INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Questo blog è un'iniziativa di laici aderenti all'Azione Cattolica della parrocchia di San Clemente papa e manifesta idee ed opinioni espresse sotto la personale responsabilità di chi scrive. Esso non è un organo informativo della parrocchia né dell'Azione Cattolica e, in particolare, non è espressione delle opinioni del parroco e dei sacerdoti suoi collaboratori, anche se i laici di Azione Cattolica che lo animano le tengono in grande considerazione.

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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lunedì 11 novembre 2019

Materiali per un tirocinio alla democrazia - 2016/2017 Parte 1°


 Materiali per un tirocinio alla  democrazia - 2016/2017
Parte 1°

Ripubblico, raccolte in un unico documento, suddiviso in tre parti le riflessioni di politica svolte sul blog <acvivearomavalli.blogspot.it> dal settembre 2016 all'agosto 2017. Possono essere utili come materiale per un tirocinio alla democrazia. E'  possibile farne il copia/incolla in formato word e, in questo modo, trasferirle molto rapidamente con i vari dispositivi telematici oggi in uso. In gran parte si tratta di sintesi di pensieri altrui, filtrati attraverso la mia esperienza di vita. Vi invito a vagliare criticamente, in particolare alla luce del magistero se siete persone di fede, ciò che ho scritto. Ciò che vi propongo può essere preso come base per una discussione, ragionando di democrazia, ma ha necessità di essere sviluppato e ampliato e, dove occorre, corretto. Autorizzo il libero utilizzo del materiale offerto, esonerando dal menzionarne l'autore. Mi sono limitato infatti a restituire ciò che ho ricevuto: ho fatto solo da tramite. 
    La  mia posizione  sulla questione democratica emerge chiaramente negli scritti che propongo. Il mio primo riferimento è stato sempre l'ambiente dossettiano bolognese, ma sono anche un ragazzo degli anni '70, formatosi nella FUCI di allora. Ho accostato anche altre fonti.
  Ho cercato di utilizzare il metodo del dialogo e della mediazione culturale che mi è stato insegnato in religione e di incoraggiare a impiegarlo nelle riflessioni politiche. Ho voluto stimolare una discussione critica, non polemizzare. Ho cercato di comprendere il punto di vista altrui, anche quando divergeva molto dal mio.
  Da ultimo: il mio lavoro non riflette il pensiero dei sacerdoti della parrocchia San Clemente papa, né quello dell'Azione Cattolica. Scrivo da associato all'Azione Cattolica, ma sotto la mia esclusiva responsabilità personale.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli. 


Indice sommario:
0.Introduzione
1.Prepararsi per un grande destino
2.Prendersi cura della casa comune
3. Democrazia: un sistema di potere collettivo con limiti stringenti a ciascuna autorità pubblica o privata sulla base di valori condivisi
4. Illusione dell’«uomo forte»
5. Capire la politica
6. Nuovo inizio o prosecuzione della costruzione della casa comune?
7. Persecuzioni e persecutori
8.Laudato si’: pensare la globalizzazione in una visione di fede
9. Inequità planetaria e lotta religiosa contro un modello di sviluppo
10. Cammini di liberazione
11. Critica sociale, fede religiosa e azione sociale: sviluppi nella dottrina sociale
12. Nuova santità
13. La politica come campo d’azione della fede
14. Europeismo
15. Nazionalizzazione degli stati
16. Noi e i problemi europei
17. Un mandarino per Teo
18.  In una fase di transizione
19. L’evoluzione della storia animata da formazioni sociali
20. Francesco e il trumpismo
21. Critica e autocritica sociale, dialogo
22. Una nazione senza frontiere non è una nazione?
23. Il risorgente nazionalismo mette in pericolo il mondo
24. La grande storia ci si sta per rovesciare addosso
25. Religione tanto più coinvolgente quanto più inutile?
26. Noi, la pace e la religione
27. Antipapa?
28. Il neo-nazionalismo: un problema di corruzione spirituale della  società
29. Economia e comunione
30. Pace, perdono  e indole personale
31. Un mondo sta finendo
32. Impegno religioso e impegno politico: la particolarità italiana
33. Consapevolezza storica e partecipazione responsabile
34. Nuove modernità
35. Crisi della parrocchia e crisi della politica
36. La religione come problema sociale
37. Prepararsi a lavorare in società
38. I guai politici delle religioni tradizionali
39. Affrontare con uno stesso spirito la crisi religiosa e la crisi politica
40. La radice politica dei problemi religiosi
41. Rivolti all’interno o rivolti all’esterno
42. L’immaginazione al potere?
43. Scuola popolare di pensiero sociale
44. Ribelli
45. Il Cielo in una stanza
46. La “Politica” con la maiuscola
47. La questione democratica
48. Informazioni sulla democrazia.
49. Pensare il popolo
50. Costruire il popolo
51. Processi democratici nella costruzione di un popolo: la festa
52. Un lavoro di lungo respiro: il serio dialogo fondato sulla buona volontà
53. Imparare la democrazia
54. Democrazia e virtù
55. La salvezza dell’umanità come problema religioso e politico
56. Educare alla democrazia globale
57. Il contributo della religione ad una nuova democrazia globale
58. Sperimentare soluzioni nuove: rivitalizzare i mondi vitali
59. Festa della Repubblica
60. Il lavoro dell’istituzione
61. Politica e conflitti sociali
62. La giustizia come metro dei sistemi sociali
63. Non rassegnarsi
64. Dignità
65.Non siamo formiche
66. Magistero costituzionale
67. Religione e democrazia da poco sono tra loro contemporanee
68. Dialogo come metodo e mentalità
69. Interpretare il mondo contemporaneo
70. Giustizia sociale come conversione. Papa Francesco: lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”.   Note sul discorso di Papa Francesco ai sindacalisti della CISL, il 28 giugno 2017
71. Le culture, veri miracoli dell’umanità
72.Partire da lontano per capire i vicini
73. Come si è popolo in religione?
74. Popolo sognato
75. Grandi orizzonti
76. Noi  e il mondo
77. Che portiamo al mondo?
78.  Costruire democraticamente le basi della convivenza in religione
79. Sperimentare nuove forme di democrazia
80. Capire la democrazia
81. Comprendere gli esseri umani
82. Fare politica in spirito di carità
83. Noi popolo
84. Serve un governo del popolo?
85. Diventare popolo?
86. La società costruita
87. Pensare come popolo
88. La felicità di tutti
89. La politica e i valori
90. Cambiare le persone al comando o le politiche?
91. Partecipare al governo democratico
92. Vivere la politica democratica
93. Fare la propria parte
94. La dottrina sociale: una grande opportunità
95. Prepararsi alla cittadinanza
96. Fare politica
97. Informarsi, conoscere, capire
98. Usare l'intelligenza
99. Uguali in dignità
100. Veramente uguali
101. Populismo

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0.Introduzione

 La formazione della persona di fede dovrebbe comprendere anche un  tirocinio alla democrazia, come parte del tirocinio alla carità in senso religioso. Non mi riferisco ad un insegnamento di tipo dogmatico, quindi dei principi generali che Papa e vescovi ci invitano a seguire in quel campo. Essi, nel loro complesso, costituiscono un corpo molto esteso e sistematico, vale a dire ordinato per certi fini, che viene chiamato “dottrina sociale”. Intendo invece una pratica di democrazia a partire dalle realtà sociali più vicine alle persone, per arrivare e quelle che più vaste, a livello nazionale  e internazionale. Di solito ci si trova immersi in vari tipi di società, le prime delle quali sono quelle dei giochi infantili e delle scuole primarie. E’ proprio da questo livello che occorre cominciare a imparare a praticare la democrazia e, più in generale, a fare politica. E’ un lavoro educativo che però, in genere, nella formazione di primo e secondo livello, diciamo per intenderci per la preparazione alla Prima Comunione e alla Cresima, non si fa. E più avanti, quando si fa, la si fa appunto come insegnamento dogmatico, di norme generali da imparare e mettere in pratica. Ma per imparare certi principi di azione sociale occorre convincersene e per metterli in pratica, nel dettaglio delle nostre vite, occorre farne tirocinio, come per ogni sapienza che si apprende.
 Come organizzare un tirocinio alla politica democratica in una parrocchia? La parrocchia è un’istituzione politica, nel senso che raggruppa una società che richiede di essere governata. Per farlo democraticamente, occorre fare pratica di partecipazione. Fin dove si può farlo? Non è il parroco che decide tutto? Effettivamente il parroco in genere ha l’ultima parola. Questo dipende dai diversi aspetti della parrocchia, che è una società di tipo comunitario, in cui quindi conta molto la partecipazione, ma anche un’istituzione amministrativa che si occupa, ad esempio, di un patrimonio immobiliare e di compiti specificamente notarili, nell’esercizio dei quali il sacerdote può anche assumere la veste di pubblico ufficiale, in particolare nella celebrazione dei matrimoni detti concordatari perché hanno anche effetti civili. Ad ogni funzione sono collegate specifiche responsabilità. Per le norme vigenti del diritto canonico e del diritto statale alcune responsabilità sono proprie del parroco e dei sacerdoti che con lui collaborano. Ma vi sono spazi di partecipazione democratica molto ampi, alcuni previsti espressamente dalle norme del diritto canonico, vale a dire da quello della Chiesa, ma altri che possono essere liberamente strutturati  da una comunità che voglia farlo impegnandosi.
  La partecipazione democratica è strettamente legata all’impegno, nel senso che non si partecipa veramente se non impegnandosi, facendosi carico e assumendosi responsabilità. Ci si assume una responsabilità quando si accetta di rendere conto  alla comunità di ciò che si è fatto e di come lo si è fatto. Democrazia e impegno sono così strettamente connessi perché la democrazia non è solo un metodo di voto per adottare delibere collettive, con maggioranze più o meno ampie, ma anzitutto un sistema di valori. Questi ultimi, in democrazia, sono tutti orientati verso la  giustizia. Dall’economista bolognese Stefano Zamagni, prendo la definizione di giustizia secondo tre aspetti:
-giustizia commutativa: negli scambi contrattare un prezzo equo; non approfittare a danno degli altri di condizioni di mercato loro eccessivamente sfavorevoli;
-giustizia distributiva: nella società fare in modo che a nessuno manchi l’essenziale;
-giustizia partecipativa: ognuno faccia il suo  dovere in società; nessuno si chiami fuori; ognuno si metta in gioco nell’interesse collettivo.
  E’ chiaro che la democrazia non è faccenda che si può risolvere con un clic.
  Ma da dove cominciare per un tirocinio alla democrazia? Direi che occorre organizzare degli incontri nei quali:
- ragionare di democrazia;
-individuare gli spazi di democrazia che ci sono nelle società in cui ci si è trovati inseriti;
-progettare forme di partecipazione democratica;
-realizzare forme di partecipazione democratica, programmando verifiche periodiche.
 Il materiale che segue serve appunto per ragionare di democrazia. Non è un manuale. Non è dogmatica di dottrina sociale. Si tratta di una raccolta di miei riflessioni, già pubblicate nel blog acvivearomavalli.blogspot.it , nelle quali confluiscono un po’ di mia vita vissuta, un po’ di riferimenti storici, e, in mezzo, riferimenti ai principi. I riferimenti storici di solito mancano nelle lezioni sulla dottrina sociale. Questo perché ci si sente a disagio nell’ammettere che in essa c’è stato uno sviluppo storico, che, quindi, è cambiata nel tempo, in seguito alle esperienze concrete di partecipazione sociale. Il cambiamento più rilevante ha riguardato proprio la democrazia, che molto lentamente è stata individuata come il regime politico più degno per le persone umane, in particolare in un processo che si è sviluppato prima alla base e poi nel magistero, quanto a quest’ultimo tra il 1941 e il 1991.
   Ognuna delle riflessioni che seguono può essere lo spunto per iniziare a ragionare di democrazia, in uno degli incontri di cui dicevo. Va però considerata una proposta aperta, innanzi tutto per vagliarne i fondamenti, l’attualità, l’accettabilità sotto vari profili e quindi anche per contestarla, qualora occorra. E’ solo così che si migliora,: individuando con l’aiuto degli altri gli errori e imparando a non ripeterli.
  Per ragionare di democrazia è indispensabile avere sotto mano il libro di testo di storia dell’ultimo anno delle scuole medie frequentate, inferiori o superiori. A chi non l’avesse più, consiglio l’ultima edizione del volume 3 del corso di storia Nuovi Profili Storici  di A.Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, editori Laterza, €40,90.
  Tutti i documenti della dottrina sociale sono pubblicati sul sito <www.vatican.va>. Per ricercarli velocemente si può impostare una ricerca sul motore di ricerca Google,  inserendo il nome del documento che si ricerca (di solito in latino, ad esempio pacem in terris) e  la parola vatican).

1.Prepararsi per un grande destino

Aldo Moro (1916-1978. Esponente dell’Azione Cattolica, professore di diritto, politico, membro dell’Assemblea Costituente, a lungo parlamentare, ministro e presidente del Consiglio dei ministri, assassinato dai banditi delle brigate rosse nel 1978) scrisse nel 1943, per i suoi studenti dell’Università di Bari:
“Probabilmente, malgrado tutto, l’evoluzione storica, di cui noi saremo stati determinatori, non soddisferà le nostre ideali esigenze; la splendida promessa, che sembra contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta, Ciò vuol dire che gli uomini dovranno sempre restare di fronte al diritto e allo stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il dolore non sarà mai pienamente confortato. Ma questa insoddisfazione, ma questo dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla sua vita, troppo spesso più angusta di quanto la sua ideale bellezza sembrerebbe fare legittimamente sperare.
  Il dolore dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno. E’ un dolore che non si placa, se non un poco, quando sia confessato ad anime che sappiano capire o cantato nell’arte o quando la forza di una fede o la bellezza della natura dissolvano quell’ansia e ridonino la pace. Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino.
[in: Aldo Moro, Lo Stato - Il Diritto, Cacucci Editore, 2006, €15,00, un testo che, a parte alcuni capitoli di impostazione filosofica, è prettamente centrato sulla dottrina giuridica in materia di diritto pubblico e, in questo, non è aggiornato ai nostri tempi].

  Leggendo l’enciclica Laudato si’, dell’anno scorso, ritrovo lo stesso impegno verso un grande destino di cui scriveva Moro nel 1943. Ci sono degli ideali e delle prospettive di azione collettive. Si lavora nel mondo, si cerca di determinarne l’evoluzione storica, non si è indifferenti al dolore degli altri e la forza della fede riesce talvolta a dissolvere l’ansia, a ridarci la pace, a lenire l’insoddisfazione: perché lo vediamo bene che il dolore umano non sarà mai pienamente confortato. Di quella pace, che significa giustizia, rendere a ciascuno il suo, al Cielo e agli esseri umani, avremo sempre fame e sete: è il nostro destino. Ma pensiamo ancora che sia un grande  destino?
  Uno può pensare a un proprio  futuro felice. Ma tutto passa e anche noi. Se si ragiona così, la vita è fatta di brevi felicità e di molto dolore. E il dolore va preso sul serio, questo posso testimoniarlo, perché non c’è un limite alla capacità di soffrire, ed è la morte. Dicono che ci viene assegnato solo il dolore che possiamo sopportare, ma io questo non l’ho potuto constatare. Così, il destino personale è quello che è. E’ solo quando pensiamo a un destino collettivo, ad esempio che riguarda la nostra discendenza, che allora esso può essere grande. Questa contemplazione di un destino grande dà poi una felicità più duratura. “Occorre rendersi conto che quello che c’è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che verrà dopo di noi. E’ dramma per noi stessi, perché ciò chiama in causa il significato del nostro passaggio su questa terra”[Laudato si’, n.159]. E’ per partecipare a questo lavoro collettivo, convinti di quel grande destino, che ci si riunisce, si dialoga, si lavora insieme, anche in una collettività come quella parrocchiale. E’ anche una via verso la vera felicità. Ed è una via con un significato religioso, come ci ha spiegato il nostro vescovo nel documento che ho citato. E’ una via che ci viene indicata, specialmente a noi laici di fede, ma che qualche volta siamo esitanti a iniziare a percorrere.  Trascuriamo di parlarne nella formazione alla fede e, allora, guardate un po’!, sembra quasi che nemmeno si sappia più di che parlare. E non ne parliamo neppure ai nostri giovani. Noi adulti siamo un po’ sfiduciati, come scriveva Moro: “in una posizione di più o meno acuto pessimismo”.Ecco che allora il nostro catechismo talvolta appare un po’ troppo miserello per chi sta aprendosi alla società, per parteciparvi attivamente, e non è più soddisfatto dai discorsi per bambini.
  Ma soprattutto, per il lavoro che c’è da fare non basta il catechismo! E infatti di quella specie di rivoluzione culturale invocata nella Laudato si’non mi sembra rimanga traccia nei discorsi che facciamo ai giovani. E forse ci siamo già dimenticati di quel documento, che è qualcosa di più delle ricorrenti produzioni clericali del passato, che una persona non faceva nemmeno tempo a leggere, non dico a studiare e a capire, che già ne arrivava un’altra.  O, quello che è ancora peggio, cerchiamo di pasticciarne versioni riduttive, in modo che, in definitiva, confermi le nostre opinioni di sempre. E’ quello che talvolta facciamo anche con le Scritture. Le apriamo a caso, e, guarda un po’!, ci troviamo sempre confermato il nostro pensiero. La scorsa domenica, alla Messa delle nove, il celebrante ha accennato a Scritture esigenti, che mettono in crisi.  E’ bello avere fra le mani le Scritture, ma siamo consapevoli di ciò che veramente sono e dicono? Non sono il Libro delle Giovani Marmotte.
 Ne parlò, in un’omelia dell’8 giugno 2014, il vescovo di Palestrina, Domenico Sigalini:
«Non è scritto per nessun cristiano il Libro delle Giovani Marmotte. Non so se avete letto Paperino. Quando mancava Paperino, non sapevano che fare quelle oche lì; allora c'era un libro nel quale andavano a leggersi come fare un uovo fritto, lo prendi così, lo spacchi cosà, come fanno i vostri mariti quando non ci siete voi a casa. Telefonano "Come faccio a fare questo?", eh?  Il Libro delle Giovani Marmotte, dove c'è scritto tutto quello che devi fare quando manca il capo. Non abbiamo ilLibro delle Giovani Marmotte perché manca Gesù, dove c'è scritto tutto, già definito, tutto quello che si deve fare. Quante volte voi mamme e papà avete dovuto tribolare per decidere cosa fare nella vostra famiglia, pur essendo cristiani, pur sapendo il Vangelo, pur sapendo tutti i Comandamenti! Perché la nostra vita non è mai all'altezza del Vangelo, se non c'è lo Spirito Santo che ci illumina. "Prendi questa decisione!", "Prendi quest'altra". Siamo sempre aperti, non abbiate in tasca nessuno la verità! La verità è sempre Gesù ed è lo Spirito Santo, che ci aiuta ad essere più docili. C'è solo lo Spirito Santo. La nostra docilità e la nostra umanità, affidata tutta a Dio e soltanto a Dio.»
  Quanti saggi si sono amorevolmente dedicati a cercare di comprendere tutti i sensi delle Scritture! Una letteratura sterminata e ancora inesauribile. Perché, come si dice, sono Parola viva. Ed ecco che invece talvolta pretendiamo che ci si appaghi di certi nostri predicozzi incolti, e addirittura ci inquietiamo quando gli altri obiettano insoddisfatti.
  E che succede se noi teniamo la Parola viva in cassaforte senza farla scendere veramente nel nostro mondo? E’ parola reclusa, prigioniera tra le nostre mani. E, invece, che potenza esprime quando c’è chi se ne fa veramente mediatore, con l’antica sapienza che ci è stata tramandata e con l’umiltà devota di chi ne riconosce la santità e la rispetta! Come quando il celebrante, nella Messa delle nove di domenica scorsa  ha iniziato ad introdurci al senso di questo versetto della lettera ai Galati “28 Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.”  (Gal 3,27-29)"Altro che bomba atomica!", ha concluso: ed è così! Vedete che cosa abbiamo tra le mani!
 Dobbiamo fare reagire il nostro mondo con la nostra fede: occorre che portiamo il nostro mondo nelle cose della fede. E’ il metodo seguito nella Laudato si’. C’è tutto un mondo in quel documento, alla lettera. C’è un’ecologia, un discorso sull’ambiente, che va molto oltre la natura, ma comprende anche le società umane. Di tutto dovremmo prenderci cura  religiosamente. Ma come farlo se nessuno ce lo insegna, in religione? E, in particolare, non ce lo insegna quando siamo più disposti ad apprendere, nel corso dell’adolescenza. E' cosa che va molto oltre il catechismo come lo si intende in genere, ma che riguarda anche il catechismo. Ma che non molti catechisti mi pare sanno trattare. Dopo la Laudato si’ tutti quelli che si occupano di formazione religiosa degli adolescenti e dei giovani dovrebbero fare un esame di coscienza e dirsi se sono in grado o non sono in grado di fare quel lavoro che ci si attende anche da loro. E se riconoscessero di non essere in grado, con quale presunzione poi potrebbero voler monopolizzare il lavoro di formazione dei più giovani riducendolo a catechismo immiserito? Lascino spazio ad altre forze, in attesa di prepararsi adeguatamente. E, soprattutto, lascino spazio ai sacerdoti, si facciano guidare da loro.
 I più giovani sono più generosi di noi adulti. E’ perché sono aperti al nuovo. E lo sono perché devono farsi largo, progettare un futuro in cui ci sia posto anche per loro e per quelli che amano. Non hanno tempo da perdere: lo sanno per istinto naturale! Se noi riduciamo tutto a catechesi miserelle, senza mettere in campo quel grande destino di cui parlano Moro e Bergoglio, poi li perdiamo. Che se ne fanno di una religione così? E io non posso rimproverarli. Farei anch’io come loro.
  Di solito sono restio a citare discorsi di papi. Siamo stati sommersi dal profluvio esorbitante della loro produzione letteraria. Quasi non abbiamo avuto il tempo di occuparci d’altro (anche se spesso lo abbiamo fatto distrattamente). Ma, per dare un’idea di quel grandedestino che ho evocato, concludo trascrivendo di seguito l’omelia pronunciata da papa Francesco a Lampedusa, dopo fatti  tragici, l’8 luglio 2013. L’ho trovata citata nell’ultimo libro di Zygmunt Bauman che è stato pubblicato in italiano: Stranieri alle porte (anche in formato e-book - ve lo consiglio).
« “Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte”. Così il titolo nei giornali. Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta, non si ripeta per favore. Prima però vorrei dire una parola di sincera gratitudine e di incoraggiamento a voi, abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio verso qualcosa di migliore. Voi siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà. Grazie!
Grazie anche all’Arcivescovo Mons. Francesco Montenegro per il suo aiuto e il suo lavoro e la sua vicinanza pastorale. Saluto cordialmente il sindaco, signora Giusy Nicolini. Grazie tante per quello che lei ha fatto e fa. Un pensiero lo rivolgo ai cari immigrati musulmani che stanno oggi, alla sera, iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie.
Questa mattina alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei proporre alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti. «Adamo, dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei, Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello. Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza; tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.
«Dov’è tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà – e le loro voci salgono fino a Dio. E un’altra volta a voi, abitanti di Lampedusa, ringrazio per la solidarietà! Ho sentito recentemente uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui, sono passati per le mani dei trafficanti, quelli che sfruttano la povertà degli altri; queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto. E alcuni non sono riusciti ad arrivare.
«Dov’è tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti della città di Fuente Ovejuna uccidono il Governatore perché è un tiranno, e lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del re chiede: «Chi ha ucciso il Governatore?», tutti rispondono: «Fuente Ovejuna, Signore». Tutti e nessuno. Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro.
Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto. «Adamo dove sei?», «Dov’è tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?», chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere. Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli… perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi… Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo. «Chi ha pianto?», chi ha pianto oggi nel mondo?.
Signore in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo, Padre, perdono per chi si è accomodato, si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Perdono Signore; Signore, che sentiamo anche oggi le tue domande: «Adamo dove sei?», «Dov’è il sangue di tuo fratello?».

2.Prendersi cura della casa comune

L’enciclica Laudato si’,  dell’anno scorso, ha come sottotitolo: “sulla cura della casa comune”. Si tratta di un testo che non ha precedenti nella dottrina sociale. Questo risulta in modo evidente in particolare dalle note di citazione, che fanno pochi riferimenti a precedenti documenti analoghi. Vi sono invece molte citazioni di documenti di conferenze episcopali. Vi sono citazioni di documenti dei papi regnanti dagli anni ‘70, ma con molti  testi diversi dalle encicliche, contenuti in discorsi e messaggi. Di documenti conciliari vi sono tre  citazioni e riferimenti tratti tutti dalla Costituzione La gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2° (nota 50, sull’autonomia delle realtà terrene; nota 100, sull’uomo quale autore, centro e fine di tutta la vita economico-sociale; nota 122, sul concetto di bene comune come l’insieme delle condizioni delle vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente). Ma è la prospettiva che viene proposta che è molto diversa da quella dei precedenti insegnamenti della dottrina sociale e anche dalla teologia francescana, a cui pure si fa riferimento come principio ispiratore. Non basta rispettare e contemplare la natura, e riconoscervi l’opera del Creatore: occorre averne cura. Non si tratta solo di soggiogare  e sfruttare  senza inaridire le risorse, lasciando ciò che serve alle generazioni successive: occorre anche mantenere, e ove occorre ristabilire, l’armonia del creato, di cui gli stessi esseri umani sono parte. Occorre un’azione comune, collettiva, che non è più riferita, come nei precedenti documenti che trattavano il tema, solo ai governanti, ma a tutti.  Questo richiede una conversione su larga scala, la giustizia sociale tra le generazioni, un nuovo spirito civico e nuove politiche. E’ in questione uno stile di vita. Ma anche il sistema economico che regge le società contemporanee. Si parla di ecologia, parola che significa studio dell’ambiente, ma l’ambiente  a cui si fa riferimento non è solo quello naturale, ma in primo luogo quello sociale. Perché sono gli esseri umani ad essere chiamati a prendersi cura della creazione. Si è chiamati ad una rivoluzione culturale:

114. Ciò che sta accadendo ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale. La scienza e la tecnologia non sono neutrali, ma possono implicare dall’inizio alla fine di un processo diverse intenzioni e possibilità, e possono configurarsi in vari modi. Nessuno vuole tornare all’epoca delle caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la realtà in un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, e al tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza megalomane.

  Passare da una civiltà della crescita illimitata e dello spreco ad una della sobrietà e della cura dell’ambiente richiede un lavoro specificamente politico, che nella Laudato si’  è specificamente indicato come compito di tutti.

178. Il dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri. 179. […

 ] Poiché il diritto, a volte, si dimostra insufficiente a causa della corruzione, si richiede una decisione politica sotto la pressione della popolazione. La società, attraverso organismi non governativi e associazioni intermedie, deve obbligare i governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi. Se i cittadini non controllano il potere politico - nazionale, regionale e municipale - neppure è possibile un contrasto dei danni  ambientali. 181. […] Occorre dare maggior spazio a una sana politica, capace di riformare le istituzioni e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose.

