorizzato
a irrogarle per conto della potenza celeste che
l’ha delegato. Tutte le società europee in cui si svilupparono, dalla
metà del Settecento, processi democratici erano dominate da regimi
assolutistici sacralizzati, nelle quali le dinastie regnanti, e i sovrani di
volta in volta da esse espressi, governavano“per grazia di Dio”.
Anche nel mondo contemporaneo vi sono poteri politici sacralizzati.
Siamo europei: anche nelle nostre società è così. La massima sacralizzazione
del potere politico si riscontra, nelle società europee, quelle del nostro
continente e quelle di colonizzazione europee, nella nostra Chiesa. Essa sotto
molti aspetti è ancora organizzata come un impero religioso, quindi come uno
stato, e ne possiede anche un simulacro qui da noi in città, nel quartiere
romano di Borgo. Lo definisce stato in modo non del
tutto conforme al Trattato che nel 1929 il papato romano,
regnante Achille Ratti - Pio 11°, concluse “ In nome della Santissima
Trinità”, come è scritto nel preambolo di quell’accordo internazionale,
con il Regno d’Italia, rappresentato nell’occasione del Duce del
Fascismo, Benito Mussolini. Infatti in quel Trattato si
legge che “è istituita la Città del Vaticano”, e mai si parla di
tale entità politica come di uno stato. Ma anche negli stati
dell’Unione Europea, benché basata sul principio della laicità delle
istituzioni pubbliche, si avvertono vari livelli di sacralizzazione del
potere politico. Una ripresa di sacralizzazione politica si avverte negli stati
dell’Europa orientale che all’inizio degli anni ’90 uscirono dal dominio dei
regimi comunisti. A livello simbolico, il mantenere il Crocifisso negli spazi
pubblici è una manifestazione di sacralizzazione delle
istituzioni pubbliche, anche se ora se ne propongono altre giustificazioni, in
genere poco convincenti dove vige il principio supremo della laicità
dello Stato.
Il principio giuridico, e
addirittura costituzionale, della laicità dello Stato significa
prendere atto che non vi è potere politico che possa arrogarsi di governare “per
grazia di Dio, sottraendosi così al giudizio collettivo e alla possibilità
di essere cambiato. Esso è fondamentale per lo sviluppo dei processi
democratici. E’ chiaro che non è in questione la nostra religione, ma la
sua strumentalizzazione politica, per lasacralizzazione del
potere politico.
Storicamente il processo di desacralizzazione del
potere politico iniziò con il finire dell’era storia che definiamo Medioevo europeo,
nel Quattrocento. Esso fu innescato da sviluppi dell’economia che andarono di
pari passo a quelli delle scienze. Nelle città si aprirono nuovi spazi di
libertà per aumentare il benessere privato e collettivo, le relazioni
commerciali si intensificarono, si scoprirono nuove terre, che apparivano come
nuovi mondi. Lo sviluppo delle scienze, nelleuniversità europee
cominciò a rendere un’immagine più realistica del cosmo e dei fatti naturali.
Dal Duecento in Europa si
svilupparono università degli studi, istituzioni di studi
superiori, le quali in genere, in epoca e ambienti sociali di fortissima sacralizzazione del
potere politico, erano dominate dalla teologia della nostra fede. L’ordine
naturale e sociale dovevano combaciare, andare di pari passo, perché frutto di
una medesima volontà celeste, che aveva istituito sulla terra dei delegati, tra
i quali il papato romano, proprio in quell’epoca, pretendeva di essere il più
potente. A quel periodo risale l’istituzione del potente sistema di polizia
politica del papato romano, l’Inquisizione, che segnò tragicamente il
secondo Millennio, travagliando le vite di quasi tutti i riformatori in ogni
campo, fino all’affermazione dei processi democratici nel Settecento. Un
esempio di come la si pensava a quei tempi lo si ritrova nella Divina
Commedia di Dante Alighieri, scritta nel Trecento, un documento
essenzialmente di critica politica e religiosa in cui si riflettono le
concezioni dell’epoca sull’universo.
Il primo regno ad essere colpito dal
processo di desacralizzazione, quindi ad essere messo in questione
nella sua legittimazione sacrale, fu, nel Cinquecento, il papato
romano, con la Riforma promossa del monaco agostiniano
Martin Lutero (1483-1546) professore nell’università di Wittemberg, nella
regione tedesca della Sassonia, nel Nord-Est della Germania. Questo processo,
originato da controversie teologiche, ebbe prestissimo risvolti politici,
manifestando chiaramente di riguardare anche la sacralizzazione del
potere politico, anche se ad essere contestata era la sacralizzazione del
papato romano non la sacralizzazione del potere politico in sé. Il vero
processo di desacralizzazione iniziò invece dopo una lunga serie di conflitti
bellici tra regni europei che rivendicavano diverse forme di propria
sacralizzazione e in genere lo si fa risalire ad accordi di pace conclusi nel
1648 nella regione tedesca della Vestfalia, nel Nord-Ovest della
Germania.
Il papato romano, fino ad epoca
recente, reagì sempre duramente ai tentativi di desacralizzare il
suo potere politico. Una della ultime manifestazioni di ciò fu
l’enciclica Quas primas [= Nella prima (enciclica)],
del papa Achille Ratti - Pio 11°, diffusa nel 1925, in cui, criticando il laicismo (l’orientamento
culturale volto ad escludere la religione dai discorsi pubblici), si critica in
realtà il principio della laicitàdello stato. In essa si legge
(testo integrale su
https://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_11121925_quas-primas.html )
Il "laicismo"
La peste della età nostra è il così detto
laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili
Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava
nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l'impero di Cristo su
tutte le genti;si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di
Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i
popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione
cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata
al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata
quasi all'arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora:
vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un
certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di
poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell'irreligione e nel
disprezzo di Dio stesso.
In seguito il papato romano usò toni più
sfumati, riconducendo la sua pretesa di potere all’ambito essenzialmente
spirituale. Di fatto rimase uno dei principali agenti politici in Italia, e lo
è stato fino all’inizio del regno di papa Francesco, ma operando attraverso la
mediazione prima di un partito cristiano desacralizzato, vale
a dire di ispirazione religiosa ma senza la pretesa di essere delegato da
poteri soprannaturali, e poi di più correnti politiche desacralizzate,
presenti in vari partiti politici, trasversali come si suole dire.
A conclusione di questo discorso, tengo
a precisare che bisogna convincersi di questo: non sono le religioni
che minacciano la pace politica, come talvolta sento sostenere, ma
la sacralizzazione del potere politico. Se il potere politico è sacralizzato,
allora viene a dipendere per la propria stabilità
da una, e una sola, religione. Per questo diventerà
intollerante della altre e queste ultime lo avverseranno per affermare il
proprio diritto civico ad esistere o per affermare un potere politico
sacralizzato basato sulle proprie convizioni di fede. Se invece lo
si desacralizza, quindi se trova giustificazioni non
religiose per la propria sussistenza, potrà reggere società in cui si
manifestano più concezioni religiose e anche concezioni ateistiche. Un esempio
di ciò lo vediamo nella prima delle democrazie contemporanee, gli Stati Uniti
d’America, in cui un potere politico totalmente desacralizzato regge una
società complessivamente molto religiosa, secondo diverse confessioni.
48.5.
L’evoluzione degli
organismi e delle società lascia tracce di ciò che c’era prima in ciò che si è
evoluto. Ecco perché, ragionando sul futuro, è importante conoscere la storia,
quindi gli eventi passati. Sotto certi profili il passato non è sempre
veramente passato. Lo vediamo, ad esempio, nelle lingue umane.
Dico “lingua” e parlo latino, la lingua della Roma di duemila anni
fa, ma insieme anche l’italiano di oggi.
La Questione romana ha
travagliato la storia italiana dall’unità nazionale, nel 1861, alle elezioni
politiche del 1913, le prime a cui poterono votare tutti gli adulti maschi
cittadini italiani. Il papato romano, come reazione alla conquista militare del
suo piccolo stato nell’Italia centrale da parte del Regno d’Italia, vietò
ai fedeli italiani, obbligandoli per fede e quindi considerando in peccato
mortale i trasgressori, la partecipazione alle elezioni politiche nazionali,
sia come candidati sia come elettori. Il Re Savoia venne scomunicato (in un
Regno che nel suo Statuto proclamava: “La Religione
Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato”!).
Successivamente il papato romano contrastò duramente i processi democratici
nazionali, vietando espressamente di considerarli validi per portare valori di
fede nell’organizzazione sociale italiana, vietando quindi ogni idea di una democrazia
cristiana, punendo come eretici coloro che non si uniformavano a
quest’orientamento. Negli anni Venti del secolo scorso contrattò con il
Mussolini, il Duce del Fascismo, il simulacro di stato che ancora possiede nel
quartiere romano di Borgo, concludendo nel 1929 accordi con i quali accettava
gravissime limitazioni alla libertà di azione dei preti, che fino ad allora
erano stati protagonisti della vita sociale italiana, e di tutti gli altri
fedeli, considerando così chiuso provvidenzialmente il
conflitto con il Regno d’Italia. E, infine, con l’enciclica Il Quarantennale,
del 1931, spinse gli italiani verso il fascismo proclamando di apprezzarne
l’ordinamento corporativo, invitando i fedeli a collaborarvi, ma anche l’azione
repressiva politica contro le organizzazioni socialiste. Nessuna autocritica è
mai venuta dal papato per questa tragedia nazionale, salvo il riconoscere, come
fece il papa Montini, la natura provvidenziale della
fine dello Stato Pontificio, il regno politico dei papi. Questa autocritica
deve però venire da noi fedeli: dobbiamo essere consapevoli dell’influenza
negativa che, a lungo, la religione ha avuto nello sviluppo della democrazia
nazionale.
La lunghissima sacralizzazione dei
poteri politici in Europa fece ritenere al papato romano di non essere sacro a
sufficienza senza un proprio dominio politico territoriale, senza un
proprio stato. Questo perché, fino alla fine della Seconda guerra
mondiale, nel 1945, lo stato era ritenuto la sede del potere
supremo, vale a dire di quello che non riconosceva altri poteri sopra
di sé (questa è proprio la formula che definiva il potere statale nei
manuali di diritto pubblico di una volta): il papato romano storicamente,
dall’inizio del Secondo millennio della nostra era, non volle riconoscere alcun
potere politico sopra di sé e dunque ritenne che gli fosse
indispensabile possedere uno stato. Nel mondo di oggi
non è più così. Si è costituita una potente organizzazione sovranazionale,
quella delle Nazioni Unite, che dà direttive agli stati e questi
ultimi sono spesso legati ad altre organizzazioni simili, come accade nella
nostra Unione Europea. Si organizzano azioni internazionali per
deporre dittatori o per far cessare crudeltà e guerre. Un potere
che possieda uno stato non può più essere considerato
solo per questo supremo. Se ne sono accorti anche nel piccolo regno
di quartiere dei papi, quando non avevano adeguato le loro procedure di
controllo finanziario alla normativa internazionale antiriciclaggio e allora
gli si sono spenti i bancomat. Sono dovuti di corsa correre ai ripari.
Ecco come la rivista Panorama ha
sintetizzato quella vicenda in un articolo del gennaio 2013:
I bancomat funzionano in tutta la Capitale, ma non in quei 44
ettari che stando alle leggi (umane e anche divine) proprio Roma non sono: si
tratta del perimetro della Città del Vaticano.
È così dal primo gennaio: ai musei Vaticani, ma anche al
distributore, al supermercato, al magazzino abbigliamento, al tabacchi ed
elettronica, alla posta e in farmacia, si paga come una volta: solo in contanti
o al massimo tramite il bancomat interno emesso dallo Ior, l'Istituto per le opere di
Religione , che però i numerosi turisti e italiani che
frequentano i Sacri Palazzi non hanno.
Colpa di Bankitalia, che non ha
poteri in quei 44 ettari, ma che ha imposto a Deutsche Bank Italia,
braccio italiano della prima banca privata tedesca, di disattivare i POS a San
Pietro e dintorni, che gestisce dal 1997.
E per farlo Via Nazionale ha più di una ragione: il Vaticano non
può utilizzare POS gestiti con banche italiane, perché - secondo la normativa
antiriciclaggio - è un soggetto extracomunitario non
equivalente a fini della vigilanza sul riciclaggio del denaro .
San Pietro, in altre parole, trattato come la peggiore isola
caraibica. Ma le regole sono regole: Deutsche Bank Italia, infatti, è un
soggetto di diritto italiano e quindi controllato da Bankitalia. Quindici anni
fa aveva aperto POS in Vaticano senza richiedere la necessaria autorizzazione.
La storia ci ha lasciato in eredità il piccolo regno di
quartiere dei Papi che oggi è sentito più che altro come un impaccio da chi lo
governa. Sotto certi aspetti è un po’ un parco a tema, come Disneyland,
con tanti pittoreschi figuranti. Non è come capi di stato che
i papi contano nel mondo, ma come capi spirituali di circa un miliardo di
fedeli. Possedere uno stato è anche sotto certi altri aspetti
controproducente per il papato romano, come segnalarono ai tempi del
compromesso con il fascismo gli studiosi di diritto ecclesiastico: i fedeli
infatti vi entrano un po’ come stranieri. Si potrebbe tornare indietro? Il Papa
è un sovrano assoluto nel suo piccolo regno, certo che potrebbe farlo, ma, in
realtà, non può. Quella storia di cui parlavo lo condiziona, lo
limita. Accade anche a noi qualcosa di simile in tante cose e, in particolare,
nella questione della democrazia. Questo perché il cedimento al fascismo,
avvenuto ormai tanto tempo fa, ha lasciato tracce profonde in noi, nella
cultura a cui ci riferiamo prendendo decisioni. Fascismo e religione si
compenetrarono reciprocamente e, sotto certi aspetti, quando pensiamo al
modello ideale di fedele, a volte ci richiamiamo al modello clerico-fascista.
In genere non ce ne accorgiamo, perché non curiamo a sufficienza la memoria
storica. Accade ad esempio quando ci confrontiamo con l’ebraismo o con le genti
che arrivano da noi dall’Africa. Nelle questioni sulla famiglia. Su quella del
Crocifisso nelle aule pubbliche. E in molte altre. Quando si sostiene
superficialmente che la Chiesa non è una democrazia si
ragiona in quel modo. Innanzi tutto: la Chiesa non è uno stato e
non dovrebbe nemmeno possederne uno. Ne siamo convinti? Prendiamo sul serio
le parole del Maestro quando disse che il suo Regno non era di questo
mondo? Se però, nel mondo, si costituiscono delle
istituzioni per vivere collettivamente la religione, come possono essere un
ente caritativo, un’università, o una parrocchia, perché non si dovrebbe
praticarvi il metodo democratico, che oggi è generalmente riconosciuto come
migliore di quello feudale di tanti secoli fa? Perché, si sostiene,
altrimenti i valori di fede sarebbero nelle mani delle maggioranze. Bene,
su questo si può discutere. Bisogna capire bene, innanzi tutto, che cosa
intendiamo, ai tempi nostri, per democrazia.
48.6.
Per chi scrivo queste
brevi note sulla democrazia? Non per chi ne sa già
abbastanza: chi ha studiato Legge, Scienze politiche e
Sociologia, i preti, chi fa il dirigente in Azione Cattolica, chi è
interessato all’argomento e ha già approfondito per suo conto. Scrivo per tutti
gli altri, in particolare per i più giovani. La democrazia infatti è nelle loro
mani, è una loro responsabilità per costruire il futuro. L’Azione Cattolica
ritiene proprio compito specifico sviluppare una formazione per quel lavoro in
società. Ed eccomi qui a scrivere. Ne so un po’ di più? Ho studiato Legge e
ho approfondito un po’.
La democrazia, più o meno come noi
ancora oggi la intendiamo, è un regime politico che si manifestò nell’antica
Grecia, nel 6° secolo dell’era antica, quindi circa cinquecento anni prima che
si formassero le nostre prime collettività di fede. Gli antichi greci
produssero anche un pensiero molto sofisticato sulla politica, che era legato
ad una sapienza più ampia e profonda che si chiedeva il senso della vita umana
e dell’universo, la filosofia. Molti dei concetti che usiamo
parlando di democrazia risalgono a quei tempi. Ma le nostre democrazie sono
molto diverse da quelle dell’antica Grecia e, anzi, queste ultime, con i
criteri dei nostri tempi, non le considereremmo nemmeno democrazie. Perché
coinvolgevano una esigua minoranza di maschi adulti, forse un dieci per cento,
si pensa, di tutta la popolazione degli adulti residenti. Questa era la quota
degli adulti maschi liberi. Liberi da
che cosa? Fondamentalmente dal lavoro. Occuparsi dello stato veniva
considerato incompatibile con il lavoro servile, vale a dire di
quello che facevano gli schiavi, gente in proprietà altrui, ma anche le donne,
e che consentiva di produrre i beni indispensabili per la vita quotidiana.
La schiavitù non venne posta in questione
dalla nostra religione e venne abolita solo in virtù dell’affermarsi dei
processi democratici in Europa. E, tuttavia, ragioni per abolirla vennero
trovate proprio nella teologia della nostra fede: nel fatto che riteniamo di
essere stati creati e di essere all'origine figli di
un unico Padre. Da qui l’idea che si sia creati uguali.
Quindi i processi democratici contemporanei sorsero in Europa, nel
Settecento, sulla base di concezioni che intendevano liberare gli
esseri umani dalle schiavitù sociali perché li si considerava uguali per
natura, vale a dire all’origine. Certo, ognuno era diverso dall’altro,
ma come ogni figlio è diverso dal fratello.
Il padre tra loro fa parti uguali.
Evidenzio che la liberazione delle donne è molto più recente di quella
degli schiavi.