 Una politica in cui il popolo abbia parte  è una politica democratica. E’ la prima volta che in un’enciclica vi è un così forte appello al popolo per una politica democratica. In passato appelli del genere erano rivolti ai governanti. Si tratta di un portato della difficile accettazione dei processi democratici da parte della dottrina sociale, che si è avuta compiutamente piuttosto recentemente, solo con l’enciclica Il centenario, del 1991, di Karol Wojtyla. Questo documento fu pubblicato in un anno in cui tutto iniziò a cambiare molto velocemente in Europa: fu l’anno della dissoluzione del comunismo sovietico in Russia. In Europa il processo politico era iniziato nel 1989. Si trattò di sviluppi che in Occidente non si erano previsti e che, quindi, sorpresero non poco.  Si produsse, nell’Europa Orientale dominata dal comunismo sovietico, una rivoluzione di sistema. Molto più, quindi, di una rivoluzione politica, che comporta un cambio di chi comanda in politica. A quell'epoca si volle fondare, progettare e stabilire un nuovo sistema sociale, economico e politico insieme. E allora il Wojtyla condusse i fedeli verso la democrazia, verso quale, fino ad allora, vi erano state sempre molte riserve, e ancora per certi versi vi sono, tanto che essa viene poco praticata nell’organizzazione religiosa e viene riservata a quella civile.
  Wojtyla fu tra i pochi, e il solo tra i grandi della Terra, a prevedere il cambiamento dei sistemi politici integrati dell’Europa orientale, che tenevano sostanzialmente prigioniere le Chiese di quelle regioni, e in particolare la Chiesa polacca nella quale egli si era formato. Egli intuiva la fragilità di quei governi nazionali. Ma, con il senno del poi, possiamo riconoscere che non aveva veramente capito i moventi della rivoluzione in corso. Egli si illudeva che fossero spirituali, che i popoli dell’Europa orientale volessero rientrare nuovamente nel consesso delle genti della fede che era alle radici della cultura civica europea.
 Furono strani moti rivoluzionari, quelli che cambiarono l’Europa in quegli anni. Ci fu poca violenza. Non ci fu una classe contro l’altra. Non insorsero i ceti più poveri. Si osservò che le piazze si riempirono di giovani e di professionisti, di gente dei ceti più elevati della società. I governi, dinanzi a quelle piazze, e a volte solo addirittura alla minaccia di raduni di piazza, mollarono tutto, come convinti della propria inesistenza, come fu scritto. E’ stato osservato (Zygmunt Bauman) che fu l’anelito al consumismo, alla libertà di creare e di soddisfare sempre nuovi bisogni, che motivò gran parte delle folle che manifestarono in piazza. Nella Germania orientale, dove, nel novembre 1989 si produsse l’evento che viene denominato Crollo del muro di Berlino, e che, in realtà, non comportò alcun crollo, ma solo l’apertura, su ordine del Governo della Repubblica Democratica Tedesca, della frontiera che all’epoca divideva in due la città di Berlino, non furono assaltati i palazzi della politica, ma la gente si accalcò alla frontiera per andare in Occidente, vedere che c’era, fare acquisti, incontrare parenti che da decenni non vedeva, però poi facendo ritorno a casa attraverso la medesima frontiera.
  Nei sistemi economici e politici comunisti era vietato non lavorare e tutti avevano una casa. Tutti potevano studiare e curarsi gratuitamente. Tutti avevano a basso costo di che vivere. C’era tempo libero e venivano organizzati gratuitamente svaghi e vacanze. Ma lo stato pretendeva di controllare i bisogni  della gente, di decidere quali erano meritevoli di soddisfazione  e quali no. E non riusciva neppure a soddisfare tutti i bisogni che riconosceva come degni. Per cui nei negozi di stato c’era poca roba e, quando c’era, occorreva spesso fare lunghe file per acquistarla. C’era il costume di comprare, ai bassi costi che venivano praticati dallo stato, anche cose che non servivano al momento, ad esempio scarpe di una taglia diversa da quella propria, per farne poi baratto. Tutti i maggiori sforzi dello stato venivano dedicati all’industria pesante, non a quella che produceva beni di consumo, per sorreggere i bisogni dell’apparato militare. Infatti i governi di quel mondo vivevano in un perenne clima di assedio, come agli esordi della rivoluzione bolscevica (quella che poi produsse lo stato sovietico russo), nel 1917. E nell’industria si aveva di mira innanzi tutto lo sviluppo sempre più rapido e imponente, non la sostenibilità ambientale. Fu il desiderio di più beni di consumo la molla principale che indusse le stesse classi dirigenti dei sistemi comunisti dell’Europa orientale a cambiare politica, producendo una rivoluzione di sistema. A tutto ciò gli strati meno ricchi, meno colti e più anziani delle popolazioni, infatti anche in quelle società l’egualitarismo non era completo, rimasero sostanzialmente estranei. Furono i più giovani  e i ceti colti il motore di quelle rivoluzioni.
  Un indizio significativo della dinamica che ho descritto può essere visto in un fatto di cronaca avvenuto proprio a Roma.  Nel 1991, venne in visita di stato in Italia il nuovo presidente della Russia, Boris Eltsin. Sua moglie, mentre il marito si intratteneva in colloqui politici, fu portata in visita per la città e, in particolare, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, che è in una zona della città non particolarmente elegante, si tratta infatti di un quartiere popolare come il nostro, anche se situato in centro. Uscendo dalla Basilica, la signora Eltsin vide lì di fronte un supermercato popolare, che ancora c’è, volle entrare, lo girò tutto e fece anche acquisti, sotto lo sguardo sbalordito delle commesse. Ne fu entusiasta. Fu criticato e preso in giro questo suo ingenuo entusiasmo per un supermercato popolare. Fu osservato che non aveva mostrato lo stesso entusiasmo durante la visita allo storico chiesone. Era questo profluvio di merce che c’era nei supermercati occidentali il sogno degli europei orientali.
[Cronaca dell'evento all'indirizzo WEB:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/04/25/quella-prima-volta-di-eltsin-in-italia.html ]
  Ora tutta l’Europa sta di fronte alla sostenibilità del suo modello di sviluppo consumistico, quello che è stato uno dei moventi più importanti delle rivoluzioni nell’Europa orientale. Non ce n’è per tutti. L’induzione di sempre nuovi bisogni genera spreco di risorse. Per cui mentre c’è chi non ha di che vivere, ci sono quelli che consumano molto di più di ciò che ragionevolmente sarebbe loro sufficiente per stare molto bene. Tutto è concentrato nella soddisfazione dei bisogni individuali di chi  è riuscito a integrarsi nel sistema economico, mentre per i bisogni sociali, ad esempio per i servizi pubblici e per le pensioni sembra che, nelle nostre società straricche dell’Occidente, manchino sempre le risorse. Il sistema economico non è stabile, perché, per sostenersi, ha necessità di crescere  sempre. Ma può crescere solo soddisfacendo i bisogni dei sempre meno che hanno di che pagare certi prezzi. Così, sembra che più aumenta la capacità di soddisfare bisogni più diminuisca il numero di chi può pagare e, dunque, più sia in pericolo la crescita costante.  Il lavoro diventa precario perché la sua stabilità è uno di quei costi per i quali non si trovano mai le risorse. Divenendo precario viene retribuito meno, e quindi diminuisce la capacità di spesa delle masse. Quindi diminuiscono i consumi e la gente si indebita per consumare. E’ stato osservato che il debito privato impone un pesante servaggio alle persone, così come l’entità del debito pubblico ,ora che la si vuole tenere sotto controllo, limita la spesa sociale con decremento del benessere collettivo. E’ un modello di sviluppo squilibrato e fondamentalmente irrazionale, tanto che riesce difficile anche ad istituzioni sovranazionali come l’Unione Europea tenerlo sotto controllo. Nelle crisi, poi, ognuno pensa che la soluzione sia di liberarsi dall’onere della solidarietà verso gli altri. Ci si rinchiude nuovamente nei confini nazionali, e, all’interno di essi, dentro  quelli regionali o comunali, e infine nel proprio privato. Ognuno vuole tenersi il suo. Spendere ciò che produce. Il grido che sorge dalle masse è, in fondo: “Meno tasse!”. Chi oggi si adatterebbe ad uno stile di vita più sobrio? Chi rinuncerebbe al miraggio della crescita costante?
 Scrive Bergoglio nella Laudato si’:

222. La spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita, e incoraggia uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di gioire profondamente senza essere ossessionati dal consumo. È importante accogliere un antico insegnamento, presente in diverse tradizioni religiose, e anche nella Bibbia. Si tratta della convinzione che “meno è di più”. Infatti il costante cumulo di possibilità di consumare distrae il cuore e impedisce di apprezzare ogni cosa e ogni momento. Al contrario, rendersi presenti serenamente davanti ad ogni realtà, per quanto piccola possa essere, ci apre molte più possibilità di comprensione e di realizzazione personale. La spiritualità cristiana propone una crescita nella sobrietà e una capacità di godere con poco. È un ritorno alla semplicità che ci permette di fermarci a gustare le piccole cose, di ringraziare delle possibilità che offre la vita senza attaccarci a ciò che abbiamo né rattristarci per ciò che non possediamo. Questo richiede di evitare la dinamica del dominio e della mera accumulazione di piaceri.

 Vedete come ragionando sulla Laudato si’  ci si  è messa di mezzo tanta storia recente? E come  sono venuti in primo piano argomenti politici? Siamo invitati a costruire un nuovo modello di sviluppo, a realizzare nell’Europa finalmente (ma per quanto ancora?) unita un nuovo modello di civiltà, una rivoluzione sistemica analoga a quelle che cambiarono il nostro continente a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. 
  E' perché lo vuole, lo ordina, un papa?
 Le encicliche sociali sono state sempre un lavoro collettivo, anche se poi è il sovrano religioso che le firma. Ci sono sempre stati molti redattori. Per la Laudato si’,  per ciò che si è saputo, non è andata proprio così. C’è effettivamente proprio il pensiero, e addirittura il lessico, del Papa. Ma le idee che Bergoglio propone non sono in gran parte sue originali, bensì sono state sviluppate in tutto il mondo da un movimento politico - religioso molto vasto, come dimostrano le tante citazioni da testi di Conferenze episcopali. C’è insomma, un popolo che reclama un nuovo modello di sviluppo. Noi, da che parte stiamo?
 Si tratta, come  è chiaro, di un lavoro che coinvolge innanzi tutto la sfera di azione dei laici di fede. La cura della casa comune  compete in primo luogo a loro.
 Ecco dunque l’esigenza di una specifica formazione, che va molto oltre quella catechistica e che deve essere potenziata in particolare a partire da quella post Cresima. C’è necessità di studiare e di fare esperienze. Di incontrare gente, anche al di fuori dell’Italia. Conoscere per progettare il cambiamento. Di imparare a praticare il metodo democratico nella discussione e nelle decisioni. Perché bisogna decidersi in masse e solo la democrazia consente di farlo. Un’organizzazione che bisognerebbe creare anche a livello parrocchiale: è da qui che la gente di fede deve essere educata ad andare oltre, in particolare a ragionare su scala europea e mondiale. A essere consapevole della prospettiva storica dei problemi.
 Nella nostra parrocchia siamo ancora ai primi passi e la dispersione della biblioteca parrocchiale non aiuta.

3. Democrazia: un sistema di potere collettivo con limiti stringenti a ciascuna autorità pubblica o privata sulla base di valori condivisi

   Se consideriamo la storia recente dell’umanità, possiamo constatare facilmente che qualsiasi sistema di potere che abbia voluto correggere la società introducendo limiti basati sull’idea di giustizia sociale, quindi di valori e diritti fondamentali delle persone incomprimibili dai sovrani e dall’economia, ha dovuto far ricorso a livelli vari di violenza politica, per costringere la gente ad adattarsi ai nuovi comandi. Anche la dottrina sociale della nostra fede non ha fatto eccezione. I livelli più intensi di violenza politica a fini di giustizia sociale furono senz’altro espressi dal comunismo sovietico. Ma anche la legislazione sociale democratica è stata presidiata sia dal potere giudiziario che da quello amministrativo, anche con misure coercitive. La legge, anche in un regime democratico sociale,  è tale se ci sono autorità che riescono a farla rispettare.
  Se noi guardiamo all’esperienza politica sovietica, ci rendiamo conto che la rivoluzione che essa espresse fu violenta all’origine, e  quindi fu attuata  anche mediante la soppressione e incarceramento di avversari ideologici, comprese persone che appartenevano ad diversi filoni del socialismo rivoluzionario, ma che la violenza politica, con assassinii su larga scala intesi addirittura come decimazioni  di etnie che si ritenevano resistere al potere centrale organizzato dal partito comunista sovietico, si intensificò nel corso del dominio assoluto espresso da Giuseppe Stalin, nativo della Georgia,  dal 1924 al 1953. Questi assassini politici sono apprezzabili addirittura nelle indagini demografiche perché portarono a un decremento della popolazione inspiegabile con altre cause (ad esempio epidemie, guerre ecc.). Fin dall’inizio della rivoluzione sovietica fu organizzato un sistema di deportazione e di lavoro forzato dei condannati politici in appositi campi, chiamati Gulag. Esso rimase in vigore fino al 1987, venendo soppresso durante il dominio politico di Mikhail Gorbaciov, dal 1985 al 1991, durante il quale il sistema politico sovietico si dissolse a seguito di processi democratici inaspettati in Occidente. Durante il dominio politico degli ucraini Nikita Krusciov, dal 1955 al 1964, e Leonida Breznev, molto più lungo,  dal 1964 al 1982, lo sterminio sistematico di coloro che venivano individuati come nemici politici cessò, ma non cessò la persecuzione politica, amministrativa e giudiziaria, punendo i dissidenti anche con l’esilio in Occidente e la revoca della cittadinanza.
  Della violenza politica sovietica fecero le spese molti gruppi sociali, considerati nemici politici, e anche esponenti di alto livello dello stesso partito comunista. In particolare furono colpite le Chiese cristiane e i loro fedeli. La manifestazione della fede cristiana spesso portava all’emarginazione sociale e politica. Nell’Unione sovietica e in altre nazioni dell’Europa orientale cadute nel suo dominio la religione non era proibita, ma veniva promossa una propaganda di ateismo: le religioni e il clero venivano considerati infatti come strumenti di oppressione della classe operaia e di quella contadina.  
  Con tutto ciò l’Unione Sovietica e le nazioni dell’Europa orientale cadute nel suo dominio ebbero Costituzioni molto avanzate, con affermazione di diritti sociali che nel resto d’Europa cominciarono ad essere proclamati, in genere, dopo la Seconda guerra mondiale (se si eccettua la costituzione della repubblica tedesca detta di Weimar, corrente tra il 1919 e il 1933).
Ecco, ad esempio il catalogo dei diritti fondamentali contenuto  nella Costituzione sovietica del 1936, fatta approvare da Stalin, quando l’Italia era ancora sotto il dominio del fascismo mussoliniano:

118. I cittadini dell’URSS hanno diritto al lavoro, cioè diritto di ricevere un lavoro garantito e retribuito secondo la quantità e la qualità [delle loro prestazioni].
Il diritto al lavoro è assicurato dall’organizzazione socialista dell’economia nazionale,
dall’aumento incessante delle forze produttive della società sovietica, dall’eliminazione della possibilità di crisi economiche e dalla liquidazione della disoccupazione.
119. I cittadini dell’URSS hanno diritto al riposo.
Il diritto al riposo è assicurato dalla riduzione della giornata lavorativa fino a 7 ore per l’immensa maggioranza degli operai, dall’istituzione di congedi annuali per gli operai e gli impiegati con mantenimento del salario, e dalla predisposizione di un’ampia rete di sanatori, case di riposo e club, posta al servizio dei lavoratori.
120. I cittadini dell’URSS hanno diritto all’assistenza materiale durante la vecchiaia, nonché in caso di malattia e di perdita della capacità lavorativa.
Questo diritto è assicurato dall’ampio sviluppo dell’assicurazione sociale degli operai e degli impiegati a carico dello Stato, dall’assistenza medica gratuita ai lavoratori, e dall’ampia rete di stazioni di cura messa a disposizione dei lavoratori.
121. I cittadini dell’URSS hanno diritto alla istruzione. Questo diritto è assicurato dall’istruzione elementare, generale ed obbligatoria, dal carattere gratuito  dell’istruzione, compresa l’istruzione superiore, da un sistema di borse di studio statali per l’immensa maggioranza degli studenti delle scuole superiori, dall’insegnamento scolastico nella lingua materna e dall’organizzazione dell’insegnamento professionale, tecnico e agronomico gratuito per i lavoratori nelle officine, nei  sovchoz, nelle stazioni di macchine e trattori e nei kolchoz.
122. Alla donna sono accordati nell’URSS diritti uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica.
La possibilità di esercitare questi diritti è assicurata dall’attribuzione alla donna dello stesso diritto dell’uomo al lavoro, alla retribuzione del lavoro, al riposo, all’assicurazione sociale e all’istruzione; dalla tutela, da parte dello Stato, degli interessi della madre e del bambino; dalla concessione di congedi di gravidanza alla donna, con mantenimento del salario, e da un’ampia rete di case di maternità, di nidi e di giardini d’infanzia.
123. L’uguaglianza giuridica dei cittadini dell’URSS indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica, è legge irrevocabile.
Qualsiasi limitazione diretta o indiretta dei diritti e, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi diretti o indiretti ai cittadini in dipendenza della razza o della nazionalità alla quale appartengano, così come qualsiasi propaganda di settarismo razziale o nazionale, ovvero di odio e disprezzo, è punita dalla legge.
124. Allo scopo di assicurare ai cittadini la libertà di coscienza, la Chiesa nell’URSS è separata dallo Stato e la scuola dalla Chiesa. La libertà di praticare culti religiosi e la libertà di propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini.
125. In conformità con gli interessi dei lavoratori e allo scopo di consolidare il regime socialista, ai cittadini dell’URSS è garantita dalla legge:
a) la libertà di parola;
b) la libertà di stampa;
c) la libertà di riunione e di comizi;
d) la libertà di cortei e manifestazioni di strada.
Questi diritti dei cittadini sono assicurati mettendo a disposizione dei lavoratori e delle loro organizzazioni le tipografie, le scorte di carta, gli edifici sociali, le strade, i mezzi di comunicazione e le altre condizioni materiali necessarie per il loro esercizio.
126. In conformità con gli interessi dei lavoratori e allo scopo di sviluppare l’autonomia organizzativa e l’attività politica delle masse popolari, è assicurato ai cittadini dell’URSS il diritto di unirsi in organizzazioni sociali: sindacati, consorzi cooperativi, organizzazioni della gioventù, organizzazioni sportive e di difesa, associazioni culturali, tecniche e scientifiche, mentre i cittadini più attivi e più coscienti provenienti dalle file della classe operaia e da altri strati di lavoratori si riuniscono nel Partito Comunista (bolscevico) dell’URSS, che è il reparto d’avanguardia dei lavoratori nella loro lotta per il consolidamento e lo sviluppo del regime socialista, e che rappresenta il nucleo direttivo di tutte le organizzazioni dei lavoratori, sia sociali che statali.
127. Ai cittadini dell’URSS è assicurata l’inviolabilità della persona. Nessuno può essere sottoposto ad arresto se non in base a sentenza(postanovlenie) di un tribunale o con la conferma del procuratore.
128. L’inviolabilità del domicilio dei cittadini e il segreto della corrispondenza epistolare sono tutelati dalla legge.
129. L’URSS accorda il diritto di asilo ai cittadini stranieri perseguitati per avere difeso gli interessi dei lavoratori, o per la loro attività scientifica, o per avere partecipato a lotte di liberazione nazionale.
130. Ogni cittadino dell’URSS è tenuto ad osservare la Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, ad eseguire le leggi, ad osservare la disciplina del lavoro, a comportarsi con onestà nei confronti del dovere sociale e a  rispettare le regole della convivenza socialista.
131. Ogni cittadino dell’URSS è tenuto a salvaguardare e a consolidare la proprietà sociale socialista, come base sacra e inviolabile del regime sovietico, fonte della ricchezza e della potenza della patria, fonte di vita agiata e civile per tutti i lavoratori.
Coloro che attentano alla proprietà sociale, socialista, sono nemici del popolo.

  E’ chiaro che, tuttavia, la gran parte dei diritti di incolumità sociale e libertà rimasero solo proclamazioni formali nei sistemi sovietici e in quelli che ad essi si ispiravano, perché nei fatti veniva repressi e negati. Nell’Europa occidentale cominciarono ad essere proclamati e attuati nel secondo dopoguerra, dopo la caduta dei regimi nazifascisti. Un esempio di ciò è  stata storicamente la Repubblica italiana.
  In particolare, nei sistemi sovietici e di ispirazione sovietica, non era ammessa l’iniziativa economica privata, se non su minima scala. I regimi comunisti si proponevano di selezionare i bisogni degni di essere soddisfatti e di soddisfarli con una propria organizzazione produttiva. In realtà non si riuscì mai a conseguire questo scopo e la vita nelle nazioni governate da regimi comunisti appariva significativamente più misera di quella delle popolazioni degli stati Occidentali. Anche l’arte e la scienza ne risentirono. Il penetrante controllo politico ne limitò l’efficacia e l’originalità.
  L’attuazione dei diritti sociali fondamentali nell’Europa Occidentale si sviluppò con procedure democratiche dal secondo dopoguerra, dalla metà degli anni ‘40. Questo consentì di ottenere risultati importanti con il minor grado di coercizione possibile. Infatti in democrazia si fa conto sull'adesione volontaria alle decisioni collettive, a prescindere da sanzioni. La nuova Europa dei nostri tempi, che affratella anche nazioni che si liberarono dai regimi comunisti a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, segue ancora questo metodo. La democrazia comporta che non possano esistere poteri pubblici o privati illimitati: ogni potere deve averne un altro che lo limiti e lo controlli. Il problema dei nostri tempi è l’eclissi dei diritti sociali sotto l’aggressione dei sistemi di potere privati globalizzati, in grado di condizionare interi stati. Gli stati e le istituzioni sovranazionali, come l’Unione Europea, non si trovano a dover combattere poteri che loro esplicitamente  si oppongano, ma si trovano a dover soggiacere ad un sistema economico e sociale al quali essi stessi partecipano, trovandone risorse per i programmi pubblici. I problemi economici appaiono quindi come provocati da una sorta di fenomeni naturali, come i terremoti, contro i quali c’è poco da fare, in particolare per indirizzare a fini sociali, come la nostra Costituzione ancora prevede, l’iniziativa economica privata, che è libera, ma anch’essa, in quanto potere privato, ha dei limiti, in particolare nella sicurezza, libertà e dignità umana e nei programmi e controlli pubblici perché possa essere indirizzata e coordinata  a fini sociali  (così è scritto nell’art.41 della Costituzione). Possiamo dire che questi obiettivi siano raggiunti, oggi, in Italia?
  Mantenere una via democratica all’affermazione dei diritti fondamentali sociali nelle società avanzate Occidentali contemporanee è il grande problema dei nostri tempi.
 La dottrina sociale è piena di proclamazione di grandi diritti sociali, come gli articoli della costituzione sovietica che ho sopra trascritto, ma renderli vivi tra la gente richiede che ci si addestri nel metodo democratico, perché è esso che fa funzionare i poteri pubblici nell’Europa di oggi: non c’è da attendersi da nessun uomo forte che produca il risultato a cui si mira. I governi, anzi, appaiono deboli di fronte alle temperie economiche globali che minacciano i diritti fondamentali della gente. Ecco dunque che devono essere incalzati dalla gente, appunto con metodo democratico.
 E’ quanto siamo invitati a fare nella Laudato si’:
178. Il dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri.
179. [… ] Poiché il diritto, a volte, si dimostra insufficiente a causa della corruzione, si richiede una decisione politica sotto la pressione della popolazione. La società, attraverso organismi non governativi e associazioni intermedie, deve obbligare i governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi. Se i cittadini non controllano il potere politico - nazionale, regionale e municipale - neppure è possibile un contrasto dei danni  ambientali.
181. […] Occorre dare maggior spazio a una sana politica, capace di riformare le istituzioni e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose.
 Ecco perché la formazione e soprattutto il tirocinio alla democrazia dovrebbe rientrare in quella alla vita di fede, in particolare per il laico.

4. Illusione dell’«uomo forte»

  C’è sempre, nell’esperienza sociale, la tentazione di affidare la realizzazione del bene comune all’azione di un “uomo forte”. C’è  in politica, come in religione e in tutti gli altri campi della vita umana in cui certi risultati possono ottenersi solo con un lavoro collettivo.
  Che cos’è il bene comune? Se ne sono date molte definizioni. Si parte sempre, però, dall’idea che gli esseri umani per essere felici dipendono dagli altri. La loro felicità dipende dall’ambiente in cui sono inseriti. E non basta l’appagamento dei bisogni: è esperienza comune che anche i ricchi soffrono. Tanto più che nell’era contemporanea l’economia delle società più ricche sembra dipendere dalla creazione incessante di nuovi bisogni e, quindi, su un costante loro inappagamento. E infatti nelle straricche società occidentali l’esperienza della gioia, del sentimento di appagamento interiore, è rara. Si può concludere che viviamo in un ambiente sociale che non favorisce la felicità, che è difficile da raggiungere nonostante ognuno nella propria vita si sforzi di farlo. Bisognerebbe introdurre delle modifiche, ma trattandosi lavorare su una società,  c'è da fare un lavoro collettivo. Ci siamo però disabituati a svolgerlo: esso  è propriamente la politica. Ognuno tende a fare per sé, a sviluppare una propria idea di società che gli consentirebbe di essere felice. Così ci sono moltissime idee di società felici, ma poi la società corre come abbandonata a sé stessa, perché non ci si riesce a mettere d’accordo su come modificarla. Bisognerebbe infatti tener conto anche delle aspirazioni alla felicità altrui.  Ma c’è sempre il sospetto che ciascuno voglia fare solo gli affari propri. E spesso esso risulta fondato. Così manca la fiducia nel prossimo e quindi la possibilità di svolgere un lavoro comune. E’ difficile fare unità dalla molteplicità delle nostre vite. E’ in questo momento che sorge la tentazione dell’ “uomo forte”: una persona a cui affidare tutte le nostre speranze e che, con autorità non più contestabile, ponga fine alle discordie e decida una linea. Trattandosi di una persona sola, sia pure con molta autorità, pensiamo che sia più facile liberarsene, quando non ci andrà più bene. Nell’immaginazione comune i molti prevalgono sui singoli. Temiamo di più i molti, per di più anarchici, senza una forza che li tenga a bada e ci protegga da loro, che la singola autorità personalizzata. Questo però è un grave errore. Prendendo consapevolezza della storia dell’umanità possiamo facilmente convincerci che nulla è più stabile, nelle società umane, dei poteri molto personalizzati, come erano quelli dei monarchi assoluti che dominarono l’Europa fino al faticoso emergere delle democrazie, dalla fine del Settecento. O come furono i despoti sovietici che ho ricordato in un post  di due giorni fa: Giuseppe Stalin, Nikita Krusciov, che pure dichiarò di voler liberare la politica da quello che chiamò il culto della personalità, Leonida Breznev (del fondatore del comunismo sovietico,Lenin, non possiamo dire se sarebbe divenuto un despota, perché regnò solo per sette anni, mentre l’ultimo capo dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov non volle più essere un despota, ma, a quel punto, il sistema sovietico si dissolse). O, in Italia, il capo del Governo in epoca fascista, Benito Mussolini, che chiamammo Duce, il condottiero di un’intera nazione, un padre  della patria, in tutti i sensi il modello a cui noi italiani pensiamo subito quando parliamo di  “uomo forte”. Egli ebbe nelle sue mani l’Italia per un ventennio. E anche in religione, nella nostra fede, noi facciamo molto conto su “uomini forti”: le nostre collettività religiose sono infatti organizzati, almeno formalmente, sotto il potere assoluto di un’unica persona, la cui autorità è stata storicamente costruita come quella di un imperatore religioso: questo sistema di governo dura ormai da mille anni.
   Nei giorni passati si è evocata, a proposito dei possibili effetti della riforma costituzionale che tra poco sarà oggetto di un referendum, l’esperienza politica dispotica del capo di stato Augusto Pinochet, che dominò il suo popolo dal 1973 al 1990.  Ma il paragone con l’esperienza cilena è improprio ed esagerato, se riferito all’attuale situazione politica italiana, che si muove ancora saldamente entro procedure democratiche. Tuttavia, dall’inizio degli anni ’90, di fronte all’apparente disgregazione e dispersione della politica nazionale, si seguì la via di personalizzare  molto il confronto politico, creando quelli che vengono definiti partiti personali, quelli che fanno riferimento ad un preciso capo politico, del quale spesso viene inserito in nome nel simbolo di partito. I maggiori partiti politici nazionali sono attualmente organizzati come partiti personali. Se si pensa a quelle formazioni non viene in mente un preciso programma politico, ma la persona del capo di riferimento. E’ questo il metodo migliore per capire se un partito è o non è personale. I capi dei partiti personali  reclamano poi mano libera, e chiedono la fiducia  in questo la fiducia di chi li vota. Così spesso i cittadini elettori sono posti nelle condizioni di coloro che firmano cambiali completamente in bianco.
  Tutti i capi dei partiti personali  parlano di riforme. Quali saranno precisamente? Non lo dicono. Ci assicurano che ci cambieranno la vita in meglio. Ma come facciamo a valutarne l’affidabilità senza che ci vengano esposte nel dettaglio? Quando però viene fatto, emergono tanti problemi e soprattutto ciascuno capisce che, quando ci viene detto che le riforme sono necessarie  ma  dolorose, non è solo agli altri che recheranno dolore. Rimanendo sul vago questo problema viene superato. Ognuno pensa al  bene comune  che ha in mente, e non viene contraddetto dagli aspiranti riformatori,  i quali spesso sono in buona fede perché neppure loro hanno in testa un preciso progetto di riforme, e può prevedere che il dolore  sarà solo a carico di altri.
  E’ stato osservato che la recente riforma costituzionale riduce di molto il peso del Senato nelle decisioni che il Parlamento deve prendere inseduta comune, vale a dire riunendo deputati e senatori e facendoli votare. E questo perché il Senato passa da trecentoquindici membri, oltre ai senatori a vita (gli ex presidenti della Repubblica) e quelli di nomina presidenziale (per aver “illustrato” la Patria), a cento membri, compresi nomina presidenziale, oltre ai senatori a vita (gli ex presidenti della Repubblica). Tenendo conto che il sistema elettorale per la Camera di deputati assegna al partito che riesca a conseguire il 40% dei voti validi degli elettori o riesca a vincere il ballottaggio tra i due più forti partiti di minoranza una solida maggioranza assoluta, e tenuto conto dell’analogo effetto che viene prodotto dai sistemi elettorali regionali e comunali e dunque sulla composizione dei consigli regionali (che, secondo la riforma costituzionale, nomineranno i senatori) e sulla scelta dei sindaci (tra i quali verranno scelti alcuni senatori), possiamo prevedere che probabilmente, quando il Parlamento deciderà in seduta comune, il partito che esprime il Governo avrà la possibilità di far approvare le sue scelte. Il Parlamento, secondo la riforma costituzionale, nominerò  in seduta comune il Presidente della Repubblica  e un terzo (otto membri) dei componenti del Consiglio superiore della magistratura. Poiché può prevedersi che, nell’attuale scenario politico, i partiti che avranno la possibilità di vincere le elezioni politiche saranno partiti personali, ecco che si può temere che il capo del partito personale  vincitore avrà la possibilità di far approvare le sue scelte personali  in materia. Dunque che la più importante istituzione di garanzia costituzionale, la Presidenza della Repubblica, finisca ad essere assegnato a persona di fiducia del capo del partitopersonale. E che l’influenza del medesimo capo politico sulla magistratura, dalla quale dipende l’attuazione dei diritti dei cittadini, in modo che non rimangano solo sulla carta come begli enunciati formali, aumenti di molto rispetto alla situazione attuale, incidendo sull’indipendenza dei giudicanti dal potere di governo. Anche sotto questo profilo la riforma costituzionale va verso un maggior poterepersonale  di governo. Del resto è proprio questa la soluzione che i capi politici contemporanei propongo in Italia: un potere personale, di un uomo  forte (i capi personali  dei maggiori partiti politici sono attualmente uomini), per superare lo stallo che in politica è determinato che non ci si riesce a mettere d’accordo, quindi dal fatto che, in definitiva, la gente non sa più fare politica. Infatti la politica non è fatta solo di  chiacchiere, in cui ognuno dice la propria  e rimane della propria opinione, che risulta poi incomponibile con quella degli altri, ma si costruisce sul dialogo,  che significa tener conto anche delle ragioni degli altri e proporsi di arrivare ad un’intesa. Dal dialogo  poi scaturiscono decisioni  condivise.
 Un’ultima considerazione: gli  uomini forti  degradano rapidamente. Un potere senza sufficienti e autorevoli contrappesi, innanzi tutto nella politica democratica espressa dalla base dei cittadini, tende all’abuso e all’eccesso. Per ricordare l’esempio sovietico, viene riferito  che Leonida Breznev, il quale dominò un immenso impero socialista  per circa un ventennio, sviluppò una passione personale per le automobili più costose prodotte in Occidente, che amava guidare personalmente: ne aveva una vasta collezione e, personalmente, non vi trovava alcuna contraddizione con gli ideali socialisti proclamati. E’ questa una dinamica che si riscontra, in genere, nella gran parte degli uomini forti, papi compresi (se si eccettua quelli, molto più sobri in questo, degli ultimi due secoli). L’orgoglio di uomo forte  grida veramente sfacciato, ad esempio, dal frontone del grande chiesone vaticano.  Leggere per credere. Dice sostanzialmente: "L'ho fatto io!".

5. Capire la politica

   In Italia le masse delle persone di fede sono state protagoniste della politica dalla fine del Settecento e, sotto certi aspetti, lo sono ancora. La differenza rispetto al passato è che lo sono in modo molto meno consapevole e convinto. Del resto è un problema che riguarda più in generale la democrazia italiana, come anche quella europea. Ognuno è spinto nel proprio privato e i capi politici pensano di poter influire sulla gente, raccogliendone il consenso, non innescando processi collettivi, ma raggiungendo le persone, ad una ad una, in quei piccoli mondi separati in cui si sono recluse. Questo impedisce di ragionare insieme sulle cause sociali dei problemi della gente. Si tratta di un atteggiamento deresponsabilizzante, sia per i capi politici sia per le masse. E' l'antipolitica, il contrario della politica: politica è ragionare e programmare insieme agli altri, consapevoli di vivere in quella che è stata definita recentemente, con un bella immagine, la "casa comune". Le soluzioni proposte dalla politica ne risentono. Si cerca di venire in contro al privato della gente, senza tener conto della coerenza dell’insieme, in particolare della sostenibilità economica delle misure progettate. Si cerca di sollecitare dai cittadini atteggiamenti fideistici, insomma l’accettazione di cambiali sociali in bianco. Si propone come positivo il cambiamento per il cambiamento, come se la direzione del cambiamento non fosse importante, soprattutto quando si tratta di riformare le fondamenta dello stato. Si propone una riduzione della classe politica che, a ben vedere, comporta anche un suo degrado, meno autonomia di giudizio, meno collegamenti con i cittadini elettori. Si tace che si cerca di ottenere la coerenza dell’azione di governo sostituendo una classe politica pluralista, rappresentativa delle varie componenti della società, con una di stretta osservanza partitica, scelta da capi autoreferenziali. E i maggiori partiti nazionali sono oggi partiti personali,  vale a dire centrati sulla figura di un capo carismatico, e i loro capi non sono parlamentari. In un certo senso quello che negli anni ’70 fu una anomali limitata, una politica extraparlamentare, oggi è diventata la normalità.  L’eclisse del Parlamento, che molti studiosi segnalano,  è la manifestazione di una grave crisi della politica nazionale, la presa d’atto che non sembra non essere più  possibile fondare una nuova politica democratica, che coinvolga nuovamente la partecipazione informata, consapevole, responsabile delle masse.
  Capire la politica richiede uno sforzo e, innanzi tutto, la volontà di essere parte dei processi democratici. Una vita di fede persa dietro fantasie neobibliche e spiritualismi vari, centrata su neocomunità fortezza timorose di tutto ciò che si muove intorno a loro nella società e pronte a vedervi l’azione del demonio, non è l’ambiente giusto. Non basta l’invito autorevole a informarsi personalmente.  Come e dove farlo? Bisogna creare le occasioni sociali per approfondire questioni che sono tanto rilevanti anche per la vita di fede. Se non se ne è capaci anche la fede può essere facilmente strumentalizzata al servizio della politica egemone. Si vorrebbe, secondo la fede, aiutare gli altri e invece si finisce per respingerli, convinti del proprio buon diritto di farlo per salvare una qualche propria identità. E sempre risorge la malattia clericale, che si sviluppa nel clerico-moderatismo, che storicamente è stato, in Italia, l’ambiente favorevole per ogni tendenza politica reazionaria e dello stesso fascismo storico. Così il cambiamento per il cambiamento rischia di riproporre un tremendo passato, che appare nuovo  solo perché si è persa la memoria storica.

6. Nuovo inizio o prosecuzione della costruzione della casa comune?

   Ci sono scadenze, come quella dell’annuale consegna delle tessere di Azione Cattolica, che sembrano segnare un nuovo inizio nella vita di un gruppo, come anche, su scala via via più grande, di un’associazione, di una Chiesa, di una nazione, di un’era storica.
 Ci fu, tra il 1962 e il 1965, il Concilio ecumenico Vaticano 2°, qui a Roma, e presto ci si divise tra coloro che sottolineavano le  novità, che vi furono e furono molte, e gli elementi di continuità con le idee e il lavoro del passato. Questo dibattito finì presto per degenerare in polemica, spingendo e persone a schierarsi. Sembrò allora che le novità avessero prodotto un pericoloso disordine e i fautori della continuità si assunsero il ruolo di difensori  di un ordine bimillenario minacciato. Questo sviluppo interferì pesantemente con quel  rinnovamento, spesso indicato con il termine attenuato di  aggiornamento, che era stato al centro dei lavori di quel concilio. A rinnovarsi doveva essere la Chiesa, in un modo nuovo di confrontarsi con il mondo intorno a lei. Si passava dalla polemica ideologica, che aveva caratterizzato l’impostazione dal Settecento in avanti, in particolare nel duro contrasto con i processi democratici e con il socialismo, alla condivisione di gioie, speranze, tristezze e angosce dell’umanità contemporanea: una reale e intima solidarietà con il genere umano e la sua storia (questo l’inizio di uno dei più importanti documenti dell’ultimo concilio, la costituzione pastorale La gioia e la speranza, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo).  Una delle più importanti caratteristiche del movimento che il Concilio Vaticano 2° volle imprimere al lavoro della Chiesa nella società fu il pressante appello alla collaborazione dei laici, vale a dire dei fedeli che non sono diaconi, preti e vescovi, né sono inseriti in un ordine religioso (frati e suore, monaci e monache). L’Azione Cattolica italiana, dalla fine degli anni ’60, con la riforma attuata sotto la presidenza di Vittorio Bachelet (dal 1964 al 1973), ha fatto della formazione dei laici per questo impegno il suo campo principale di attività, accanto agli altri che storicamente le erano stati propri, vale a dire l’impegno civile per la promozione dei valori di fede nella società e il sostegno alla vita di fede.
  In Italia si esce da un lungo confronto sui temi politici della riforma delle istituzioni fondamentali dello stato. Accostando gli insegnamenti contenuti nell’enciclica Laudato si’,  di papa Francesco, diffusa lo scorso anno, se ne poteva comprendere il valore anche religioso: si trattava infatti di occuparsi della casa comune, che è l’ambiente naturale, urbanistico, sociale, civile e politico che rende possibile ai nostri giorni la vita di un’umanità mai così numerosa. Si è capito subìto bene che non si trattava di decidersi per il Sì o per il No sulla base di impressioni emotive e superficiali, così come accade in genere in certi concorsi artistici, come il Festival di Sanremo. E’ stato necessario approfondire, informarsi personalmente, cercare un aiuto dove non si arrivava con le proprie forze, e dialogare  confrontando le rispettive opinioni. La decisione aveva un valore religioso, riguardando questioni di sopravvivenza di una vasta collettività, ma la cultura religiosa non bastava per affrontarla. E’ stato necessario  formarsi  prima di decidere. A questo lavoro serve appunto l’adesione ad un gruppo di Azione Cattolica. Nell’organizzazione dell’Azione Cattolica, che, strutturata come federazione di gruppi parrocchiali e diocesani, ha dimensioni nazionali e internazionali, c’è quello che serve per svolgerlo. Ad esempio, lo scorso anno si è ideato un ciclo per la formazione alla politica dei più giovani, a livello parrocchiale, diocesano e nazionale, a cominciare dai piccolissimi. Si è insegnato a gestire un Comune, facendone fare tirocinio. Ne potete trovare l’esposizione alla pagina WEB <http://acr.azionecattolica.it/noi-la-parola>.
  Penso che le persone del nostro quartiere si siano rese conto della necessità di questa specifica formazione, che è, in particolare, auto-formazione, attraverso il dialogo. Ma probabilmente molti non sanno che ciò di cui hanno bisogno c’è già ed è appunto l’Azione Cattolica. Penso che la gente abbia un’idea un po’ vaga di ciò che è l’Azione Cattolica. Probabilmente fanno fatica a distinguerla da altre associazioni e movimenti che animano la vita di fede in Italia. Riprendendo una metafora dell’antico filosofo greco Platone (vissuto tra il quinto e il quarto secolo dell’era antica) riproposta dal costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nel corso del dibattito sui temi del recente referendum costituzionale, le comunità possono essere organizzate intorno a pastori  e a tessitori. Nelle prime si segue un pastore, un  cammino  da lui organizzato. Nelle seconde si creano rapporti civili e poi, sulla loro base,  si costruisce  la casa comune, una città. All’Azione Cattolica si attaglia meglio l’esempio del  costruire una realtà civica. Si costruisce secondo un progetto  ed esso è frutto del pensiero di chi partecipa al lavoro. Si lavora democraticamente, l’unico metodo per consentire a tutti di partecipare. Il lavoro in AC è quindi anche tirocinio alla democrazia.  Al centro di questo impegno c’è il  prendersi cura  dell’ambiente naturale, urbanistico, sociale, civile e politico.   Esso è impregnato di valori di fede, come un biscotto inzuppato nel vino (riprendo questa immagine da una poesia udita in gioventù, ma di cui non ho mai saputo l’autore), appunto per quella condivisione di gioie, speranze, tristezze e angosce dell’umanità contemporanea che caratterizza la vita di fede secondo la visione dei saggi dell’ultimo Concilio.
 E costruendo,  innanzitutto progettando, ci si rende facilmente conto che  non si riparte mai veramente da capo, che ogni nuovo inizio  è in realtà una prosecuzione di un lavoro comune. Questo è talvolta tanto difficile da accettare negli ambienti di fede. Ma è la base perché il lavoro di costruttori sia valido: consente infatti di imparare dagli errori del passato. A volte invece sembra che tutto ciò che c’è stato tra i primi tempi, tra i tempi apostolici, dal primo secolo della nostra era, e i nostri tempi sia senza valore, che si possa disinvoltamente ripartire per nuovi cammini disinteressandosi a tutto ciò che c’è stato prima. Così poi si finisce per ripetere all’infinito gli stessi sbagli del passato, ad esempio le stesse intolleranti divisioni e incomprensioni, la stessa presunzione di bastare a sé stessi. In Azione Cattolica non facciamo così: ad esempio quest’anno facciamo memoria della lunga storia associativa che dura da 150 anni, in un percorso non lineare, ma con molte svolte, non di rado drammatiche, dure, specialmente a cavallo tra Ottocento e Novecento,  attraverso le quali però complessivamente si è cresciuti, costruendo  realtà nuove.

7. Persecuzioni e persecutori

  La persecuzione religiosa è strettamente legata alla negazione della libertà religiosa. Quest’ultima si può presentare in un quadro sociale e politico che tollera  scelte religiose diverse da quelle della maggioranza della popolazione o da quelle fatte dallo stato o in quadro legislativo che riconosce il diritto  a scegliere e a praticare in privato e in pubblico una determinata religione. Storicamente, nelle società europee o comunque di cultura europea si è passati dalla  tolleranza  all’affermazione del  diritto alla libertà religiosa. Attualmente la comunità mondiale degli stati riunita nell’Organizzazione delle Nazioni Unite riconosce la libertà religiosa come diritto umano fondamentale. Si legge infatti nell’art.18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea delle Nazioni Unite:
“Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti.”
 L’anno precedente, l’Assemblea Costituente della Repubblica italiana aveva approvato nella Costituzione entrata in vigore il 1 gennaio 1948 l’art.19 che dispone: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.
  Norme analoghe si trovano nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 e nella Carta dei diritti dell’Unione Europea, che dal 2009 ha la stessa forza normativa dei trattati istitutivi dell’Unione Europea.
 Il  diritto di libertà religiosa  comporta il principio della laicità delle istituzioni pubbliche, che comporta il divieto di discriminazione su base religiosa e il divieto di imposizione normativa della pratica di una determinata religione, quindi il divieto di stabilire una  religione di stato.
  All’inizio della loro storia le nostre prime comunità religiose, formate di collettività poco numerose sparse per tutto l’impero mediterraneo ai margini del quale la nostra fede era nata, subirono forme di persecuzione propriamente religiosa da parte dell’ebraismo loro contemporaneo, nella fase di distacco della nostra fede da esso. Successivamente subirono forme di persecuzione da parte delle autorità pubbliche dell’impero romano, le quali inizialmente si muovevano essenzialmente su denuncia di privati: questo dimostra una certa frizione tra le nostre prime collettività religiose e le società in cui erano immerse. Successivamente le autorità pubbliche dell’impero romano promossero cicli di repressione, essenzialmente per motivi politici, anche se gli storici riconoscono che il numero delle persone colpite è ampiamente sovrastimato dalla tradizione religiosa. A seguito di un processo storico che è ancora piuttosto oscuro, ad un certo punto la nostra fede nel Quarto secolo si affermò come ideologia politica dell’antico impero romano e gli altri culti religiosi vennero vietati. A quel punto i cristiani divennero persecutori dell’ebraismo, dei preesistenti culti pagani e anche delle correnti religiose basate su teologie non ammesse dallo stato. La teologia divenne un affare di stato e tutti i Concili ecumenici del primo millennio furono convocati e, in genere, anche presieduti dagli imperatori romani. Nel secondo millennio venne istituito un sistema poliziesco giudiziario diretto dai papi romani per la repressione delle correnti religiose ritenute erronee. Esso venne progressivamente smantellato solo a partire dal Settecento, con l’affermazione in Europa del principio della laicità dello stato. Non è disponibile una contabilità precisa degli imprigionati, torturati e uccisi da quel sistema repressivo: i clericali tendono a ridurne il numero, gli anticlericali a sovrastimarlo. Molti riformatori religiosi furono da esso inquisiti, così come diverse forme di spiritualità popolare. Ne furono vittime, ad esempio, la mistica Giovanna d’Arco (giustiziata, arsa viva,  nel 1431 e proclamata santa nel 1920), il monaco e riformatore religioso Girolamo Savonarola (giustiziato arso vivo, nel 1498) e il filosofo Giordano Bruno (giustiziato, arso vivo in piazza Campo de’ Fiori a Roma, nel 1600).
   Nel 1864 il Sillabo, un documento in cui il papa Mastai Ferretti, regnante con il nome di Pio 9°, elencò le affermazioni erronee correnti nella società contemporanea, era condannata l’idea di libertà religiosa. Da allora, in un processo durato circa un secolo, si produsse un mutamento nella dottrina ufficiale, essenzialmente per l’azione delle correnti cattolico-democratiche. Infine, nel corso del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), il 7-12-1965 venne approvata la Dichiarazione Della dignità umana che riconobbe, anche nella dottrina della nostra fede la libertà religiosa, in quanto espressione della  dignità umana:
Oggetto e fondamento della libertà religiosa
2. Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l'hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società.
A motivo della loro dignità, tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, dotate cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e ad ordinare tutta la loro vita secondo le sue esigenze. Ad un tale obbligo, però, gli esseri umani non sono in grado di soddisfare, in modo rispondente alla loro natura, se non godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell'immunità dalla coercizione esterna. Il diritto alla libertà religiosa non si fonda quindi su una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura. Per cui il diritto ad una tale immunità perdura anche in coloro che non soddisfano l'obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa, e il suo esercizio, qualora sia rispettato l'ordine pubblico informato a giustizia, non può essere impedito.
   Questo principio si affermò piuttosto faticosamente nelle nostre collettività di fede, in cui ancora permangono manifestazioni delle antiche concezioni.
  Durante la solenne liturgia della Giornata del perdono, il 12-12-2000, durante il Grande Giubileo dell’Anno 2000, il papa Karol Wojtyla, regnante come Giovanni Paolo 2°, ci guidò a fare memoria delle persecuzioni dei quali i cristiani erano stati responsabili, a pentircene, e a fare solenne proposito di non ripeterle:
“II. CONFESSIONE DELLE COLPE NEL SERVIZIO DELLA VERITÀ 
Un Rappresentante della Curia Romana: 
Preghiamo perché ciascuno di noi,
riconoscendo che anche uomini di Chiesa,
in nome della fede e della morale,
hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici
nel pur doveroso impegno di difesa della verità,
sappia imitare il Signore Gesù,
mite e umile di cuore. 
Preghiera in silenzio. 
II Santo Padre: 
Signore, Dio di tutti gli uomini,
in certe epoche della storia
i cristiani hanno talvolta accondisceso a metodi di intolleranza
e non hanno seguito il grande comandamento dell'amore,
deturpando così il volto della Chiesa, tua Sposa.
Abbi misericordia dei tuoi figli peccatori
e accogli il nostro proposito
di cercare e promuovere la verità nella dolcezza della carità,
ben sapendo che la verità
non si impone che in virtù della stessa verità.
Per Cristo nostro Signore. 
R. Amen. 
R. Kyrie, eleison; Kyrie, eleison; Kyrie, eleison. 
Viene accesa una lampada davanti al Crocifisso.”
   La decisione del Wojtyla venne aspramente criticata negli ambienti religiosi, anche se aveva avuto l’adesione della Commissione Teologica Internazionale. Tuttora non è condivisa da molti della nostra fede. Si sostiene che non possiamo pentirci per ciò che si è fatto nel passato da parte di altri. E che, nel valutare la vita di questi ultimi, occorre tener conto del contesto sociale, culturale e storico in cui operavano.  In realtà Wojtyla volle guidarci in quello che definì purificazione della memoria, che significa fare memoria veritiera  dei fatti del passato per distaccarci dal male che in essi vi è, anche se compiuti da persone della nostra fede: perché il passato cattivo non sia di esempio per il futuro.
  Fino agli anni ’80, in Italia, ma anche in Europa, il problema della libertà religiosa e della laicità dello stato consisteva essenzialmente nel non discriminare chi apparteneva ad una confessione religiosa della nostra fede diversa da quella maggioritaria in una certa nazione e chi faceva la scelta di non seguire alcuna fede religiosa.  Dagli anni ’90, con le correnti migratorie da varie parti del mondo, e anche da popoli in erano maggioritarie fedi non cristiane, in particolare l’Islam, l’Induismo e il Buddismo, si produsse un contesto multi-etnico che fu anche multi-religioso che mise a dura prova il principio fondamentale della laicità dei pubblici poteri. Si sostenne che la religione maggioritaria avesse diritto di manifestarsi in forme più intense delle altre religioni negli spazi pubblici,  benché, con l’Accordo di revisione del Concordato lateranense del 1984, Repubblica Italiana e Santa Sede avessero convenuto che non fosse più in vigore il principio della religione cattolica come unica religione  dello stato,  proclamato dallo Statuto Albertino, la costituzione  del Regno d’Italia che ebbe vigore dal 1848 al 1946:
Art. 1. - La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi.
  Manifestazioni di queste pretese si sono avute nella questione dell’esposizione del Crocifisso negli uffici pubblici, in particolare nelle aule scolastiche e nelle aule giudiziarie, nella questione dell’allestimento di presepi negli edifici pubblici, in particolare nelle scuole pubbliche, nella questione delle visite pastorali dei vescovi negli uffici pubblici, in particolare nelle scuole pubbliche.
  Spesso si respingono le critiche di lesione del principio della laicità delle istituzioni pubbliche osservando che si potranno cambiare certe consuetudini quando anche nelle nazioni in cui sono maggioritarie religioni che da noi sono ancora minoranza si farà lo stesso. Ma le norme che sanciscono il diritto di libertà religiosa e il principio di laicità delle istituzioni pubbliche non prevedono la condizione di reciprocità, in quanto sono relative a diritti fondamentali degli esseri umani.
 Manifestazioni di intolleranza religiosa sono frequenti anche nelle nostre collettività di fede, quando si pretende che una certa via, un certo metodo, un certo cammino, siano gli unici che possono essere seguiti, a pena di esclusione. In questo campo compete all’autorità religiosa di correggere certe impostazioni, rendendole conformi alla dottrina corrente. Ma questo servirà a poco se l’idea di libertà religiosa non corrisponderà ad una conquista cultura delle persone della nostra fede, seguendo il percorso di purificazione della memoria  indicato dal Wojtyla. Viene prima la  carità o la verità? Papa Ratzinger vi ha dedicato una enciclica, la Carità nella Verità, del 2009, che in certe parti appare in dialettica con la precedente enciclica Lo sviluppo dei popoli, del papa Montini, del 1967. La carità, intesa come  agàpe, benevolenza universale per cui si vuole far partecipare tutti ad un lieto convito, è criterio per distinguere ciò che è verità? La questione appare ancora aperta. Alcuni infatti sostengono che per esigenze di carità si sta modificando la dottrina tradizionale. Altri replicano che secondo carità quella dottrina tradizionale viene meglio intesa.
  Al di fuori del contesto europeo e delle nazioni di cultura europea le persone della nostra fede subiscono persecuzioni, a volte per motivi essenzialmente politici, ma spesso anche per motivi propriamente religiosi. Infatti in molte parti del mondo, anche in nazione che formalmente accettano i principi umanitari proclamati dalle Nazioni Unite, la libertà religiosa è molto limitata e a volta si limita a una  tolleranza  religiosa. Ciò accade in molte nazioni a maggioranza islamica, specialmente in quelle che non riconoscono il principio della laicità delle istituzioni pubbliche. La situazione si è molto aggravata con l’affermazione politica del fondamentalismo islamico globalizzato, un movimento rivoluzionario politico a sfondo religioso. Si teme che l’immigrazione dalle nazioni a maggioranza islamica porti prima o poi a limitazioni nella libertà religiosa della nostra fede. In realtà l’Islam diffuso in Europa e nelle nazioni di cultura europea, in particolare in America, sta assimilando i nostri principi umanitari, anche se il mutamento culturale, intendendo la cultura come il complesso dei costumi, linguaggi, miti, relazioni sociali di un popolo, sarà molto più lento e faticoso. In particolare il fattore principale di progresso in quel campo religioso appare quello dell’affermazione dei diritti delle donne: purtroppo in materia stiamo vivendo una fase storica in cui nella nostra fede alcune correnti spirituali riprendono a criticarla, facendosi portatrici di ideologie maschiliste e paternaliste.
  Come fare per sostenere le persone della nostra fede nella repressione che è in atto in altre nazioni, con altre religioni maggioritarie? La via principale è quella delle istituzioni internazionali. C’è poi quella del diritto di asilo, a cui hanno diritto, secondo il nostro ordinamento, tutti i perseguitati. E, infine, quello del sostegno al lavoro culturale che in quelle nazioni si sta svolgendo per modificare la situazione: lo si fa mandando personale religioso, volontari, aiuti materiali. Ma il dialogo interreligioso qui da noi in Europa, già molto intenso,  sarà fondamentale per creare le condizioni culturali per nuove forme di coesistenza anche in quelle nazioni.

8.Laudato si’: pensare la globalizzazione in una visione di fede

  Se la religione ha tante controindicazioni, come dimostra la lunga e tragica storia della nostra confessione, perché non farla finita?
  Storicamente lo si è tentato nei vari regimi comunisti che hanno avuto corso nel mondo, a partire dalla rivoluzione sovietica del 1917. Le religioni propagandavano falsi miti per mantenere la sottomissione della masse lavoratrici a oligarchie dominanti? Vietiamole o, almeno, contrastiamole impendendone la propaganda, controllandone i ministri, opponendo loro un ateismo militante! Tutto questo non ha funzionato, le religioni sono sopravvissute anche in quei regimi. Fondamentalmente perché rispondono a una necessità dello spirito umano. Inoltre, nell’esperienza storica, si è capito che le religioni possono essere riformate e che, anzi, ne è necessaria una riforma costante, un  aggiornamento. In particolare questo può dirsi della nostra religione, che è fondata sull’idea di un far nuove tutte le cose, di  un mondo di prima che è destinato a cedere il passo  a un mondo nuovo.
  Molte grandi anime sono state  e sono religiose, vivono quindi una vita di fede seguendo certe modalità espressive del proprio tempo. Infatti una religione, ma ance la fede che ne è all’origine, non si inventa. Quindi si deve sempre fare i conti con la storia, che è fatta di bene e di male, perché è animata da esseri umani e negli esseri umani c’è il bene e c’è il male. Ogni vita umana dalla sua notte va verso la luce, scrisse il poeta francese Victor Hugo (1802-1885). E spesso la vita di fede   è descritta come un andare verso la luce. Anzi nelle nostre Scritture si legge che l’Onnipotente stesso è luce. Da adolescente, quando ebbi problemi con la fede che mi era stata insegnata da piccolo, un sacerdote amico di famiglia mi scrisse che sperava che un giorno mi sarei aperto alla luce.
  Nella vita umana c’è più di quello che appare. La realtà sociale, economica, politica, l’urbanistica: tutto questo non esaurisce l’esperienza umana. Si studiano le biografie dei grandi e si scopre che in genere  anche loro ne erano convinti.  E non è vero che la fede religiosa sia per gli incolti, perché essa ha espresso ed esprime un grande pensiero. La nostra fede evoca l’unità del genere umano. La si intuisce, ma le vie per realizzarla sono tante: come raggiungere l’unità percorrendole? Non sarebbe meglio progettare un’unica via? Questa è stata la tentazione di sempre nelle religioni. Finora tutti i programmi religiosi totalitari non hanno funzionato. Se però ci si incontra e ci si parla cercando di realizzare l’agàpe, il benevolo convito che non esclude nessuno, spesso ci si intende e, pur nella diversità delle esperienze, si possono condividere certe finalità di bene.
  Chi ha vissuto la fede religiosa e poi l’ha abbandonata in genere, prima o poi, al di là di certe baldanzose proclamazioni, vive questa esperienza come un senso di vuoto e di mancanza. Recuperare una fede perduta da tempo può essere difficile, a volte non c’è più abbastanza vita per farlo. Ma è anche più difficile per chi la fede non l’ha mai vissuta e, avvicinandola da fuori, se ne sente attratto. La fede non è solo emotività superficiale, comporta una sapienza che si apprende. Altrimenti rimane solo a livello spettacolare, come quando si va a teatro o al cinema e si provano delle emozioni. La nostra Chiesa dovrebbe appunto servire a condurre le persone verso la fede. Lo si fa costruendo relazioni che si vorrebbero progressivamente estese a tutto il genere umano, che non comprende solo i viventi di oggi ma anche quelli a venire e anche la storia di coloro che li hanno preceduti. La fede è portata ai popoli, con la loro storia  e il loro futuro. Non è medicina dell’anima ad uso individuale: assunta così non funziona più. Dà sempre una prospettiva che supera la vita personale. Ti trae dall’angoletto della società in cui sei in qualche modo incastrato e ti proietta verso la grande storia dell’umanità. Questo è vero anche per l’esperienza delle famiglie, che alcuni vorrebbero limitata a mamma, papà e figli. L’esperienza della famiglia è sempre sociale: del resto come pensare un avvenire ai propri figli senza interpretare il futuro della società in cui si è immersi? Ed in effetti storicamente incontriamo nelle società umane molti modelli di famiglia, come anche molti modelli di persona umana: ce ne parlano gli antropologi, anche se spesso non li stiamo ad ascoltare e preferiamo pensare che si debba tendere a un unico tipo di famiglia e a un unico tipo di persona umana perché sono quelli naturali. Quindi vivere la fede è anche pensare una società e ai tempi nostri c’è l’opportunità di pensarla molto in grande, tanto da comprendere tutti i popoli della terra. Infatti siamo nell’era della globalizzazione, che significa appunto una rete di relazioni umane a livello mondiale per cui ci scopriamo tutti interdipendenti, senza che nessun popolo della Terra possa dire di bastare a sé stesso. Un esempio di come pensare la globalizzazione in una visione di fede è costituito dall’enciclica Laudato si’ , diffusa nel 2015 dal papa Francesco. La sua caratteristica principale è quella di affidarsi religiosamente a un compimento beato della nostra storia, quindi anche delle opportunità offerte dalla globalizzazione, con i suoi tanti sovvertimenti e rimescolamenti sociali contro i quali molti profeti di sventura vorrebbero prevenirci:
243. Alla fine ci incontreremo faccia a faccia con l’infinita bellezza di Dio (cfr 1 Cor 13,12) e potremo leggere con gioiosa ammirazione il mistero dell’universo, che parteciperà insieme a noi della pienezza senza fine. Sì, stiamo viaggiando verso il sabato dell’eternità, verso la nuova Gerusalemme, verso la casa comune del cielo. Gesù ci dice: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5). La vita eterna sarà una meraviglia condivisa, dove ogni creatura, luminosamente trasformata, occuperà il suo posto e avrà qualcosa da offrire ai poveri definitivamente liberati.