Benché dette con le parole della
teologia della nostra fede, si tratta di concezioni che fecero fatica ad
affermarsi in religione. Oggi non sono più avversate dalla nostra dottrina. Di
solito cito, a questo proposito, la nota n.793 del Compendio della
dottrina sociale della Chiesa (2004), dove, a proposito dell’amicizia
civile da intendere come forma di fraternità alla base della pacifica
convivenza sociale, si citano le parole di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo
2° in un’omelia tenuta il 1 giugno 1980 durante il suo primo viaggio in
Francia: «“Libertà, uguaglianza, fraternità’” è stato il motto della
Rivoluzione francese. In fondo sono idee cristiane ». Che
progresso da quando una simile frase sarebbe stata invece condannata come eretica,
solo poco più di un secolo prima! Ma si dovette arrivare al 1991, con
l’enciclica del Wojtyla Il Centenario, nell’anniversario dei cento
anni dalla prima enciclica della dottrina sociale, la Le Novità,
del 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°, per arrivare alla
piena accettazione della democrazia contemporanea. Si tratta comunque di
argomenti ancora controversi in religione. I reazionari considerano
l’accettazione della democrazia una degenerazione del magistero e
giungono a contestare i papi più recenti perché, soprattutto in politica, hanno
detto cose diverse dai papi di un tempo.
Certo, ai tempi in cui si formarono le
nostre collettività delle origini, gli antichi processi democratici si erano da
tempo estinti. Il regno e l’impero erano le forme politiche dominanti. E negli
scritti sacri prodotti dall’esperienza di quelle collettività non troviamo
dottrine politiche. Il Maestro non fu un capo politico. Parlò di un Regno,
ma non di questo mondo. Il detto che gli è attribuito “Date
a Cesare quel che è di Cesare…”, non va inteso, naturalmente, come una
sorta di regolamento di condominio tra poteri nel mondo, quello
di Cesare, il nome a cui si richiamarono tutti gli imperatori
romani, e quello Celeste, ma nel senso che su tutto prevalgono
le esigenze della fede. Così appunto lo intesero i primi nostri fedeli che si
fecero ammazzare in forme in genere particolarmente crudeli, quando non
poterono procurarsi carte false attestanti l’adempimento dell’obbligo di
compiere atti sacri per l’imperatore romano, pur di non riconoscere, con un
atto rituale, la divinità dei Cesari. Fatto sta che le nostre prime
organizzazioni religiose assunsero presto un aspetto monarchico, come piccoli
regni federati tra loro con intese di comunione: si riconoscevano
reciprocamente con lettere di comunione, in cui ci si attestava di
andare d’accordo. Ci si scambiavano anche lettere di scomunica, e piuttosto
frequentemente! Una situazione piuttosto effervescente alla quale venne posta
fine quando l’imperatore, Cesare, all’esito di un processo ancora
piuttosto misterioso, decise di assumere la nostra fede come propria forma
di sacralizzazione politica, e quindi come ideologia dei
proprio regno politico, nel Quarto secolo della nostra era.
48.7. Gli antichi filosofi greci, ragionando sulle esperienze
politiche dei loro tempi, diffidarono della democrazia. Vi partecipava una
minoranza della popolazione che praticamente non doveva occuparsi
d’altro, ma anche questa gente si lasciava trascinare dall’emotività, non aveva
la pazienza d’approfondire, seguiva quelli che meglio mostravano di saper agitare le
collettività divenendone guide. I più decidevano secondo i
propri interessi privati o di gruppo, premiando le guide che mostravano di
voleri favorire, ma chi arrivava al potere promettendo di
farlo spesso ne abusava. Ogni potere supremo tendeva rapidamente a degenerare,
per cui occorreva correre ai ripari. Non sarebbe stato meglio scegliere guide
politiche tra persone competenti e animate dall’intenzione di fare il
bene di tutti? Ecco perché gli antichi filosofi greci pensarono a loro stessi
come alle migliori guide delle collettività politiche, ma non riuscirono mai ad
esserlo. Al massimo furonoconsiglieri di chi comandava di
volta in volta. Ma che cos’è poi il bene? Al dunque rimangono i rapporti di
forza nella società. E chi giunge ai vertici tende a mantenere il potere che
ha: poiché è il numero che fa la forza, tende a creare una sua corte,
un gruppo che lo spalleggia per avere in cambio un po’ del potere sugli altri.
Le assemblee limitano chi comanda e allora chi ha il potere tende a limitarle a
sua volta, riducendone gli spazi di decisione, fino ad abolirle addirittura.
Ogni potere politico tende a diventare assoluto, libero da vincoli, da limiti.
In fondo è storia anche dei nostri giorni.
In un mondo fatto di tanti servi
abbruttiti dal lavoro, in cui l’accesso alla conoscenza era di pochi, sembrava
inverosimile che la gente comune avesse voce in capitolo nelle cose della
politica. E questo anche nelle epoche storiche in cui si manifestarono processi
democratici, come nell’antica Roma prima che cadesse nel dominio di
imperatori assoluti, nel primo secolo dell’era antica, nell’età
d’oro dei Comuni europei, le esperienze di libertà delle
industriose città dall’inizio del Secondo Millennio della nostra era e fino al
Trecento, o nel regno inglese dal Duecento. La magnificenza della corti che si
riunivano intorno a chi era riuscito ad assolutizzare il
proprio potere politico supremo gravava sul duro lavoro dei più, che, oppressi
dal lavoro, non avevano la capacità di occuparsi della politica, in
particolare organizzandosi collettivamente, e cadevano in mani altrui, anche se
non fino alla condizione di schiavi. A lungo si ritenne che questa fosse una
situazione naturale e che la ribellione fosse un grave
delitto. I poteri assoluti proposero diverse
giustificazioni di loro stessi, del perché dovessero essere assoluti. La
loro sacralizzazione li aiutò in questo: si presentarono
come delegati dal Cielo per fare il bene di tutti. Altrimenti la società
sarebbe caduta in rovina, in preda alla violenza e all’arbitrio. A lungo questa
situazione di temuta anarchia fu assimilata alla democrazia,
dove di quest’ultima si erano perse esperienza e memoria.
Quello che ho cercato di sintetizzare
spiega perché, quando ci si propose di coinvolgere tutti nei
processi politici, nelle decisioni comuni, si iniziò con l’idea di liberare
il lavoro. E’ un processo recente: risale alla seconda metà dell’Ottocento.
Nella Costituzione italiana vigente ne vediamo il frutto maturo: proclama
l’Italia come una repubblica democratica fondata
sul lavoro. Ma su un lavoro libero. Ai nostri tempi ha
iniziato ad esserlo sempre meno, lo sappiamo. E anche i processi democratici
sono entrati in crisi.
48.8. Fare memoria del passato serve a organizzare
il presente e a progettare il futuro. Parliamo della storia dei processi democratici
e, quando costruiamo un nuovo gruppo sociale, ci troviamo di fronte a tutti i
problemi che si sono presentati in quella evoluzione. E’ come se, per arrivare
là dove ci si propone, occorresse ripetere, sintetizzandola, tutta quella lunga
e complessa storia, tutti i suoi processi: la si rivive e i
problemi vengono superati se si seguono la vie che in passato hanno avuto successo.
La democrazia è quindi una conquista culturale che va raggiunta di generazione
in generazione e così si consolida nella società. Tutti i fatti umani, la vita
biologica come le società, sono così: sono processi, sia a
livello collettivo che individuale. Un processo è una serie di eventi che si
sviluppa nel tempo e in cui i precedenti influiscono sui successivi. Poiché la
vita degli esseri umani è limitata nel tempo, in un certo senso di generazione
in generazione si deve ripartire sempre da capo. Le generazioni però coesistono
per una parte della loro storia, per cui quelle più anziane istruiscono le più
giovani. Ma, in definitiva, il futuro è nelle mani di quelle più giovani. Le
culture delle società umane si tramandano e questo processo viene chiamato tradizione.
Essa è molto importante, in particolare, nelle questioni di fede. La tradizione
culturale consente di mantenere certe conquiste sociali,
scientifiche, culturali in genere, ma ostacola il cambiamento. C’è una tendenza
a ripetere, nelle cose sociali, perché quando si presentano problemi si cercano
soluzioni nell’esperienza passata. Così, come in tutte le cose umane, il nuovo
reca tracce dell’antico e questo accade anche nel caso di cambiamenti sociali
molto veloci, a carattere rivoluzionario, quando tutto
improvvisamente sembra essere messo sottosopra. I cambiamenti più rivoluzionari
sono avvenuti, nell’ultimo secolo, nel mondo della scienza. Lì il patrimonio
culturale si è talmente ampliato che al problema di tramandarlo si è aggiunto
quello di dominarlo nel presente: nessun individuo è in grado di farlo, ci si
riesce solo in comunità molto vaste di specialisti, ciascuno dei
quali controlla un settore molto limitato e dialoga con
gli altri integrando le proprie conoscenze con quelle altrui. E’ un processo
che ha interessato anche i fatti sociali: l’umanità è diventata tanto numerosa,
le società umane tanto complesse e interconnesse a livello mondiale, che
nessun imperatore potrebbe governare da sovrano assoluto; la
politica è, ai tempi nostri, necessariamente un fatto condiviso da molti, se si
vuole che consenta la sopravvivenza dei più. Questo significa che la via
dell’umanità sarà necessariamente quella della democrazia o quella della
catastrofe. Ma la democrazia che ci salverà non sarà quella delle origini,
quella che aveva come problema principale il conquistare spazi di libertà verso
oligarchie dinastiche, perché avrà davanti come problema principale quello di
realizzare una pace stabile a livello globale.
Fare pace è
tanto difficile anche nelle realtà di prossimità, lo possiamo toccare con mano.
Costruiamo un piccolo gruppo e subito sorgono dissapori, gelosie, liti sul da
farsi. Qualcuno riesce a tirarsi dietro i più, diventa loro capo e poi li
tiranneggia. Ci sono quelli che hanno successo e gli umiliati. Ognuno pensa per
sé e cerca di accaparrarsi il meglio. Si allea con altri, salvo poi tradirli
appena non gli conviene più stare dalla loro parte. Ogni autorità tende ad
espandersi e a liberarsi dai limiti. Nelle riunioni tendono a parlare sempre
gli stessi e, in genere, chi ha la parola la tiene troppo a lungo. Il tempo
passa veloce e si ha la sensazione di non aver concluso nulla. Alla fine si
finisce per seguire i più svelti di lingua e di mano, quelli che si fanno
meno scrupoli. Attorno a loro e, in genere, a chi comanda si creano
piccole corti. Ecco che, allora, si rivive il passato, la
monarchia, l’oligarchia, varie forme di democrazia e anche l’anarchia, quando
si cerca di fare a meno di regole e di autorità per dare il massimo spazio alla
vita degli individui. La società fa soffrire, ma presto si capisce che ci è
indispensabile per vivere. Si vorrebbe essere più liberi, ma allo stesso tempo
si ci lega agli altri: la vita sembra non avere senso senza di loro. Un tempo
lo si capiva fin da piccoli, giocando in cortile con torme di ragazzini: oggi i
più piccoli vivono come piccoli monaci e questa esperienza viene ritardata. Ma
alle medie, quando si comincia a uscire da soli, ci si accorge che senza gli
altri non si sa che fare. Ma anche che, se con si dà ordine alle proprie
esperienze sociali, non si arriva a nulla e ci si limita ad aspettare, con gli
altri, che il tempo passi: si è ragazzi del muretto, come
diceva il titolo di un serie televisiva di qualche tempo fa.
La democrazia si impara, non è innata
nelle persone: è stata un conquista culturale per l’umanità e lo è, di
generazione in generazione, per gli individui. Non basta leggerne sui libri,
occorre farne tirocinio, metterla in pratica. Gli esseri umani imparano dagli
errori: è anche così che evolvono i fatti sociali e, in particolare, è così che
evolvono le scienze contemporanee. Io ho imparato la democrazia in FUCI, tra
gli universitari cattolici. Può sembrare paradossale, tenendo conto che in
religione la si è tanto a lungo avversata. Ad un certo punto, però, si è
capito che era l’unica via per influire sulla società e la si è cominciata a
insegnare, consentendone il tirocinio. E’ in FUCI che, ad esempio, ho imparato
come si lavora in un’assemblea in cui bisogna prendere delle decisioni, il
lavoro che deve fare la presidenza, come si propongono le deliberazioni su cui
votare, come si propongono modifiche, gli emendamenti, come si vota, come si
scrive un testo unificato delle decisioni prese. Alcuni di quelli che vidi in
FUCI da ragazzo oggi sono parlamentari che fanno un lavoro molto importante in
società, sono diventati dei protagonisti della politica italiana. E comunque
tutti, in posti diversi, lavoriamo mettendo a frutto quella pratica di
democrazia che si fece da giovani. Estendere questo tirocinio a realtà più
ampie di ristretti settori di intellettuali, farne un fatto di massa, è
la sfida di oggi, ma in fondo quella di sempre da quando si sono sviluppati i
processi democratici contemporanei ed essi sono diventati indispensabili per la
sopravvivenza dell’umanità.
Nei processi democratici gli individui
non sono legati solo da rapporti di forza, come avviene nei fatti sociali
elementari. In un certo senso ci si sceglie, come accade tra amici. In
religione si è cominciato a parlare di democrazia come di un’amicizia
sociale (si è ancora piuttosto cauti a nominarla esplicitamente in
dottrina, e questo è qualcosa del passato che rimane). Le società umane sono
quindi caratterizzate da qualcosa di comune che si pensa
esserci tra gente che vuole andare d’accordo e che storicamente è stato
riassunto, ad esempio, in un mito, una storia leggendaria su
origini comuni, o in certo modo di vivere e di pensare che si pensa scaturire
dalle persone come le piante dalla terra. Quindi le società umane nascono come
esperienze definite, con dei confini, con
un dentro e un fuori, gli
amici dentro, i nemici fuori. Le democrazie
nascono per consentire i più ampi spazi di libertà dentro una
società: ce li si deve riconoscere reciprocamente e quindi ci si deve
riconoscere uguali in questo. Si è sperimentato che in società
più libere si vive meglio perché le risorse sono meglio distribuite. Per
essere liberi in molti occorre però condividere delle
regole, porre dei limiti ad ogni autorità e ad ogni arbitrio individuale, dentro
la società. Alle origini le democrazie riguardavano, in ogni società, una
minoranza di gente che si riconosceva l’uguaglianza reciproca.
Poi, più recentemente, si vollero includere nei processi
democratici tutti gli adulti di una società, quelli che
stavano dentro una società. Si scoprì, però, che
l’uguaglianza doveva essere realizzata, costruita, perché, a quel punto, non
era più originaria. Lo si fece potenziando la solidarietà sociale all’interno delle
società. Ora la sfida è di realizzarlaglobalmente, lì dove prima non si
ammettevano limiti all’arbitrio umano e alla violenza (di chi era fuori si
poteva fare ciò che si voleva: le guerre europee di conquista dell’intero mondo
furono fondate su questo principio). Questo perché servono processi
democratici a livello mondiale per salvare l’umanità. E allora serve anche
solidarietà a livello globale. E’ una realtà che ci si impone, anche a voler
chiudere gli occhi su di essa: ad esempio attraverso i fenomeni delle migrazioni
di popoli dai posti dove si sta peggio a quelli dove si sta meglio. Ma che cosa
ci lega a livello globale per cui si debba essere solidali a
quel livello invece di massacrarci e rapinarci, a livello globale, come è
sempre avvenuto?
Oggi pensiamo che democrazia e pace vadano
d’accordo: pensiamo ad un ordine democratico come a un ordine pacifico. Non è
sempre stato così. E’, anzi, uno sviluppo piuttosto recente dei processi
democratici. Storicamente le democrazie sono state piuttosto bellicose. Lo è
stata, dall’origine, la prima democrazia contemporanea, gli Stati Uniti
d’America, che hanno vissuto pochi periodi di vera pace. Sono stati l’unica
potenza mondiale ad usare l’arma nucleare in una guerra, non una ma addirittura
due volte, distruggendo due città giapponesi, durante la Seconda Guerra
mondiale! La storia d’Italia, ai tempi in cui si realizzò l’unità nazionale,
nell’Ottocento, vide processi democratici e conflitti bellici strettamente
connessi. In questo le democrazie a lungo non si distinsero dai
regimi assolutistici che vollero sostituire.
I nostri orientamenti religiosi
oggi prevalenti ci propongono un impegno per una pace globale che
può servire a sorreggere processi democratici pacifici a livello mondiale:
questo tema è al centro della predicazione di papa Francesco e si trova
sintetizzato molto efficacemente nell’enciclica Laudato si’, del
2015. Ecco dunque che l’esperienza sociale che si fa ai tempi nostri in
religione può avere, e anzi dovrebbe avere, questo significato anche civico a
livello molto ampio. In un certo senso, a cominciare dalle realtà di
prossimità, come è quella della parrocchia, si può cominciare a cambiare
il mondo. Si tratta di avviare nuovi processi democratici.
48.9. Qui si ragiona di democrazia per metterla in
pratica. Non dobbiamo mai perdere di vista questo obiettivo. Secondo le idee
oggi correnti in religione, questo ha un significato anche per la vita di fede.
Questo perché la democrazia, come ai tempi nostri la si pensa e la si vive, è
legata a valori, vale a dire a principi di azione sociale,
che sono condivisi dalla fede e, anzi, in buona parte originano da essa, anche
se non sempre se ne è mantenuta consapevolezza. Quando la si è persa, la
democrazia viene pensata come la sede dell’arbitrio delle maggioranze in
danno di quei valori. A maggioranza si potrebbe decidere tutto. Sarebbe meglio,
allora, mettere i valori nelle mani di oligarchie illuminate: sono i reazionari
a pensarla così, quelli che vorrebbero che la storia umana tornasse sui suoi
passi. Non è impossibile che accada: nella storia osserviamo civiltà che sono
regredite. Ogni conquista culturale va rinnovata di generazione in generazione,
altrimenti può essere perduta. L’umanità, quindi, potrebbe ancora tornare nelle
mani di sovrani assoluti e, in effetti, di questi tempi si
osservano processi sociali che vanno in questo senso. Rimane sempre nell’aria
l’idea che alle controversie e alla violenze possa porsi rimedio solo con
un’autorità superiore che imponga la pacificazione:
nella dottrina sociale la si vorrebbe a livello mondiale e talvolta sembra che
il modello siano, in fondo, gli antichi imperatori dei primi tempi, quelli
che sacralizzarono il proprio potere politico secondo la
nostra fede. Non si tiene conto che una simile concentrazione di potere
fatalmente annienterebbe le libertà civili se non governata con metodi
democratici ancora da pensare a livello globale, mondiale, di democrazia universale.
Produrrebbe proprie corti, che degenererebbero in oligarchie,
le quali, non limitate da processi democratici, si impadronirebbero delle
cose e delle persone e inizierebbero a farsi guerra. Se si riporta indietro la
storia, si è condannati a riviverla. In un mondo che si avvia agli otto
miliardi di persone, molto complesso e interconnesso, attuare progetti
reazionari porterebbe alla catastrofe, agli incubi sociali proposti in
tanti film di fantascienza, che presentano le conseguenze di una crisi di
regressione della civiltà.
Opporre democrazia e valori, come fanno
i reazionari, anche quelli che abbiamo in religione, non è corretto, perché
nelle democrazie contemporanee i principi di azione sociali più importanti sono
sottratti alla volontà delle maggioranze. Fin dalle origini dei processi
democratici contemporanei, nel Settecento, si ebbe chiara consapevolezza che le
democrazie degenerano se cadono in mano atirannie di maggioranze. Quando
i reazionari accusano la democrazia di indifferenza ai
valori, la diffamano. Da quale parte stanno? Dalla parte dei valori?
A ben vedere la loro critica si riversa contro i più. Questo fa
sospettare che siano dalla parte di una qualche oligarchia, di gruppi di
pochi che vogliono acquisire il controllo sociale liberandosi da
limiti dal basso, per poi distribuire il potere sociale a loro discrezione,
dall’alto verso il basso, secondo i costumi di sempre delle oligarchie. In
religione, a volte, mimano, l’organizzazione del clero, che funziona ancora più
o meno così: oggi però la sua struttura feudale non
fa più gran danno perché è un’oligarchia prevalentemente solo spirituale
ed esercita la propria influenza politica, che rimane comunque rilevante, con
la mediazione di un laicato che agisce secondo principi e metodi democratici,
in contesto che relativizza ogni autorità pubblica. Nei movimenti reazionari
laicali, e in genere politici, questa mediazione salta: in fondo essi
sono l’immagine di come diverrebbe la società se prevalessero.
Se consideriamo la nostra Costituzione,
un documento che contiene regole che possono essere cambiate solo con
maggioranze molto vaste e alcuni principi che non possono essere
cambiati, vediamo che è piena di valori, di principi di azione
sociale che vengono imposti anche al legislatore, come ad ogni autorità
pubblica. Ci sono , ad esempio, quelli della libertà religiosa e quello della
laicità dello stato: in Italia non sono mai stati completamente attuati. C’è
quello di uguaglianza, che oggi è a rischio. C’è quello di solidarietà sociale,
anche questo oggi a rischio. Si tratta di principi che nessuna
maggioranza potrebbe abolire: ragionandoci sopra lo ha stabilito la Corte
Costituzionale, il collegio di giuristi ai quali è affidata l’interpretazione
autentica della Costituzione per stabilire se le altre leggi la rispettano. I
valori costituzionali in Italia si sono affermati prima tra la gente che nelle
assemblee legislative. Scaturirono dalla disfatta del fascismo storico,
all’inizio degli scorsi anni ’40: si ebbe un processo di conversione popolare,
partito dal rifiuto della guerra e dalla presa di coscienza che ci si era
trovati in mezzo ad essa a causa delle idee del fascismo, un regime oligarchico
che proponeva la disparità sociale a fondamento della gerarchia pubblica, la
violenza come via per la risoluzione dei conflitti sociali, l’aggressione
internazionale come via per la ricchezza nazionale, la guerra come igiene della
razza. Era un regime che metteva le armi in mano ai più piccoli, spingeva la
gente alla violenza e alla guerra. Mantenne ciò che prometteva. Gli italiani
ebbero la guerra. La disfatta del fascismo fu prima culturale che bellica. La
gente non gli credette più, ammaestrata dal dolore: non fu una svolta
opportunistica, come taluni sostengono. E infatti fu duratura. Ancora oggi i
valori democratici sono vivi tra la gente, in particolare nei più giovani.
Vivono, ma spesso se ne è perduta consapevolezza, non li si chiama con il loro
nome. A volte li si vive, ma ce se ne vergogna, perché sono diffamati da gente
potente.
Negli anni passati, si sono considerati
i quartieri romani, e anche il nostro, come terra di missione. Non
sono mai stato d’accordo con questa visione delle cose. L’ho sempre considerata
piuttosto clericale. Mi offendeva. Se le Valli fossero
veramente terra di missione significherebbe che tra la nostra gente i fedeli
sono diventati minoranza, e minoranza esigua. Non è così, ancora. In una
prospettiva clericale si è insoddisfatti della gente e allora si
fa come se non fosse più della nostra fede. Una scomunica di fatto che
è un vero arbitrio. E perché poi? La gente non segue la vita
buona raccomandata, dicono. Questa però è stata più o meno la
condizione di sempre della gente della nostra fede: che cosa è cambiato? Ci si
sforza di essere migliori, ma in genere ci si approssima solo
a quella vita buona idealizzata. E’ quello che accade
anche tra il clero, dove sono molti di quelli che ci fanno la predica. Non
sempre possono proporsi come esempi di moralità, in particolare ai livelli più
alti. Lo ha detto il Papa ed è persona che penso di certe cose se ne intenda.
Del resto: la vita buona raccomandata è veramente praticabile?
In religione si ragiona di famiglia, ad esempio, e della famiglia non si ha una
visione realistica. Del resto chi legifera in materia non ne ha esperienza se
non da figlio e zio. E così va nelle cose del sesso, ma lì è anche peggio
perché chi legifera se lo vieta come peccato. I nostri capi religiosi sono
scontenti delle nostre famiglie e di come facciamo sesso, ma in che cosa si è
veramente peggiori dal passato? Le nostre famiglie di oggi sono molto meno
violente e dispotiche che nel passato, nei rapporti tra i sessi è lo stesso.
Non è un progresso? Le società del passato, permeate di religiosità tradizionale,
esprimevano incubi famigliari. Intorno all'anno Mille gli stessi papi
condussero vita sessuale dissoluta: si parlò, a proposito del loro potere,
di pornocrazia. In seguito ciclicamente ci ricaddero, assumendo i
costumi dei principi del loro tempo. Ed erano anche dei capi violenti. E' dal
Settecento che la qualità dei papi cambiò: non è un caso che ciò avvenne con lo
sviluppo di processi democratici che li sottoposero a critiche serrate. Ai
tempi nostri sono dei sant'uomini. A ben vedere, dietro
l'insoddisfazione dei nostri capi religiosi per le nostre vite, c’è la
politica, si è scontenti di noi perché non assecondiamo più certi disegni
politici nella società e siamo molto più coinvolti nei processi democratici.
Pretendiamo di avere voce nella formulazione dei principi di azione sociale,
del resto secondo la prospettiva dell’ultimo Concilio. Non accettiamo più certe
discriminazioni, certe umiliazioni, di essere solo gregge condotto
qua e là da certi pastori. Siamo insofferenti di autorità che si propongono
come assolute. Questo, anche se non sempre se ne è
consapevoli, è frutto di una compiuta assimilazione interiore dei valori
democratici.
Le Valli all’ultimo censimento
avevano circa ventimila residenti: circa quindicimila di loro, secondo le
statistiche nazionali, dovrebbero prendere come riferimento morale la nostra
fede, anche se non vengono spesso in parrocchia o non ci vengono più. E’ tra
questa gente che dobbiamo sviluppare processi democratici per poi parlare di
valori e metterli in pratica. Si tratta di popolo vero, non dell’immagine
clericale che se ne ha di solito quando se ne parla tra addetti ai lavori: c’è
il buono e c’è il cattivo, e anche il molto cattivo. Ogni persona però è un
processo: può cambiare, in meglio o in peggio. E così è per la società. Creare
le condizioni per un miglioramento collettivo e individuale è il lavoro
delle democrazia come oggi la si concepisce, piena di valori dei
quali le maggioranze non sono arbitre. Non interveniamo sul quartiere da fuori,
da colonizzatori, da missionari. Ne siamo parte,
nel bene e nel male. Viviamo in famiglia, ci prendiamo cura di altri, dei più
giovani, dei più anziani, molte ore al giorno siamo al lavoro e come tutti
soffriamo dei mali sociali. Queste nostre vite hanno un significato sia civile
che religioso. Non è senza valore religioso ciò che facciamo in società, ma
anche vero l'inverso: non è senza valore civile ciò che facciamo in religione.
Migliorando in religione possiamo divenire anche cittadini migliori e divenendo
cittadini migliori possiamo anche migliorare la nostra vita di fede, personale
e collettiva. Ma come migliorare? Bisogna innanzi tutto riprendere a
incontrarsi: la parrocchia è un’opportunità perché ha le strutture per farlo.
Ed è uno spazio in un certo senso pubblico, perché pagato anche con
soldi pubblici, con una parte dei proventi dei nostri tributi che confluiscono
in presa diretta nelle casse della nostra organizzazione religiosa. La
società si migliora solo lavorando insieme, di generazione in generazione.
Non si tratta divenire in chiesa come spettatori. Già proporsi che
i più giovani abbiano in parrocchia un posto loro dove crescere insieme è
importante: non ve ne sono altri nel quartiere, per quanto ne so. Accoglierli
richiede la collaborazione degli adulti e si collabora efficacemente solo
sviluppando processi democratici, imparando la
democrazia, che è potere condiviso, in cui si condividono innanzi tutto grandi
principi umanitari, come quello che nessuno è meno degno di vivere di
altri. Nella pratica, ad esempio, questo significa che, in un’assemblea, si
cerca di ascoltare e capire gli altri, si rispetta il tempo loro concesso
per parlare, non li si zittisce e non li si sovrasta gridando. Nessuno
umilia, nessuno esclude, c’è un posto per tutti, nessuna autorità senza
limiti. Si pratica la democrazia e in essa si può scoprire l’agàpe della
fede, specialmente quando non la si affronta con spirito di circolo, ma
cercando di espanderla per includervi nuovi amici.
48.10. E’ evidente quello che non ha bisogno di
essere dimostrato, sul quale, quindi, non è necessario dare spiegazioni o anche
giustificazioni. Lo vedono e lo capiscono tutti che è così, e basta.
Il Sole sorge e tramonta:
è evidente. Che però giri intorno
alla Terra può sembrare, solo sembrare, evidente,
ma poi abbiamo scoperto che è falso. Sono state necessarie, però, complicate
dimostrazioni per convincersene. Per nulla evidente è che sia la Terra a girare intorno
al Sole. Se ne sono date spiegazioni, ma a lungo la si è ritenuta un’enormità
impossibile da credere, addirittura un’eresia. Come anche che la Terra e poi il
Sole non fossero al centro dell’Universo. Nel secolo scorso, mandando macchine
e astronauti nello spazio cosmico è emerso che il Sole è in posizione
piuttosto decentrata in una tra le tantissime galassie dell’Universo, che non è
ben chiaro come e dove evolva e che fine farà, se poi una fine ci sarà
mai ad un certo punto.
In religione quasi nulla è
evidente, anche se qualcosa talvolta sembra esserlo,
perché la fede religiosa tratta di potenze invisibili. Sono
invece evidenti l’empatia e la compassione: realtà interiori, in un certo
senso invisibili, ma di cui facciamo esperienza. Siamo capaci
di immedesimarci negli altri, nelle loro gioie e nei loro
dolori, e ci sentiamo spinti ad andare in loro soccorso quanto soffrono. La
psicologia, le neuroscienze e l’antropologia ne danno spiegazioni, certo, ma si
tratta di realtà evidenti, e, innanzi tutto, proprio di realtà,
appunto perché ne facciamo esperienza quotidiana, tutti, almeno quando in noi
non prevale la natura di antiche belve. In religione questo si chiama misericordia e
il Papa ci torna spesso sopra. Si tratta quindi di realtà che hanno significato
per la fede e sono al fondo della concezione religiosa dell’agàpe,
del pensare di poter riunire tutti in un lieto convito in cui ce ne sia per
tutti, nessuno escluso.
Al di fuori della misericordia, che
è evidente nel senso che ho precisato, mi pare che tutto in
religione necessiti di complicate, e anzi complicatissime, spiegazioni, delle
quali si occupa la teologia. Trattando dell’invisibile, è assai raro che
i teologi siano d’accordo tra loro, quindi poi ci sono, più o meno, tante
teologie quanti sono i teologi. Questo però non ci deve scoraggiare, perché
quasi tutto, nella vita umana, va così. La scienza, in particolare, funziona
così, e per certi versi, nel suo argomentare razionale, conseguente, cercando
di accordare conclusioni e premesse, la stessa teologia si è fatta scienza.
Questo non significa che non si cerchino accordi, intese. Ci si incontra, si
ragiona insieme, e talvolta si riesce ad arrivare a soluzioni condivise. Ma spesso
in politica e nella religione che si fa politica, come anche nella
politica sacralizzata, quella che strumentalizza la religione, si
va per le spicce, non si ha tanto tempo da perdere. Allora si stabilisce che
la verità esce da una certa fonte, sia proclamata da una
certa autorità, e che si sia obbligati a convincersene. Storicamente la
faccenda della verità appare strettamente connessa con
l’autorità. Che cosa è la verità? E’ un problema filosofico, ma
anche politico. La domanda risuona nei racconti della Passione e venne
attribuita a Ponzio Pilato, il Procuratore della Giudea, funzionario di medio
livello dell’imperatore romano, quindi, tutto sommato, a un politico.
Egli la pose, ma non stette ad attendere la risposta del Maestro. In politica
appare inutile discutere di verità: e se poi ci
fosse sfavorevole? Nessun politico di solito è disposto a lasciare il campo per
questioni di verità. Preferisce quindi aggiustarsela. E gli
argomenti non mancano mai. Quindi sceglie, tra le opinioni correnti, quelle che
gli servono meglio e le impone agli altri con la forza del diritto, facendone
norme giuridiche. Una verità vale quanto gli argomenti che si
portano a suo sostegno, a meno che non sia evidente; un verità
normativa, invece, è una legge e vale quanto l’autorità
di chi l’ha imposta e, in politica, quanto la forza del potere che ha
legiferato, militare, poliziesca, giudiziaria e via dicendo. Anche le religioni
impongono verità normative, in particolare nelle società dove i poteri pubblici
sono sacralizzati e quindi inglobano la religione nella
propria giustificazione sociale. In esse poteri pubblici e verità
normative si rafforzano a vicenda. Che accade però quando, in
società con poteri sacralizzati, una verità normativa viene
posta in questione dai fatti, da argomenti seri? Il potere che l’ha imposta fa
in genere resistenza, porta i dissenzienti davanti ai suoi tribunali e, se non
cambiano idea, li condanna. Dal Cinquecento e per circa trecento anni è stato
questo il dramma delle scienze tra gli europei. Dalla fine del Settecento
è toccato alla democrazia subire lo stesso travaglio. La faccenda è di solito,
superficialmente, presentata come conflitto tra scienza e fede, ma, in realtà,
si è trattato di un conflitto tra scienza e poteri sacralizzati e poi tra
concezioni democratiche e poteri assolutistici sacralizzati.
In democrazia si è tratto insegnamento
dalla tremenda nostra storia del passato e si ripudia ogni sacralizzazione del
potere: è questo il senso del principio della laicità dei
poteri pubblici. E’ uno di quei principi inderogabili, che non
dipendono da questa o quella maggioranza. Se non lo si applica non c’è, o non
c’è più, democrazia. Ma, allora, nei regimi democratici, non è che quel
principio della laicità dei poteri pubblici sta virando
in fondo verso la verità normativa, e finisce per rientrare in
quelle idee sul mondo che non possono essere messe in questione solo perché
sono divenute legge e si rischia forte ponendo dei dubbi? E’ la contestazione
di sempre di ogni specie di reazionari. Si ribatte, di solito, che è cosa che
ha a che fare con la morale. Non è come quando in religione si sosteneva che il
Sole girasse intorno alla Terra e si voleva imporre questa idea per legge,
altrimenti, si pensava, l’Universo e con esso tutti i poteri politici e
religiosi legati al Cielo sarebbero stati rovesciati. Teniamo conto
degli altri e ci poniamo dei limiti. Per questo
rinunciamo a sacralizzare, quindi ad assolutizzare rendendolo illimitato, il
potere politico che esercitiamo. E’ necessario se si vuole che quel potere sia
condiviso e che, quindi, ognuno se ne senta responsabile. Capiamo
che non possiamo fare degli altri tutto ciò che ci piace o ci conviene. Non
sono nostro trastullo, ha detto il Papa criticando la prostituzione, né nostro
strumento. Dobbiamo tener conto delle loro vite, ci sono, esistono, se pongono
questioni ci sentiamo obbligati ad ascoltarli. Non abbiamo cuore di
annientarli: questo ha a che fare con la misericordia e l’agàpe.