9. Inequità planetaria e lotta religiosa contro un modello di sviluppo

  L’esortazione apostolica La gioia del Vangelo,  del 2013, e l’enciclicaLaudato si’¸ del 2015, del Papa regnante, l’argentino Jorge Mario Bergoglio, in religione Francesco,  sono espressioni di una medesima linea di pensiero. Si tratta di documenti senza precedenti nella dottrina sociale.  Al centro di essi vi è l’analisi, anche religiosa, di una condizione di sofferenza umana definita con il neologismo inequità.
  Questa parola appare per la prima volta in italiano nel testo nella nostra lingua dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium diffuso da Libreria Editrice Vaticana.  Deriva dallo dallo spagnolo. Nel testo inglese del documento  è reso con inequality (=ineguaglianza - nell'inglese il termine è spesso implicitamente associato all'idea di ingiustizia). Nel testo spagnolo, lingua nella quale il documento è stato verosimilmente pensato, si legge inequidad, da cui verosimilmente il neologismo italiano: in un dizionario spagnolo si definisce "El concepto de inequidad se ha considerado sinónimo del concepto de desigualdad. Es fundamental diferenciar estos dos conceptos. Mientras desigualdad implica diferencia entre individuos o grupos de población, inequidad representa la calificación de esta diferencia como injusta…"; quindi "disuguaglianza ingiusta".
 All’origine di questa  disuguaglianza ingiusta,  ed  ingiusta  in quanto fonte di sofferenza umana, vi è un modello di sviluppo economico che degrada insieme sia l’ambiente naturale, ormai fortemente pervaso della presenza e delle attività umane e quindi da esse condizionato, e l’ambiente sociale. Questo modello di sviluppo è espressione di unantropocentrismo deviato.  In quest’ottica è completamente ripensato il tema del relativismo pratico, che presentato dal Ratzinger come il rifiuto personale di valori assoluti e in particolare di quelli religiosi della nostra fede proclamati dalla dottrina, quindi dei dogmi  di fede, viene presentato ora come patologia sociale che spinge una persona ad approfittare di un’altra e a trattarla come un mero oggetto (Laudato si’,n.123). Esso deriva dall’onnipresenza di un paradigma tecnocratico, secondo cui tutto, in particolare il bene delle persone umane, diviene irrilevante se non serve ai propri interessi immediati (Laudato si’,n.123). In quest’ottica si diviene insofferenti delle leggi, che vengono considerate solo come imposizioni arbitrarie e come ostacoli da evitare (questa ideologia consiglia infatti la deregolamentazione, in particolare del mercato del lavoro). Il senso del lavoro viene quindi stravolto. In particolare la finalità dell’economia  è diventata quella del riduzione dei costi  di produzione in ragione della diminuzione del costo del lavoro e della diminuzione dei posti di lavoro, che sempre più vengono sostituiti dalle macchine (Laudato si’,  n.128).
  A fronte di questa situazione di sofferenza umana, troviamo sia nellaGioia del Vangelo  sia nella Laudato si’ l’appello a un impegno di lottaper contrastare quel modello di sviluppo fondato su un antropocentrismo deviato.
 Laudato si’, 13: “Meritano una gratitudine speciale quanti lottano con vigore per risolvere le drammatiche conseguenze del degrado ambientale nella vita dei più poveri del mondo. I giovani esigono da noi un cambiamento. Essi si domandano com’è possibile che si pretenda di costruire un futuro migliore senza pensare alla crisi ambientale e alle sofferenze degli esclusi.
Laudato si’, 55: “A poco a poco alcuni Paesi possono mostrare progressi importanti, lo sviluppo di controlli più efficienti e una lotta più sincera contro la corruzione. E’ cresciuta la sensibilità ecologica delle popolazioni, anche se non basta per modificare le abitudini nocive di consumo, che non sembrano recedere, bensì estendersi e svilupparsi. E’ quello che succede, per fare solo un semplice esempio, con il crescente aumento dell’uso e dell’intensità dei condizionatori d’aria: i mercati, cercando un profitto immediato, stimolano ancora di più la domanda. Se qualcuno osservasse dall’esterno la società planetaria, si stupirebbe di fronte a un simile comportamento che a volte sembra suicida.
Laudato si’,  244: “ Nell’attesa, ci uniamo per farci carico di questa casa che ci è stata affidata, sapendo che ciò che di buono vi è in essa verrà assunto nella festa del cielo. Insieme a tutte le creature, camminiamo su questa terra cercando Dio, perché «se il mondo ha un principio ed è stato creato, cerca chi lo ha creato, cerca chi gli ha dato inizio, colui che è il suo Creatore». Camminiamo cantando! Che le nostre lotte e la nostra preoccupazione per questo pianeta non ci tolgano la gioia della speranza.
Laudato si’Preghiera finale per la nostra terra:
Dio Onnipotente,
che sei presente in tutto l’universo
e nella più piccola delle tue creature,
Tu che circondi con la tua tenerezza 
tutto quanto esiste,
riversa in noi la forza del tuo amore
affinché ci prendiamo cura 
della vita e della bellezza.
Inondaci di pace, perché viviamo come fratelli e sorelle
senza nuocere a nessuno.
O Dio dei poveri,
aiutaci a riscattare gli abbandonati 
e i dimenticati di questa terra
che tanto valgono ai tuoi occhi.
Risana la nostra vita,
affinché proteggiamo il mondo e non lo deprediamo,
affinché seminiamo bellezza
e non inquinamento e distruzione.
Tocca i cuori
di quanti cercano solo vantaggi
a spese dei poveri e della terra.
Insegnaci a scoprire il valore di ogni cosa,
a contemplare con stupore,
a riconoscere che siamo profondamente uniti
con tutte le creature
nel nostro cammino verso la tua luce infinita.
Grazie perché sei con noi tutti i giorni.
Sostienici, per favore, nella nostra lotta
per la giustizia, l’amore e la pace.
  Questo appello non viene proposto dall’autore di quei documenti tanto come maestro di teologia e di fede quanto come persona religiosa compartecipe di una situazione di sofferenza umana e desiderosa, anche per moventi religiosi, di intervenire su di essa per apportare cambiamenti. Ecco perché, di fronte ai sofferenti dei campi di battaglia di una società basata sull’inequità, viene proposto un modello di impegno religioso basato sull’idea dell’ospedale da campo, il luogo di soccorso d’emergenza più vicino ai sofferenti, e su quella di essere in uscita. In altri tempi forse si sarebbe proposti di mandare più predicatori.
 L’appello di Bergoglio cade in una società religiosa italiana che ancora non è uscita dalla lunga glaciazione indotta dai suoi predecessori, timorosi che quel tipo di impegno di fede che oggi viene proposto conducesse alla frammentazione e alla dissoluzione delle nostre collettività di fede. Con molta fatica, e con forti resistenze, si inizia, non dico a recepirlo, ma a confrontarsi con esso. Il pensiero di Bergoglio si è formato in una società molto lontana dalla nostra, in ogni senso: l’America Latina, un continente europeizzato che però si trova ai margini del modello di sviluppo dominante in Occidente. L’Italia è invece al suo centro e adotta l’ideologia dei potenti della Terra, di quelli che nella Laudato si’  sono criticati come oppressori dei poveri e dei lavoratori e, insieme, come responsabili del degrado dell’ambiente naturale, in particolare di quello abitato dai più poveri.  E’ stato sostanzialmente questo il senso di alcune delle principali  riforme attuate e progettate da noi, in particolare nel campo delle regole del lavoro. In questo senso il pensiero del Bergoglio non trova ancora terreno fertile da noi. Infatti in genere si dà per scontato che quel modello di sviluppo criticato nella Gioia del Vangelo  e nella Laudato si’ sia inevitabile, naturale, per quanto fonte di sofferenza umana. Lo vediamo, ad esempio, in certi atteggiamenti verso i cosiddetti immigrati economici.

10. Cammini di liberazione

 Quando si parla dell’enciclica Laudato si’, diffusa nel 2015 dal Papa, spesso la si inquadra nei discorsi sull’ecologia correnti, nei quali ci si lamenta del degrado dell’ambiente naturale e della cattiva sorte degli animali che ci sono più simpatici, un po’ sulla falsariga del testo della canzone Ragazzo della via Gluck,  interpretata da Celentano dal  ‘68.

 
Questa è la storia
di uno di noi, 
anche lui nato per caso in via Gluck, 
in una casa, fuori città, 
gente tranquilla, che lavorava. 
Là dove c'era l'erba ora c'è 
una città, 
e quella casa 
in mezzo al verde ormai, 
dove sarà? 

Questo ragazzo della via Gluck, 
si divertiva a giocare con me, 
ma un giorno disse, 
vado in città, 
e lo diceva mentre piangeva, 
io gli domando amico, 
non sei contento? 
Vai finalmente a stare in città. 
Là troverai le cose che non hai avuto qui, 
potrai lavarti in casa senza andar 
giù nel cortile! 

Mio caro amico, disse, 
qui sono nato, 
in questa strada 
ora lascio il mio cuore. 
Ma come fai a non capire, 
è una fortuna, per voi che restate 
a piedi nudi a giocare nei prati, 
mentre là in centro respiro il cemento. 
Ma verrà un giorno che ritornerò 
ancora qui 
e sentirò l'amico treno 
che fischia così, 
"wa wa"! 

Passano gli anni, 
ma otto son lunghi, 
però quel ragazzo ne ha fatta di strada, 
ma non si scorda la sua prima casa, 
ora coi soldi lui può comperarla 
torna e non trova gli amici che aveva, 
solo case su case, 
catrame e cemento. 

Là dove c'era l'erba ora c'è 
una città, 
e quella casa in mezzo al verde ormai 
dove sarà. 

Ehi, Ehi, 

La la la... la la la la la... 

Eh no, 
non so, non so perché, 
perché continuano 
a costruire, le case 
e non lasciano l'erba 
non lasciano l'erba 
non lasciano l'erba 
non lasciano l'erba 

Eh no, 
se andiamo avanti così, chissà 
come si farà, 
chissà...

 La lirica riprendeva ragionamenti di critica sociale e politica che all’epoca si facevano, e che potremmo considerare di impostazione rivoluzionaria, ma rimane ad un livello molto più superficiale, del contrasto erba - cemento e vita rurale - vita di città. D’altra parte era destinata al grande pubblico. Bene, nella Laudato si’  c’è molto di più.
  E’ dagli anni ’60 che i Papi scrivono moltissimo. Ma scarseggiano i lettori e, ancor più, i lettori attenti. D’altra parte, a volersi impegnare nello studio dei loro testi, non rimarrebbe tempo per molto altro, almeno per gran parte della gente comune. Una critica che si fa ai Papi contemporanei è che hanno lasciato ben poco spazio alla riflessione e al dialogo, e soprattutto alla ricerca mediante il dialogo, mettendo sempre di mezzo questi loro documenti lunghi e complessi, che, provenendo da un’autorità religiosa e pretendendo quindi di essere obbediti oltre che studiati, tendono a troncare le discussioni. Direi però che la Laudato si’  è un documento di altro tipo, che apre il dibattito invece che chiuderlo. Vi è scritto infatti che vuole aprire   un dialogo con tutti per cercare insieme cammini di liberazione [Laudato si’, 64].
  In genere sono piuttosto insofferente verso il modo di presentare la vita religiosa come un cammino, anche se si tratta di una metafora utilizzata fin dai tempi antichi. Sì, si cammina, ma dove si va? In genere i traguardi sono piuttosto vaghi. E così, appunto, questo camminare mi appare un vagare  senza una vera meta, un cammino  che non finisce mai e che soprattutto è progettato per non finire mai. L’idea è quella della sequela, che mi attira se si tratta di seguire il Maestro, molto meno se si tratta di seguire senza tante storie altri sedicenti maestri. Se però si prende come riferimento per questo camminare  la liberazione è diverso, perché la liberazione  è una meta.  Ed è diverso  soprattutto se in questo impegnativo camminare  ci si apre al dialogo, per cui non si tratta solo di essere condotti  e di  seguire, ma anche di decidere, insieme a molti altri, dove  andare e che cosa fare.  Perché in questo lavoro occorre fare innanzi tutto  il punto della situazione ed è bene farlo avendo quanti più punti di vista possibile. Lo studio delle Scritture e la teologia non bastano. In passato, alle origini della dottrina sociale, si è pensato invece che fossero sufficienti e che quindi, siccome nella nostra confessione ne abbiamo un interprete autorevole assistito da potenze soprannaturali, un Papa potesse legiferare in materia sociale e politica, stabilendo come organizzare una società. Non è questa la pretesa della Laudato si’.
  Che l’enciclica non rientrasse  nella letteratura propriamente ecologica  lo si poteva capire già dal sottotitolo: “Enciclica sulla cura della casa comune”. La casa è dove si abita. Nella parola ecologia la casa  c’è, perché essa contiene il termine del greco antico òikos che significa casa  (ma anche ambiente): però è stata inventata in Germania a fine Ottocento e si riferiva allo studio delle dinamiche degli ambienti naturali. E’ dagli anni ’60 del secolo scorso che ha assunto un senso anche politico, come critica di un modello di sviluppo (ne può essere considerato un indizio la canzone di Celentano che ho trascritto sopra). La Laudato si’  si muove appunto su questa linea. Essa infatti contiene una marcata critica politica, in particolare dell’Occidente capitalistico, il modello economico e sociale dominante a livello globale. Le reazioni più negative sono venute dagli Stati Uniti d’America, che possiamo considerare ancora il centro di quel modello di sviluppo: il Papa è stato invitato a farsi gli affari propri e a limitarsi ai discorsi religiosi.  Penso che la situazione si aggraverà ulteriormente nell’era apertasi dopo le ultime elezioni presidenziali statunitensi.
  Il discorso sviluppato nella Laudato si’  è centrato sulle società umane, non sulla natura. In questo si distacca marcatamente dall’ecologismo politico che tende a considerare l’umanità una specie di malattia del pianeta. Gli esseri umani, come tutti gli altri esseri viventi, sono  di casa  sul questa Terra. Tutti i viventi sono  uniti da legami invisibili e formano una sorta di famiglia universale (Laudato si’, 89), ma questo non significa equiparare tutti gli esseri viventi e togliere all’essere umano quel valore peculiare che implica al tempo stesso una tremenda responsabiltà (Laudato si’, 90): non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nel tempo stesso nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani (Laudato si’, 91).
  Questa idea che tutti i viventi, gli umani e i non umani, costituiscano una famiglia, non è realistica. La natura è costituita in modo che i viventi si mangino tra loro e quindi siano costantemente in lotta mortale gli uni con gli altri. Questa è la principale obiezione a coloro che vorrebbero che gli umani rinunciassero a nutrirsi degli altri animali. In questo modo si pongono gli umani al di sopra della natura di cui invece sono parte. Si divinizzano gli umani. Lo si può fare nel quadro di un discorso religioso, ma non di uno propriamente ecologico. Se però, religiosamente, si vuole intendere che gli umani, come viventi di un tipo molto particolare, dotati di spirito e ragione, e anche di una potenza tecnologica che li ha portati a dominare (fino ad un certo punto) gli ambienti da loro abitati, sentono una particolare responsabilità anche verso gli altri viventi e si propongono di fare del mondo, quindi anche degli ambienti naturali, la casa di tutti i viventi, nel senso innanzi tutto di porsi dei limiti  allo sfruttamento delle risorse naturali, e quindi anche di ogni tipo di vita umana e non umana, allora il discorso della famiglia universale  diviene accettabile. Ma a quel punto in questione non è tanto l’ecologia, ma un modello di sviluppo delle società umane. E infatti l’enciclica è piena di raccomandazioni su come migliorare l’organizzazione sociale e politica, a partire però da una conversione personale ad uno stile di vita definito sobrio. Esso richiede la costruzione di una spiritualità personale. Questo è un apporto caratteristico dell’enciclica ed ha un’origine religiosa. Di solito i modelli di sviluppo sono collegati a politiche e queste ultime a interessi confliggenti che, ad un certo punto, possono trovare un accomodamento in un equilibrio precario di rapporti di forza sociale,  ma sono sempre in balìa degli egoismi collettivi. Da qui il senso di precarietà e insicurezza dell’insieme, tanto maggiore nel mondo globalizzato contemporaneo nel quale, per le dimensioni gigantesche dei fenomeni sociali, ne sembra impossibile il governo razionale. Tuttavia una rivoluzione culturale  (Laudato si, 114) che portasse a nuovi stili personali di vita per via di conversione potrebbero avere anche una efficacia propriamente economica e politica, come quando i movimenti dei consumatori riescono a far sì che si smetta di acquistare certi prodotti  e così diventano efficaci per modificare il comportamento delle imprese, forzandole a considerare l’impatto ambientale e i modelli di produzione (Laudato si’i,  206). L’esperienza corrente è invece quella di una manipolazione dei consumatori da parte delle imprese, in particolare di quelle maggiori che hanno raggiunto un potere tale da poter condizionare addirittura le politiche degli stati, per creare meccanismi consumistici compulsivi, per cui le persone finiscono per essere travolte dal vortice degli acquisti e delle spese superflue (Laudato si’,  203).


11. Critica sociale, fede religiosa e azione sociale: sviluppi nella dottrina sociale

La dottrina sociale fin dall’origine ha espresso anche una marcata critica sociale. Il primo documento del genere dell’era contemporanea viene considerata l’enciclica Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Gioacchino Pecci ed era in polemica con il socialismo. Considerava necessarie le diseguaglianze sociali, quelle che nell’enciclica Laudato si’ vengono definite con il neologismo inequità, vale a dire diseguaglianze ingiuste. Leggiamo infatti nel documento del Pecci:

1 - Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso
14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell'umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l'impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello stato. Quanto al lavoro, l'uomo nello stato medesimo d'innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell'animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell'oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen 3,17). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l'uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell'uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v'è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali.  

  L’enciclica Le novità  non è stata il primo documento della dottrina sociale, che si  è sviluppata fin dalle origini e in modo sempre più imponente man mano che, dal Quarto secolo della nostra era, cresceva la rilevanza politica della nostra fede (questa non è stata  una caratteristica solo dell’Islam) e la conseguente potenza politica dell’apparato religioso.
 Nell’Ottocento troviamo un altro importante documento della dottrina sociale, quello definito Sillabo (=elenco, dalla prima parola dell’espressione Elenco dei principali errori della nostra epoca), allegato all’enciclica Con quanta cura (e pastorale vigilanza), diffusa nel 1864 dal papa Giovanni Maria Mastai Ferretti, nel quale si condannavano alcune delle principali idee del liberalismo, tra le quali la libertà di coscienza in materia religiosa, inserita tra le mostruose, false e perverse opinioni.  Lo potete leggere alla pagina WEB
https://w2.vatican.va/content/pius-ix/it/documents/epistola-encyclica-quanta-cura-8-decembris-1864.html
 L’enciclica Le novità  segna però l’inizio di un nuovo filone della dottrina sociale,  nel quale, criticando principalmente il socialismo, se ne recepiscono alcune idee di giustizia sociale. In uno sviluppo durato più di un secolo, si è arrivati quindi a ribaltare la posizione del magistero sulle diseguaglianze sociali, che ora vengono definite non solo ingiuste, ma anche peccaminose  dal punto di vista religioso.  I ragionamenti sulle cause sociali delle diseguaglianze ingiuste sono stati molto approfonditi nel magistero del papa Karol Wojtyla, in particolare a partire dall’esortazione apostolica post-sinodaleRiconciliazione è penitenza,  del 1984), e dall’enciclica La sollecitudine sociale (della Chiesa),  diffusa nel 1987. Sono documenti che potete leggere sul Web ai seguenti indirizzi:
http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_exhortations/documents/hf_jp-ii_exh_02121984_reconciliatio-et-paenitentia.html
http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_30121987_sollicitudo-rei-socialis.html
  Nella discussione dell’assemblea del Sinodo dei vescovi del 1983 emerse la discussione sui peccati sociali,  vale a dire quelli che riguardano i rapporti sociali e dipendono anche dall’organizzazione delle società, con le loro strutture sociali,  ad esempio i peccati contro  la giustizia nei rapporti sia da persona a persona, sia dalla persona alla comunità, sia ancora dalla comunità alla persona, quelli contro i diritti della persona umana, a cominciare dal diritto alla vita, non esclusa quella del nascituro, o contro l'integrità fisica di qualcuno; ogni peccato contro la libertà altrui, specialmente contro la suprema libertà di credere in Dio e di adorarlo; ogni peccato contro la dignità e l'onore del prossimo, ogni peccato contro il bene comune e contro le sue esigenze, in tutta l'ampia sfera dei diritti e dei doveri dei cittadini, quelli dei dirigenti politici, economici, sindacali, che, pur potendolo, non s'impegnano con saggezza nel miglioramento o nella trasformazione della società secondo le esigenze e le possibilità del momento storico, quelli dei lavoratori, che vengono meno ai loro doveri di presenza e di collaborazione, perché le aziende possano continuare a procurare il benessere a loro stessi, alle loro famiglie, all'intera società, e infine quelli che si manifestano nei  rapporti tra le varie comunità umane.
  Nell’esortazione post-sinodale Riconciliazione e penitenza  ci si preoccupò che l’idea di peccato sociale non andasse a sminuire la responsabilità delle persone per il peccato personale, osservando che, anche denunciando come peccati sociali certe situazioni o certi comportamenti collettivi di gruppi sociali più o meno vasti, o addirittura di intere nazioni e blocchi di nazioni, si dovesse avere consapevolezza che anche in tali casi il  peccato sociale deriva dall'accumulazione e dalla concentrazione di molti peccati personali. Si tratta infatti dei personalissimi peccati di chi genera o favorisce l'iniquità o la sfrutta. Tuttavia il discorso venne ripreso e sviluppato molto nella successiva enciclica La sollecitudine sociale, introducendo il concetto di strutture di peccato,  vale a dire la somma   dei fattori sociali  negativi, derivanti in particolare dall’organizzazione civile e politica delle società, che agiscono in senso contrario a una vera coscienza del bene comune universale e all'esigenza di favorirlo, orientando le persone verso il peccato sociale. Esse, rafforzandosi e diffondendosi,  diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini. Negli anni ’80 si viveva ancora, in particolare in Europa in un mondo diviso in blocchi politici con ideologie molto marcate, quello degli stati con organizzazione dell’economia capitalista e quello degli stati con organizzazione  dell’economia socialista. Wojtyla nell’enciclica citata ne parlò come di due forme diverse di imperialismo, di ostacoli da superare in quanto caratterizzate da strutture di peccato, in particolare mediante decisioni di ordine politico, orientate da determinazioni essenzialmente morali, le quali, per i credenti, specie se cristiani, si devono ispirare ai principi della fede con l'aiuto della grazia divina. Questa impostazione aprì la strada ad una critica sociale molto più ampia che nel passato, diretta in particolare ad una riorganizzazione sociale e politica che negli anni ’80 si palesò sempre più urgente soprattutto per la crisi terminale, intuita da pochi ma molto chiaramente dal Wojtyla, dell’imperialismo sovietico, e quindi della metà orientale dell’Europa di allora. Questi ragionamenti sfociarono in uno dei più grandi e innovativi documenti della dottrina sociale, vale a dire l’enciclica Il Centenario, diffusa dal Wojtyla nel 1991 in occasione del centenario dall’enciclica Le novità, nel quale, tra l’altro, è contenuta per la prima volta l’accettazione incondizionata della democrazia come unico sistema politico rispettoso della dignità umana. Questo filone del magistero conteneva anche un forte appello al laicato di fede all’impegno sociale, richiamandosi al precedente dell’enciclica Lo sviluppo dei popoli, diffusa nel 1967 dal papa Giovanni Battista Montini. Critica sociale e azione sociale dovevano andare di pari passo, in questo recependo l’insegnamento del socialismo storico. Questo pur considerando che il Wojtyla, formatosi da capo religioso nell’ambiente del totalitarismo comunista polacco, fu sempre marcatamente anti-socialista, nel filone della prima dottrina sociale ottocentesca.
 Grosso modo si possono distinguere queste fasi nella critica sociale espressa dalla nostra dottrina sociale:
- dal Quarto secolo e per tutto il primo millennio della nostra era: consolidamento dell’affermazione della nostra fede come ideologia politica prevalente tra i popoli intorno al Mediterraneo e poi anche nel nord Europa e lotta di stato contro i dissenzienti teologici e religiosi, dall’Ottavo secolo affermazione progressiva del papato romano come principato vassallo degli imperatori germanici in polemica con l’imperatore bizantino;
- nel secondo millennio e fino al Settecento: consolidamento della posizione del papato romano, come impero religioso feudale,  nei confronti dell’impero germanico, dei nascenti stati nazionali europei, e dell’impero bizantino fino alla metà del Quattrocento, nonché nei confronti della società civile, mediante un esteso e pervasivo sistema poliziesco-giudiziario;
- dal Settecento e fino al Concilio Vaticano 2° (1962-1965): polemica del papato contro liberalismo, democrazia, socialismo, e stati costruiti su queste ideologie, con sollevazione crescente delle masse cattoliche utilizzate come corpo politico in difesa del papato;
- dal Concilio Vaticano 2°: critica ideologica e politica basata su principi religiosi di giustizia sociale con coinvolgimento attivo delle massa cattoliche nei processi democratici, per determinare politiche per il rivolgimento delle strutture sociali di peccato: processi di riforma religiosa e sociale che coinvolgono anche ruolo, funzioni e poteri del papato romano.
 Fino all’enciclica Laudato si’ la critica sociale su base religiosa espressa dalla dottrina sociale era caratterizzata dalla pretesa di autosufficienza: si riteneva sostanzialmente che nelle Scritture e nelle tradizione teologica vi fosse tutto ciò che occorreva per proclamare giusti principi di organizzazione sociale e questo nonostante i sempre più estesi riferimenti alla situazione storica e sociale e all’impiego di nozioni tratte dalle scienze sociali. L’enciclica Laudato si’ è invece caratterizzata da un’analisi che parte dalle considerazioni delle scienze naturali e sociali, applicandovi poi i ragionamenti teologici della nostra fede. Questo  metodo in particolare è evidenziato dalla menzione di due autori: il filosofo e teologo tedesco Romano Guardini (1885-1968), e in particolare del  suo lavoro dal titolo La fine dell’epoca moderna, del 1965, e dello scienziato teologo gesuita Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955). Ciò crea una base per un’ampia condivisione, anche al di là degli ambienti religiosi,  degli impegni sociali e politici conseguenti, la base per un dialogo con tutti per cercare insieme cammini di liberazione [Laudato si’, 64].

12. Nuova santità

  Dopo le innovazioni introdotte dai provvedimenti presi nel corso del Concilio ecumenico Vaticano 2° (1962-1965) prese forza, fu accreditata, l’idea di nuove forme di santità, in particolare dei laici.  Si parla di santità e si vuole intendere nuovi modelli di vita religiosa. Si può prendere come esempio di questa evoluzione il caso della santità della francese Giovanna D’Arco, giustiziata a Rouen nel 1431 a 19 anni dopo un processo per eresia seguìto ad avventure militari della ragazza durate circa due anni, motivate da intenti politici a sfondo religioso. Giovanna, guidata da voci celesti, volle far incoronare  re di Francia Carlo di Valois, figlio del defunto re Carlo 6° e pretendente al trono dopo la morte dei fratelli maggiori che lo precedevano nella linea di successione, osteggiato dagli inglesi che all’epoca controllavano parte della Francia. Ella, donna laica, divenne condottiera di milizie e riuscì nel suo intento, cadendo infine prigioniera dei suoi nemici nel 1430.
  Se si leggono la bolla del papa Benedetto 15°, Giacomo Della Chiesa, mediante la quale fu proclamata santa nel 1920
http://w2.vatican.va/content/benedict-xv/it/bulls/documents/hf_ben-xv_bulls_19200516_divina-disponente.html
e la presentazione che ne fece papa Joseph Ratzinger, Benedetto 16°, nel 2011 (di seguito ho trascritto il testo del discorso):
https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110126.html
si nota una completa rivisitazione della figura della santa.
 In particolare papa Ratzinger ne fece un modello di impegno laicale in politica e, soprattutto, di impegno femminile, mentre nel documento di Della Chiesa era centrale il suo patriottismo nazionalistico non ben raccordato con la pietà religiosa esemplare. Questa evoluzione  è stata possibile, credo, per il fatto che, almeno formalmente, il papato, con il papa regnante nel 1431, Eugenio 4°, non fu coinvolto nella condanna di Giovanna: l’appello della ragazza al Papa fu infatti respinto dai giudici di Rouen. Nelle parole di Ratzinger appare centrale l’opera di liberazione del suo popolo da parte della ragazza, la quale, a soli diciassette anni, si mostrò come una persona molto forte e decisa, capace di convincere uomini insicuri e scoraggiati, in un contesto di lacerazione all'interno della Chiesa e di continue guerre fratricide tra i popoli cristiani d'Europa, la più drammatica delle quali fu l'interminabile “Guerra dei cent’anni” tra Francia e Inghilterra. Secondo Ratzinger “Uno degli aspetti più originali della santità di questa giovane è proprio questo legame tra esperienza mistica e missione politica.
 Il modello di santità di Giovanna d’Arco,  a prescindere dall’accentuazione del ruolo politico della figura della giovane, è sicuramente divergente da quello tradizionalmente femminile ed è caratterizzato da una marcata autonomia di decisione e dal saper tener testa ad un mondo condotto interamente dagli uomini, che si trattasse del pretendente al trono di Francia e poi re, o delle milizie e dei loro capi militari, o dei giudici ecclesiastici. Contrasta anche con il modello di secondo piano che le correnti religiose neo-fondamentaliste vogliono riservare alle donne, riconducendole nelle prigioni domestiche, a ruoli di semplice cura.
  La questione sui nuovi modelli di santità, vale a dire di vita religiosa, impegna ancora le discussioni di fede, perché certe idee hanno sostenitori e detrattori. Essa è collegata al discorso sull’aggiornamento, in realtà sulla riforma  della vita religiosa, per renderla efficace ai tempi nuovi. L’allontanamento dei giovani dalle parrocchie può essere considerato come un segno che questo lavoro non si è fatto bene.
 I più anziani hanno molti pregiudizi sui giovani e vedono nei loro comportamenti innanzi tutto quelli diretti a procurarsi piaceri immediati ed effimeri. Ma la ragione della separazione tra mondo giovanile e mondo religioso, che è piuttosto evidente, sta in realtà nel fatto che la vita religiosa, come è proposta prevalentemente, appare, ed effettivamente è, inutile, e addirittura controproducente, per un giovane. Contrasta infatti con le esigenze dei giovani del difficile inserimento nel mondo loro contemporaneo. Volendo preservarli da influenze nocive, si pretende di rinchiuderli. E, in definitiva, una certa quota di coloro che in religione pontificano sui mali giovanili, probabilmente al tempo di Giovanna sarebbero stati con i giudici che la condannarono ad essere arsa viva, quindi annientata totalmente, resa un nulla. Del resto i meno giovani, se fanno memoria veritiera del loro passato, di quando erano giovani, in particolare nella fascia 18-30, possono convincersi facilmente dell’inefficacia del modello di vita di fede proposto spesso ai più giovani.
 Da giovane sono vissuto in ambienti religiosi che seguivano tutt’altra impostazione. Ci preparavano al governo della società. Ciò che un tempo veniva riservato alle organizzazioni laicali intellettuali  dovrebbe divenire invece patrimonio comune del laicato. La formazione alla cittadinanza democratica dovrebbe essere integrata in quella religiosa, perché il compito principale del laico di fede, e anche il suo modo di promuovere i valori di fede nella società, si  fa con gli strumenti democratici. E’ la via di liberazione che si apre ai laici di fede nelle società democratiche, in particolare in quelle Europee. Invece, talvolta, questi discorsi vengono considerati solo un espediente per  interessare i più giovani e portarli in chiesa.
  Uno strumento molto importante, per sostenere il lavoro di cui ho trattato, è l’enciclica Laudato si’, che possiamo considerare una specie di manuale  in questo campo. Essa è stimolo ad approfondire, non esaurisce i temi trattati, e, innanzi tutto, è appello all’azione civile a sfondo religioso.
  Possiamo considerare l’incoronazione di Carlo 7°  a re di Francia, nel 1429, a Reims, il risultato di un riuscito processo di liberazione, in senso moderno? La guerra tra inglesi e francesi per il dominio in Francia, nel Quattrocento, fu un conflitto dinastico o una vera guerra di liberazione? In definitiva  i modelli di governo della società non cambiarono veramente sotto Carlo 7° rispetto a prima. All’epoca, va osservato, non si era consumato ancora lo scisma tra la Chiesa d’Inghilterra e il papato, dunque dal punto religioso non vi erano ragioni di contrasto tra inglesi e francesi.  La liberazione di cui si tratta nell’enciclica Laudato si’ va più in profondità e, in particolare, non si basa su progetti nazionalistici. Richiede una critica del modello corrente di sviluppo e modelli nuovi di impegno civile a sfondo religioso. Ma certi modelli vanno ancora costruiti e probabilmente individuati tenendo conto anche di esperienze religiose al di fuori della nostra confessione. Qualche giorno fa, ad esempio, Bergoglio ha fatto riferimento a Ghandi e a Martin Luther King, due modelli di vita di forte impegno politico di liberazione con moventi a sfondo religioso. Ma in Italia abbiamo molte figure storiche di politici di fede, impegnati nei processi democratici, che possono essere prese come riferimento. Il problema è naturalmente che esse vissero in ambienti ecclesiali in cui furono spesso fortemente avversate dai clericali di ogni orientamento, reazionario, conservatore, moderato e, da ultimo, sono svalutate dai neo-fondamentalismi, tacciate a volta di protestantesimo come, all'inizio del Novecento, lo furono di modernismo. E l’impegno democratico nella società civile non è compatibile sia con il clericalismo, che si conferma una piaga della vita religiosa, così come, sotto altri aspetti, con ogni tipo di fondamentalismo.

 Trascrivo di seguito il discorso del papa Benedetto 16° dal quale ho tratto le meditazioni su Giovanna d’Arco che precedono,
da:
https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110126.html

BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 26 gennaio 2011

Santa Giovanna d'Arco

Cari fratelli e sorelle,
  oggi vorrei parlarvi di Giovanna d'Arco, una giovane santa della fine del Medioevo, morta a 19 anni, nel 1431. Questa santa francese, citata più volte nel Catechismo della Chiesa Cattolica, è particolarmente vicina a santa Caterina da Siena, patrona d'Italia e d'Europa, di cui ho parlato in una recente catechesi. Sono infatti due giovani donne del popolo, laiche e consacrate nella verginità; due mistiche impegnate, non nel chiostro, ma in mezzo alle realtà più drammatiche della Chiesa e del mondo del loro tempo. Sono forse le figure più caratteristiche di quelle “donne forti” che, alla fine del Medioevo, portarono senza paura la grande luce del Vangelo nelle complesse vicende della storia. Potremmo accostarle alle sante donne che rimasero sul Calvario, vicino a Gesù crocifisso e a Maria sua Madre, mentre gli Apostoli erano fuggiti e lo stesso Pietro lo aveva rinnegato tre volte. La Chiesa, in quel periodo, viveva la profonda crisi del grande scisma d'Occidente, durato quasi 40 anni. Quando Caterina da Siena muore, nel 1380, ci sono un Papa e un Antipapa; quando Giovanna nasce, nel 1412, ci sono un Papa e due Antipapa. Insieme a questa lacerazione all'interno della Chiesa, vi erano continue guerre fratricide tra i popoli cristiani d'Europa, la più drammatica delle quali fu l'interminabile “Guerra dei cent’anni” tra Francia e Inghilterra.
Giovanna d'Arco non sapeva né leggere né scrivere, ma può essere conosciuta nel più profondo della sua anima grazie a due fonti di eccezionale valore storico: i due Processi che la riguardano. Il primo, il Processo di Condanna (PCon), contiene la trascrizione dei lunghi e numerosi interrogatori di Giovanna durante gli ultimi mesi della sua vita (febbraio-maggio 1431), e riporta le parole stesse della Santa. Il secondo, il Processo di Nullità della Condanna, o di “riabilitazione” (PNul), contiene le deposizioni di circa 120 testimoni oculari di tutti i periodi della sua vita (cfr Procès de Condamnation de Jeanne d'Arc, 3 vol. e Procès en Nullité de la Condamnation de Jeanne d'Arc, 5 vol., ed. Klincksieck, Paris l960-1989).
  Giovanna nasce a Domremy, un piccolo villaggio situato alla frontiera tra Francia e Lorena. I suoi genitori sono dei contadini agiati, conosciuti da tutti come ottimi cristiani. Da loro riceve una buona educazione religiosa, con un notevole influsso della spiritualità del Nome di Gesù, insegnata da san Bernardino da Siena e diffusa in Europa dai francescani. Al Nome di Gesù viene sempre unito il Nome di Maria e così, sullo sfondo della religiosità popolare, la spiritualità di Giovanna è profondamente cristocentrica e mariana. Fin dall'infanzia, ella dimostra una grande carità e compassione verso i più poveri, gli ammalati e tutti i sofferenti, nel contesto drammatico della guerra.
  Dalle sue stesse parole, sappiamo che la vita religiosa di Giovanna matura come esperienza mistica a partire dall'età di 13 anni (PCon, I, p. 47-48). Attraverso la “voce” dell'arcangelo san Michele, Giovanna si sente chiamata dal Signore ad intensificare la sua vita cristiana e anche ad impegnarsi in prima persona per la liberazione del suo popolo. La sua immediata risposta, il suo “sì”, è il voto di verginità, con un nuovo impegno nella vita sacramentale e nella preghiera: partecipazione quotidiana alla Messa, Confessione e Comunione frequenti, lunghi momenti di preghiera silenziosa davanti al Crocifisso o all'immagine della Madonna. La compassione e l’impegno della giovane contadina francese di fronte alla sofferenza del suo popolo sono resi più intensi dal suo rapporto mistico con Dio. Uno degli aspetti più originali della santità di questa giovane è proprio questo legame tra esperienza mistica e missione politica. Dopo gli anni di vita nascosta e di maturazione interiore segue il biennio breve, ma intenso, della sua vita pubblica: un anno di azione e un anno di passione.
  All'inizio dell'anno 1429, Giovanna inizia la sua opera di liberazione. Le numerose testimonianze ci mostrano questa giovane donna di soli 17 anni come una persona molto forte e decisa, capace di convincere uomini insicuri e scoraggiati. Superando tutti gli ostacoli, incontra il Delfino di Francia, il futuro Re Carlo VII, che a Poitiers la sottopone a un esame da parte di alcuni teologi dell'Università. Il loro giudizio è positivo: in lei non vedono niente di male, solo una buona cristiana.
Il 22 marzo 1429, Giovanna detta un'importante lettera al Re d'Inghilterra e ai suoi uomini che assediano la città di Orléans (Ibid., p. 221-222). La sua è una proposta di vera pace nella giustizia tra i due popoli cristiani, alla luce dei nomi di Gesù e di Maria, ma è respinta, e Giovanna deve impegnarsi nella lotta per la liberazione della città, che avviene l'8 maggio. L'altro momento culminante della sua azione politica è l’incoronazione del Re Carlo VII a Reims, il 17 luglio 1429. Per un anno intero, Giovanna vive con i soldati, compiendo in mezzo a loro una vera missione di evangelizzazione. Numerose sono le loro testimonianze riguardo alla sua bontà, al suo coraggio e alla sua straordinaria purezza. E' chiamata da tutti ed ella stessa si definisce “la pulzella”, cioè la vergine.
  La passione di Giovanna inizia il 23 maggio 1430, quando cade prigioniera nelle mani dei suoi nemici. Il 23 dicembre viene condotta nella città di Rouen. Lì si svolge il lungo e drammatico Processo di Condanna, che inizia nel febbraio 1431 e finisce il 30 maggio con il rogo. E' un grande e solenne processo, presieduto da due giudici ecclesiastici, il vescovo Pierre Cauchon e l'inquisitore Jean le Maistre, ma in realtà interamente guidato da un folto gruppo di teologi della celebre Università di Parigi, che partecipano al processo come assessori. Sono ecclesiastici francesi, che avendo fatto la scelta politica opposta a quella di Giovanna, hanno a priori un giudizio negativo sulla sua persona e sulla sua missione. Questo processo è una pagina sconvolgente della storia della santità e anche una pagina illuminante sul mistero della Chiesa, che, secondo le parole del Concilio Vaticano II, è “allo stesso tempo santa e sempre bisognosa di purificazione” (LG, 8). E’ l'incontro drammatico tra questa Santa e i suoi giudici, che sono ecclesiastici. Da costoro Giovanna viene accusata e giudicata, fino ad essere condannata come eretica e mandata alla morte terribile del rogo. A differenza dei santi teologi che avevano illuminato l'Università di Parigi, come san Bonaventura, san Tommaso d'Aquino e il beato Duns Scoto, dei quali ho parlato in alcune catechesi, questi giudici sono teologi ai quali mancano la carità e l'umiltà di vedere in questa giovane l’azione di Dio. Vengono alla mente le parole di Gesù secondo le quali i misteri di Dio sono rivelati a chi ha il cuore dei piccoli, mentre rimangono nascosti ai dotti e sapienti che non hanno l'umiltà (cfr Lc 10,21). Così, i giudici di Giovanna sono radicalmente incapaci di comprenderla, di vedere la bellezza della sua anima: non sapevano di condannare una Santa.
  L'appello di Giovanna al giudizio del Papa, il 24 maggio, è respinto dal tribunale. La mattina del 30 maggio, riceve per l'ultima volta la santa Comunione in carcere, e viene subito condotta al supplizio nella piazza del vecchio mercato. Chiede a uno dei sacerdoti di tenere davanti al rogo una croce di processione. Così muore guardando Gesù Crocifisso e pronunciando più volte e ad alta voce il Nome di Gesù (PNul, I, p. 457; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 435). Circa 25 anni più tardi, il Processo di Nullità, aperto sotto l'autorità del Papa Callisto III, si conclude con una solenne sentenza che dichiara nulla la condanna (7 luglio 1456; PNul, II, p 604-610). Questo lungo processo, che raccolse le deposizioni dei testimoni e i giudizi di molti teologi, tutti favorevoli a Giovanna, mette in luce la sua innocenza e la perfetta fedeltà alla Chiesa. Giovanna d’Arco sarà poi canonizzata da Benedetto XV, nel 1920.
Cari fratelli e sorelle, il Nome di Gesù, invocato dalla nostra Santa fin negli ultimi istanti della sua vita terrena, era come il continuo respiro della sua anima, come il battito del suo cuore, il centro di tutta la sua vita. Il “Mistero della carità di Giovanna d'Arco”, che aveva tanto affascinato il poeta Charles Péguy, è questo totale amore di Gesù, e del prossimo in Gesù e per Gesù. Questa Santa aveva compreso che l’Amore abbraccia tutta la realtà di Dio e dell'uomo, del cielo e della terra, della Chiesa e del mondo. Gesù è sempre al primo posto nella sua vita, secondo la sua bella espressione: “Nostro Signore servito per primo” (PCon, I, p. 288; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 223). Amarlo significa obbedire sempre alla sua volontà. Ella afferma con totale fiducia e abbandono: "Mi affido a Dio mio Creatore, lo amo con tutto il mio cuore" (ibid., p. 337). Con il voto di verginità, Giovanna consacra in modo esclusivo tutta la sua persona all'unico Amore di Gesù: è “la sua promessa fatta a Nostro Signore di custodire bene la sua verginità di corpo e di anima” (ibid., p. 149-150). La verginità dell'anima è lo stato di grazia, valore supremo, per lei più prezioso della vita: è un dono di Dio che va ricevuto e custodito con umiltà e fiducia. Uno dei testi più conosciuti del primo Processo riguarda proprio questo: “Interrogata se sappia d'essere nella grazia di Dio, risponde: Se non vi sono, Dio mi voglia mettere; se vi sono, Dio mi voglia custodire in essa” (ibid., p. 62; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 2005).
  La nostra Santa vive la preghiera nella forma di un dialogo continuo con il Signore, che illumina anche il suo dialogo con i giudici e le dà pace e sicurezza. Ella chiede con fiducia: “Dolcissimo Dio, in onore della vostra santa Passione, vi chiedo, se voi mi amate, di rivelarmi come devo rispondere a questi uomini di Chiesa” (ibid., p. 252). Gesù è contemplato da Giovanna come il “Re del Cielo e della Terra”. Così, sul suo stendardo, Giovanna fece dipingere l'immagine di “Nostro Signore che tiene il mondo” (ibid., p. 172): icona della sua missione politica. La liberazione del suo popolo è un’opera di giustizia umana, che Giovanna compie nella carità, per amore di Gesù. Il suo è un bell’esempio di santità per i laici impegnati nella vita politica, soprattutto nelle situazioni più difficili. La fede è la luce che guida ogni scelta, come testimonierà, un secolo più tardi, un altro grande santo, l’inglese Thomas More. In Gesù, Giovanna contempla anche tutta la realtà della Chiesa, la “Chiesa trionfante” del Cielo, come la “Chiesa militante” della terra. Secondo le sue parole, ”è un tutt'uno Nostro Signore e la Chiesa” (ibid., p. 166). Quest’affermazione, citata nel Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 795), ha un carattere veramente eroico nel contesto del Processo di Condanna, di fronte ai suoi giudici, uomini di Chiesa, che la perseguitarono e la condannarono. Nell'Amore di Gesù, Giovanna trova la forza di amare la Chiesa fino alla fine, anche nel momento della condanna.
Mi piace ricordare come santa Giovanna d’Arco abbia avuto un profondo influsso su una giovane Santa dell'epoca moderna: Teresa di Gesù Bambino. In una vita completamente diversa, trascorsa nella clausura, la carmelitana di Lisieux si sentiva molto vicina a Giovanna, vivendo nel cuore della Chiesa e partecipando alle sofferenze di Cristo per la salvezza del mondo. La Chiesa le ha riunite come Patrone della Francia, dopo la Vergine Maria. Santa Teresa aveva espresso il suo desiderio di morire come Giovanna, pronunciando il Nome di Gesù (Manoscritto B, 3r), ed era animata dallo stesso grande amore verso Gesù e il prossimo, vissuto nella verginità consacrata.
  Cari fratelli e sorelle, con la sua luminosa testimonianza, santa Giovanna d’Arco ci invita ad una misura alta della vita cristiana: fare della preghiera il filo conduttore delle nostre giornate; avere piena fiducia nel compiere la volontà di Dio, qualunque essa sia; vivere la carità senza favoritismi, senza limiti e attingendo, come lei, nell'Amore di Gesù un profondo amore per la Chiesa. Grazie.

13. La politica come campo d’azione della fede

[da: Guido Formigoni, Alla prova della democrazia - Chiesa cattolici e modernità nell’Italia del 900, edizioni Il Margine, 2008, p.1]

 Studiando l’approccio del mondo cattolico italiano all’idea di nazione e ai miti nazioni tra Otto e Novecento, colpisce una sorta di straordinaria prevalenza più che secolare e quasi onnivora di una cultura  “guelfa”, che valorizzava fortemente l’idea e il mito nazionale alla luce delle sue radici “cattoliche”. Esistenza e sviluppo della nazione italiana venivano infatti largamente interpretati, per un lungo periodo di tempo, mettendo l’accento sui legami costitutivi tra fede e civiltà. L’Italia era “nazione cattolica” per eccellenza: questo elemento culturale e naturalmente anche “ideologico” (in quanto si trattava di una interpretazione della realtà con caratteri prescrittivi e operativi) correva in modo amplissimo lungo tutta questa storia.
[…]
 La Conciliazione del 1929 fu largamente presentata come inveramento finale dell’antica visione guelfa della nazionalità […]
  All’ombra di questa visione, propria del papa lombardo [Achille Ratti, in religione Pio 11°] va riletto l’accentuato processo di “nazionalizzazione della fede” che si dispiegò tra gli anni ’20 e ’30. Prese forma una sorta di coscienza religiosa nuova, segnata da elementi che mi pare possano essere definiti di vero e proprio “nazional-cattolicesimo”. Cioè di un’interpretazione e un’esperienza simbolica e organizzata della fede che trovava sul terreno della cultura e della mitologia nazionale un riconoscimento decisivo e centrale. Si trattò di un percorso (ancora per molti versi da studiare analiticamente) che si intrecciò in modo problematico e ambiguo con l’età dei nazionalismi di massa, della modernizzazione industriale e della politica totalitaria, fino ad uscirne lacerato al suo interno, ma serbando una grandissima capacità di rilancio.”

  Qualche tempo fa, papa Jorge Mario Bergoglio, in religione Francesco ,menzionò la frase “la politica è la più alta forma di carità”, attribuendola a Montini, ma aggiungendo di non essere riuscito a trovare la fonte della citazione. Chi ci è riuscito? In effetti qualcosa di molto simile lo disse il papa Achille Ratti - Pio 11°. Egli concluse nel 1929, la Conciliazione con il Regno d’Italia sotto regime fascista. E’ in questo contesto che vide nella politica nazionale italiana un’opportunità religiosa. E spinse le masse dei fedeli, in particolare l’Azione Cattolica,  su quella via. Oggi quella storia è ritenuta disonorevole e ci sorvola sopra. Eppure è stata gravida di conseguenze: l’ibridazione dell’ideologia politica a sfondo religioso con il nazionalismo fascista fu molto profonda  e si ancora avverte distintamente  dietro la visione di settori potenti del movimento cattolico. Si tratta di concezioni profondamente ostili alla democrazia, come lo fu il fascismo storico.
 Eppure, la sfida dei tempi nuovi che stiamo vivendo richiede di saper agire sapientemente nei processi democratici, gli unici che sono in grado di produrre civiltà di integrazione delle differenze culturali che sono espresse dai popoli che sempre più si mescolano, non accettando i confini in genere arbitrari imposti dagli stati nazionali.
  Ma di democrazia si fa poco tirocinio nelle istituzioni e altre formazioni religiose.
 Perché appunto in genere prevale lo spirito guelfo, di cui ha scritto Formigoni. Nel Duecento / Trecento in Italia  i guelfi  erano quelli che appoggiavano la politica del papato. Nell’Ottocento si parlò di neo-guelfi  per coloro che, nella questione dell’unità nazionale, pensavano a un ruolo politico del papato per costituire una federazione tra gli stati italiani di allora.
 Il papato ha sempre fatto politica: alle origini politica ecclesiastica, e poi, dal Quarto secolo,  anche la politica civile. Nel primo millennio della nostra era, ha agito con un ruolo minore rispetto agli imperatori civili, dei quali, politicamente, era un feudatario. Dal secondo millennio ha fatto politica come imperatore religioso, rivendicando la supremazia sugli altri monarchi europei. Nell’Ottocento, vistosi insidiare il suo stato nell’Italia centrale e capendo di non avere più l’appoggio delle altre monarchie europee, in crisi di trasformazione da fine Settecento a seguito dello sviluppo dei processi democratici (oggi le residue monarchie europee, regnano ma non governano), cercò di organizzare le masse cattoliche a difesa dei suoi interessi politici di sovrano territoriale, non bastandogli più per questo la sua autorità religiosa. Il papato fu, con l’impero d’Austria, il maggiore avversario dell’unità nazionale italiana. Spinse le masse cattoliche ad una lotta ideologica e politica contro il nazionalismo liberale dell’epoca e, poi, contro le istituzioni del Regno d’Italia. La legge contro il terrorismo, promossa da Francesco Crispi nel 1866, fu attuata ampiamente anche contro i movimenti cattolici, come ho ricordato in un post  di qualche giorno fa, parlando di precursori  dell’Azione Cattolica. In questo contesto il papato osteggiò apertamente i processi democratici, arrivando a comminare la scomunica religiosa a Romolo Murri, tra gli ideatori e i primi fautori di una democrazia cristiana, non intesa come partito politico, ma come forma istituzionale dello stato che consentisse la partecipazione attiva dei cattolici alla vita politica italiana, all’epoca proibita.
  La Conciliazione del 1929 con il Mussolini, consentì al papato di recuperare un simulacro di stato nella città di Roma e soprattutto uno straordinario potere di influenza ideologica sulla masse popolari italiane. Da qui derivarono gran parte dei problemi che travagliarono la partecipazione dei laici di fede alla politica democratica dopo la caduta del fascismo, dalla metà degli scorsi anni Quaranta.
 Il papato, fino all’elezione di papa Francesco, non accettò mai di ritirarsi dalla politica italiana. La ripresa neoguelfa  fu evidentissima durante il lungo regno religioso di Karol Wojtyla, anche se, a quei tempi, svolse un ruolo sempre più rilevante la Conferenza episcopale italiana, e soprattutto il suo presidente.
  Il papato ha cercato sempre di mantenere un dominio politico sulla società italiana, fino a che i movimenti di massa suscitati dal papato come strumenti neoguelfi hanno iniziato a lottare per la conquista del papato, sviluppando politiche autonome. Ora lo stesso papato è in crisi e si pensa di trasformarlo. Il papa Francesco ne interpreta una specie di nuovo modello. Questa è la storia ecclesiastica recente.
  Di questa evoluzione in genere non si tratta nella formazione religiosa di secondo e terzo livello, che dovrebbe comprendere anche elementi di storia nazionale ed ecclesiastica. L’ingenuo papismo che viene in genere proposto in religione maschera una vera e propria ideologianeoguelfa,  spesso declinata però ora in un modo particolare, nel senso che sembra non essere preso come riferimento  questo  papa, quello che ha deciso di spogliarsi dei simboli imperiali del suo ufficio che sono solo pesanti incrostazioni del millennio appena trascorso, e vive in un albergo invece che nella reggia che gli era destinata, ma unpapa idealefuturo,   un papa a venire, che ancora non c’è ma che ciascuno spera possa essere conforme ai suoi progetti, tanto che molti si industriano per generarlo. Sotto questo profilo Francesco,  nonFrancesco 1°  come dovrebbe essere il nome di un imperatore religioso, è stato una bella sorpresa.
  Che fare, allora?
 I tempi sono quelli che sono  e non sono un granché, ma possiamo consolarci ricordandoci che ce ne sono stati di peggiori, come, ad esempio, all’epoca della Conciliazione con il fascismo, in particolare nei passati anni Trenta.
  Occorre far fare tirocinio democratico in religione, visto che si concorda che “la politica è una delle più alte forme di carità”, ciò che richiede di fare memoria della storia, in particolare di quella recente e contemporanea. La consapevolezza storica è alla base dei processi democratici. Da dove cominciare? La parrocchia può essere un buon inizio. Anche l’Azione Cattolica, e in particolare il nostro gruppo parrocchiale, può essere un buon inizio, perché dagli anni Sessanta si occupa anche di tirocinio democratico. Ma occorre sviluppare processi democratici, ad esempio , n parrocchia, rendendo realmente rappresentativo il Consiglio pastorale. Un altro dei principi cardine della democrazia è la partecipazione politica alle scelte economiche che si fanno nelle istituzioni, attraverso la pubblicazione e approvazione di conti consuntivi e preventivi e dello stato patrimoniale. Altrimenti le istituzioni che ambiscono ad essere comunitarie si burocratizzano e uno si disinteressa del bilancio della parrocchia come si disinteressa di quelli delle ASL. Poi però può accadere che la biblioteca parrocchiale sia da ricostituire da capo (è la situazione che ha trovato il nuovo parroco, ho sentito) e questo  per qualche motivo che non è stato spiegato (servivano fondi per urgenze parrocchiali, si voleva impiegare altrimenti la stanza della biblioteca?), e che quindi adesso i giovani non abbiano di che studiare. Avessi potuto partecipare democraticamente alla decisione mi sarei opposto con tutte le mie forze. E’ tutto uno stile da costruire, perché in questo campo in religione, da noi,  non si è molto avanti e anche nella politica nazionale si manifestano molti problemi. Ma l’Italia non si salverà senza un nuovo spirito civico: storicamente i laici di fede, in particolare nel secondo dopoguerra, sono stati protagonisti in questo campo, naturalmente sempre con la palla al piede del clerico-fascismo, il nome meno gentile di quello che Formigoni definisce come il sempre persistente neo-guelfismo.

14. Europeismo

 Quando si inizia a parlare di Europa  e di europeismo spesso le persone che incontro attaccano con le critiche, riprendendo superficialmente i discorsi che sentono fare da diversi politici nazionali, come se gran parte dei problemi che ci sono in Italia derivassero dall’Europa, concepita secondo la mentalità fascista (scrivo le cose come sono!), come un coacervo di nazione d’oltralpe che ce l’hanno con noi. In realtà di Europa  si sa poco, in particolare della sua storia e di come è diventata cercando di superare gli  stati nazionali, i quali (quelli sì) erano stati protagonisti della sanguinosa, tragica, storia europea. Ecco un primo punto da tenere presente: l’idea di una unificazione istituzionale  tra i popoli europei scaturiva dalla volontà di stabilire una pace europea, dopo secoli di conflitti. In effetti il progressivo processo di unificazione istituzionale europea, vale a dire, innanzi tutto, prima ancora della creazione di un governo  europeo, la creazione di norme europee, che favorissero la cooperazione europea e l’avvicinamento  delle società europee, ci ha dato un lungo periodo di pace, che dura tutt’oggi.  L’ultima guerra mondiale finì in Europa nella primavera del 1945 e non era scontato che non potesse riprendere. Solo sei anni dopo, a Parigi, nel 1951, venne concluso il primo degli accordi internazionali che diede inizio al processo di unificazione istituzionale europea: il trattato che istituì la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, più nota con la sigla CECA. Lo conclusero sei stati nazionali: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi (Olanda). Notate qualcosa? In questo gruppo c’erano stati nazionali che si erano combattuti durante la Seconda guerra mondiale: Germania e Italia da una parte, Belgio, Francia, Lussemburgo e Paesi Bassi dall’altra. Le ultime due guerre mondiali (1914/1918 e 1939-1945) erano originate sulla frontiera tra Francia e Germania. Oggi il problema della pace europea non scalda i cuori, e invece dovrebbe. Negli anni ’40 era diverso, perché sia aveva l’esperienza diretta di due guerre mondiali che avevano provocato tante sofferenze ai popoli europei e, in particolare, tra le classi popolari, operai e contadini, che fornivano i  militari di truppa, in particolare la fanteria, votata allo sterminio. L’idea di unificazione europea era rivoluzionaria durante il regime fascista (1922-1945). E infatti uno dei documenti più citati, ma poco conosciuto, dell’europeismo italiano, il Manifesto di Ventotene, che ho pubblicato ieri, venne scritto nell’Isola di Ventotene, da  tre pregiudicati sottoposti alla misura di polizia del confino per ragioni politiche, che era molto di più dell’obbligo di soggiorno che si applica oggi alle persone pericolose. Comportava infatti una serie di gravi limitazioni che, in definitiva, obbligavano i confinati a stare sempre tra di loro. Quei confinati si chiamavano Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. Il più noto dei tre è Spinelli, che nel 1941 aveva 34 anni. Gli altri due ne avevano 44 e 32.  Li possiamo considerare tre rivoluzionari, perché volevano cambiare totalmente il mondo in cui si erano trovati a vivere.
  Come c’entra l’europeismo con la fede religiosa? C’entra per vari motivi. Innanzi tutto l’ideale di una pace  tra i popoli è diventato dalla metà del secolo scorso molto importante nella nostra dottrina sociale. E l’unificazione europea è stata una via verso la pace. E poi perché l’ideologia dell’unificazione europea è vista con sospetto, tra noi in religione, nonostante che i laici di fede siano stati protagonisti in quel processo politico. In effetti negli ultimi decenni essa ha surclassato quella religiosa come potenza di pace, in particolare, più recentemente, nelle politiche contro la discriminazione sociale che sta attuando. Le organizzazioni religiose sono in genere andate a rimorchio, spesso riottosamente, come quando si cerca di contrastare le discriminazioni a sfondo sessuale. Si tende allora a pensare che la rivoluzione che si sta attuando nel processo di unificazione europea sia antireligiosa, e non è così, come si potrebbe facilmente capire se si trovasse il tempo di approfondire.