Che cosa resta al dunque? Questo
resta: è scritto. La democrazia, in fondo, come oggi la si intende, è un
sistema di limiti che ciascuno pone al proprio arbitrio, per
questioni di cuore, di misericordia, sulla base di esperienze
interiori evidenti. E’ evidente, a questo punto,
anche il collegamento con la nostra fede.
49.
Pensare il popolo
AVERE CORAGGIO
E AUDACIA PROFETICA»
Dialogo di
papa Francesco con i gesuiti riuniti nella 36a Congregazione Generale (ottobre
2016)
[…]
Dopo
la 35a Congregazione Generale la Compagnia ha percorso un cammino nella
comprensione delle sfide ambientali. Abbiamo accolto con gioia l’enciclica
«Laudato si’». Sentiamo che il Papa ci ha aperto porte per il dialogo con le
istituzioni. Che cosa possiamo fare per continuare a sentirci coinvolti in
questo tema?
La Laudato si’ è un’enciclica a cui hanno
lavorato in molti, ed era stato chiesto agli scienziati che ci hanno lavorato
di dire cose ben fondate e non semplici ipotesi. Ci hanno lavorato molte
persone. Il mio lavoro in effetti è stato quello di dare gli orientamenti, fare
questa o quella correzione e poi elaborare la redazione conclusiva: questo sì,
con il mio stile e riprendendo alcune cose. E credo che bisogna continuare a
lavorare, attraverso movimenti, accademicamente e anche politicamente. Infatti
è evidente che il mondo sta soffrendo, non soltanto per il surriscaldamento
globale, ma per il cattivo uso delle cose e perché la natura viene maltrattata…
Bisogna anche tenere presente, nell’interpretazione della Laudato si’, che non
è un’«enciclica verde». È un’enciclica sociale. Parte dalla realtà di questo
momento, che è ecologica, ma è un’enciclica sociale. È evidente che a soffrirne
le conseguenze sono i più poveri, quelli che vengono scartati. È un’enciclica
che affronta questa cultura dello scarto delle persone. Bisogna lavorare molto
sulla parte sociale dell’enciclica, perché i teologi che ci hanno lavorato si
sono preoccupati molto nel vedere quanta ripercussione sociale hanno i fatti
ecologici. E questo è di grande aiuto: va vista come un’enciclica sociale.
[testo integrale in
http://www.laciviltacattolica.it/wp-content/uploads/2016/11/Q.-3995-3-DIALOGO-PAPA-FRANCESCO-PP.-417-431.pdf
Lunedì scorso, al termine della discussione al termine degli incontri di
approfondimento sull’enciclica Laudato
si’, è stato proiettato il testo che ho trascritto sopra, che è la
trascrizione di una parte del dialogo avuto dal papa Francesco con i gesuiti, nella
loro 36° Congregazione generale, svoltasi nell’ottobre 2016.
Fin dal primo momento il Papa, nel 2015 quando l’enciclica fu diffusa,
ha tenuto a precisare che non si trattava solo di un’enciclica che si occupava
di ambiente naturale, ma che riguardava la società e il suo sviluppo.
Leggendola lo si capisce bene, ma ad uno sguardo frettoloso, come quello che di
solito si riserva a quel tipo di letteratura religiosa, non è proprio evidente.
Il significato sociale del documento è stato bene inteso, ad esempio, negli
Stati Uniti d’America, dai settori della destra politica che rappresentano
politicamente le grandi imprese che guadagnano dal modello di sviluppo
criticato nell’enciclica: infatti hanno subito intimato al Papa di rimanere nel
campo spirituale e, quindi, di farsi gli affari propri, non turbando quelli
altrui.
E’ sempre stato noto che le encicliche
sociali erano state frutto di un lavoro
collettivo, e questo fin dalla prima dei tempi moderni, la Le Novità, nel 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone
13°.
Si legge in Gabriele De Rosa. De Rosa, Il Movimento cattolico in
Italia,Bari,Laterza, 1979:
“La
redazione dell’enciclica leoniana fu affidata a uomini di forte
preparazione filosofica,
come il gesuita Matteo Liberatore e il cardinale Tommaso Zigliara,
autori rispettivamente del primo e del secondo schema”.
Tuttavia la particolarità dell’enciclica Laudato si’ è che la cultura religiosa che c’è dentro si è
sforzata di non essere auto-referenziale, quindi di fare riferimento a quella
scientifica, sia con riferimento alle scienze naturali che a quelle sociali. Si
sono volute dire “cose ben fondate e non
semplici ipotesi”. Non si tratta quindi della solita invettiva contro lo spirito dei tempi e i mali sociali derivati da non seguire la
morale religiosa prescritta, ma di una visione della storia e della società
attuale che vuole essere realistica. Un modello di sviluppo basato su un
intenso consumo delle risorse naturali sta conducendo il mondo ad una crisi
globale. La competizione lo anima, ma anche lo minaccia. Si compete per
avere la parte più grossa della torta e per molti è lotta per la vita, perché a
loro non tocca nemmeno ciò che è indispensabile per sopravvivere. Per molti
altri la vita torna ad essere solo fatica, come nell’Ottocento, ai tempi della
rivoluzione industriale. A quell’epoca la condizione di chi stava peggio
migliorò con lotte sociali di massa, nel confronto tra le classi, che in
Occidente portò nella seconda metà del Novecento allo stato sociale, in cui le istituzioni pubbliche, rette
democraticamente, si assunsero il compito di riequilibrare le parti. Dal 1990,
con lo sviluppo della globalizzazione dell’economia mondiale, sorretta da una rete
giuridica di accordi internazionali, quel modello è stato superato. Questo
perché la forza esprimibile nello scontro sociale da chi sta peggio è molto
diminuita: l’azione di massa per i diritti civili e sociali si è fatta meno
efficace. Era basata su masse di produttori, essenzialmente di operai, che
rivendicavano parti più giuste. Chi controllava le imprese ne aveva bisogno,
non poteva farne a meno nella produzione, e quindi, alla fine, veniva a patti. Nel mondo di oggi può limitarsi a
produrre da un’altra parte del mondo, dove le lotte sono meno efficaci o
addirittura vietate, come nella Repubblica popolare di Cina di oggi, da cui
proviene molta parte dei nostri oggetti di uso quotidiano. In Occidente ormai
si conta di più come consumatori che come lavoratori, ha osservato il sociologo
Zygmunt Bauman. Il lavoro si è molto svalutato
e infatti viene retribuito sempre
meno. Come consumatori si è però fascinati dalle tecniche di psicologia di
massa utilizzate nella pubblicità commerciale, e il pubblico dei consumatori,
sotto certi aspetti, assomiglia sempre di più a quel gregge docile vagheggiato
dal clero come modello ideale di popolo.
Che cosa è e soprattutto chi è il popolo?
Non è facile rispondere, in religione, ma ormai anche da altri punti di
vista, quello giuridico e quello sociologico, ad esempio.
E’ importante stabilirlo perché, secondo la fede, ci proponiamo di fare
di tutte le genti della terra un unico
popolo. Fino a non molto tempo fa questo appariva un obiettivo destinato alla
fine dei tempi. Oggi è una prospettiva resa concretamente possibile dalla globalizzazione dell’economia e del diritto. Ma anche
indispensabile per consentire la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta. Il
secolo scorso essa appariva minacciata dal conflitto nucleare globale, oggi
dagli stessi costumi consumistici quotidiani, banali.
Da un certo punto di vista ci siamo uniti, nella fitta rete di relazioni
commerciali, ma anche di altro genere, ad esempio nell’informazione e nella
cultura, che ci connette a livello mondiale, ma da altri punti di vista ci
stiamo dividendo e schierando. I sistemi politici non sono integrati e lungo le
linee di contatto territoriali si generano frizioni e motivi di conflitto.
Nell’era della globalizzazione si è ricominciato a credere possibili e utili
guerre locali per risolverli e gravi conflitti, per ora a bassa intensità, sono
ormai endemici ai confini orientali e meridionali dell’Unione Europea.
I
popoli sembrano, come sempre, avere scarsa voce nella politica mondiale. Ci
siamo abituati a considerare principalmente le personalità che le dominano,
giunte ai vertici delle più grandi confederazioni di potere politico. Eppure le
oligarchie che li dominano ne sono influenzate molto più che in passato,
quando, organizzate in sistemi dinastici, li dominavano e basta. Mutamenti di
massa di stili di vita possono cambiare le cose. Essi sono possibili anche a
partire da realtà di prossimità. In un sistema globale basato sull’accaparramento
del consenso dei consumatori, nelle grandi guerre
commerciali, un mutamento delle propensione al consumo può fare la differenza.
Questo è sperimentale anche su piccola scala. Nel nostro quartiere si tentò di
fascinare commercialmente la gente, cercando di farle vedere i benefici di
un’edificazione intensiva sul pratone.
Ci fu, anni fa, un’intensa attività di pubblicità in quel senso, forse alcuni
lo ricordano. La gente la respinse ed avemmo il pratone e poi il Parco delle Valli. Ma fui il consenso
dei consumatori a consentire lo sviluppo del mercatino ad capo del parco, alla fine di via Conca d’Oro. I
consumatori del quartiere, ad un certo punto, decisero di non essere più solo gregge.
Quando i dirigenti delle nostre collettività religiose, anche in AC,
iniziano a progettare l’azione sociale, non si sa bene dove vogliano andare a
parare. Iniziano a parlare in ecclesialese,
il gergo di quegli ambienti, e chi li capisce più? Si mantengono sul vago, in
genere limitandosi all’analisi della situazione. Al dunque sembra che non
sappiano che pesci pigliare. Sembrano stretti in limiti invisibili, timorosi di
allargarsi. In realtà, anche se non
credo se ne rendano conto, si tengono ancora nei limiti fissati all’azione
sociale in religione dal vecchio Concordato concluso nel 1929 con il Mussolini,
che vietava la politica alle istituzioni religiose. Ma quel Concordato è stato
quasi completamente abrogato dagli accordi di revisione del 1984. Ora sono
stati riconosciuti come campo proprio delle istituzioni religiose la promozione dell’uomo e il bene del Paese, vale a dire la politica
(art.1 dell’Accordo di revisione 1984).
Non bisogna illudersi: anche dialogando,
non si resisterà al degrado senza azioni di lotta, e non solo di lotta interiore. La politica è anche questo. Ma nella nostra tradizione
religiosa la lotta è stata prevalentemente intesa come resistenza passiva. E la passività del papato nel corso del fascismo storico gli
è stata imputata come grave colpa, ma la sentenza dovrebbe estendersi a tutto
il popolo italiano di quell’epoca, salvo che per i tempi dopo quella
conversione di massa che consentì la Resistenza tra il ’43 e il ’45 e l’avvio
di processi democratici. La dottrina sociale, fino dall’enciclica Le novità, è stata avversa alle agitazioni di massa. Del
resto essa è espressa da sovrani assoluti. Pensare la politica di popolo è la sfida di
oggi anche in religione, ora che ci si propone di salvare il mondo (è appunto
questa la grande politica, quella con la P maiuscola.
50.
Costruire il popolo
Una volta ci si ritrovava nel dominio della
nostra Chiesa come ci si trovava in quello dello Stato e i due poteri erano
collegati: entrambi erano sacralizzati,
vale a dire assolutizzati secondo la nostra fede, e si sostenevano a vicenda
nel dominio sulla gente. Non c’era nulla da decidere per le persone e nelle
statistiche nazionali si veniva contati come cittadini e credenti religiosi in quanto
italiani. Il principio liberale “libera
Chiesa in libero Stato” era una
specie di regolamento di condominio tra oligarchie politiche. Questa era la
situazione alla caduta del fascismo storico italiano, nel 1945. E’ continuata a
lungo più o meno tale e quale anche in democrazia, durante il dominio del
partito cristiano, la Democrazia Cristiana. E’ cambiata a cominciare dagli scorsi anni
Sessanta, fondamentalmente per la de-sacralizzazione
del potere politico indotta dai
nuovi principi enunciati dai saggi del Concilio Vaticano 2°. Quella religiosa
fu presentata sempre più come una scelta,
che richiedeva un’adesione. Negli
anni ’80 si produsse una grave crisi della politica, che si sentì e fu
analizzata dagli studiosi come delegittimata, in crisi di consenso
popolare. Fu un processo causato dall’aumento del potere auto-referenziale di
oligarchie collegate ad un nuovo dominio di classe, della classe che riusciva
ad avvantaggiarsi dei processi economici globalizzati. I politici nazionali
iniziarono ad imitarne i costumi, così come taluni principi regnanti delle
residue monarchie occidentali assumevano quelli dei più ricchi. Sia in
religione che in politica la maggior parte della gente finì per essere tagliata fuori:
in religione perché non rispondente ai criteri più selettivi proposti per
ottenere il riconoscimento come credenti (l’asticella
era stata molto alzata, la religione
non era più a buon mercato); in
politica perché ritenuta incapace di capire il nuovo mondo e di interagirvi positivamente.
Dagli anni ’90 la politica, sia quella religiosa che quella civile, si separò dal popolo. Si rese autoreferenziale
dal suo consenso. Bastò accattivarsene periodicamente i consenso plebiscitario con tecniche di marketing, quelle che servono a fascinare il pubblico dei consumatori. In
religione si impiegarono i grandi eventi costruiti intorno ai papi, ingenerando un
neo-papismo di tipo personalistico che mai c’era stato prima di allora.
Il popolo ridotto a pubblico non è però
sufficiente per sostenere le politiche che servono per contrastare le minacce
che vengono da uno sviluppo economico e sociale scompensato. Le relazioni tra
le persone sono troppo labili, tendono a sfaldarsi rapidamente e
capricciosamente. Le oligarchie politiche hanno voluto assumere l’immagine di
referenti di consumatori, fascinando la
gente, e si trovano a subire il contrappasso,
una punizione corrispondente alla loro colpa, perché è una colpa aver ridotto
in quel modo i processi democratici, per cui hanno solo il credito che può
essere ottenuto con quel tipo di fascinazione,
a brevissima scadenza: si sono fatte estremamente precarie e navigano a vista.
Gli studiosi, pensando all’origine dello stato, vi videro o il risultato
di un dominio ottenuto con un atto di
forza di un’oligarchia, a cui gli
altri si assoggettano per quieto vivere, cedendo
il proprio potere sociale per desiderio
di protezione, o un patto sociale. In entrambi i casi, a partire dagli
anni ’80, il potere in Italia divenne il risultato precario di uno scambio, potere contro favori di
categoria (fenomeno che viene definito consociativismo), e poi, con l’emergere di
oligarchie di potere consumistico, il risultato ancora più precario, perché non
fondato nemmeno su un labile accordo commerciale, di una combinazione episodica
tra potere e fascinazione, per cui,
ad un certo punto, si riesce a convincere un adulto a tracciare un segno sulla
scheda elettorale, senza troppo pensarci. In questa situazione le promesse
politiche possono tranquillamente non essere mantenute e nessuno se ne adombra.
La sfida dell’oggi è quindi quella di una
nuova democratizzazione della società, costruendo relazioni forti,
una nuova trama di popolo, generando
una nuova metamorfosi da pubblico/folla a popolo
democratico.
51. Processi democratici nella costruzione di un popolo: la festa
Nelle nostre collettività religiose lo
sviluppo di processi democratici è ostacolato dall’ingombrante gerarchia
feudale del clero. Occorre trovarle un posto e non è facile. Fatto sta che,
quando si parla di organizzarsi per fare qualcosa,
si finisce di solito per andare molto sul vago, non trattando veramente
di come si è e di come si dovrebbe o
vorrebbe essere, ma di qualche obiettivo che sta fuori di
un certo gruppo di riferimento. Si cerca sempre di mostrarsi nella
condizione di gregge, pronto a seguire pastori.
Ma che di che parlano gli esseri umani/gregge quando stanno
tra loro? Si parla in ecclesialese, il gergo/chiacchiericcio
infarcito di parole della teologia, che serve a parlare senza dire nulla, per
fare bella figura senza rischiare. Ogni decisione collettiva è frutto di
un difficile compromesso con il clero, che di solito viene raggiunto in
mediazioni riservate. Le assemblee servono solo per ratificare.
Nell’organizzarsi collettivamente gli
esseri umani sono ostacolati dai loro naturali limiti cognitivi. Secondo gli
antropologi non siamo capaci di relazioni profonde, stabili, con più di circa
centocinquanta persone. E’ chiaro però che le nostre società sono organizzate per
collettività molto, molto più vaste, e addirittura a livello mondiale. La gente
allora fa come gli uccelli nello stormo: prende le misure su quelli che sono
intorno più vicini e su chi sta avanti a tutti. Vi è poi un modo di comportarsi
in società che dipende dalle culture e consiste nel far riferimento ad un
sistema di miti e di idee: è la via delle religioni e del diritto. La cultura
allora è come una cartina topografica che ognuno tiene in tasca e dice come
fare per raggiungere un certo posto
Di solito non abbiamo bisogno di
contatti profondi con tutti quelli che incontriamo. Circolando per strada incrociamo migliaia
di persone senza mai incontrarle. Ognuno sa come comportarsi in
questi rapporti fugaci, istantanei e labili. Se dovessimo approfondire, la vita
sociale si bloccherebbe. Ora, è importante discutere di un tema che è diventato
particolarmente critico nella nostra civiltà: i rapporti che si hanno
interagendo sul WEB, su “internet”, sono di questo tipo, anche se
chi interagisce vi investe molta emotività, come per rapporti profondi. In
realtà non si creano relazioni stabili e profonde tra le persone. Questo
significa che chi sta molto su “internet” è un isolato, anche se sembra
interagire tutto il tempo con altri. E’ una condizione che spiega perché
“internet” abbia fallito nella costruzione di processi democratici, ad esempio
nelle “primavere arabe” degli anni scorsi, ma anche da noi in
politica. Che cosa corre tra le persone quando stanno su “internet”? Corre solo
la cultura altamente formalizzata, quella delle piattaforme, dei portali,
organizzata e diretta da altri (quelli che hanno il potere di ammettere e
di escludere e fissano le regole
dell'interazione), quella che consente i contatti tra utenti.