15. Nazionalizzazione degli stati

[Dal Manifesto di Ventotene, 1941, di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
 
La sconfitta della Germania non porterebbe automaticamente al riordinamento dell'Europa secondo il nostro ideale di civiltà.
  Nel breve intenso periodo di crisi generale, in cui gli stati nazionali giaceranno fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose la parola nuova e saranno materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti, i ceti che più erano privilegiati nei vecchi sistemi nazionali
cercheranno subdolamente o con la violenza di smorzare l'ondata dei sentimenti e delle passioni internazionalistiche
, e si daranno ostinatamente a ricostruire i vecchi organismi statali. Ed è probabile che i dirigenti inglesi, magari d'accordo con quelli americani, tentino di spingere le cose in questo senso, per riprendere la politica dell'equilibrio delle potenze nell'apparente immediato interesse del loro impero.
  Le forze conservatrici, cioè i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati nazionali: i quadri superiori delle forze armate, culminanti là, dove ancora esistono, nelle monarchie; quei gruppi del capitalismo monopolista che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelle degli stati; i grandi proprietari fondiari e le alte gerarchie ecclesiastiche, che solo da una stabile società
conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie
; ed al loro seguito tutto l'innumerevole stuolo di coloro che da essi dipendono o che son anche solo abbagliati dalla loro tradizionale potenza; tutte queste forze reazionarie, già fin da oggi, sentono che l'edificio scricchiola e cercano di salvarsi. Il crollo le priverebbe di colpo di tutte le garanzie che hanno
avuto fin'ora e le esporrebbe all'assalto delle forze progressiste.
  Ma essi hanno uomini e quadri abili ed adusati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati. Si proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuati dentro i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovrà fare i conti.
  Il punto sul quale essi cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse
popolari l'unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l'ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare, sia esse che i loro capi più miopi, sul terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera.
  Se raggiungessero questo scopo avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi. Loro compito precipuo tornerebbe ad essere, a più o meno breve scadenza, quello di convertire i loro popoli in eserciti. I generali tornerebbero a comandare, i monopolisti ad approfittare delle autarchie, i corpi burocratici a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si raggrinzerebbero in un nulla di fronte alla necessità di prepararsi nuovamente alla guerra.

  L’europeismo che si sviluppa dagli anni ’30 del Novecento è di tipo rivoluzionario, perché progetta di cambiare profondamente la politica e istituzioni esistenti all’epoca in un’Europa dominata da stati totalitari  fascisti, al seguito del cancelliere tedesco Adolf Hitler  (1889-1945)  e del presidente del Consiglio del Regno d’Italia Benito Mussolini (1883-1945), mentre in Russia, una parte importante dell’Europa, dominava il totalitarismo sovietico di ispirazione comunista, nella versione imposta dal segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica Iosif Stalin (1879-1953),  anch’esso un sistema politico-istituzionale totalitario. Un sistema politico è totalitario quando il potere cala dall’alto,   non ammette dissenso e pretende di regolare tutti gli aspetti della vita del popolo che domina. Quindi l’europeismo di quell’epoca fu democratico perché si oppone ai totalitarismi che c’erano allora in Europa. Anche  il nazionalsocialismo tedesco, il movimento politico fondato da Adolf Hitler, e il comunismo sovietico nella versione di Josif Stalin avevano progetti di dominio europeo, ma non consideriamo Hitler e Stalin come europeisti  in quanto associamo l’europeismo alla democrazie e quei due uomini politici non erano democratici.
  Nel brano del Manifesto di Ventotene  che ho sopra riportato si legge un’aspra critica alle  forze conservatrici, accusate di aver provocato la lunga situazione di conflitto europeo protrattasi dal 1914 al 1945 dominando gli stati nazionali. Tra di esse vengono le “alte gerarchie ecclesiastiche, che solo da una stabile società
conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie”
. Questa visione può ritenersi strettamente collegata alla storia italiana, in cui, nel 1929, il papato aveva concluso accordi di pacificazione  con il  Regno d’Italia dominato dal regime fascista, tanto che essi furono sottoscritti per l’Italia, nel palazzo romano del Laterano personalmente da Benito Mussolini. In esecuzioni di quegli accordi al papato fu riconosciuta la sovranità, al modo di uno stato, su un quartiere della città di Roma, importanti indennizzi finanziari, e, soprattutto, la possibilità di una rinnovata egemonia religiosa sugli italiani, in particolare con la possibilità di controllare l’istruzione religiosa nella scuola statale.
 Al centro della critica politica del Manifesto di Ventotene  vi è l’evoluzione degli stati nazionali europei  che li avevi portati a combattersi incessantemente.
 Che cosa è lo stato nazionale.
 Questa espressione è composta di due parole: stato e nazione.
 Bisogna capire questo: storicamente lo stato, come istituzione politica di vertice, in Europa non nasce come nazionale.
  Il concetto di nazione  in senso politico   si sviluppa sostanzialmente tra il Settecento e l’Ottocento. Nell’Ottocento si produce una nazionalizzazione  politica degli stati europei. L’ideologia politica dello stato nazionale  emerge in quell’epoca.
 La costruzione degli stati nazionali  in Europa è però di molto precedente: la si fa risalire al Duecento. Qualche giorno fa ho ricordato la figura di Giovanna d’Arco, vissuta nel Quattrocento, e vediamo la santa in una guerra sostanzialmente volta alla consolidamento di uno stato nazionale, contrastando il dominio che all’epoca ancora esercitava in Francia la monarchia inglese.
 Che cos’è lo stato? Uno stato è un’organizzazione politica che domina su una popolazione stanziata su un territorio e che non ammette sopra di sé poteri superiori, salvo che sul base consensuale, quindi sulla base di accordi. 
 Che cos’è la nazione: è un popolo che ha una storia e una cultura comuni, quindi legato storicamente da relazioni più intense che con i popoli intorno, ciò che si può manifestare con una lingua o una religione prevalenti e altri costumi sociali, che possono riguardare vari ambiti, in particolare l’industria, il commercio, la famiglia, ma anche in un passato di coalizioni militari per la difesa di interessi comuni. Nell’Ottocento, che possiamo considerare il secolo in cui originarono i nazionalismi europei, si aveva però chiaro che la nazione preesiste ma anche si costruisce: si ricorda in merito la frase di Massimo D’Azeglio (1798-1866), verso il  termine del processo di unificazione nazionale italiana, dopo la costituzione del Regno d’Italia nel 1861, “la nazione è fatta, bisogna fare gli italiani”.
  Il processo di nazionalizzazione degli stati europei, nel senso di affermazione dell’ideologia nazionalista di quegli stati, si sviluppa tra l’Ottocento e il Novecento è sbocca nei totalitarismi europei del Novecento e nei conflitti mondiali  tra il 1914 e il 1945. Quei conflitti divennero mondiali  innanzi tutto perché coinvolsero un mondo ancora dominato in gran parte da potenze europee.  Coinvolsero anche il Giappone che, all’epoca, agiva politicamene al modo dei nazionalismi europei.

16. Noi e i problemi europei

16.1 Perché e, soprattutto, per chi scrivo queste note?   Scrivo principalmente per persone di fede che vogliono fare tirocinio di democrazia.  Faccio il lavoro che una volta si attendeva dai più anziani: spiegare il senso delle cose sulla base di un’esperienza personale e tramandare conoscenze e tradizioni. E’ ciò che dovrebbe essere di routine nella formazione religiosa di secondo e terzo di livello, ma non mi pare che in genere si riesca a farlo. Il tempo in cui si riesce ad avere la disponibilità della gente è poco. Si prova a raccontare un po’ di storia sacra e si spera di poter completare in seguito. Molti però si allontanano prima che si possa approfondire. Allora può avvenire che il fedele non sia preparato a fare quello che da lui ci si attende oggi in religione, vale a dire di cercare di fare dell’umanità un’unica famiglia. Non è cosa che possa riuscire incollando  progressivamente famiglia a famiglia, fino a fare di tutta l’umanità un’unica tribù. L’unificazione pacifica della  famiglia umana, questa è l’espressione che ricorre in religione per definire quell’obiettivo strategico, richiede di fare politica, che appunto è l’arte di governare le società umane in modo che la gente, tentando di fare i propri interessi, non metta mano alle armi e cominci ad ammazzarsi. E, ormai, si tratta di fare politica a livello continentale, vale a dire almeno europeo, perché, a causa delle vaste  interconnessioni che si sono create in tutti i campi nell’umanità contemporanea, anche i problemi si presentano su quella scala. Ce se ne accorge subito quando si tenta di far fronte a problemi continentali con le risorse di un singolo stato nazionale. Se, ad esempio, consideriamo l’ultima fase di recessione economica, iniziata dal 2008 negli Stati Uniti d’America e ancora in corso, capiamo bene che essa avrebbe travolto gli stati nazionali europei se non ci fosse stata una reazione a livello europeo, resa possibile dall’esistenza di istituzioni europee forti. Analogamente accade nella questione delle  migrazioni verso l’Europa di popoli dall’Africa, dall’Asia e dall’Europa orientale. Nessuno stato nazionale ha la forza di farvi fronte da solo e, in particolare, non può farlo chiudendo le frontiere, vale a dire immaginando di chiudere le porte  di uno stato come si fa quando la sera si danno le mandate alle porte di casa. Perché la storia, anche recente, insegna che si possono impedire migrazioni dall’interno verso l’esterno, ma non nella direzione contraria. Vale a dire che è possibile impedire a cittadini, quindi a persone radicate in un sistema politico-istituzionale nel quale hanno riconosciuta un’identità, di andarsene all’estero, ma nessuno è mai riuscito a impedire del tutto  ad apolidi, vale a dire a persone che hanno perso o rifiutato quell’identità politico-istituzionale, di entrare in un territorio governato da un diverso sistema politico istituzionale, anche se molto deciso ad ostacolarli con misure di polizia e addirittura militari, e ciò in particolare in tempi di crisi economica, nelle migrazioni da posti dove si vive male, e addirittura malissimo, a posti dove si vive meglio. I politici che predicano cose diverse valgono poco, perché non tengono conto della lezione della storia e quindi sono come guide cieche.
  Ho scritto di lezione della storia. Questo è molto importante: per fare politica occorre conoscere almeno un po’ di storia, perché in politica non si parte mai da zero. E’ come quando in stazione si sale su un treno e bisogna informarsi su dove va e prendere quello che va dove vogliamo andare. E, innanzi tutto,  decidere dove si vuole andare.
  Si parla di ricorsi storici: date certe condizioni, eventi storici si ripetono simili. Questo  è un altro buon motivo per informarsi di storia.
  Quando a scuola, da ragazzi, ci si annoia nelle lezioni di storia, forse è perché non si ha ben chiara l’importanza che essa ha e avrà sempre più, da adulti,  per la propria vita. Certo, è acqua passata, ma conta, perché l’umanità la prende come riferimento per dare un senso a ciò che fa e decide. Essa è tanto importante da essere ritenuta costitutiva del concetto di nazione, che sta dietro sistemi politico-istituzionali molto vasti e potenti, tanto da determinare gran parte di ciò che i singoli esseri umani possono essere, diventare, fare. Ad esempio il Regno d’Italia, costituito nel 1861  e sostituito  nel 1946 all’esito di un referendum popolare dalla Repubblica italiana, era uno stato nazionale. E la nostra  Repubblica, lo è? Che ne pensate?
16.2 La domanda è“La Repubblica italiana è un nazione?”.  Non ho chiesto  se l’Italia  sia una nazione, ma se lo fosse la nostra Repubblica. C’è una differenza ed essa consiste nella mitologia  che c’è dietro l’idea di nazione.
  Un mito  è un storia semplificata e  piuttosto fantasiosa, e per questo in genere anche affascinante, che spiega  il senso  che si vuole dare a un storia che spesso senso coerente non ha o se lo ha è molto più complesso di quello che si preferirebbe fosse. Diversi miti sono contenuti nelle scritture sacre delle religioni. Li troviamo anche nelle nostre. Definiscono più quello che si vorrebbe essere, e in definitiva diventare, più che quello che si è veramente stati e si è. L’idea di Italia che fu alla base del nostro nazionalismo ottocentesco, il quale produsse  un movimento politico e militare di popolo e varie guerre fra stati, conteneva molti miti. Se, invece che all’Italia,  mi riferisco alla Repubblica italiana mi impegno a osservare ciò che è, facendo a meno di quei miti.
  Un ampio utilizzo della mitologia fu invece fatto dal regime fascista storico, che dominò il Regno d’Italia dal 1922 al 1945. Lo costruì scegliendo arbitrariamente nella storia italiana alcuni eventi e strumentalizzandoli per indicare, in realtà, ciò che voleva che l’Italia divenisse. Il fascismo storico pensò sé stesso come erede legittimo della  romanità, e in particolare di quella espressa dall’antico impero romano stanziato in Italia, quello che visse nell’era che si definisce classica,  centrato su Roma (la storia dell’impero romano dalla fine del  terzo secolo della nostra era fu invece sempre più centrata su Bisanzio, in Oriente). Riteneva di essere veicolo di civilizzazione e in questo integrò nella sua ideologia la nostra confessione religiosa: questa fu la base ideologica della Conciliazione conclusa tra il Regno d’Italia e la Santa Sede (che significa il papato romano), ma mediata dal fascismo italiano: per quest’ultimo e l’organizzazione ecclesiastica quei patti furono ben più di un accordo di compromesso. Religione e partito politico totalitario si rafforzarono a vicenda, cessò l’ostilità del regime verso la religione e quella del potere ecclesiastico verso il regime, sulla base di una precisa delimitazione di campo d’azione, sia pure con iniziali recrudescenze di conflitti verso quelle organizzazioni di stampo religioso che non rispettavano i confini posti da quegli accordi. Questa è oggi una memoria dolorosa, spiacevole, in religione e in genere si preferisce costruire sopra quei fatti, avvertiti ora come disonorevoli, un mito  resistenziale delle nostre organizzazioni religiose coeve al fascismo che non corrisponde alla realtà se non in minima parte. Negli anni ’30 la  nostra religione, in Italia, si fascistizzò e la religione fu integrata nel nazionalismo fascista. Le guerre coloniali del regime, in Libia e in Etiopia, vennero presentate anche come imprese di civilizzazione religiosa e questo nonostante che in Etiopia si combattesse contro cristiani di antichissima tradizione. Non ci fu all’epoca una reale opposizione dei nostri capi religiosi, in particolare del papato. Il fascismo storico immaginò una nazione imperiale cristiana e in questo non trovò reali smentite da parte di quello che, allora come oggi, concepiva sé stesso come un impero religioso e storicamente aveva tenuto a marcare nettamente i confini per difendersi dalle ingerenze dei poteri civili. La Conciliazione  fu definita come opera della Provvidenza e ci si condusse poi di conseguenza per circa una decina d’anni. Poi cominciarono effettivamente le prese di distanza.
  L’idea di nazione  che stava dietro i moti di unificazione nazionale era più simile a quella che ai tempi nostri ne abbiamo e derivava dal pensiero di Giuseppe Mazzini (1805-1872). Si pensava che vi fosse un  popolo umiliato da potenze straniere perché diviso e che si dovesse elevarlo alla sovranità, innanzi tutto facendone un unico stato. Nel pensiero di Mazzini questo doveva avvenire realizzando anche una democrazia, quindi un sistema politico istituzionale che consentisse un’ampia partecipazione popolare alle decisioni di governo. Mazzini aveva un’idea religiosa di questa democrazia di popolo: la pensava fondata su principi supremi di origine divina. In questo contesto il moto democratico avrebbe dovuto coinvolgere, e liberare, tutti i popoli europei e affratellarli.  Questa ideologia si manifesta chiaramente nelle parole del nostro inno nazionale Fratelli d’Italia.
 L’idea di nazione  del fascismo era diversa e ne ho scritto sopra.
 L’idea di nazione  che  prevalse tra le forze politiche che, dopo aver vinto la guerra di resistenza contro il fascismo, progettarono la nostra Repubblica era simile a quella del Mazzini, ma con molto di più. Infatti andava oltre  il concetto di nazione che era stato alla base del movimento per l’unificazione nazionale italiana e, rovesciando l’ideologia nazionalista fascista, prevedeva un ordinamento politico istituzionale in cui non si distinguesse tra le persone sulla base della razza, della lingua e della religione (art. 3 della Costituzione), tre elementi che si erano ritenuti fondamentali per definire la nazione.
  Di fatto, la Repubblica italiana iniziò la sua vita come stato nazionale, nel senso di stato che comprendesse tutti gli italiani di stirpe, lingua, cultura e religione, come aveva voluto essere quello fascista, ma senza più l’ambizione imperiale, anzi con l’impegno di limitare le proprie pretese nazionalistiche se ciò fosse necessario per un assetto internazionale pacifico sulla base di accordi con gli tri stati. Molti dei miti  del fascismo sopravvissero nell’era della repubblica democratica. In particolare quello che integrava nell’ideologia nazionale la nostra religione. Ma progressivamente ad essi si sostituì una realtà molto diversa basata su sviluppi caratteristici del nuovo mondo in cui l’Italia si era trovata a vivere dopo l'affrancamento dal fascismo. Nell’ideologia nazionalista, come è vissuta oggi in concreto dalla gente, l’etnia, quindi la stirpe, e la religione hanno molto meno importanza di un tempo, sono molto meno caratterizzanti. Ci si è molto mescolati tra le genti delle varie regioni italiane, che in gran parte corrispondono alle ripartizioni territoriali degli stati precedenti all’unificazione nazionale. La lunga pratica della libertà di coscienza ha permesso scelte diverse in materia religiosa, in particolare anche di ateismo o  di indifferenza religiosa, senza che ciò sia più sentito come squalificante sul piano civile. Hanno avuto invece un potentissimo ruolo nella costruzione di una nuova identità nazionale l’istruzione pubblica di massa e il sistema radiotelevisivo pubblico, quindi poi l'affermarsi dell'italiano scolastico sui dialetti, la vasta partecipazione ad un mercato del lavoro su scala nazionale resa possibile dall’espansione economica vissuta in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso e, soprattutto, il consumismo popolare, che ha creato modi di vivere, e di desiderare, quindi anche prospettive  di vita, molto simili in tutte le regioni d’Italia. La nostra Repubblica però sta ancora diventando  una nazione come non c’è mai stata prima: la costruzione nazionale è quindi ancora in divenire. L’integrazione europea ha poi consentito ai più giovani di iniziare a costruirsi un’identità civica continentale,  con sempre più fitte relazioni con le genti europee di altre lingue e culture. Ed è sbagliato, quando ci riferisce ai nostri giovani che studiano o lavorano in altri stati dell’Unione Europea, parlarne come di migranti, come gli italiani che emigrarono in massa alla volta dell’America e dell’Australia dalla fine dell’Ottocento fino più o meno agli anni ’30 del secolo scorso, ma anche quelli che emigrarono nel Nord Europa in epoca più recente. I giovani di oggi girano l’Europa da cittadini europei, partecipi di una cultura politica, istituzionale, economica e sociale sovranazionale nella quale sta producendosi una nuova nazionalità europea, simboleggiata dalla bandiera a dodici stelle in campo azzurro dell’Unione Europea.
 Su questo nuovo contesto nazionale ed  europeo si è abbattuta la fase di recessione economica che stiamo attualmente vivendo, derivata fondamentalmente dalla globalizzazione dell’economia, e stanno incidendo in maniera sempre più rilevante le migrazioni  di popoli dall’Europa orientale, dall’Africa, dall’Asia  e dall’America Latina, non attirati tanto dal nostro benessere economico, ma innanzi tutto dalla possibilità concreta di una vita libera, sicura e dignitosa.  Si tratta di popoli che prendono sul serio le nostre dichiarazioni di principio su grandi valori umani. A fronte di questo c’è chi propone di tornare al vecchio nazionalismo di tipo clerico-fascista, e con questa espressione intendo riferirmi a ciò che uscì dalla Conciliazione  di cui ho scritto. Ma,  a prescindere da tutte le altre controindicazioni, quell’ideologia era strumento di una politica di espansione militare  in Europa e in Africa, mentre ora si vorrebbe bloccare l’arrivo dei nuovi venuti, non di andare a invadere i posti da dove ci giungono. E anche il vecchio nazionalismo che sorresse il processo di unificazione statale italiana rispondeva a problemi diversi: si proponeva di mandare  fuori d’Italia le potenze straniere che all'epoca la occupavano, e in particolare l’Impero austriaco, non di contrastare migrazioni  di massa da altri continenti  verso l’Italia che all'epoca non solo non c’erano ma non erano nemmeno immaginabili. Ma anche l’ideologia nazionalista repubblicana, come si è venuta costruendo dalla metà degli anni Quaranta ad oggi, non sembra andare bene perché, in definitiva, si limita a unire, legandoli culturalmente, gruppi, ceti, classi, etnie, movimenti, religioni che già erano insediati da noi da lungo tempo e hanno beneficiato dello statuto di eguaglianza in dignità riconosciuta dal nuovo assetto politico istituzionale democratico, ma sembra insufficiente per costruire l’integrazione  delle masse di migranti che, provenienti non solo da altri continenti, ma da altre culture, giungono tra noi rivendicando la medesima eguaglianza, come diritto umano fondamentale. Che fare dunque? Che ne pensate? Innanzi tutto: vi ponete il problema del che fare? L’attuale dottrina sociale, veramente tanto diversa dall’antico clerico-fascismo che in Italia si produsse dopo la Conciliazione  del 1929, ci impegna a pensarci. E quando scrivo “ci impegna” significa che non ci spinge solo a rifletterci sopra, ma a progettare e costruire una nuova realtà sociale, in linea con i nostri valori di fede: questo è politica.

17. Un mandarino per Teo


[Dal Manifesto di Ventotene, 1941, di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l'uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale che non lo rispettino:
1. Si è affermato l'eguale diritto a tutte le nazioni di organizzarsi in stati indipendenti. Ogni popolo, individuato nelle sue caratteristiche etniche geografiche linguistiche e storiche, doveva trovare nell'organismo statale, creato per proprio conto secondo la sua particolare concezione della vita politica, lo strumento per soddisfare nel modo migliore ai suoi bisogni, indipendentemente da ogni intervento estraneo.
  L'ideologia dell'indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l'oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere, dentro il territorio di ciascun nuovo stato, alle popolazioni più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati t talitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali.
  La nazione non è più ora considerata come lo storico prodotto della convivenza degli uomini, che, pervenuti, grazie ad un lungo processo, ad una maggiore uniformità di costumi e di aspirazioni, trovano nel loro stato la forma più efficace per organizzare la vita collettiva entro il quadro di tutta la società umana. E' invece divenuta un'entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possono risentirne. La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo "spazio vitale" territori sempre più vasti che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquietarsi che nell'egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti.
  In conseguenza lo stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi, tenuti a servirlo con tutte le facoltà per rendere massima l'efficienza bellica. Anche nei periodi di pace, considerati come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive, la volontà dei ceti militari predomina ormai, in molti paesi, su quella dei ceti civili, rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi; la scuola, la scienza, la produzione, l'organismo amministrativo sono principalmente diretti ad aumentare il potenziale bellico; le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più tenera età al mestiere delle armi e dell'odio per gli stranieri; le libertà individuali si riducono a nulla dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestar servizio militare; le guerre a ripetizione costringono ad abbandonare la famiglia, l'impiego, gli averi ed a sacrificare la vita stessa per obiettivi di cui nessuno capisce veramente il valore, ed in poche giornate distruggono i risultati di decenni di sforzi compiuti per aumentare il benessere collettivo.

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 Nel 1960 c’era al teatro Sistina di Roma la commedia di Garinei e Giovannini di Pietro Garinei e Sandro Giovannini Un mandarino per Teo, nella quale il diavolo proponeva a un uomo di ereditare un mucchio di soldi uccidendo un mandarino in Cina con il premere il  pulsante di un campanello, senza rischiare nulla. Il protagonista lo fa,  riceve un anticipo dell’eredità, si dà alla bella vita, ma poi gli viene rivelato che si tratta di firmare un patto con il diavolo, ha una crisi di coscienza e, per liberarsi dalla soggezione al demonio, restituisce tutti il denaro ricevuto. La trama di quella commedia propone il dilemma di coscienza in cui tutti noi cittadini europei ci troviamo. Infatti il nostro benessere dipende dalla sofferenza di gente lontana, di lavoratori-schiavi che producono gran parte delle nostre cose di nostro uso quotidiano, dal vestiario al computer con il quale sto scrivendo, per salari bassissimi, ciò che rende possibile i prezzi bassi che vengono praticati da noi. Si tratta di persone umane, ma, appunto, molto lontane, in genere in Asia, e allora non ci facciamo tanti problemi. Ma lavoratori schiavi ci sono anche da noi, ci raccontano le cronache giornalistiche e ci confermano le inchieste giudiziarie: in particolare sono quelli che raccolgono il pomodoro e diversi tipo di frutta. Ma la gran parte di loro sono irregolarmente in Italia e quindi non protestano per non rischiare guai con la polizia e la legge. Oltre a ciò, c’è altra gente che lavora in condizioni difficili, perché costretta a ritmi di produzione molto serrati e duri, e tra di essa ci sono anche molti giovani italiani. In genere per tutte queste persone il lavoro è precario, vale a dire che possono essere licenziati senza tanti problemi. Chi è in queste condizioni difficilmente protesta e si associa ai sindacati, per non subire ritorsioni sul lavoro. C’è un libro, disponibile anche in formato digitale, che racconta tutto questo, di Giovanni Arduino e Loredana Lipperini, Schiavi di un dio minore - Sfruttati, illusi e arrabbiati,  UTET, 2016, €11,40 in formato cartaceo, €7,99 in ebook. Ve ne consiglio la lettura, così, in particolare avrete qualche idea in più quando in confessione non vi viene in mente nulla di più dei soliti peccati di routine, sesso, maldicenza, messe saltate. Noi Occidentali siamo tutti colpevoli di un tremendo peccato sociale che consiste nel trattamento ingiusto di lavoratori lontani, che non conosciamo, un peccato di quelli che, è scritto, grida, nel senso che trova ascolto soprannaturale molto più di altri. E’ la conseguenza di un ordine sociale ingiusto a livello globale del quale ci siamo fatti complici, per interesse. Cambiare non si può con le risorse di un singolo stato nazionale. Bisogna infatti incidere su un sistema che si estende a livello intercontinentale. Ma, in fondo, vogliamo veramente cambiare le cose? Eppure queste cose  stanno cambiando anche noi, perché i patti con il demonio sono sempre distruttivi per la parte debole, vale a dire per l’essere umano che li conclude. Ecco che allora questo sistema sta privando del futuro i nostri figli.
  Uno dei maestri del pensiero che più chiaramente ci ha spiegato il problema è stato l’anziano sociologo polacco Zygmunt Bauman, morto qualche giorno fa. Lo ha fatto con diversi libri divulgativi (la sociologia contemporanea è una scienza molto complessa, in cui si impiegano sofisticati modelli di matematica statistica), a partire dal più famoso: Modernità liquida,  del 2000, che  è in commercio in traduzione italiana edito da Laterza. Se dovessi programmare un ciclo di incontri in parrocchia con persone dell’età dell’università, tra i 18 e 25 anni, lo metterei come libro di testo. A proposito: ricordate bene che non si ragiona insieme su nulla senza avere un buon libro di testo. Ci deve essere una base comune. E le Scritture non bastano. Francesco d’Assisi sbagliava pensandola diversamente: sbagliava già ai suoi tempi, ma tanto più il suo pensiero in questo non va bene ai nostri tempi e, soprattutto, non va bene per chi voglia elevarsi alla cittadinanza e abbia bisogno di capire realisticamente ciò che accade.
 C’è stata in Europa un’evoluzione storica che ha portato agli stati nazionali, dal Duecento al Cinquecento. Ma in Italia siamo arrivati molto più tardi, nell’Ottocento. E quando ci si è arrivati, si è prodotto un grosso problema religioso, perché il papato possedeva uno degli stati che si voleva abolire per realizzare l’Italia unita.
  Ad un certo punto, le masse, sviluppandosi istituzioni democratiche, hanno contato di più negli stati nazionali, che hanno iniziato a occuparsi della gente comune sviluppando politiche di giustizia sociale e di sviluppo collettivo. E’ a questo che si riferirono gli autori del Manifesto di Ventotene, scrivendo che “L'ideologia dell'indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso”,  per il quale  furono superati meschini campanilismi  e furono estesi, dentro il territorio di ciascun nuovo stato, alle popolazioni più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili.  Poi però segnalano l’involuzione degli stati nazionali, che guidati da oligarchie liberate o non sufficientemente trattenute dai vincoli democratici si impadronirono dei loro popoli facendone strumento di una politica di potenza imperialista, diretta a imporre l’egemonia di uno stato sugli altri. Ebbero in questo, in particolare, l’immagine dell’involuzione del Regno d’Italia, lo stato nazionale italiano costituito nel 1861, a seguito della fascistizzazione del regime politico. L’istituzione della Repubblica italiana, nel 1946, andò in senso contrario, riportando lo stato nelle mani della gente comune, attraverso processi democratici che, per la prima volta in Italia, coinvolsero le donne. Tra le masse femminili più preparate a questo nuovo impegno politico ci furono le donne dell’Azione Cattolica, che dettero un contributo determinante alla politica nazionale, sia con loro voto che con l’impegno nell’Assemblea Costituente e poi in Parlamento.  Al centro dell’impegno del nuovo stato nazionale democratico furono le riforme sociali, in ogni campo del lavoro, a fini di giustizia sociale e di estensione del benessere collettivo alle masse.  Presto si capì che questo lavoro richiedeva collaborazione internazionale, in particolare a livello europeo, e si progettarono le istituzioni sovranazionali dalle quali, in un lungo processo dal 1951 al 2009 scaturì la nostra nuova Europa, che non è solo un’istituzione dei banchieri, mercanti e commercianti, come ritengono alcuni politici populisti di oggi, ma è centrata su un catalogo di diritti fondamentali, che potete leggere nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata nel 2000 a Nizza ed entrata in vigore, anche come legge vigente nella Repubblica italiana, il 1 dicembre 2009 (sul Web: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex:12016P/TXT).
  Bauman  ha spiegato che l’economia globalizzata, dove si produce, si spostano capitali (il denaro impiegato nella produzione  nel commercio) e commercia secondo criteri condivisi in tutto il mondo come se fosse un'unica nazione, ha sovrastato il potere degli stati nazionali e delle stesse istituzioni politiche sovranazionali, esprimendo un potere anonimo, non centrato quindi su uno o più imperatori del mondo, ma effettivo, che viene spesso evocato con l’espressione “i mercati”. Le vite della gente comune sono  asservite ad esso, in particolare quella che è legata ad un certo posto e non ha né la voglia né la possibilità di spostarsi. In particolare si vive in una crescente condizione di insicurezza sul proprio destino, a riguardo del lavoro ma anche in altre cose, come la salute e la sicurezza da aggressioni di vario tipo. Si ha la sensazione che il mondo in cui si vive sia divenuto instabile, che valga fino a nuova notifica. Tutto può cambiare molto velocemente e la gente è invitata ad adattarsi a questa nuova situazione. Anche i governi degli stati nazionali, quelli democratici come quelli non democratici, e addirittura il Presidente degli Stati Uniti d’America, che per ora rappresenta il massimo del potere mondiale che sia oggi attribuito ad una persona, non ci possono fare molto. Ci viene così imposto un nuovo stile di vita in cui il saper fare  conta molto meno e invece conta di più il saper essere, le relazioni che si riescono a sviluppare, ma senza legami forti, in maniera tale da potersene liberare in un secondo quando non servono più. E’ la mentalità dei consumatori dei nostri tempi, che vaga in mezzo a offerte commerciali che sembrano infinite, per cui l’ultima cosa a cui si pensa è di concentrarsi su un determinato stile di vita, perché si pensa che il benessere consista nel cogliere tutte  le opportunità che all’infinito  si presentano. In questo modo le relazioni veramente significative per le persone divengono più rare, vengono sentite come limitanti: è questa la causa dell’apparente crisi dell’istituzione matrimoniale. Ed essendo tutti presi dal proprio benessere, non si pensa alla sofferenza che c’è dietro la produzione di tante cose di uso quotidiano, che arraffiamo senza tanti problemi dagli scaffali dei grandi magazzini e poi presto buttiamo. La nostra è diventata una civiltà dello scarto  ci dice il nostro Padre Francesco, e tra gli scarti sono finiti anche gli esseri umani. Ad un certo punto può accadere anche a noi stessi di venire scartati  se, ad un certo punto, non riusciamo a tenere il ritmo.
 Di questi tempi c’è in Europa un ritorno del nazionalismo populista, anche da noi. Ma il neo-stato nazionale, ormai inutile a salvarci dal processo di scarto  dell’economia globalizzata, è pensato non come difesa dalle potenti forze che stanno guastando la nostra vita, ma come forma di chiusura verso che vive i nostri stessi guai, per chiudere le porte  alle sofferenze altrui, illudendosi così di riuscire a trattenere per noi, solo per noi, le poche risorse rimaste. Il neo-stato nazionale  è in fondo uno di quei meschini  (e inutili) campanilismi  disprezzati dagli autori del Manifesto di Ventotene.
  Ma l’evoluzione omicida dell’economia globalizzata non dipende da potenze soprannaturali: anche se il potere non ha più il volto dell’uomo forte  nel quale in passato veniva  impersonato e quindi è anonimo un po’ come una grande società di capitali della quale non si conosca il presidente del consiglio di amministrazione, è tuttavia semplicemente un’istituzione umana, che può essere descritta e capita, anche se il suo funzionamento è divenuto bizzarro e imprevedibile. Il potere globale è un insieme di norme e di istituzioni, concordate dagli stati nazionali e dalle istituzioni sovranazionali, per cui si è uniformato il modo di produrre, commerciare e trasferire capitali. Si è creato un sistema globale che ha lasciato campo libero ad una nuova classe dirigente globale, libera di muoversi senza tener conto delle frontiere nazionali  per fare i propri interessi, mentre la gran parte dell’umanità vi è ancora asservita, come i disperati i quali, prendendo esempio da quelli che Bauman chiama cittadini globali, cercano di raggiungere l’Europa per salvarsi da vite miserabili. Questo nuovo potere, sostiene Bauman, non ha più bisogno di estesi apparati di polizia per tenerci sotto controllo: siamo noi stessi a rendercene schiavi, adottando l’ideologia e lo stile di vita che ci separano dagli altri, dei quali non facciamo più conto anche se stanno molto male. In definitiva noi, da consumatori globali, stiamo divenendo insieme complici e schiavi di questo sistema. Gli attori principali di questo scenario sanno bene chi sono le vittime del sistema e le cause delle loro sofferenze, ma ci invitano a disinteressarcene. E’ la proposta che il demonio fa a Teo, il protagonista della commedia che ho citato all’inizio. E noi, aderendo all’invito, firmiamo una specie di patto con il demonio, autodistruttivo. La soluzione? Bauman la indica: riscoprire la cittadinanza vera, le relazioni forti, e unirci per cambiare un sistema che sta prendendo una brutta piega. Si tratta di costruire una vera cittadinanza globale, cogliendo così le opportunità positive della globalizzazione, in modo che ciascun essere umano si senta in tutto il mondo  a casa propria. In altre parole: fare dell’umanità un’unica famiglia, secondo i nostri auspici religiosi. Questo però richiede anche una giustizia sociale  su scala globale, come è spiegato nell’enciclica Laudato si’. Non potremo salvarci se non cambiando molto i nostri stili di vita, facendo posto agli altri.
 Come si vede è una sfida più estesa di quella che si presentava agli autori del Manifesto di Ventotene, i quali avevano essenzialmente davanti problemi su  scala europea e proponevano soluzioni europee. Ai  tempi nostri l’Europa  è solo il punto di inizio, ma un punto di inizio indispensabile perché i problemi posti dalla globalizzazione dell’economia non possono che avere soluzioni su scala continentale.

18.  In una fase di transizione

[Dal Manifesto di Ventotene, scritto del 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

Gli stati totalitari sono quelli che hanno reali nel modo più coerente la unificazione di tutte le forze, attuando il massimo di accentramento e di autarchia, e si sono perciò dimostrati gli organismi più adatti all'odierno ambiente internazionale. Basta che una nazione faccia un passo più avanti verso un più accentuato totalitarismo, perché sia seguita dalle altre nazioni, trascinate nello stesso solco dalla volontà di sopravvivere. 

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  Qualche giorno fa è morto l’anziano sociologo polacco Zygmunt Bauman, autore di numerosi scritti divulgativi di grande successo che cercano di far capire alla gente comune che cosa le accade intorno. Ha osservato che con la globalizzazione, il processo culturale ed economico a livello mondiale che ha molto ridotto le differenze tra i popoli e li ha portati a legarsi in una fitta rete di relazioni divenendo interdipendenti, gli stati nazionali  hanno molto meno potere e si sono allentate, divenendo da solide  a  liquide,  le relazioni sociali al loro interno.
  Dopo la morte di Bauman si stanno riproponendo alcuni sui interventi televisivi e l’altro ieri mi è capitato di guardarne uno su Rai Storia, in cui si parlava dell’evoluzione della situazione europea. Bauman ha esposto a grandi linee il suo pensiero.  Lo stato nazionale  è nato per esercitare un forte potere di controllo su una popolazione che condivide molte caratteristiche culturali ed etniche, unificandone le forze  e rendendosi così autosufficiente, ha detto. Gli stati nazionali dal Cinquecento  fino alla metà del secolo scorso  hanno espresso il massimo potere politico e nazionale delle collettività umane. E tra glistati nazionali più potenti ci sono stati quelli totalitari, vale a dire quelli in cui il controllo al loro interno era arrivato al massimo grado, in cui le istituzioni statali non ammettono il dissenso e pretendono di regolare ogni aspetto della vita collettiva.  Un esempio di stato nazionale molto potente non totalitario è stato l’Impero britannico. Un esempio di stato nazionale totalitario molto potente è stata la Germania sotto il regime nazista. L’Unione Sovietica, che comprendeva gli immensi territori conquistati dall’Impero russo degli Zar, non era invece uno stato nazionale ma una Federazione di stati, sotto fortissimo controllo ideologico totalitario. Dalla dissoluzione dell’Unione sovietica è scaturito un nuovo stato nazionale  russo. Attualmente i sistemi politici più potenti nel mondo sono ancora stati nazionali e sono quelli degli Stati Uniti d’America, della Federazione Russa e della Repubblica popolare di Cina. Ma anche questi stati soggiacciono ora  a un potere più forte e impersonale, sostiene Bauman, che è dato dal quadro giuridico ed economico delle relazioni con le quali essi stessi, per convenienza di interesse, si sono legati e che di solito si evoca, anche se descriverlo riesce difficile, con il nome di mercati.
  Dal Cinquecento gli stati nazionali in fase di formazione o consolidamento si sono trovati ad affrontare la crisi molto grave determinata dalle divergenze religiose al loro interno, ma anche dai problemi di coesistenza in tempi in cui essi divenivano sempre più potenti e sviluppavano mire di conquista nei confronti dei confinanti. Furono quindi travagliati da un lungo periodo di conflitti bellici che terminarono con accordi di pace conclusi nella provincia tedesca della Vestfalia nel 1648,con i quali  si confermò il principio affermato circa un secolo prima ad Augusta (città tedesca. In tedesco Ausburg) che il sovrano avesse il potere di determinare la religione di stato, ma nel contempo si separarono gli affari religiosi da quelli di stato, e furono risolte varie questioni territoriali. Da ciò si ritiene che sia sorta l'Europa moderna. Per altro questa sistemazione fu molto più efficace a garantire il controllo  all’interno  degli stati nazionali, sulle popolazioni soggette, che  a mantenere un ordine internazionale  pacifico. Dopo la lunga fase di conflitti bellici tra il 1914 e il 1945 scaturì infine un nuovo ordine internazionale in cui gli stati nazionali,   al fine di mantenere la pace tra di loro, accettavano di rispettare le decisioni di grandi istituzioni sovranazionali create sulla base dell’affermazione di grandi principi umanitari, come le Nazioni Unite e le varie istituzioni sovranazionali, che in un processo durato dal 1951 al 2009, sono scaturite nell’attuale Unione Europea, organizzata a livello continentale. Sembrava realizzato l’obiettivo di un forte controllo interno  e di unefficiente controllo internazionale. Di fatto dal 1945 non sono più esplosi conflitti di portata mondiale, anche se gravi situazioni di tensione sono rimaste latenti e quindi sono rimaste le condizioni e, soprattutto, le organizzazioni militari che potrebbero farli scoppiare. E, in effetti, come sostiene i Papa, se consideriamo in uno sguardo d'insieme tutti i conflitti regionali che ci sono stati potremmo anche parlare di guerra mondiale a pezzi. Ma, in effetti, qualcosa come la Seconda guerra mondiale  non si è finora ripetuta.
  Con la globalizzazione sia il controllo interno  che quello  esterno sono divenuti molto meno efficienti. Siamo quindi, ha detto Bauman, in una fase di passaggio ad un diverso ordine internazionale, che necessariamente sarà a livello globale, per le fitte relazioni internazionali che consentono la sopravvivenza di un'umanità ormai fatta di circa sette miliardi di persone. Ma sembra difficile poterlo istituire con accordi internazionali come quelli di Vestfalia del 1648, perché   gli stati nazionali si sono molto indeboliti, perdendo il controllo della situazione, divenendo soggetti all’economia globalizzata della quale essi stessi hanno creato i presupposti giuridici, e anche le istituzioni sovranazionali, animate dagli stessi stati nazionali, sono entrate in crisi, perché, di fronte alle difficoltà, ogni sistema politico è ora tentato di fare da sé, chiudendosi  di fronte a problemi che sembrano provenire da fuori.
 Gli stati nazionali si sono indeboliti perché l’economia è stata resaextraterritoriale   e sfugge al loro controllo, così come anche la classe di imprenditori e dirigenti apicali d’impresa che la anima. Questo ha comportato dei vantaggi per le popolazioni: in Occidente ad esempio compriamo ancora a poco prezzo prodotti di uso comune, ma di alta qualità, realizzati in Oriente. In Oriente una classe di imprenditori si sta molto arricchendo con i profitti fatti in Occidente. Ne è immagine evidente il velocissimo  sviluppo urbanistico della Cina continentale, le cui maggiori città industriali e la cui capitale assomigliano sempre più al modello della città statunitense di New York. La gran parte degli oggetti domestici di uso comune sono fatti in Cina, o comunque in Oriente, anche il computer che sto utilizzando in questo momento. Però i  prodotti a tecnologia più sofisticata sono spesso ancora prodotti su progetto di imprese occidentali. La protezione dei diritti di chi progetta i prodotti, che viene definita proprietà intellettuale, è parte di quel sistema normativo globale che consente la realtà economica dellaglobalizzazione, in cui si può liberamente produrre e commerciare in tutto il mondo come se si fosse sempre all'interno di un unico sistema politico, di un solo stato. Che cosa consente agli Occidentali di prevalere ancora nel mercato globale  se, in definitiva, la gran parte di ciò che si produce è realizzata in Oriente? Che cosa diamo in cambio? Fondamentalmente l’Occidente vende ancora sé medesimo, il proprio modello di umanità, la propria civiltà anche se prevalentemente nei suoi aspetti consumistici. Quando uno diventa molto ricco in Oriente tende ancora a vivere, vestirsi, mangiare, divertirsi, acquistare cose belle, istruirsi come i ricchi occidentali. Durerà? Per Bauman siamo in una fase di transizione, quindi non durerà.
  E’ difficile scorgere il futuro, la sua evoluzione. Nel mondo ci sono tre grandi sistemi nazionali  prevalenti: quello statunitense, ancora democratico; quello russo, che ha elementi di democrazia e di totalitarismo; quello cinese che è ancora totalitario. Apparentemente essi stanno convergendo verso un modello che combina elementi di democrazia e di totalitarismo, come nella Russia di oggi.  Sono diventati molto critici verso le istituzioni sovranazionali che finora hanno garantito la pace mondiale. In particolare lo è stato il presidente statunitense eletto Donald Trump. Nei giorni scorsi egli si è reso protagonista di una vera e propria aggressione verbale all’Unione Europea, sostanzialmente invitando gli stati suoi membri a lasciarla seguendo l’esempio britannico. Come fu scritto nel Manifesto di Ventotene, osservando la situazione della politica internazionale degli anni ’30 e ’40, gli stati  tendono ad imitarsi fra loro, quando si tratta disopravvivere e, in particolare, ad imitarsi in ciò che li sembra rendere più potenti. La Cina e il Giappone ne sono stati un esempio evidente: si sono occidentalizzati quando l'Occidente ha avuto il dominio del mondo. Dal secondo dopoguerra, quindi dalla caduta del fascismo e dall’istituzione della Repubblica, l’Italia fa riferimento all’ordine politico intercontinentale centrato sugli  Stati Uniti d’America e realizzato dalla NATO, l’organizzazione politico-militare che lega nord americani ed europei a scopi difensivi. Bisogna attendersi quindi che l’ideologia del presidente eletto Trump trovi seguaci anche da noi. Essa è condensata nello slogan “America first!”, vale a dire che prima di tutto vengono gli interessi nazionali. Il presidente eletto Trump vuole ad esempio rafforzare la frontiera con il Messico, costruendo una grande muraglia per impedire l’immigrazione da quello stato, e propone agli europei di fare altrettanto. La sua quindi è apparentemente una ideologia di chiusura  ai problemi del mondo. Essa è stata già seguita dai britannici. Per l’Italia ci sarebbero difficoltà a farlo, perché il nostro territorio  è fatto di isole e da una penisola e quindi la gran parte delle nostre frontiere sono marittime. Non si costruiscono muri sul mare. Ma storicamente, come ho scritto l’altro giorno, nessun sistema politico, anche quello che si è barricato dietro a  muraglie, e l'antica Cina con la sua Grande muraglia  ne è l'esempio storico più impressionante, è riuscito a impedire immigrazioni di apolidi. Neanche gli Stati Uniti d’America ci riusciranno, per quanto potenti pensino di essere. L’ideologia di chiusura  serve sostanzialmente a dare un’immagine  di sicurezza all’interno per consentire agli stati nazionali di recuperare un po’ del controllo sulle loro popolazioni che hanno perso nell’era della globalizzazione. Ma è solo un’immagine, perché la nostra sopravvivenza dipende ormai dalla fitta rete di relazioni, innanzi tutto economiche ma anche culturali, che legano i popoli della terra, per cui la soluzione dei nostri problemi o sarà globale  o non avrà alcuna efficacia, per cui si rimarrà soggetti a quel potere impersonale  di cui dicevo, che appare dominato dalla spietata legge della natura, dove il più grosso mangia  il più piccolo e i più grossi lottano tra loro a rischio della vita.
 Il punto, sosteneva Bauman, è che una soluzione soddisfacente a livello globale non si può centrare sull’aumento indefinito del PIL (Prodotto interno lordo), vale a dire della ricchezza prodotta e dei conseguenti consumi, perché questo  è insostenibile dal punto di vista ambientale. Questo significa che sarà necessario scoprire un nuovomodello di sviluppo e quindi poi una nuova civiltà, in cui si dia di nuovo valore a ciò che veramente crea il benessere umano, vale a dire a cose come rapporti umani positivi di vicinatola soddisfazione di far bene il proprio lavoro, e, aggiungo io, molto di ciò che comprendiamo nelle cose della fede. Non si tratta quindi di consumare di più, di avere di più, ma di essere diversi. L’alternativa è la ripresa dei conflitti a livello globale, un  nuovo bagno di sangue come quello che ci fu tra il 1914 e il 1945. E’ questo che porterà, se non corretta con decisione, la ripresa delle politiche di stato nazionale con accentuazione totalitaria, per reprimere il dissenso interno. Di questa insofferenza verso il dissenso cominciamo a notare qualche segno nello stile di questi giorni del presidente eletto statunitense Trump, con il fastidio che egli ha mostrato verso i giornalisti di organi di stampa che sono stati critici nei suoi confronti.
 Questa soluzione di un diverso modello di sviluppo, come base di un nuovo ordine mondiale pacifico, e di diversi stili di vita  per attuare quel modello  è al centro dell’enciclica Laudato si’, diffusa lo scorso anno dal Papa, che in parrocchia dovremmo adottare come libro di testo  di un gruppo di formazione religiosa di terzo livello, per giovani adulti che vogliano rispondere a pieno all'impegno laicale che si richiede oggi in religione, per cambiare il mondo secondo i valori di fede con un impegno sociale e politico.

19. L’evoluzione della storia animata da formazioni sociali

[dal Manifesto di Ventotene,  scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l'uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico […]
2.Si è affermato l'uguale diritto per i cittadini alla formazione della volontà dello stato. Questa doveva così risultare la sintesi delle mutevoli esigenze economiche e ideologiche di tutte le categorie sociali liberamente espresse. Tale organizzazione politica ha permesso di correggere, o almeno di attenuare, molte delle più stridenti ingiustizie ereditarie dai regimi passati. Ma la libertà di stampa e di associazione e la progressiva estensione del suffragio rendevano sempre più difficile la difesa dei vecchi privilegi mantenendo il sistema rappresentativo. I nullatenenti a poco a poco imparavano a servirsi di questi istrumenti per dare l'assalto ai diritti acquisiti dalle classi abbienti; le imposte speciali sui redditi non guadagnati e sulle successioni, le aliquote progressive sulle maggiori fortune, le esenzioni dei redditi minimi, e dei beni di prima necessità, la gratuità della scuola pubblica, l'aumento delle spese di assistenza e di previdenza sociale, le riforme agrarie, il controllo delle fabbriche, minacciavano i ceti privilegiati nelle loro più fortificate cittadelle.
  Anche i ceti privilegiati che avevano consentito all'uguaglianza dei diritti politici non potevano ammettere che le classi diseredate se ne valessero per cercare di realizzare quell'uguaglianza di fatto che avrebbe dato a tali diritti un contenuto concreto di effettiva libertà. Quando, dopo la fine della prima guerra mondiale, la minaccia divenne troppo forte, fu naturale che tali ceti applaudissero calorosamente ed appoggiassero le instaurazioni delle dittature che toglievano le armi legali di mano ai loro avversari.
  D'altra parte la formazione di giganteschi complessi industriali e bancari e di sindacati riunenti sotto un'unica direzione interi eserciti di lavoratori, sindacati e complessi che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo stato stesso in tante baronie economiche in acerba lotta tra loro.
Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si valevano per meglio sfruttare l'intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio,
e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, abolendo la libertà popolare, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a contenere.
  Di fatto poi i regimi totalitari hanno consolidato in complesso la posizione delle varie categorie sociali nei punti volta a volta raggiunti, ed hanno precluso, col controllo poliziesco di tutta la vita dei cittadini e con la violenta eliminazione dei dissenzienti, ogni possibilità legale di correzione dello stato di cose vigente. Si è così assicurata l'esistenza del ceto
assolutamente parassitario dei proprietari terrieri assenteisti, e dei redditieri che contribuiscono alla produzione sociale solo col tagliare le cedole dei loro titoli, dei ceti monopolistici e delle società a catena che sfruttano i consumatori e fanno volatilizzare i denari dei piccoli risparmiatori, dei plutocrati, che, nascosti dietro le quinte, tirano i fili degli uomini politici, per dirigere tutta la macchina dello stato a proprio esclusivo vantaggio, sotto l'apparenza del perseguimento dei superiori interessi nazionali
. Sono conservate le colossali fortune di pochi e la miseria delle grandi masse, escluse dalle possibilità di godere i frutti delle moderna cultura. E' salvato, nelle sue linee sostanziali, un regime economico in cui le risorse materiali e le forze di lavoro, che dovrebbero essere rivolte a soddisfare i bisogni fondamentali per lo sviluppo delle energie vitali umane, vengono invece indirizzate alla soddisfazione dei desideri più futili di coloro che sono in
grado di pagare i prezzi più alti
; un regime economico in cui, col diritto di successione, la potenza del denaro si perpetua nello stesso ceto, trasformandosi in un privilegio senza alcuna corrispondenza al valore sociale dei servizi effettivamente prestati, e il campo delle alternative ai proletari resta così ridotto che per vivere sono costretti a lasciarsi sfruttare da chi offra loro una qualsiasi possibilità d'impiego.
 Per tenere immobilizzate e sottomesse le classi operaie, i sindacati sono stati trasformati, da liberi organismi di lotta, diretti da individui che godevano la fiducia degli associati, in organi di sorveglianza poliziesca, sotto la direzione di impiegati scelti dal gruppo governante e ad esso solo responsabili. Se qualche correzione viene fatta a un tale regime economico, è sempre solo dettata dalle esigenze del militarismo, che hanno confluito con le reazionarie aspirazioni dei ceti privilegiati nel far sorgere e consolidare gli stati totalitari. 

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  Uno dei principali scogli da affrontare e superare nell’affrontare i problemi dell’umanità contemporanea con animo religioso, per fare nelle società il lavoro che ci si aspetta dai laici, è quello del considerare il mondo che c’è intorno prevalentemente sotto il profilo degli individui che lo compongono, non dei gruppi. Questo ostacola la critica sociale che è al fondo di ogni riforma. La troviamo, ad esempio, molto forte nell’enciclica Laudato si’, diffusa lo scorso anno; più forte di come mai è stata prima. E lo è per una sua particolarità che la distingue da tutti gli altri documenti del genere che sono stati diffusi in passato: di fronte ad una società che non va bene, illumina movimenti che vi si oppongono; questo il senso delle numerose citazioni di documenti di conferenze di vescovi di tutto il mondo. E si propone di suscitare un moto popolare  che sostenga un cambiamento radicale, un nuovo modello di sviluppo.

[dall’enciclica Laudato si’, del 2015, n.13 e 14 “Il mio appello”]
La sfida urgente di proteggere  la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di ogni sviluppo sostenibile e integrale, perché sappiamo che le cose possono cambiare. […] L’umanità ha ancora la capacità di collaborare per costruire la nostra casa comune […] Rivolgo un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta. Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti. Il movimento ecologico mondiale ha già percorso un lungo e ricco cammino, e ha dato vita a  numerose aggregazioni di cittadini che hanno favorito una presa di coscienza.

  L’ecologia  di cui si tratta nell’enciclica menzionata è molto distante dal senso che le si attribuisce nella società intorno a noi, come un’azione per preservare gli ambienti naturali  dall’azione distruttrice e inquinatrice delle attività umani, in particolare dell’espansione urbanistica e dell’industrializzazione. Essa comprende infatti anche la stessa umanità e, proponendosi un’ecologia umana, quindi uno sviluppo sostenibile, essa è essenzialmente politica, e i movimenti a cui si accenna in quel documento sono politici. Se leggiamo con attenzione la Laudato si’  vi cogliamo l’eco della critica sociale che troviamo anche nel Manifesto di Ventotene,  anche se espressa con terminologia inusuale nel gergo politico consueto.

[Dall’enciclica Laudato si’, n.139]
Quando parliamo di “ambiente” facciamo riferimento anche a una particolare relazione: quella tra la natura e la società che la abita. Questo ci impedisce di considerare la natura  come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati. Le ragioni per le quali un luogo viene inquinato richiedono  un’analisi del funzionamento della società, delle sua economia, del suo comportamento, dei suoi modi di comprendere la realtà. Data l’ampiezza dei cambiamenti, non è più possibile trovare una risposta specifica e indipendente per ogni singola parte del problema. E’ fondamentale cercare soluzioni integrali che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura.

 Il Manifesto di Ventotene  e la Laudato si’  presentano significative assonanze, che le manifestano come parte di un unico movimento di critica sociale.
 Segnalo ad esempio:

[dall’enciclica Laudato si’]
203. Dal momento che il mercato tende a creare un meccanismo consumistico compulsivo per piazzare i suoi prodotti, le persone finiscono con l’essere travolte dal vortice degli acquisti e delle spese superflue. Il consumismo ossessivo è il riflesso soggettivo del paradigma tecno-economico.
[dal Manifesto di Ventotene,  nel brano sopra citato]
E' salvato, nelle sue linee sostanziali, un regime economico in cui le risorse materiali e le forze di lavoro, che dovrebbero essere rivolte a soddisfare i bisogni fondamentali per lo sviluppo delle energie vitali umane, vengono invece indirizzate alla soddisfazione dei desideri più futili di coloro che sono in grado di pagare i prezzi più alti.

  La politicità  del magistero sociale del Papa è ciò che lo rende veramente capace di indurre il cambiamento che serve per fronteggiare i problemi dell’umanità contemporanea, non limitandosi all’appello moralistico  ai governanti  che si ritrova nella gran parte della letteratura del genere, ma sollecitando all’aggregazione sociale  per cambiare le cose. Questo poi comporta che l’azione per il cambiamento sia realisticamente concepita anche come lotta  tra formazioni sociali.
55. A poco a poco alcuni Paesi possono mostrare progressi importanti, lo sviluppo di controlli più efficienti e una lotta più sincera contro la corruzione
59. […] Se guardiamo in modo superficiale, al di là di alcuni segni visibili di inquinamento e di degrado, sembra che le cose non siano tanto gravi e che il pianeta potrebbe rimanere per molto tempo nelle condizioni attuali. Questo comportamento evasivo ci serve per mantenere i nostri stili di vita, di produzione e di consumo. E’ il modo in cui l’essere umano si arrangia per alimentare tutti i vizi autodistruttivi: cercando di non vederli, lottando per non riconoscerli, rimandando le decisioni importanti, facendo come se nulla fosse.
91. Non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani. È evidente l’incoerenza di chi lotta contro il traffico di animali a rischio di estinzione, ma rimane del tutto indifferente davanti alla tratta di persone, si disinteressa dei poveri, o è determinato a distruggere un altro essere umano che non gli è gradito. Ciò mette a rischio il senso della lotta per l’ambiente. 
207. La Carta della Terra [Carta della Terra, L’Aja (29 giugno 2000)] ci chiamava tutti a lasciarci alle spalle una fase di autodistruzione e a cominciare di nuovo, ma non abbiamo ancora sviluppato una coscienza universale che lo renda possibile. Per questo oso proporre nuovamente quella preziosa sfida: «Come mai prima d’ora nella storia, il destino comune ci obbliga a cercare un nuovo inizio […]. Possa la nostra epoca essere ricordata per il risveglio di una nuova riverenza per la vita, per la risolutezza nel raggiungere la sostenibilità, per l’accelerazione della lotta per la giustizia e la pace, e per la gioiosa celebrazione della vita».
Nei Paesi che dovrebbero produrre i maggiori cambiamenti di abitudini di consumo, i giovani hanno una nuova sensibilità ecologica e uno spirito generoso, e alcuni di loro lottano in modo ammirevole per la difesa dell’ambiente, ma sono cresciuti in un contesto di altissimo consumo e di benessere che rende difficile la maturazione di altre abitudini. Per questo ci troviamo davanti ad una sfida educativa.
209. […]
Tocca i cuori
di quanti cercano solo vantaggi
a spese dei poveri e della terra.
Insegnaci a scoprire il valore di ogni cosa,
a contemplare con stupore,
a riconoscere che siamo profondamente uniti
con tutte le creature
nel nostro cammino verso la tua luce infinita.
Grazie perché sei con noi tutti i giorni.
Sostienici, per favore, nella nostra lotta
per la giustizia, l’amore e la pace.

 La politicità del magistero sociale del Papa  è ciò che fa di Jorge  Mario Bergoglio uno dei papi più diffamati dai suoi stessi fedeli: un fenomeno impressionante e non solo sul WEB dove i discorsi in libertà sono la normalità. Tra i primi e violenti critici del suo pensiero vi sono stati settori importanti della politica e dell’economia statunitense, quelli stessi che hanno appoggiato l’ascesa politica del nuovo presidente statunitense Donald Trump. E, in effetti, gli Stati Uniti d’America, insieme alle potenze economiche asiatiche, in particolare la Cina continentale, il Giappone e la Corea del Sud sono al centro del modello di sviluppo criticato nella Laudato si’. Data l’organizzazione globale, vale a dire in un sistema di relazioni che lega tutto il mondo, dell’economia contemporanea, la critica sociale del magistero sociale del Papa riguarda anche quei potenti sistemi politico-economici. E vediamo anche che le opinioni politiche del nuovo presidente statunitense sono particolarmente critiche verso il processo di unificazione europea e, in particolare, verso le nuove istituzioni europee dell’Unione Europea, di cui Trump, in dichiarazioni di qualche giorno fa, ha sostanzialmente auspicato la dissoluzione.
  Spesso l’idea di pace  e di pacificazione  che la dottrina sociale ha manifestato è apparsa con un senso di compromesso  in cui, per amore di pace, le masse di chi stava peggio erano invitate ad accettare serenamente la loro condizione e ad accettare i miglioramenti che le classi dominanti, una minoranza,  erano disposte a elargire, a patto di non toccare la loro posizione di egemonia sociali. Quindi: maggioranze che dovevano sottomettersi a minoranze, l’opposto dei processi democratici.