“Internet” non è quindi il regno della libertà e della spontaneità, ma il suo
contrario.
Se si considerano solo le persone più
vicine, le realtà di prossimità, si costruiscono solo gruppi molto piccoli e
dalla vita breve. Se ci si orienta sui capi, si perdono le realtà di
prossimità. Ogni potere tende ad assolutizzarsi, su grande e piccola scala, e a
togliere spazio alle altre persone. Anche nell’associazionismo religioso. Lo ha
detto anche l’attuale Papa ed è sorprendente, perché l’ingenuo papismo
mediatico e personalistico inaugurato dal Wojtyla consiste
proprio in questo. La scarsa familiarità con rapporti collettivi profondi fa
perdere senso alle culture condivise, sfascia le tradizioni. Questi,
riassumendo, sono alcuni tra i problemi principali delle società
occidentali contemporanee nell'organizzarsi collettivamente. Nell’ecclesialese corrente
sono cose risapute. Quando poi si tratta di passare dall’analisi critica alla
costruzione del cambiamento le cose si imbrogliano e ci si arresta, rimandando
alla prossima settimana sociale o assemblea.
L’altro giorno abbiamo fatto una
festa in parrocchia e abbiamo visto che le molte persone che sono venute sono
rimaste sostanzialmente estranee tra loro. E questo anche se si era organizzato
un ricco rinfresco. Di solito il mangiare insieme è una delle basi naturali degli
incontri. Era però un rinfresco in piedi, e in
occasioni del genere si tende a ruotare intorno ai
tavoli per poi trovare un posto laterale per mangiare.
Nessuno ha un proprio posto e ogni posto in cui ci si
ferma un attimo di solito non è quello che si riuscirà a conquistare
nella fase successiva. Nella socialità del party secondo il
modello statunitense (party nell’angloamericano significa
sia festa che partito), che è appunto
l’incontro di i un gruppo per un rinfresco in piedi, le persone girano
presentandosi le une alle altre, intrattenendo brevi conversazioni con molti dei
partecipanti nel corso delle quali programmano incontri
più ravvicinati e profondi, ad esempio per questioni di lavoro. Al centro
dell’evento c’è l’incontrarsi per conoscersi.
Una festa in società dovrebbe avere questo obiettivo. E’
diversa dalla festa parentale in cui ci si conosce già
tutti. Spesso le assemblee che si fanno nelle collettività religiose hanno il
tono delle feste parentali. Occorre trasformarle in feste
per conoscersi, che chiamerei feste/partito, in
angloamericano “party/party”, quelle che fanno movimento. Un
processo democratico parte da occasioni come queste. Si deve proporre un minimo
di formalità, vale a dire un rito, perché ognuno senta
di avere un posto; ci deve essere una persona di
riferimento, ma non ingombrante come un capo, quindi un potere non sacralizzato;
infine deve essere proposto il metodo, e l’etica, dell’incontro,
per cui ci si deve presentare, parlare con più persone di volta in volta per
averne un’idea più precisa, senza però monopolizzare gli altri perché questo
riduce il numero degli incontri possibili. Liturgie troppo pervasive e
formalizzate impediscono gli incontri personali. Lo stesso accade con capi
troppo ingombranti. Negli incontri personali occorre garantire una certa
libertà con l’avvertenza che è sconveniente aprirsi troppo o chiedere troppo
agli altri. Il rapporto con gli altri va costruito progressivamente, di tappa
in tappa, conoscendoli meglio. Avvicinandoli più spesso si ha occasione di
farlo. Relazionandosi su “internet” se ne ha solo l’impressione (falsa), ma si
rimane sempre allo stesso punto.
Le feste/partito sono
alla base dei processi democratici, anche di quelli popolari, di massa. Quando
i lavoratori contarono di più in società organizzarono la Festa dei
lavoratori (non del lavoro, come talvolta, sbagliando, si
dice). Un politico come Giorgio La Pira ne fu ben consapevole. Inaugurando
da sindaco, il quartiere di case popolari dell'Isolotto, a Firenze, consigliò
ai sacerdoti che erano stati inviati nella nuova parrocchia di fare
molte feste.
52. Un
lavoro di lungo respiro: il serio dialogo fondato sulla buona volontà
[da Z.Bauman - E. Mauro, Babel, Laterza, 2015, pag.147-148]
Z.Bauman
Per noi ci sono voluti millenni perché mettessimo nell’agenda pubblica
l’abolizione della pena capitale. Per
noi ci sono voluti millenni perché vietassimo la schiavitù. E ci sono voluti
millenni perché promuovessimo l’uguaglianza dei sessi. E chi sarà tanto
arrogante da sostenere che abbiamo effettivamente raggiunto tutti questi obiettivi un volta per tutte?
Noi possiamo sperare (io lo spero quanto te) che la nostra verità si imporrà
alla fine sul pianete che abbiamo in comune, così com’è accaduto (quasi) nella
«nostra» parte del globo. Ma abbiamo comunque
bisogno di attrezzarci per la estenuante lunghezza del cammino, per la
scabrosità della strada e per la limitata affidabilità dei veicoli a nostra
disposizione. Quello che abbiamo davanti a noi da affrontare è quello che i francesi chiamano un travail de longue haleine [un lavoro di
lungo respiro, trad. mia].
In ogni caso, continuo a ripetere che fra i
veicoli disponibili per percorrere questa strada c’è il serio dialogo fondato
sulla buona volontà (informale, aperto, cooperativo, per citare di nuovo le
qualificazioni di Richard Sennet), che miri alla comprensione reciproca e al
mutuo beneficio, che meriti la massima fiducia (anche se non certo assoluta e
incondizionata). Un dialogo di questo tipo non è compito facile né -diciamolo
pure- allegro; richiede una determinazione solida e costante, capace di
resistere a ripetuti e anche molto negativi risultati, un forte senso
dell’obiettivo finale, una grande arte, e la disponibilità ad ammettere i
propri errori insieme con l’arduo e faticoso dovere di porre riparo ad essi; e
soprattutto tanta pacatezza, equilibrio e pazienza.
53. Imparare la democrazia
La democrazia non è un fatto innato, si impara. Nella società
italiana di oggi mancano gli insegnanti. Storicamente l’Azione Cattolica è
stata una delle principali scuole di democrazia in Italia: prima però ha dovuto
essa stessa impararla e, innanzi tutto, convincersi del fatto che fede e
democrazia potessero andare d’accordo. All’inizio del Novecento questa idea
veniva considerata parte dell’eresia modernista. Questo significa
che, all’origine, la dottrina sociale, le idee dei papi
sulla riforma sociale, non comprendeva la democrazia. Infatti si riteneva che i
progetti di miglioramento sociale dovessero discendere dall’alto,
dedotti con ragionamenti teologici e proclamati con autorità. Progettare il bene
veniva considerato monopolio dei papi. L’osservazione e la comprensione
realistica della società in religione vennero progressivamente, in particolare,
in Italia, con il lavoro che si fece in Azione Cattolica, dopo la sua
fondazione, che risale al 1905, e per la sua organica collegamento con la
gerarchia del clero.
La democrazia non è solo un metodo per
prendere decisioni a maggioranza, ma un sistema di valori.
Principio fondamentale della democrazia è di considerare tutti uguali
in dignità. L’uguaglianza, però, va costruita in ciascuno. Lo si fa
rendendo libere le persone, che non significa lasciarle
alle loro passioni, ma fare in modo che possano decidere consapevolmente. Senza
vera libertà, ciascuno cade preda dei più forti. Il motto del primo partito
di ispirazione religiosa, il Partito popolare italiano,
fondato nel 1919 dal prete Luigi Sturzo e da altri suoi amici, fu Liberi
e forti. Ma nessuno è veramente libero da solo. E’ la società nel suo
insieme che va liberata. Chi la libererà? “Non esistono liberatori, ma
persone che si liberano”, fu il motto di un gruppo resistenziale milanese
di cui fecero parte il prete Giovanni Barbareschi e Teresio Olivelli. La
liberazione è un compito collettivo che richiede di essere solidali, di
considerare anche gli altri, di tener conto di loro e, in particolare, di chi
sta peggio, perché non ci sono persone che abbiano più urgenza di liberazione
di quelle che stanno peggio, e di solito si sta così quando si finisce in mani
altrui. Libertà, uguaglianza, fraternità sono valori assoluti
in democrazia, sottratti all’arbitrio di qualsiasi maggioranza. Nella
nota n.793 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004),
a proposito dell’amicizia civile da intendere come forma di
fraternità alla base della pacifica convivenza sociale, si citano le parole di
Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2° in un’omelia tenuta il 1 giugno 1980
durante il suo primo viaggio in Francia: «“Libertà, uguaglianza,
fraternità’” è stato il motto della Rivoluzione francese. In fondo sono
idee cristiane ». Quando quelle parole furono pronunciate la
democrazia non era ancora completamente una conquista culturale nella
nostra fede: lo divenne solo circa dieci anni dopo, nel 1991, con una storica
enciclica del medesimo papa, Il Centenario, in occasione dai cento
anni dalla prima enciclica della dottrina sociale moderna. C’è voluto quindi un
secolo perché, in religione, l’idea di riforma sociale fosse abbinata a
processi democratici. Ma si tratta di un conquista che va rinnovata di generazione
in generazione.
L’idea che proprio la Chiesa insegni la
democrazia appare ancora oggi un po’ strana. E’ il residuo, in genere
inconsapevole, del passato. Chi parla di democrazia in religione a volte viene
collegato con i comunisti. La bestia nera della prima
dottrina sociale fu il socialismo. Urtava pensare che le masse dovessero
liberarsi con un proprio movimento sociale e non attendere la giustizia sociale
da chi dall’affermarsi della giustizia sociale avrebbe subito solo un danno
patrimoniale. In effetti socialisti e comunisti, e in particolare questi
ultimi, dovettero imparare la democrazia negli stessi anni, e con le stesse
difficoltà, in cui lo si fece in religione. Imparandola, la
trasformarono. La innervarono di idee di giustizia sociale molto più che alle
origini. A lungo i comunisti ritennero la democrazia un imbroglio borghese, in
particolare constatando che, anche dopo l’introduzione del suffragio
universale, le masse davano credito elettorale a chi non faceva, o non
faceva del tutto i loro interessi. Come può succedere? Successe perché, in
ambito democratico, si temperarono le asprezze sociali, venendo incontro a chi
stava peggio. Si raggiunsero accordi che convennero a tutti. La crisi di quegli
accordi è all’origine di quella della società di oggi. Non è un caso che si
accompagni ad una crisi dei processi democratici: la gente non ha fiducia nella
democrazia e chi comanda cerca di avere il consenso fascinando i
singoli, più che coinvolgendoli nelle decisioni collettive.
54. Democrazia
e virtù
C’è in giro l’idea che la democrazia sia politica debole e corrotta. Ci
è rimasta dal fascismo, tramandata di generazione in generazione.
In realtà vediamo come dalla Seconda Guerra Mondiale, finita nel 1945,
più della metà del mondo è stata dominato da grandi democrazie piuttosto
bellicose, quindi forti. E la
democrazia si regge su un sistema di virtù
personali e collettive, senza le
quali non può esistere. Una delle principali è la giustizia: non ci arrende
alle prepotenze. In democrazia il potere è condiviso, ma non lo si può fare
senza essere giusti, perché, altrimenti, l’arbitrio di pochi sarà legge. In
democrazia non si impiegano le potenti polizie politiche costruite dai
principali totalitarismi suoi avversari. Ciascuno osserva le leggi per poter
essere liberi: è cosa che si è capita fin dall’antichità sulla democrazia. La
violazione della legge è vista come arbitrio e prepotenza. Può accadere che,
ragionando seriamente e nell’interesse comune, collettivo, si finisca per
ritenere una legge ingiusta e quindi non degna di una democrazia: ma non è decisione che si prende a cuor leggero. Chi
viola una legge di solito lo fa di nascosto e non vuole essere scoperto. Chi,
in circostanze eccezionali, non osserva una legge perché ingiusta, e quindi
indegna, lo fa apertamente, subendone le conseguenze. Questo rientra nel metodo della non-violenza
praticato e insegnato dal politico indiano Mohandas Karamchand Gandhi, Mahatma
cioè grande anima, (1869-1948).
In un sistema politico non democratico viene
insegnata la virtù dell’obbedienza incondizionata. In democrazia l’obbedienza
non è più una virtù, ma la più subdola
delle tentazioni, come scrisse Lorenzo Milani. In democrazia non si
osservano le leggi per obbedienza, ma
perché è giusto fare così. Le singole leggi possono essere
anche imperfette, quindi ingiuste, ma sono frutto di procedure
condivise e possono essere cambiate nello stesso modo: non sono nelle mani
dell’arbitrio di nessuno. Se lo fossero, non ci sarebbe più la democrazia.
Ripeto questo insegnamento che ci viene dall’antichità: la democrazia è un
sistema in cui ciascuno pone dei limiti al proprio arbitrio, non per obbedienza o peggio per paura, ma perché tutti si possa
essere liberi. E’ per questo che il grande filosofo greco Socrate, vissuto
nell’Atene del 5° secolo dell’era antica, decise di assoggettarsi alla condanna
capitale che gli era stata inflitta, benché, a suo avviso, ingiusta.
Senza virtù personali e collettive le democrazie muoiono, finiscono. Le
democrazie che appaiono corrotte e deboli sono democrazie che stanno morendo.
E’ in fondo questa la causa della crisi anche della nostra democrazia. Si tiene
troppo poco conto degli altri, delle loro sofferenza, in particolare quando
agiamo da consumatori. Così ci facciamo complici dei carnefici di chi sta
peggio nel mondo.
Per insegnare la democrazia bisogna innanzi
tutto far riscoprire le virtù democratiche. Si vedrà che in questo modo la
società funziona meglio. Lo si può fare fin da bambini: mai umiliare, mai far
soffrire, mai escludere, dividere ciò che si ha, mai tradire la fiducia degli
altri, resistere all’arbitrio e alla violenza. E’ cosa che un tempo si imparava
nei giochi collettivi: ora i ragazzini fanno vita da piccoli monaci. Il primo
passo potrebbe essere questo: fare bei giochi di gruppo in parrocchia.
55. La salvezza dell’umanità come problema religioso e politico
La salvezza dell’umanità in questo
mondo non è stata sempre un problema religioso: lo è diventata, anzi, molto di
recente. Da quando si è cominciato a ragionare in grande. Si è iniziato a farlo
da metà Ottocento, ma è dalla metà dello scorso secolo che si è cominciato
progressivamente a capire che l'intera umanità era minacciata
di annientamento. Quindi è molto importante conoscere la storia degli ultimi
due secoli. Sono quelli in cui tante prospettive religiose sono cambiate,
appunto perché si è cominciato a pensare in grande, oggi si dice su
scala globale, tenendo conto, appunto, di tutta l’umanità.
Questo pone un problema che riguarda la teologia dei secoli precedenti, la
quale si è sviluppata in una prospettiva diversa. Le questioni che trattava non
erano quelle che sono oggi al centro della nostra attenzione. Con la teologia è
in questione anche l’intera formazione religiosa, che consente di tramandare
una tradizione di generazione in generazione.
A lungo, molto a lungo, le questioni
di salvezza erano trattate a partire dall’anima.
La morte è un fatto umano ineludibile, lo tocchiamo con mano, letteralmente. In
religione si è convinti che l’essenziale di noi sopravviva, che si vada
incontro a un giudizio dopo la morte, e che alla fine dei tempi tutto ciò che
siamo risorga, anima e corpo, per il premio eterno o la dannazione
eterna. Quali saranno i criteri del giudizio? Si sarà giudicati da come ci si è
comportati nella vita fisica, terrena. La vita religiosa dovrebbe essere quella
che porta al premio eterno. Questo è stato, dalle origini e praticamente fino
all’altro ieri della storia, il principale problema della religione. Il
miglioramento della società veniva considerato in questa prospettiva, che, per
la verità, è ancora quella di molti, specialmente dei più anziani, perché la
formazione personale puntava a quello, e allora aveva molto importanza, ad
esempio, la devozione personale. La persona pia si sforza di essere buona e
questo impegno, se si diffonde in una società, la migliora. C’era ad esempio, e
c’è ancora naturalmente, la questione della penitenza, quella mortificazione
che ci si impone perché si sa di aver agito male, per correggersi ma anche per
dimostrare concretamente di volerlo fare, e quindi poi per non essere esclusi
dalla salvezza eterna. Ma la salvezza dell’anima,
nell'aldilà, non è la stessa cosa della salvezza
dell’umanità qui in questo mondo, che significa creare, oggi, durante
questa vita, società migliori, non solo persone pie, e ciò per diminuire la
sofferenza e fare di tutta l’umanità una sola famiglia (così si
espressero i saggi dell’ultimo Concilio). Se si prende questa via, se ci si
propone questo tipo di salvezza, allora si pongono questioni
specificamente politiche, perché la politica è l’azione collettiva
per organizzare le società. In religione si è sempre fatta politica, anche
molto prima che la nostra fede divenisse anche ideologia politica dell'impero
mediterraneo in cui si diffuse, dal Quarto secolo della nostra era. Non sarebbe
potuta diventarlo se non si fosse ragionato di politica già prima.
Del resto la condanna del Maestro fu motivata come punizione di un
crimine politico: l’aver voluto farsi re. Questo anche se egli non
fu certamente un capo politico. La politica venne dopo, quando si trattò di
dare un’organizzazione a collettività sempre più vaste. Ma troviamo traccia di
questo pensiero politico già negli scritti sacri nella nostra fede, in
particolare nell’ultimo libro che li compone, dove, dopo la prefigurazione di
una serie di immani tragedie della storia umana, in cui si criticano aspramente
le prassi politiche del dominio romano, c’è la visione di una nuova
città che scende dall’alto, perché tutto quello che c’era prima
non c’è più, e allora sarà asciugata ogni lacrima. La politica è parte
importante del pensiero del teologo e vescovo nord-africano Agostino d’Ippona,
vissuto tra Quarto e il Quinto secolo della nostra era: ne trattò in un libro
intitolato La Città di Dio, nel quale si contrappongono due
concezioni della politica viste come in conflitto insanabile.
Presto le nostre organizzazioni
religiose si diedero struttura politica e iniziarono a fare politica
trattando con i sovrani civili. Più o meno dall’Ottavo secolo il vertice
religioso ebbe un piccolo regno nell’Italia centrale e fu anche un
sovrano civile. Si ritenne che questo fosse indispensabile per trattare da pari
con gli altri sovrani. Due secoli dopo quel vertice volle farsi impero e
quindi dominare tutti gli altri sovrani, dettare
loro legge da un trono religioso. La giustificazione di questo potere
rivendicato come supremo, e talvolta anche riconosciuto effettivamente come
tale, era che consentiva di ammaestrare le genti, per farne collettività devote
e in tal modo per condurle alla vita eterna. La salvezza terrena dell’umanità
era fuori del campo d’azione praticato: per questo non si mise in questione che
potessero esserci guerre, anche molte sanguinose, alcune delle quali promosse
direttamente o comunque assentite dai capi religiosi. Né, in genere, costituì
un problema religioso il genocidio degli amerindi, delle popolazioni di antica
origine asiatica che i colonizzatori europei trovarono scoprendo le
Americhe, attuato da potenze europee sacralizzate secondo la
nostra religione. Né, più vicino a noi e a riguardo della politica italiana, lo
costituirono le sanguinose guerre coloniali attuate dal Regno d’Italia in
Eritrea ed Etiopia, abitate da genti della nostra fede benché di altra
confessione, e in Libia. In Etiopia ci fu un fatto di sterminio di religiosi,
come vendetta militare. Si consideravano tutti questi eventi come fatti umani
fisiologici dal punto di vista sociale e, in definitiva,
insuperabili, se non alla fine dei tempi. L’importante è che ai morituri e
morenti fosse aperta la via per la vita eterna, attraverso l’ammaestramento
religioso. A tal fine occorreva garantire immunità al clero, ai religiosi (gli
appartenenti a congregazioni di frati, e suore, monaci e monache) e ai loro
beni. Raggiunta questa, in particolare mediante concordati e
altri accordi, conclusi e formalizzati al modo di quelli che si
concludevano tra potenze civili, non si considerava che occorresse fare molto
altro, dal punto di vista politico, e, anzi, si accordava di buon grado
la sacralizzazione al potere civile con cui ci si era,
sostanzialmente, federati. L’essere anche un potere civile al
modo di uno stato, più che la sua maestà religiosa,
sottraeva il papato al dominio degli altri sovrani civili. Il papato fu
concepito molto presto come un potere assoluto e questo lo espose al degrado
etico a cui sono soggetti i poteri politici senza limiti. Questo fu
particolarmente sensibile intorno all’anno Mille, ma la situazione non migliorò
sostanzialmente fino al Cinquecento, secolo in cui, stimolati dalla Riforma
luterana, si diede un migliore profilo etico ai poteri ecclesiastici.
Fino a quell’epoca, come per le dinastie politiche sacralizzate non
si esigeva che i regnanti fossero personalmente e in
tutto rispettosi dei precetti religiosi, si adottarono gli stessi
criteri per determinare la coerenza morale dei poteri religiosi, che si fecero
lecito una parte di ciò che vietavano ai fedeli comuni e che rientrava nelle
abitudini correnti dei regnanti. Quindi, a lungo non ci furono molte differenze
tra un principe civile e uno religioso, in particolare nel modo in cui si
relazionavano con i loro sudditi. L’attuazione della
giustizia sociale come oggi la intendiamo non era considerata
indispensabile per i regnanti, i quali se ne occupavano molto poco.
La situazione iniziò a mutare con
l’emergere dei processi democratici di massa, nell’Ottocento e in Europa e
nelle parti del mondo colonizzate dagli europei. Inizialmente fu in questione
la libertà, che presto in teologia si diffamò come arbitrio,
licenza immorale e insubordinazione. Poi, con lo
strutturarsi di movimenti di massa, in particolare di quelli socialisti,
cominciò ad essere rivendicata la giustizia sociale, sulla base di eguaglianza
in dignità e di solidarietà civile. Tutti i
poteri assoluti furono minacciati e dovettero venire a patti politici,
fondamentalmente ponendo dei limiti al proprio potere, in particolare
concedendo statuti. Il papato non vi fu costretto perché, nel
processo di unificazione nazionale, nel 1870 perse il suo piccolo regno
italiano, rimanendo solo una potenza religiosa. Si sentì menomato. Reagì
politicamente cercando di suscitare un movimento di massa ostile ai movimenti
liberali e nazionalisti che dominavano la politica dell’invasore, del Regno
d’Italia, e che lo avevano spinto contro il piccolo regno del papato. Utilizzò
ciò che c’era già, vale a dire il vasto e multiforme mondo dell’associazionismo
solidale che si era formato in Italia su ispirazione religiosa, animato dal
clero di base, e i ceti colti che avevano suscitato. dal Settecento, la
polemica religiosa contro l’Illuminismo. Volle animare il
popolo minuto, in particolare quello del mondo contadino, ritenuto ancora
fedele al suo potere, a differenza della borghesia liberale. Per farlo costruì
una dottrina di giustizia sociale, quella che viene definita dottrina
sociale, che è parte del magistero, quindi della teologia insegnata
d’autorità dal papato. Questo generò un pensiero sociale e correnti
democratiche: si pensava anche a una democrazia animata dai valori
sociali della fede. A cavallo tra Ottocento e Novecento si venne a una
resa dei conti tra esse e quelle, dette intransigenti (verso
lo stato liberale), che ponevano al centro di tutto i diritti politici violati
del papato e i suoi interessi patrimoniali colpiti pesantemente dalla prima
legislazione del Regno d’Italia (il clero e gli ordini religiosi erano, e sono,
tra i maggiori proprietari immobiliari). Intervenne il papato d’autorità, tra
il 1902 e il 1906, scomunicando, nel vero senso della parola, le correnti democratico
cristiane, e costruendo l’Azione Cattolica, come
movimento di indottrinamento di massa secondo la dottrina sociale. Questa
organizzazione ebbe uno straordinario successo popolare, in particolare fra le
donne. Fu la maggiore scuola di politica di massa fino agli scorsi anni ’70.
Era organicamente collegata alla gerarchia del clero, che ne nominava i capi.
Quando il papato romano si compromise con il regime fascista, nel 1929, risolvendo
la questione romana con i Patti Lateranensi, ritornando
sovrano politico nel quartiere romano di Borgo e ricevendo ingenti indennizzi
patrimoniali, fu spinta a fascistizzarsi politicamente, ma le sue
organizzazioni intellettuali, FUCI(gli universitari) e Movimento
Laureati Cattolici, resistettero, svilupparono un pensiero politico sociale
autonomo sulle suggestioni del personalismo francese dei filosofi Jacques
Maritain ed Emmanuel Mounier e formarono la classe politica che, dopo aver
partecipato alla guerra di Resistenza contro il regime fascista e l’occupante
tedesco combattuta tra il 1943 e il 1945, dominò poi la politica democratica
italiana fino al 1994, sostenuta dalle masse di Azione Cattolica.
A partire dalla Prima Guerra Mondiale
(1914-1918) nella dottrina sociale comparì il tema della pace.
Non si arrivò ancora a contestare il diritto dei poteri civili di fare
guerra, ad esempio liberando i militari dall’obbligo di fedeltà ai governi
che la proclamavano. Ma si iniziarono a qualificare come inutili le
stragi belliche. Inutili perché? Così furono definite da un
papa verso la fine di quella guerra, nel 1917. Sembrava che le controversie
potessero essere risolte con accordi:
“un giusto accordo di tutti
nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e
garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento
dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi,
l'istituto dell'arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo e norme
da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di
sottoporre le questioni internazionali all'arbitro o di accettarne la
decisione.” [dalla lettera del papa
Giacomo della Chiesa - Benedetto 15° ai capi delle nazioni belligeranti, del
1-8-1917].
E, allora, perché la guerra?
In primo piano, però,
non apparivano le stragi, ma il disordine politico conseguente
ai conflitti. Per progredire nell’ideologia di pace occorse altro tempo e
un’altra guerra mondiale.
Dalla Prima Guerra Mondiale
l’Europa uscì molto cambiata e in modo del tutto inaspettato per i più. I
movimenti politici di massa emersero con particolare forza, perché le
masse erano stato molto ideologizzate per spingerle verso il conflitto (è solo
così che si convince la gente ad andare a farsi ammazzare): in diverse nazioni
europee finirono nel dominio di organizzazioni fasciste e in Russia dei
bolscevichi comunisti. Vent’anni dopo si combatté un’altra guerra mondiale, che
viene considerata un po’ come una prosecuzione della prima. L’Europa orientale
finì sotto il dominio dell’Unione Sovietica e nell’altra si svilupparono
movimenti democratici di massa, salvo che in Spagna e Portogallo, rimasti nel
dominio di regimi di tipo nazionalista e fascista non colpiti dalla guerra in
quanto non vi avevano preso parte. Il mondo si divise in due: la parte con
economia capitalista e l’altra con economia comunista. Entrambe le potenze
egemoni nei due schieramenti avevano l’arma nucleare e si constatò che una
guerra nucleare, con l’impiego di quelle armi, avrebbe portato alla fine
dell’umanità, per la ricaduta di particelle radioattive derivate dalle
esplosioni. Fu proprio a quel tempo che il problema della salvezza
dell’umanità in questo mondo cominciò a diventare un problema anche
religioso. Quest’ultimo fu al centro di uno dei documenti più
importanti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), la costituzione La
gioia e la speranza.
L’appello
alla Politica con la “P” maiuscola che
ci è venuto recentemente dal Papa si inserisce in quel filone ideologico.
E' tale infatti la politica che si propone la salvezza dell’umanità, in
questo mondo, mediante la riforma sociale. Essa ha anche un valore
religioso, perché senza umanità non ci sarebbe più fede e
si ritiene che la fede venga pregiudicata dalla distruzione massiva delle
collettività umane. Dagli anni ’90, dopo la fine della contrapposizione
armata tra blocchi e quindi della possibilità concreta
dello scoppio di un conflitto nucleare terminale, al centro delle
preoccupazioni vi è lo sviluppo economico globale basato
sulla competizione aggressiva, disordinata, insofferente dei
limiti e riluttante alla solidarietà: è questo che, secondo molti osservatori,
minaccia la sopravvivenza degli umani, portando al rapido degrado degli
ambienti naturali e sociali. Questo tema è al centro dell’enciclica Laudato
si’, del 2015, ma era stato già trattato in precedenti documenti
del genere. La novità sta nell’appello all’azione politica, e anche alla lotta,
di massa per evitare la catastrofe naturale e sociale. In un certo senso da noi
cade nel momento sbagliato, perché in Europa la politica è in crisi, sia quella
di governo che quella di massa. Occorre riproporne i fondamenti e, innanzi
tutto, riprendere ad educare alla politica. L’educazione alla
politica comincia facendone tirocinio. Lo si dice, ma raramente si
riescono a fare progetti in materia. E se poi la situazione ci sfuggisse di
mano? E se, invece, la situazione ci fosse già sfuggita di mano e, in
definitiva, imparare la politica fosse l’unico modo per cambiare una situazione
che va rapidamente degenerando?
56. Educare alla
democrazia globale
Il mondo è diventato interconnesso su
scala globale. Che significa?
Ieri sono stato al grande magazzino che
c’è vicino casa mia è ho comprato: un cappello, due cravatte, una cintura. Ho
guardato le etichette: tutti sono stati fatti in Cina, dall’altra parte della
Terra. E così è per la gran parte degli abiti che indossiamo e degli oggetti di
uso quotidiano. Ma anche di ciò che mangiamo. E’ una situazione che ci
conviene, come consumatori, perché i prodotti hanno prezzi bassi, alla portato
delle masse, in Europa. Lo sono perché i lavoratori, nei posti dove vengono
prodotti, vengono pagati meno che da noi. Ma anche perché da quelle parti è
arrivata l’automazione e il lavoro produce di più. E’ un fenomeno che è
iniziato più o meno negli anni ’80 del secolo scorso. All’inizio era le
imprese occidentali che organizzavano stabilimenti dove il lavoro veniva pagato
di meno, per aumentare i propri profitti. Ora, però, comincia ad essere
diverso. Anche lì dove si andava a produrre perché il lavoro costava meno si
stanno organizzando grandi imprese locali che si stanno rendendo autonome dagli
occidentali: anche se questi ultimi riportassero in Occidente le produzioni, la
situazione, quindi, non cambierebbe; fallirebbero presto sotto la concorrenza
dell’estero, a meno che il lavoro iniziasse a costare molto meno o i processi
di automazione progredissero molto di più. Quello che sembra incomprimibile è
il profitto, l’utile netto che viene a chi possiede le imprese, detratti
costi di produzione. Ma anche se le imprese che producono le merci di uso
quotidiano decidessero di accettare di ridurne l’entità, non potrebbero farlo,
perché le imprese di produzione sono sempre in debito verso che presta loro
il denaro per produrre. Quando vanno in crisi e falliscono il loro tesoro ha
già da tempo preso il volo, sotto forma di restituzione di prestiti.
Quando i lavoratori reagiscono occupando le fabbriche scoprono che sono sono di
proprietà dei datori di lavoro, erano tutte in prestito.
Non ci sono norme che consenta di coinvolgere la responsabilità di chi ci
ha tanto guadagnato, finché le cose andavano bene. La legge stabilisce una limitazione
di responsabilità. Chi controlla l'economia opera in gran parte in
regime di limitazione di responsabilità. Ad occuparsi delle macerie
sociali che lascia sono le istituzioni pubbliche, alle quali però, per varie
ragioni, mancano le risorse per farlo.
Il denaro è una merce come le altre. Chi
commercia il denaro controlla l’economia. Non produce, non ha nazionalità, né
stabilimenti: il denaro, nel mondo di oggi, può viaggiare velocemente e
rapidamente, sulle reti telematiche che avvolgono il globo. E’ al sicuro dalle
crisi economiche appunto perché può spostarsi in quel modo ed è diventato un
bene immateriale, essenzialmente un fatto contabile. Tutto questo è consentito
da una fitta rete di accordi internazionali, da una realtà giuridica a livello
mondiale che non era pensabile fino agli anni ’80, con il mondo diviso in due
blocchi contrapposti, con sistemi giuridici profondamente diversi. Non ci sono
strumenti giuridici per collegare i grandi profitti che, anche in tempi di
crisi, derivano dal commercio del denaro a responsabilità sociali quando le
cose agli altri vanno male. Il capitale, il denaro impiegato in attività
d'impresa, si può sganciare molto rapidamente da qualsiasi
crisi: tutto coopera a questo, il diritto e la tecnologia.
E’ appunto negli anni ’80 che tutto è cambiato, perché, in definitiva,
si è scelto di produrre e commerciare secondo le stesse norme giuridiche, che
consentono al capitale quella grande libertà. L’effetto sociale, a
livello globale, è che chi è coinvolto in vari modi nel commercio del denaro,
come proprietario di denaro o come collaboratori dei proprietari di denaro,
come i dirigenti d’impresa, gli avvocati, i commercialisti, i proprietari di
brevetti industriali per le nuove invenzioni che servono nella produzione e che
danno diritto a compensi se sfruttate, è emerso, sta molto meglio di tutti gli
altri, mentre i lavoratori, a livello mondiale, si stanno allineando su livelli
di reddito più bassi, molto più bassi. Per gli occidentali questo ha
significato una riduzione dei redditi. In Oriente e in altre parti del mondo è
stato diverso, perché, rispetto alla situazione di prima, i redditi sono
aumentati. I consumatori sono in maggior parte lavoratori. Per loro, come
consumatori va ancora bene, perché le merci costano poco. Per farle costare
poco bisogna pagare meno i lavoratori, i quali, quindi, progressivamente hanno
meno denaro da impiegare nei consumi. Per favorire i consumi si riducono le
retribuzione dei lavoratori, o si cerca di produrre dove le retribuzioni sono
più basse o si riducono i lavoratori impiegando l’automazione. A livello
mondiale, le norme che consentono al sistema di funzionare, non pongono limiti.
La solidarietà funziona, e sempre meno, solo all’interno di
ogni singola nazione, o, al più, all’interno di ogni
singola federazione di nazione. Tutto ciò è all’origine dei problemi
sociali che affrontiamo oggi.
Se un problema è di
dimensioni globali, può essere affrontato a livello locale?
Evidentemente no. Eppure spesso è questa la soluzione che viene proposta dalle
politiche nazionali e non solo in Italia. E’ in questione la giustizia
sociale. Ma lo è su dimensione globale e non ci sono
soluzioni valide che non comprendano anche di farsi carico di genti lontane,
dove si producono le cose di nostro uso quotidiano. Ecco perché oggi la sfida è
quella di creare una democrazia globale per ottenere che nei
fatti dell’economia si tenga conto anche della maggioranza della gente che
produce e consuma e non solo della piccola minoranza della finanza che
controlla il mercato del denaro. L’impegno è questo, per ciascuno di noi,
perché la democrazia è basata su ciascuno di noi: bisogna convincersi innanzi
tutto che di questa situazione siamo tutti responsabili,
in quanto in qualche modo complici di chi l'ha determinata, e
che, insieme, si può cercare di cambiarla. Non è infatti un evento della
natura, come i temporali e i terremoti, o un prodotto di volontà
soprannaturale, ma solo una costruzione umana. E' stata fatta e la si può
cambiare.
57. Il contributo della religione ad una nuova democrazia globale
Pensare in termini di
sopravvivenza dell’umanità è un’esigenza nuova e infatti riesce difficile ai
grandi come ai piccoli. In religione si hanno le risorse per imparare a farlo.
Ma solo da pochi decenni la teologia ha cominciato a ragionarci sopra e quindi
questo suo lavoro, ancora troppo recente, non si è tradotto effettivamente in
processi formativi delle masse dei fedeli. In passato si è in genere ragionato
il termini dipopoli di fedeli contrapposti alle potenze infedeli che
si opponevano alla religione. Nelle guerre ci si sforzava di convincersi che il
Cielo stesse dalla propria parte. La guerra, in definitiva, veniva considerata
come un fatto umano insuperabile se non alla fine dei tempi, un flagello come
gli eventi naturali avversi, una catastrofe come un terremoto o un ciclone o un
stagione di forte siccità. Nel mondo globalizzato di oggi si ricomincia a
pensarla così, non si esclude la possibilità di conflitti anche di grande
entità: è la cultura internazionale, quella praticata da chi domina il mondo, a
spingere verso questo modo di ragionare. Sembra che la sopravvivenza
dell’umanità non si più legata ad un ordine pacifico mondiale. Quello su cui
tutti concordano è un ordine giuridico mondiale che consenta la massima libertà ai
capitali, sia di movimento che di sfruttamento del lavoro e dell’ambiente. Un
pensiero che va in direzione contraria è quello espresso nell’enciclica Laudato
si’, del 2015, nella quale sono sintetizzate le idee critiche sulla
situazione globale.
Di solito nei conflitti chi sta
meglio in società ha più probabilità di scamparla. A rimetterci sono di solito
le masse, e questo anche se sono spinte le une contro le altre con la
prospettiva di rapinare le ricchezze altrui e di guadagnarci, come fecero i
fascismi europei. Chi predicava, da noi, la guerra come igiene nel
mondo, non pensava a sé stesso come sporco da eliminare,
ma alle masse, che trovava imbelli e troppo attaccate alle loro misere cose. E’
una situazione che fatalmente si ripropone tutte le volte che si ricomincia a
pensare al conflitto come via di risoluzione delle controversie tra i popoli.
La nostra Costituzione lo vieta, ma questo finora non ha costituito un serio
problema, quando i capi politici hanno deciso che era il momento di fare di
nuovo guerra. L’Italia è infatti impegnata su diversi fronti di guerra. Nella
Costituzione c’è anche il collegamento tra lavoro e democrazia e il divieto di
umiliare il lavoro, lo ha ricordato il Papa l’altro giorno a Genova. “E’
anticostituzionale”, ha detto. E’ così: un ordine che umilia il lavoro vacontro la
Costituzione vigente in Italia, è quindi eversivo. E’ significativo
che sia rimasto quasi solo un Papa a proclamarlo alle masse, e per di più un
Papa americano, venuto veramente da un altro mondo. Da noi con molta disinvoltura
si passa sopra alla volontà delle masse, anche quando si è espressa
formalmente, ad esempio con la richiesta di referendum sui tagliandi-lavoro,
quella forma di retribuzione veramente poco impegnativa per chi utilizza il
lavoro, senza ferie, senza sicurezza nella malattia e in gravidanza, senza
limiti d’orario di lavoro, senza garanzie di qualifica, insomma senza
vera responsabilità sociale. Si era chiesto un
referendum sulla legge che li prevedeva. Si sono raccolte le firme sufficienti
perché fosse indetto. Allora si è cambiata la legge e si sono aboliti i tagliandi-lavoro.
Il referendum, così, non si farà più. Ma dopo poco tempo, mesi addirittura, li
si vuole reintrodurre con un'altra legge. Così per ottenere che la questione
venga sottoposta al voto popolare bisognerebbe raccogliere le firme non una, ma
due volte.
Si parla di queste cose e si viene
presi per agitatori sociali. Ma in effetti è proprio questo che occorre
diventare. Il quieto vivere non ripara le masse nei conflitti. Se non si agitano
soccomberanno, avranno la peggio. E’ sempre andata così. Nei conflitti vengono
strumentalizzate, ideologizzandole, perché le guerre devono pur essere
combattute da qualcuno, qualcuno deve rischiare la pelle e tutto ciò che ha e
che è, ma di solito le combatte veramente chi ha solo da rimetterci,
comunque vadano le cose. La storia ce lo insegna. Così la Festa della
Repubblica, che si celebra il 2 Giugno, non dovrebbe essere centrata su una
parata militare. Si celebra la scelta del popolo italiano, il 2 giugno 1946, di
essere una repubblica, da regno che era. Questa scelta fu possibile solo con il
ritorno della pace, che era avvenuto circa un anno prima. Fu allora che,
finalmente, il popolo fu ascoltato. Si era conquistato il diritto ad esserlo,
cambiando profondamente, in un processo che era stato propriamente una
conversione di massa. Non era scontato che ci si riuscisse dopo decenni di
indottrinamento in senso contrario. In Germania, ad esempio, il processo fu
molto più lento. In Italia, però, c’erano le premesse per riuscirci più
rapidamente. Non fu un caso che dal 1946 al 1994 la politica italiana sia stata
dominata da un partito cristiano, ispirato alla dottrina sociale.
Di solito la democrazia viene
inquadrata in un orizzonte di tipo nazionalista: da noi quello, richiamato
nell’inno nazionale, dei fratelli d’Italia. E’ già molto,
naturalmente, in una nazione che a lungo fu divisa in tanti staterelli e che
solo di recente ha conquistato una lingua comune. Si capì che divisi si
contava di meno in campo internazionale. Ma ora questo non basta più. Si deve
ragionare su scala globale e in questo si è favoriti dal fatto che i costumi
dell’umanità si sono molto ravvicinati negli ultimi cinquant’anni. Viaggiamo di
più, sappiamo di più. Il problema è quello di incontrarsi veramente
per suscitare un movimento mondiale che potremmo definire della pace e
del lavoro. Una potenza così c’è già ed è appunto, attualmente, la nostra
Chiesa. Nella quale tuttavia le dinamiche democratiche sono solo allo stato
embrionale. C’è molto da fare. E si può cominciare da realtà locali, come
quella della parrocchia.
Fare tirocinio di democrazia globale richiede
una visione religiosa, che consenta di pensare in grande. Essa permette di
porsi dal punto di vista del Cielo. Ma richiede anche la pratica dei valori democratici,
prima ancora che dei metodi democratici. In parrocchia
sembra che la gente conti poco, che ci sia o non ci sia in fondo non è
così importante, le cose vanno avanti lo stesso, e infatti partecipa poco. Viene
più che altro da spettatrice. Invece la democrazia esige quel tipo di giustizia
che viene definita giustizia partecipativa: occorre fare qualcosa,
impegnarsi, contribuire al lavoro collettivo, non si tratta solo di alzare la
mano o di infilare una scheda in una scatola per votare. E’ partecipando che
si conquista il diritto ad essere considerati, a contare veramente. In una
dinamica così, l’autorità del parroco virerà progressivamente, di fatto, da
quella di un funzionario locale di un principato religioso a quella di un
presidente di assemblea. A partire dal tirocinio locale di democrazia globale
le cose possono cambiare. E’ da realtà così che sono emersi molti dei
capi politici democratici di oggi in Europa occidentale. Non è come negli Stati
Uniti d’America, in cui di solito si riesce a salire al vertice
solo se si è molto ricchi e, in genere, da diverse generazioni. Si tratta di
riprendere quel lavoro di formazione che in una realtà come l’Azione Cattolica
si è sempre fatto, dalla sua fondazione, ripensandolo, tuttavia, per la realtà
globalizzata di oggi.
58. Sperimentare soluzioni nuove: rivitalizzare i mondi
vitali
Negli anni ’70, in Italia
si visse un periodo di crisi sociale, politica e religiosa, ma non si era
d’accordo nell’individuarne le cause e nel prevederne le prospettive. Si
chiedeva consiglio ai sociologi, i profeti dei tempi moderni, e loro
rispondevano. Mio zio Achille era uno di loro. C’era chi si aspettava molto dal
nuovo capitalismo che cominciava ad essere osservato, quello che oggi domina il
mondo; c’era invece chi confidava ancora di poter trasformare la nostra società
secondo i principi del socialismo; c’era chi voleva innanzi tutto liberare le
persone dalle costrizioni sociali: mio zio sviluppò una teoria che vedeva nella
crisi dei mondi vitali, i luoghi sociali in cui si produce il senso
personale e collettivo della vita, l’origine dei problemi. In questa visione la
dimensione giusta per ripartire era a livello locale, di prossimità.
Oggi tutti sono d’accordo sulle cause della
crisi e sui suoi sviluppi. Si sa come andranno a finire le cose. Ci si divide
tra chi ritiene questo processo ineluttabile, come lo sono i terremoti e le
eruzioni vulcaniche, e pensa che non resti che cercare di adattarvicisi, e chi
ancora vorrebbe reagire per cambiare il corso degli eventi. Alcuni, e tra essi
gli autori dell’enciclica Laudato si’, pensano che sia in questione
la sopravvivenza dell’umanità, che quindi, procedendo così come si sta facendo,
si andrà a finire molto male; altri prevedono solo la fine di forme sociali che
sembravano molto radicate e che invece si stanno rapidamente sfaldando. Le fini
dei mondi sociali non sono mai indolori. Negli scorsi anni ’70 si era però
ottimisti sulle prospettive: dalla fine del Settecento i cambiamenti sociali
avevano prodotto, sia pure attraverso percorsi piuttosto travagliati e in
particolare conflitti accesi, miglioramenti di massa, un aumento del benessere,
almeno tra gli europei, quelli del nostro continente e quelli della
colonizzazione delle altri parti del globo. Le previsioni di oggi non vanno in
quel senso. In particolare, si è convinti che, se anche si sopravvivrà, ci sarà
molta meno libertà. Si costruiranno ingranaggi sociali e giuridici che
incastreranno gli individui in ruoli molto definiti; le società saranno
dominate da oligarchie molto ristrette, che accentreranno il controllo della
gran parte delle ricchezze e che troveranno sempre minori limiti. Già oggi è
sensibile questa nuova situazione. I sociologi osservano che il nostro profilo prevalente
è quello di consumatori: le nostre scelte sono in gran parte orientate da
tecnologie su base psicologica, da persuasori che ci fanno
sentire a disagio, strani, se non seguiamo certe abitudini.
La progressiva mancanza di libertà
incide sulla tradizione religiosa e questo benché storicamente la religione sia
apparsa spesso in antitesi con la libertà delle persone, come un sistema molto
costrittivo di limiti sociali controllato da oligarchie gerarchiche con
molte pretese. La modernità è stata quindi vista come un processo
di liberazione da questo giogo. In realtà la possiamo
concepire come un processo di sostituzione di un ordine con
un altro, anch’esso molto pervasivo. Ma al fondo delle esigenze religiose c’è
un’esigenza di libertà: si pensa infatti che ci sia una verità sulle
persone e la loro vita che rende liberi. Essa è stata all’origine
di tutti i movimenti di riforma religiosa. Ed anche
all’origine delle democrazie contemporanee, che si basano sull’idea religiosa
che si sia tutti creati uguali. Essa risultava evidente
ai rivoluzionari statunitense i quali nel 1776 proclamarono:
“Riteniamo verità evidenti che tutti gli
esseri umani sono stati creati uguali, dotati dal loro Creatore di certi
inalienabili Diritti, e tra questi quello alla Vita, alla Libertà e alla
ricerca della Felicità”.
Questi principi giustificavano, secondo loro, non solo
la secessione dalla monarchia europea di origine, ma anche
una rivoluzione sociale.
Evidente significa che
non ha bisogno di essere provato. Quelle verità lo sono ancora? Fino agli
scorsi anni ’70 lo sembravano ancora. Ma la cultura sociale è molto cambiata. E
certe convinzioni sono messe a dura prova della realtà contemporanea, in
particolare dai rimescolamenti di popoli prodotti dalle migrazioni
caratteristiche della globalizzazione, per cui dall’altra parte del
mondo non ci vengono sono le merci di uso comune, ma anche altre vite umane.
Una realtà che, alla fine del Settecento, quando iniziarono i processi
democratici contemporanei, con difficoltà si poteva immaginare e prevedere in
tutti i suoi sviluppi. I rivoluzionari statunitensi che ho ricordato non
avevano difficoltà, ad esempio, ad importare e impiegare manodopera schiava
nelle loro aziende agricole.
In definitiva la nostra fede fa
resistenza agli sviluppi della globalizzazione che tutti più o
meno prevedono. La prospettiva di un’umanità ridotta a un formicaio non
soddisfa da un punto di vista religioso. Si pensava di farne un’unica
famiglia. Ecco quindi che nell’enciclica Laudato
si’ troviamo espresse idee che hanno una portata rivoluzionaria
rispetto alla mentalità corrente. Si va be’, rivoluzione, ma chi la
farà poi? Non si vede all’opera un agente rivoluzionario. Le nostre
collettività, in genere, sono state dalla parte di chi dominava, hanno cercato
accordi, accomodamenti, hanno sacralizzato più o meno tutti i
poteri che ambivano ad esserlo. Va a finire che anche adesso finirà così. Ma
non sarà così semplice farlo. Perché si dovrebbe rinunciare a cose essenziali,
ribaltare la dottrina. Ci si sta pensando? L’altro giorno, su Avvenire,
è sorta una polemica sul personalismo, che è la via alla
democrazia e alla libertà originata nell’ambito della nostra fede e che gente
della nostra fede ha inserito tra i principi fondamentali della Costituzione
vigente: c’è chi vorrebbe abbandonarlo e chi invece replica che occorre
praticarlo fino a tutte le sue conseguenze. Fa difficoltà attribuire i diritti delle persone proprio
a tutti gli esseri umani; non potendo negarglieli, perché
questo modo di fare è ancora vissuto come sconveniente, si pensa di
abbandonare l’idea di persona e il personalismo.
Mio zio Achille, quando gli chiedevano che
fare, dava ricette concrete. Suggeriva, ad esempio, di fare i congressi di
partito e delle grandi associazioni in piccoli paesi, in modo da pervaderli
totalmente suscitando o rafforzando realtà di mondo vitale. Nel
1986 il congresso nazionale del partito cristiano, all’epoca ancora
egemone, si tenne a Cervia, in Romagna, proprio nella piazza davanti casa sua.
Oggi gli esperti che ci chiariscono con molta precisione le cause della crisi,
al dunque non ci sono utili per definire vie di resistenza e di cambiamento. E’
il neocapitalismo all’origine di tutto, ma loro, in sostanza, ci dicono di
insistere su quella strada, quella della competizione e dello sfruttamento.
Alcuni pensano di reagire chiudendosi in comunità corazzate:
è questa la via che molto a lungo, fino all’ottobre del 2015, si è seguita in
parrocchia. Ora la gente è molto sospettosa, teme di venire catturata,
ha ripreso a venire numerosa, ma, a qualsiasi proposta di impegno, risponde in
genere come Trump al Papa durante la visita di qualche giorno fa, che ci
penserà tra qualche giorno. Rivitalizzare le realtà di mondo
vitale del quartiere può essere una buona prospettiva. Se la gente
ritrova il senso della vita si impegnerà nuovamente in un lavoro comune. Non va
sottovalutato l’impatto che un quartiere può avere nella vita cittadina.
Migliaia di persone sono una massa critica, vale a dire sufficiente
per innescare una reazione sociale significativa, ad esempio a influenzare
l’offerta di mercato, quindi l’economia locale, orientando i consumi. In
definitiva si apre la prospettiva di una vita più bella. In particolare per i
più giovani. Quando i genitori chiedono loro se vogliono proseguire sulla via
della Cresima, spesso i bambini tentennano. Non sanno di che si privano. Del
resto sono bambini. E i genitori lo sanno?
La prima cosa su cui riflettere, in
un’ottica di rivitalizzazione di mondi vitali, è quella che viene
definita giustizia partecipativa. E’ molto importante nei processi
democratici. Chi si riconosce, oggi, in debito di
partecipazione? Eppure, a pensarci bene, è chiaro che siamo addirittura
insolventi in questo campo. Ognuno se ne sta un po’ sulle sue. E’ il consumismo
che ci spinge a questo. Un consumatore isolato è indifeso, malleabile: è questo
l’ideale per i tecnologi persuasori. Non c’è critica sociale se si
rimane isolati. E’ questo il limite gravissimo della democrazia
digitale che si vorrebbe sostituire a quella formale, basata
sulla tradizione democratica. La sensazione di libertà che ciascuno ha
digitando avanti al proprio pc è falsa. E’ solo incontrandosi che
ci si libera. Questa è appunto la via della religione. Ancora oggi, nel
nostro quartiere, il suono della campane chiama alla vita comune.
59. Festa della Repubblica
Il 2 Giugno è una festa civile: la Festa
della Repubblica. Si fa memoria di un evento storico accaduto il 2 giugno
1946: gli italiani, e per la prima volta anche le donne, votarono per scegliere
se l’Italia dovesse essere un regno, sotto la dinastia Savoia, o una repubblica
ed elessero i componenti di un’Assemblea Costituente, che dovevano scrivere una
nuova costituzione dello stato, sostituendo lo Statuto entrato in vigore nel
1848. Le ultime elezioni libere si erano svolte nel 1924, ventidue anni prima,
gli anni del regime fascista mussoliniano. L’Azione Cattolica aveva svolto un
ruolo molto importante nella formazione politica delle masse, in particolare
delle donne. Dal voto popolare uscì la scelta per la repubblica e per un regime
istituzionale di democrazia popolare, in quanto prevalsero i partiti che si
proponevano di realizzarlo.
Ma non si festeggia solo un evento
storico, accaduto ormai tanti anni fa. Le persone ancora viventi che vi
parteciparono hanno oggi dai 92 anni in su (la maggiore età e quindi il diritto
al voto erano fissati all’epoca a 21 anni). Si festeggia, in fondo come per i
compleanni delle persone, che la repubblica democratica sia ancora in vita e
vitale. Essa è affidata al popolo, che si rinnova di generazione in
generazione: vanno tramandati principi e procedure, nel tempo in cui le
generazioni più anziane coesistono con le più giovani, prima di sparire. I
regimi politici sono parte della cultura di un popolo, del sistema di costumi,
concezioni e regole che rendono possibile l’organizzazione della vita
collettiva. Le culture cambiano, di generazione in generazione, e così i
sistemi politici. Chi è al potere cerca di solito di resistere al cambiamento:
è stato l’assillo di tutte le dinastie regnanti, ma anche di ogni altro gruppo
egemone nei regimi politici. Se si è convinti della bontà del regime
politico democratico repubblicano, allora c’è da festeggiare constatando che è
durato fino ad oggi. Non si è mantenuto sulla forza delle armi. Per questo la
Repubblica non dovrebbe essere festeggiata con una parata militare, ma con una
grande evento gioioso di massa in cui ci sia spazio per la riflessione
politica. Dovrebbe sfilare il popolo. La repubblica in Italia è sorta con il
ritorno della pace e, fino ad oggi, non ha mai dovuto essere difesa con le
armi. Questo perché ha scelto la via della pace e ha sviluppato politiche di
pace, all'interno di grandi organizzazioni internazionali che avevano il
medesimo obiettivo, in questo distinguendosi nettamente sia dalla politica del
regime fascista, ma anche da quella dei governi del Regno d’Italia dall’Unità
nazionale all’avvento del regime fascista, che si fa risalire al 1922.
Attualmente l’Italia è impegnata con proprie forze militari in diversi fronti
di guerra, ma non per ragioni di difesa. Il più sanguinoso è quello
dell’Afghanistan, con 59 morti e oltre 600 feriti. La motivazione di questi
impegni militari è il mantenimento della pace nel quadro dell’azione di
organismi internazionale.
Oggi repubblica e democrazia sembrano
strettamente collegati e addirittura sinonimi, come se volessero dire la stessa
cosa, ma non è così.
Democrazia è quando il potere viene
condiviso tra molti secondo regole che consentono la partecipazione
collettiva, limitando i poteri di ciascuno e stabilendo
principi giuridici di giustizia sociale per contenere
gli arbitri dei potenti. Cominciò ad essere praticata e teorizzata nell’antica
Atene, in Grecia, nel Sesto secolo dell’era antica.
La repubblica, termine che deriva
dal latino e che in quella lingua significava “cosa pubblica”, è invece
un’invenzione culturale dei romani. All'inizio equivaleva a “stato” e
significava la separazione giuridica, stabilita quindi da norme pubbliche
formali, tra i poteri, gli interessi e i patrimoni della classe politica
egemone e quelli destinati all’uso pubblico nell'interesse della collettività.
Fu un notevole progresso culturale. Nelle monarchie arcaiche, dei tempi
molto antichi, che in genere si erano sviluppate come estensione del potere di
un maschio adulto sulle persone della propria famiglia a lui soggette e sui
suoi beni, tutto apparteneva al sovrano, persone e cose, non c’era distinzione
tra le cose “sue” e quelle della collettività. Nell'antica civiltà romana
continuò ad esserci uno stato, quindi una “repubblica” in quel senso, anche
quando in essa si svilupparono degli imperi di tipo dinastico, nei quali quindi
la successione al vertice poltico avveniva tra generazioni di un’unica
famiglia.
Qual è la distinzione fondamentale tra
repubblica e monarchia? In una repubblica chi domina lo stato lo fa
nell'interesse pubblico, non nel proprio interesse o in quello della sua
famiglia. Pensa di aver ricevuto un mandato, un incarico, in tal senso. In una
monarchia, invece, il sovrano pensa di avere personalmente, o come membro di
una dinastia, il diritto di supremazia politica, come cosa che
gli appartiene. Si è visto che all'origine di ogni monarchia vi è un atto di
forza, di violenza. Stabilizzandosi, ogni monarchia cerca una giustificazione
sacrale del proprio dominio, per collegarlo a una volontà divina e renderlo più
stabile.
In una monarchia dinastica, come era
quella dei Savoia nel Regno d’Italia, il diritto politico del
sovrano passa di genitore in figlio, secondo regole giuridiche, quindi formali.
Ma, all'inizio di ogni dinastia monarchica, vi è sempre un capostipite che non
ha giustificato in tal modo il suo potere: è il caso di Napoleone Bonaparte,
quando dal 1804 divenne imperatore dei francesi, cambiando
la forma di stato da repubblica democratica a monarchia assoluta.
Chi ci assicura che il figlio del
monarca sia all'altezza, o migliore, del suo genitore? Nessuno. Spesso, anzi, è
accaduto proprio il contrario. Questo è il limite delle monarchie dinastiche. E
comunque il potere monarchico tende a degradarsi nel tempo, perché è legato
alla persona, anche fisica, del monarca, che con l'invecchiamento degrada, e
non di rado degenera al modo in cui accade ai poteri assoluti o con pochi
limiti. Nelle repubbliche democratiche si cerca di mandare al potere supremo i
migliori, e comunque se ne prevede la periodica sostituzione: non vi sono
poteri a vita. Nell’Italia della repubblica democratica questo in
genere è accaduto, se si considerano i Presidenti della Repubblica, che hanno
preso il posto dei re.
Storicamente ci furono repubbliche, nel
senso di sistemi politici non dominati da un sovrano, dinastico o non, non
democratiche. Non fu democratica, ad esempio, la Repubblica Sociale Italiana
mussoliniana, che controllò l’Italia del Centro-Nord, con capitale a Salò sul
lago di Garda, tra il 1943 e il 1945. Né lo fu lo stato repubblicano
franchista, che dominò la Spagna tra il 1939 e il 1975 (paradossalmente in
Spagna il ritorno della democrazia coincise con la restaurazione di una
monarchia dinastica). Non fu, di fatto, democratica l’Unione delle Repubbliche
Socialiste Sovietiche, durata dal 1917 al 1991, perché dominata da
un’oligarchia di partito. Non furono democratiche, in parte della loro storia,
diverse repubbliche Latino-Americane, quando caddero nel dominio di oligarchie
dispotiche, in genere di origine militare, che si sottrassero al controllo
politico attuato mediante libere periodiche elezioni politiche. La democrazia
di popolo, come oggi la intendiamo e pratichiamo, è stata un’importante
conquista culturale anche per le repubbliche.
Vi sono state e vi sono monarchie che
incorporano principi repubblicani e democratici. Sono così tutte le attuali
monarchie europee, a seguito di un processo politico iniziato nel Settecento
(ma in Inghilterra addirittura nel Duecento). Attraverso statuti,
che significa sostanzialmente costituzioni, si stabilirono
dei limiti ai poteri delle dinastie regnanti e questo fece spazio alla politica
democratica. Nello stesso tempo furono giuridicamente distinti patrimoni,
poteri e interessi delle dinastie regnanti da quelli degli stati.
Storicamente si è pensato che le
monarchie producessero un ordine sociale migliore e più stabile. In realtà la
storia non conferma questa opinione. E’ un’idea che deriva dalla
sacralizzazione del potere monarchico e quindi da una cultura indotta per
stabilizzarlo, sottraendolo al cambiamento sociale. La realtà è che le
monarchie hanno sempre teso ad assolutizzarsi, ad estendere il loro potere, e
questo le ha poste in conflitto con gli altri poteri sociali compresenti: sono
state quindi sempre impegnate, in genere e fino ad epoca piuttosto
recente, in congiure di palazzo violente e sanguinose. Le democrazie vennero
diffamate dalle monarchie come poteri disordinati e arbitrari: nell'epoca
moderna si sono manifestate tutto l’opposto, quando e finché sono rimaste tali.
Questo perché le democrazie moderne sono non solo un sistema di limiti a poteri
arbitrari, ma anche di principi di giustizia sociale.
In un sistema repubblicano nessuno deve
arrogarsi il potere di appropriarsi della cosa pubblica e di identificare i
propri interessi con quelli dello stato. Questo significa che si deve
combattere la corruzione della politica, che consiste appunto in quello. In un
sistema democratico nessun potere è senza limiti, sia in durata che in
estensione, e si attivano procedure di controllo di come il potere pubblico
viene esercitato. Tutto questo richiede una intensa e costante partecipazione
popolare. L’idea che il popolo entri in ballo solo al momento delle elezioni
politiche non è né repubblicana né democratica, ma da aspiranti oligarchi,
futuri monarchi assoluti. In un sistema realmente democratico, chi vince alle
elezioni, e governa, deve sopportare il costante controllo popolare. Lo dice la
nostra Costituzione repubblicana all’art.49, dove si riconosce il diritto
dei cittadini di associarsi liberamente per concorrere a determinare la
politica nazionale. Il primo indice della degenerazione di un potere
democratico è quando chi comanda vuole mani libere fino alle elezioni
successive.
Il papato domina da sovrano
assoluto la Città del Vaticano, l’entità indipendente che ha contrattato con il
Mussolini, nel 1929 concludendo i Patti Lateranensi. E’ un simulacro di stato
stabilito nel quartiere Borgo di Roma (nel Trattato che lo istituisce non viene
mai definito stato). Il regno papale sulla Città del Vaticano
è un regime politico arcaico che non è indispensabile né per motivi religiosi,
per difendere e propagare la fede, né per motivi politici, per garantire
l’indipendenza del papato: infatti nessuno stato oggi è
veramente sovrano, tutti devono soggiacere a limiti internazionali,
compresa la Città del Vaticano e il suo monarca. Anche la nostra Chiesa, che è
cosa distinta dalla Città del Vaticano anche se ha lo stesso re, è organizzata
come una monarchia assoluta. Anche in questo caso non ve n’è una necessità
teologica o politica.Primato non significa
necessariamente impero. All'interno della nostra
organizzazione religiosa si stanno sviluppando, dagli scorsi anni Sessanta,
processi democratici. L’organizzazione monarchica assoluta, al modo di un
impero, è un portato storico, in particolare dell’epoca feudale, dall’Ottavo
secolo, in cui il papato acquistò una indipendenza politica via via sempre più
estesa e intensa. Che ne dobbiamo fare? Non è necessario fare una rivoluzione
per cambiare le cose, perché comunque stanno già cambiando. I connotati
politici di quel potere si sono infatti molto affievoliti. Le altre monarchie
ancora vigenti non sentono più la necessità di una loro sacralizzazione secondo
la nostra fede: in Europa la stabilità del loro ruolo è garantita dalle norme
costituzionali. Anche nel papato si comincia a ragionare in questo modo per
quanto riguarda la politica ecclesiastica: la politica del papato si va
anch'essa desacralizzando. I principi repubblicani e
democratici mettono la gente al riparto dagli eccessi che nel passato i nostri
sovrani religiosi hanno manifestato. Dal 1991 il papato ha accreditato la
democrazia come regime politico preferibile, in quanto rispondente alla dignità
degli esseri umani. Questo, nel lungo periodo naturalmente, produrrà delle
conseguenze. Innanzi tutto possiamo fin da ora cogliere l’occasione per
approfondire la riflessione personale e collettiva sulla democrazia e per farne
pratica. Teniamo conto che la Costituzione vigente è piena di principi
che sono originati dalla nostra dottrina sociale e che, addirittura, uno dei
principi fondamentali che regola il funzionamento dell’Unione Europea, quello
di sussidiarietà, ha la stessa fonte. I principi repubblicani e democratici non
ci possono più rimanere estranei. Gente nostra è stata protagonista nel loro
sviluppo e nella loro affermazione. Anche da persone di fede, benché ancora
sudditi di una monarchia religiosa assoluta, possiamo quindi fare festa oggi.
60. Il lavoro dell’istituzione
Le collettività umane nascono e
muoiono, così come gli esseri umani. Le istituzioni, queste invenzioni delle
culture umane fatte di storie, tradizioni e norme, danno loro continuità,
consentendo loro di rigenerarsi: in questo modo si cerca di tramandare ai più
giovani il patrimonio di concezioni, conoscenze, costumi acquisito dalle
generazioni più anziane. Ogni istituzione vale se fa questo lavoro senza
impedire il progresso dell’umanità. Di solito chi comanda in una società cerca,
in misura maggiore o minore, di strumentalizzare le sue istituzioni per rendere
più stabile il proprio potere. E’ cosa che si produsse con effetti spettacolari
nelle monarchie sacralizzate europee. Sacralizzare, vale a dire collegarle a
una volontà soprannaturale, le istituzioni della politica ha consentito di
proiettarle molto avanti nel futuro e di conservarne molto efficacemente
l’ordine. Ma si è trattato pur sempre di una strumentalizzazione, perché rimane
vero che ilregno immaginato nella fede non è di
questo mondo. Sono le istituzioni che dovrebbero rimanere strumento,
non la fede. Se avviene l’inverso, e nella nostra confessione è accaduto nei
due millenni della sua storia, la fede ne risulta impoverita, quanto le
istituzioni in tal modo sacralizzate vengono esaltate immaginificamente.
Una parrocchia è anche un’istituzione,
ha dimostrato di saper dare continuità alla socialità umana, e lavora nel campo
dell’integrazione tra vita personale e sociale e la fede religiosa, ma non è
sacralizzata, non strumentalizza la fede, la serve. Nel 2015 la nostra
parrocchia era sostanzialmente morta come corpo sociale, aveva esaurito
un suo ciclo storico, ma continuava a rimanere come istituzione. Questo ha
consentito di attivarne una rigenerazione sociale. Non è più tanto importante
capire il perché della crisi, perché si tratta del passato e del resto le sue
cause sono molto chiare: ora è importante partecipare alla rigenerazione.
Possiamo riconoscere che, come istituzione, la parrocchia ha fatto ciò che ci
si attendeva, quello per cui era stata costruita. Ora deve rigenerarsi come
collettività.
Quello che è successo nella nostra
parrocchia è accaduto molte volte, storicamente, ed anche su scala molto
maggiore, nelle nostre collettività sociali. Si osserva una continuità nei
secoli, che è in gran parte di istituzioni e di cultura, ma le società dei
fedeli sono morte e si sono rigenerate molte volte. A volte si pensa,
sbagliando, di poter riproporre il passato. Ma i morti non ritornano. La via
reazionaria non è mai quella giusta.
La nostra fede non c’è stata da sempre,
ha avuto un inizio, dal punto di vista sociale. Prima c’erano altre religioni,
molto antiche. Non bisogna mai pensare che gli antichi non fossero religiosi.
Per convincersi del contrario basta osservare i ruderi dei grandi templi
dell’antichità. Anche le religioni che c’erano prima della nostra avevano delle
istituzioni. Quand'è che quelle fedi si sono dissolte? Quando sono mutate le
istituzioni che le sorreggevano. In particolare quanto non servirono più per
sacralizzare la politica. Questo dimostra che erano piuttosto strumentalizzate.
Ma la gente comune vi faceva affidamento ed è proprio per questo che le si
strumentalizzava: servivano a chi dominava le società di allora a rafforzare la
propria egemonia politica.
Perché la nostra fede è sopravvissuta
alla desacralizzazione delle politica che si è prodotta in Europa e nelle parti
del mondo che seguivano i costumi degli europei tra il Settecento e
l’Ottocento? Fondamentalmente perché ha prodotto un sistema di valori che si è
tradotto in un codice di diritti umani che è al fondo della
nostra civiltà e che orienta anche la politica, indipendentemente da questo o
quel gruppo egemone e da qualsiasi strumentalizzazione. Le istituzioni sociali,
animate da quei valori, cooperano a mantenere la fede come un’opzione sensata
nella società. Ma la desacralizzazione dei poteri politici impedisce di
strumentalizzarla: è l’applicazione del principio della laicità
dei poteri pubblici e della politica.
In un’istituzione come la parrocchia
viene custodito anche il patrimonio culturale di quei valori, ma esso può
sopravvivere senza apporto sociale fino ad un certo punto, non indefinitamente.
Ecco perché è urgente impegnarsi nella rigenerazione sociale della parrocchia.
Non si tratta più tanto di seguire un capo o delle regole: la parrocchia è
istituzione ormai desacralizzata, questo
non basta. I valori che propone devono rivivere nella gente, in particolare
nelle nuove generazioni. Riviverli, di vita in vita, significa anche
attualizzarli, reinterpretarli: le generazioni si riproducono ma non sono mai
la copia identica le une delle altre. In chiesa non si mette in scena sempre lo
stesso spettacolo, come certe volte accade a teatro, e allora ci sono una serie
infinite di repliche, anche per anni, che però, ad un certo punto,
finiscono. Se uno viene in chiesa da
spettatore, solo da spettatore, ad un certo punto vedrà lo spettacolo
liturgico-religioso tolto dal cartellone. E' accaduto. Tante chiese sono state
riciclate come certi cinema sono diventati grandi magazzini, quando molto
a lungo sono stati disertati dal pubblico. Però, ciò che si mette in
scena in parrocchia è in realtà il valore dei
valori, l’agàpe, che è incontrarsi gioiosamente facendo spazio a tutti:
essa non morirà mai, è scritto. Riuscire a farlo dipende da come ciascuno e
tutti collettivamente viviamo, oggi, i valori della
nostra fede.