[dall’enciclica Le novità,  del 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante in religione come Leone 13°]

1 - Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso
14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell'umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l'impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello stato. Quanto al lavoro, l'uomo nello stato medesimo d'innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell'animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell'oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen 3,17). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l'uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell'uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v'è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali.  
[…]
16. Innanzi tutto, l'insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da quello imposto dalla giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all'operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l'opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose grandi, senza altro frutto che quello di inutili pentimenti e di perdite rovinose. E questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana, nobilitata dal carattere cristiano. 
 Ma la storia insegna che ogni conquista sociale dell’umanità, in particolare ogni progresso verso l’estensione del benessere verso le masse che stanno peggio, non si è raggiunta se non a seguito di una lotta sociale, vale a dire su uno  scontro politico tra gruppi sociali, che in democrazia si fa in modo non violento, ma si fa e si deve fare, pena non progredire o addirittura regredire.
  La politica, l’azione per il governo e la trasformazione della società, ha anche un valore religioso, insegna oggi la dottrina sociale ed è dovere anche religioso del laico di fede impegnarsi nell’azione politica. Ma nella formazione religiosa la politica in genere non c’è. Da quando bisognerebbe cominciare? Da molto presto, fin dal primo catechismo, da quando la persona comincia a vivere in società e comincia a soffrirne o a ricavarne vantaggi. E’ un’esperienza che si fa fin da piccoli e gli psicologi dell’infanzia ci raccontano delle tremende sofferenze che si possono vivere nelle società dei bambini, che a volte ci appaiono sfacciatamente crudeli: è un’esperienza che, del resto, tutti fanno, da vittime o da persecutori o da semplici spettatori. Ma il discorso andrebbe molto approfondito con il maturare della persona e soprattutto con le acquisizioni culturali scolastiche, che mettono in grado di capire discorsi più complessi su come vanno le cose del mondo e soprattutto creano una consapevolezza storica. In un movimento democratico  per la riforma della società, tutti sono  riformatori e la critica sociale che è al fondo di ogni progetto di riforma parte dall’osservazione della società e dalla consapevolezza della sua storia. Lo fa anche Bergoglio, all’inizio della Laudato sì, nel capitolo che appunto si intitola Quello che sta accadendo alla nostra casa. Si tratta di un’attività di formazione che non sempre rientra nella capacità dei preti, perché non sempre rientra nella loro stessa formazione. E questo nonostante che nella storia recente delle nostre collettività religiose ci sono stati preti maestri in questo campo e cito ad esempio Romolo Murri, Luigi Sturzo, Primo Mazzolari, Lorenzo Milani, Ernesto Balducci, Gianni Baget Bozzo e molti altri: preti con un forte impegno civile che li spingeva alla politica. Un tempo questo era considerato sconveniente e addirittura osteggiato e punito. Tutti i preti che ho sopra citato hanno infatti avuto problemi disciplinari. Ai tempi di papa Francesco la situazione è diversa. Bisognerebbe cogliere l’occasione, ma serve innanzi tutto un più forte impegno laicale, perché la politica è uno dei campi privilegiati dell’azione laicale. E, per cominciare, occorrerebbe programmare occasioni sistematiche di incontro. L’ideale sarebbe farle in un locale con molti libri e una connessione internet, che sono finestre sul mondo e sulla storia. Non si cambia il mondo da incolti.


20. Francesco e il trumpismo

Dal Messaggio per la 50° Giornata mondiale per la pace 2017 di papa Francesco

  Nelle situazioni di conflitto facciamo della nonviolenza attiva il nostro stile di vita.
 Il beato Papa Paolo VI si rivolse a tutti i popoli, non solo ai cattolici, con parole inequivocabili: «E’ finalmente emerso chiarissimo che la pace è l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile)». Metteva in guardia dal «pericolo di credere che le controversie internazionali non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali». Al contrario, citando la Pacem in terris del suo predecessore san Giovanni XXIII, esaltava «il senso e l’amore della pace fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla libertà, sull’amore».
 Desidero soffermarmi sulla nonviolenza come stile di una politica di pace.
 Dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, possa la nonviolenza diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme.
Un mondo frantumato
Non è facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i moderni mezzi di comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più consapevoli della violenza o più assuefatti ad essa. In ogni caso, questa violenza che si esercita “a pezzi”, in modi e a livelli diversi, provoca enormi sofferenze di cui siamo ben consapevoli.
 La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato.
 Come ha affermato il mio predecessore Benedetto XVI – «nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di più di amore, un di più di bontà. [La nonviolenza] «non consiste nell’arrendersi al male[…] ma nel rispondere al male con il bene (cfr Rm 12,17-21), spezzando in tal modo la catena dell’ingiustizia».
Più potente della violenza
4. La nonviolenza è talvolta intesa nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è così.
La nonviolenza praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin Luther King Jr contro la discriminazione razziale non saranno mai dimenticati. Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio, Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia.
Né possiamo dimenticare il decennio epocale conclusosi con la caduta dei regimi comunisti in Europa. Le comunità cristiane hanno dato il loro contributo con la preghiera insistente e l’azione coraggiosa. Speciale influenza hanno esercitato il ministero e il magistero di san Giovanni Paolo II. Riflettendo sugli avvenimenti del 1989 nell’Enciclica Centesimus annus (1991), il mio predecessore evidenziava che un cambiamento epocale nella vita dei popoli, delle nazioni e degli Stati si realizza «mediante una lotta pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia».Questo percorso di transizione politica verso la pace è stato reso possibile in parte «dall’impegno non violento di uomini che, mentre si sono sempre rifiutati di cedere al potere della forza, hanno saputo trovare di volta in volta forme efficaci per rendere testimonianza alla verità». E concludeva: «Che gli uomini imparino a lottare per la giustizia senza violenza, rinunciando alla lotta di classe nelle controversie interne ed alla guerra in quelle internazionali».
La Chiesa si è impegnata per l’attuazione di strategie nonviolente di promozione della pace in molti Paesi, sollecitando persino gli attori più violenti in sforzi per costruire una pace giusta e duratura.
Questo impegno a favore delle vittime dell’ingiustizia e della violenza non è un patrimonio esclusivo della Chiesa Cattolica, ma è proprio di molte tradizioni religiose, per le quali «la compassione e la nonviolenza sono essenziali e indicano la via della vita». Lo ribadisco con forza: «Nessuna religione è terrorista».La violenza è una profanazione del nome di Dio.  Non stanchiamoci mai di ripeterlo: «Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!»
 Se l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia.
 Un’etica di fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero.In questo senso, rivolgo un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono fondare questo tipo di etica Con uguale urgenza supplico che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambi
 invito
6. La costruzione della pace mediante la nonviolenza attiva è elemento necessario e coerente con i continui sforzi della Chiesa per limitare l’uso della forza attraverso le norme morali, mediante la sua partecipazione ai lavori delle istituzioni internazionali e grazie al contributo competente di tanti cristiani all’elaborazione della legislazione a tutti i livelli. Gesù stesso ci offre un “manuale” di questa strategia di costruzione della pace nel cosiddetto Discorso della montagna. Le otto Beatitudini (cfr Mt 5,3-10) tracciano il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia.
Questo è anche un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo: applicare le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità. Una sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono responsabili con lo stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia rifiutando di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo. Questo richiede la disponibilità «di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo». Operare in questo modo significa scegliere la solidarietà come stile per fare la storia e costruire l’amicizia sociale. La nonviolenza attiva è un modo per mostrare che davvero l’unità è più potente e più feconda del conflitto.
 La Chiesa Cattolica accompagnerà ogni tentativo di costruzione della pace anche attraverso la nonviolenza attiva e creativa. Il 1° gennaio 2017 vede la luce il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che aiuterà la Chiesa a promuovere in modo sempre più efficace «i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato» e della sollecitudine verso i migranti, «i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura». Ogni azione in questa direzione, per quanto modesta, contribuisce a costruire un mondo libero.
Nel 2017, impegniamoci, con la preghiera e con l’azione, a diventare persone che hanno bandito dal loro cuore, dalle loro parole e dai loro gesti la violenza, e a costruire comunità nonviolente, che si prendono cura della casa comune.


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 Papa Francesco richiamando l’idea di nonviolenza  (scritta tutta attaccata o con il trattino di congiunzione,  non-violenza) ha evocato espressamente il messaggio politico del leader indiano  Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1945), liberatore dell’India dal dominio europeo, che nel Messaggio  per la giornata della pace 2017  è menzionato espressamente.
 In ambito cattolico di Gandhi spesso si fa una specie di santino: egli fu, in realtà, un agitatore politico, un rivoluzionario. Non fuggiva i conflitti, ma vi si cacciava dentro, li affrontava. Egli combatteva e incitava a combattere mediante la nonviolenza, che in primo luogo si attuava nella pervicace disobbedienza di massa alle leggi ingiuste sopportando la reazione violenta del potere senza opporre altra violenza, in secondo luogo nella non-menzogna, l’impegno a non esercitare un dominio ingiusto mentendo alla gente e, infine, con un diverso stile di vita da consumatori, quindi da attori del mercato, in particolare del mercato globale della sua epoca, rifiutando di acquistare prodotti che avessero dentro ingiustizia e sofferenza umana. Questo suo impegno lo portò ripetutamente in carcere.
  Era un agitatore sociale, un rivoluzionario, anche Martin Luther King, anch’egli evocato nel Messaggio. Anche King finì ripetutamente in carcere.
  In linea con l’appello fortissimo all’azione politica di massa contenuto nell’enciclica Laudato si’  Francesco - Bergoglio guida la Chiesa a porsi di traverso, in una posizione fortemente conflittuale, con l’ideologia globale dell’ingiustizia sociale, fondando  a tal fine anche un nuovo ministero nella sua Curia.
 Nel solco della lezione gandhiana ci spinge a organizzarci in movimento contro la cultura dell’egoismo nazionalistico, dello scarto dei perdenti e dello spreco senza curarsi delle conseguenze sull’ambiente naturale: in una parola, contro il trumpismo, l’ideologia politica manifestata in campagna elettorale da nuovo presidente statunitense. Nella linea del gandhismo Francesco ci incita a non arrenderci al male, a rifiutare atteggiamento di passività e di resa, a non rifiutare il conflitto, ma a combattere in modo nonviolento per impedire la degenerazione del mondo.
  Si tratta di un impegno tutto da costruire, perché la pesante eredità culturale del compromesso con il fascismo storico italiano, con la conseguente pervasiva integrazione tra religione e ideologia mussoliniana, ha portato storicamente le collettività di fede italiane in altra direzione, verso una visione  corporativa  della risoluzione dei conflitti sociali, in cui, fatalmente, le masse di chi sta peggio soccombono alle pretese di dominio delle oligarchie che controllano l’economia e quindi la società e la politica.
  Il conflitto con il trumpismo  si prospetta tremendo, tragico, ma inevitabile, in una visione religiosa dei fatti sociali che prende come riferimento le  Beatitudini,  perché, sorretto da quella che è ancora la maggiore potenza militare del mondo, colpirà duramente le masse dei popoli che hanno avuto la peggio nel nuovo ordine economico globalizzato del quale gli Stati Uniti d’America e le potenze economiche dell’Asia sono stati protagonisti, ma secondo una cultura marcatamente statunitense. Significherà anche mettersi di traverso rispetto ai processi bellici che si intuiscono dietro i risorgenti nazionalismi. E difendere l’umanesimo europeista dall’assalto populista che vuole dissolvere la nostra nuova Europa, attualmente ancora la più grande potenza politica di pace del mondo. “Bisogna pregare”, ha detto un politico italiano a chi gli chiedeva come vedesse il futuro del mondo nell’era del trumpismo, ma l’appello di Francesco chiede molto di più di questo.  E’ una nuova cultura politica che si tratta di costruire.



21. Critica e autocritica sociale, dialogo

[Dal Manifesto di Ventotene,  scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

3.Contro il dogmatismo autoritario si è affermato il valore permanente dello spirito critico. Tutto quello che veniva asserito doveva dare ragione di sé o scomparire. Alla metodicità di questo spregiudicato atteggiamento sono dovute le maggiori conquiste della nostra società in ogni campo.
  Ma questa libertà spirituale non ha resistito alla crisi che ha fatto sorgere gli stati totalitari. Nuovi dogmi da accettare per fede o da accettare ipocritamente, si stanno accampando in tutte le scienze. Quantunque nessuno sappia che cosa sia una razza e le più elementari nozioni storiche ne facciano risultare l'assurdità, si esige dai fisiologi di credere di mostrare e convincere che si appartiene ad una razza eletta, solo perché l'imperialismo ha bisogno di questo mito per esaltare nelle masse l'odio e l'orgoglio. I più evidenti concetti della scienza economica debbono essere considerati anatema per presentare la politica autarchica, gli scambi bilanciati e gli altri ferravecchi del mercantilismo, come straordinarie scoperte dei nostri tempi. A causa della interdipendenza economica di tutte le parti del mondo, spazio vitale per ogni popolo che voglia conservare il livello di vita corrispondente alla civiltà moderna, è tutto il globo; ma si è creata la pseudo scienza della geopolitica che vuol dimostrare la consistenza della teoria degli spazi vitali, per dare veste teorica alla volontà di sopraffazione dell'imperialismo. La storia viene falsificata nei suoi dati essenziali, nell'interesse della classe governante. Le biblioteche e le librerie vengono purificate di tutte le opere non considerate ortodosse. Le tenebre dell'oscurantismo di nuovo minacciano di soffocare lo spirito umano.
 La stessa etica sociale della libertà e dell'uguaglianza è scalzata. Gli uomini non sono più considerati cittadini liberi, che si valgono dello stato per meglio raggiungere i loro fini collettivi. Sono servitori dello stato che stabilisce quali debbono essere i loro fini, e come volontà dello stato viene senz'altro assunta la volontà di coloro che detengono il potere. Gli uomini non sono più soggetti di diritto, ma gerarchicamente disposti, sono tenuti ad ubbidire senza discutere alle gerarchie superiori che culminano in un capo debitamente divinizzato. Il regime delle caste rinasce prepotente dalle sue stesse ceneri. 
  Questa reazionaria civiltà totalitaria, dopo aver trionfato in una serie di paesi, ha infine trovato nella Germania nazista la potenza che si è ritenuta capace di trarne le ultime conseguenze. Dopo una meticolosa preparazione, approfittando con audacia e senza scrupoli delle rivalità, degli egoismi, della stupidità altrui, trascinando al suo seguito altri stati vassalli europei - primo fra i quali l'Italia - alleandosi col Giappone che persegue fini identici in Asia essa si è lanciata nell'opera di sopraffazione.
   La sua vittoria significherebbe il definitivo consolidamento del totalitarismo nel mondo. Tutte le sue caratteristiche sarebbero esasperate al massimo, e le forze progressive sarebbero condannate per lungo tempo ad una semplice opposizione negativa.
  La tradizionale arroganza e intransigenza dei ceti militari tedeschi può già darci un'idea di quel che sarebbe il carattere del loro dominio dopo una guerra vittoriosa. I tedeschi vittoriosi potrebbero anche permettersi una lustra di generosità verso gli altri popoli europei, rispettare formalmente i loro territori e le loro istituzioni politiche, per governare così soddisfacendo lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle forze ed al contenuto effettivo degli organismi dello stato. Comunque camuffata, la realtà sarebbe sempre la stessa: una rinnovata divisione dell'umanità in Spartiati ed Iloti [nell’antica città greca di Sparta, erano schiavi di proprietà dello stato].
  Anche una soluzione di compromesso tra le parti ora in lotta significherebbe un ulteriore passo innanzi del totalitarismo, poiché tutti i paesi che fossero sfuggiti alla stretta della Germania sarebbero costretti ad accettare le sue stesse forme di organizzazione politica, per prepararsi adeguatamente alla ripresa della guerra.
   Ma la Germania hitleriana, se ha potuto abbattere ad uno ad uno gli stati minori, con la sua azione ha costretto forze sempre più potenti a scendere in lizza. La coraggiosa combattività della Gran Bretagna, anche nel momento più critico in cui era rimasta sola a tener testa al nemico, ha fatto si che i Tedeschi siano andati a cozzare contro la strenua resistenza dell'esercito sovietico, ed ha dato tempo all'America di avviare la mobilitazione delle sue sterminate forze produttive. E questa lotta contro l'imperialismo tedesco si è strettamente connessa con quella che il popolo cinese va conducendo contro l'imperialismo giapponese.


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  I processi democratici, che cercano di realizzare la compartecipazione alle decisione di governo delle masse, richiedono capacità critica e di autocritica, vale a dire di rendersi conto del corso degli eventi storici, delle cause dei mali sociali e della propria corresponsabilità nel provocarli. A questo appunto serve il dialogo, che non va inteso solo come un parlare insieme, né solo come un parlare  e ascoltare (che è già di più), ma come uno sforzo per  capire le ragioni degli altri  cercando di costruire relazioni.  Questo metodo è richiamato nel Messaggio per la 50° Giornata della pace  diffuso nel dicembre scorso da papa Francesco, citando un brano della sua esortazione apostolica La gioia del Vangelo, del 2013:
227. Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo. «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9).  Non vi è vero dialogo  se non c’è questo spirito di voler tentare di creare anelli di collegamento  tra gli esseri umani, come singoli e nei gruppi che danno senso alla loro vita, quelli che un filone della sociologica definisce  mondi vitali.
 Ma su che cosa dialogare  innanzitutto? Per un laico di fede si dovrebbe sempre partire da come va il mondo intorno, a partire dalle realtà più prossime, nelle quali si è immersi appena sceso l’ultimo gradino del sagrato. E  bisognerebbe cominciare con il tentare di capirle bene: questo riesce meglio nel dialogo, perché si tiene conto di diversi punti di vista, che fanno superare le limitazioni individuali. Lo ha spiegato la filosofa Hanna Arendt (1906-1975):
  [da: Hannah Arendt, Che cos’è la politica, Einaudi, 2006]
Nessuno senza compagni può comprendere adeguatamente nella sua piena realtà tutto ciò che è obiettivo, in quanto gli si mostra e gli si rivela sempre in un’unica prospettiva, conforme e intrinseca alla sua posizione nel mondo. Se si vuole vedere ed esperire il mondo così come è realmente si può farlo solo considerando una cosa che è comune a molti, che sta tra loro, che li separa e unisce, che si mostra a ognuno in modo diverso, e dunque diventa comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e confrontano le loro opinioni e prospettive. Solo nella libertà di dialogare il mondo appare quello di cui si parla, nella sua obiettività visibile da ogni lato”.
  Se si procede in questo modo, dal piccolo al grande, dal proprio condominio al proprio quartiere, da quest’ultimo alla città e poi alla nazione, al continente, al mondo, ci si accorge facilmente di ciò di cui scrissero molto tempo fa, nel 1941, in piena Seconda guerra mondiale, dall’isola di Ventotene dove erano  confinati, costretti a rimanervi con moltissime limitazioni alla possibilità di relazioni con la poca gente intorno, Spinelli, Rossi e Colorni: A causa della interdipendenza economica di tutte le parti del mondo, spazio vitale per ogni popolo che voglia conservare il livello di vita corrispondente alla civiltà moderna, è tutto il globo”.  E’ anche ciò che ha scritto anche il nostro vescovo e padre universale nell’enciclica Laudato si’.  Se globali sono i problemi, e lo sono perché la sopravvivenza dell’umanità, oggi molto più che negli anni ’40 del secolo scorso, dipende da relazioni a livello mondiale, anche le soluzioni devono essere globali. Ma è ciò che i risorgenti nazionalismi europei, come anche il neo-nazionalismo  statunitense (una cultura che così come appare nel pensiero politico del nuovo presidente statunitense non c’è mai stata nella storia degli Stati Uniti d’America), vogliono dimenticare, pensando, illudendosi, come già i fascismi europei degli anni tra le due Guerre mondiali, che la soluzione sia chiudersi  nei propri spazi vitali, lasciando fuori il resto del mondo con i suoi problemi.
  Nel Manifesto di Ventotene, così come nell’enciclica Laudato si’, c’era anche l’autocritica sociale. L’Italia fu maestra e parte attiva dei totalitarismi  fascisti che trasformarono l’Europa Centro-Occidentale in una prigione, fino alla loro tragica caduta, nel 1945. In questo quadro si produsse quella profonda contaminazione tra cultura religiosa e cultura fascista che ancora oggi si avverte distintamente tra noi, come una sorta di rumore di fondo: essa è all’origine della profonda avversione verso Jorge Mario Bergoglio e il suo pensiero sociale, la sua dottrina sociale, di ampi settori delle nostre collettività di fede, così come di un’analoga avversione dei medesi ambienti verso la cultura europeista e le istituzioni della nostra nuova Europa unita.
 Lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine”, si legge nel Manifesto di Ventotene.  Perché  “stupido”? Perché non  riesce, o peggio non vuole, vedere ciò che è evidente, vale a dire che è tutta una civiltà basata su un’organizzazione dello sviluppo economico concepito secondo la legge della giungla, secondo cui i più forti ammazzano i più deboli, che, entrando in crisi, ci peggiora l’esistenza di sulla soglia di casa e anche dentro.
 Il dialogo per capire la realtà come veramente è dovrebbe essere di casa nelle parrocchie, in particolare nella formazione dei laici di fede. Ma in genere non si riesce a praticarlo e, soprattutto, a insegnarlo. Così la nostra gente, anche i più giovani, ha un’idea troppo vaga e imprecisa della realtà. Non viene abituata a capirla per incidervi con un’efficace azione sociale. Ci si limita ad un po’ di storia sacra, ma prevalentemente a fini apologetici, per farci sentire i migliori di tutti,  per diritto divino  per così dire, senza verificare questa convinzione. E’ quello che si è fatto, per la generalità delle persone religiose,  per la gran parte della storia delle nostre collettività di fede: è a partire dalla metà del secolo scorso che si è prodotto, anche tra noi, la convinzione che bisognasse cambiare, ciò che però si è affermato ufficialmente, con decisione d’autorità, solo negli scorsi anni ’60, durante il Concilio Vaticano 2°.
 Per capire la realtà come veramente è non basta chiacchierarci sopra sulla base delle proprie estemporanee espressioni, e non bastano nemmeno solo i quotidiani, anche se tenendone conto si è già un bel pezzo avanti, servono libri, dove troviamo un pensiero sistematico, concentrato, potente. Le biblioteche e le librerie vengono purificate di tutte le opere non considerate ortodosse.”,  scrissero gli autori del Manifesto di Ventotene, e si riferivano ai roghi di libri accaduti nella Germania nazista, ma anche in Italia nel corso degli assalti alle sedi dei giornali, a quelle di partito, alle Case del popolo, e anche alle sedi della nostra Azione Cattolica, ma più in generale all’insofferenza dei totalitarismi fascisti (ma in generale di tutti  i totalitarismi) verso la potenza del pensiero che scaturisce dalle raccolte di libri. E penso alla nostra biblioteca parrocchiale che, nel nuovo corso inaugurato un anno e mezzo fa, non si è più trovata, e non se ne sono avute spiegazioni del perché, probabilmente sacrificata a bisogni ritenuti più urgenti e importanti.
 Perché un libro costituisce una base di partenza del dialogo, è qualcosa che, come scrisse la filosofa Hannah Arendt, insieme unisce e divide, ma che, in definitiva, dopo averlo condiviso, unisce. E’ così che si cominciano a creare  anelli di collegamento. Questa è anche un via verso la libertà,  e la nostra fede vorrebbe esserlo, perché pensa di essere fondata sulla verità  e che la verità ci renderà liberi. Amen.

22. Una nazione senza frontiere non è una nazione?

Una nazione senza frontiere non è una nazione”. L’ha affermato il presidente statunitense Donald Trump, stando a quello che hanno riportato  radio e televisione.
  Questa frase è estremamente efficace: condensa in pochissime parole tutto ciò che l’ideologia dell’europeismo, a partire dal Manifesto di Ventotene  del 1941, di Spinelli, Rossi e Colorni, ha voluto superare, per creare la pace sul nostro continente. In particolare l’idea di una nazione definita  da frontiere. E’ possibile che gli Stati Uniti d’America, il più antico sistema politico della democrazia moderna, non riescano più a definire sé stessi se non tracciando frontiere? Dimenticando completamente la cultura dei diritti umani fondamentali che è alla base della loro fondazione e che hanno insegnato a tutto il mondo? E tra questi il diritto  di essere liberi di cercare la felicità,  che sta scritto nellaDichiarazione di indipendenza statunitense del 1776.
 La nostra nuova Europa, quella delle 28 nazioni, con altrettante culture e lingue, un fantastico mosaico di umanità rispetto all’uniformità statunitense da costa a costa, più o meno due lingue, spagnolo e angloamericano, e tre culture, quelle della costa orientale, del centro (la Cintura della Bibbia) e della costa orientale, è stata costruita puntando all’abolizione delle frontiere, in gran parte effettivamente realizzata, come di quella, caldissima un tempo, tra l’Italia e l’Austria. Questo ha portato ad una lunga epoca di pace, mentre, negli stessi anni, gli Stati Uniti d’America sono stati impegnati in continue guerre in tutti i continenti: infatti hanno ancora la forza militare più potente della Terra, ritengono di averne ancora bisogno e addirittura di doverla aumentare.
 “Una nazione non è una nazione senza frontiere”? E’ un po’ come dire che il valore di un’orchestra sinfonica dipende dalla sala dove suona.
 Osservo infine che l’ideologia politica del nuovo presidente statunitense appare in rotta di collisione con la dottrina sociale diffusa da Jorge Mario Bergoglio, anche lui un americano, benché gli statunitensi quando parlano di americani si riferiscano solo a loro stessi. “America first”, “l’America prima di tutto”, significa per loro “Gli Stati Uniti prima di tutto”. Sembra una novità, ma è ciò che è sempre successo: la politica statunitense è sempre stata improntata a questo principio, e infatti gli Stati Uniti d’America sono ancora lo stato più ricco della Terra, e vogliono diventare sempre più ricchi. Non sono i popoli dell’Asia, per ora molto meno ricchi, ad aver  rubato  la ricchezza agliamericani, tanto è vero che negli Stati Uniti d’America ci sono alcune delle persone più ricche della Terra, come lo stesso presidente statunitense è. E’ la divisione delle ricchezze prodotte che, come anche in Europa, ha determinato ineguaglianze per cui nello stato più ricco della Terra c’è anche molta gente sulla soglia della povertà e anche molto sotto, e molta gente che a quella soglia si sta avvicinando. Questo in Europa è sentito come un ordine ingiusto, ma, sembra, non più negli Stati Uniti d’America.
 La veloce metamorfosi degli Stati Uniti d’America in un neo-stato nazionalista, come non sono stati mai nella loro storia avendo sempre accolto genti da tutto il mondo e avendo fondato proprio su questo la loro potenza, è potenzialmente tragica, perché riguarda la massima potenza militare del mondo.

23. Il risorgente nazionalismo mette in pericolo il mondo

si veda sul WEB http://www.treccani.it/enciclopedia/unione-europea/

[dal Manifesto di Ventotene,  scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rosse ed Eugenio Colorni]

  E quando, superando l'orizzonte del vecchio continente, si abbracci in una visione di insieme tutti i popoli che costituiscono l'umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l'unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l'unità politica dell'intero globo.
La linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l'unità internazionale. Con la propaganda e con l'azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami tra i movimenti simili che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre fin d'ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far sorgere il nuovo organismo, che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l'autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli.
 Se ci sarà nei principali paesi europei un numero sufficiente di uomini che comprenderanno ciò, la vittoria sarà in breve nelle loro mani, perché la situazione e gli animi saranno favorevoli alla loro opera e di fronte avranno partiti e tendenze già tutti squalificati dalla disastrosa esperienza dell'ultimo ventennio. Poiché sarà l'ora di opere nuove, sarà anche l'ora di uomini nuovi, del movimento per l'Europa libera e unita!

Da: <https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/l-ordine-di-trump-uno-schiaffo-alla-solidarieta-internazionale>, sabato 28-1-17,  di Andrea Lavazza, “L’ordine di Trump uno schiaffo alla solidarietà nazionale

  L'ordine esecutivo con cui il presidente americano Donald Trump blocca l'ingresso ai cittadini mediorientali di 7 Paesi, ferma per 4 mesi il programma a favore dei rifugiati, riduce la quota di profughi accolti nell'anno in corso e chiude le frontiere a tempo indeterminato per i siriani appare come uno schiaffo alla solidarietà internazionale, alla libera circolazione delle persone e alle istanze universalistiche cui l'America ha dato un impulso con la sua storia recente.
[…]
 vi sarà un probabile seppure non auspicabile effetto traino. Se gli Stati Uniti si muovono in questa direzione, molti politici europei si sentiranno ancor più legittimati nel proporre politiche di chiusura verso profughi e migranti. Con un crescente favore dell'opinione pubblica. Il soft power americano che tanto influenza anche la nostra cultura sembra aver imboccato una strada nuova e rischiosa. Sarà compito importante riflettere e dibattere su questi sviluppi, figli in taluni casi anche di una sottovalutazione della portata del fenomeno migratorio e delle sue conseguenze.

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  Due delle quattro maggiori potenze economiche e militari del mondo, gli Stati Uniti d’America e la Federazione russa, stanno seguendo politiche neo-nazionaliste. Sono entrambe in fase militare espansiva, ma con motivazioni molto diverse da quelle dei vecchi imperi nazionali: nella concezione dei loro capi politici egemoni si tratterebbe di strategie di difesa nazionale. Queste le rende molto pericolose, perché,  se si pensa di doversi difendere si è pronti a tutto. Negli Stati Uniti d’America il potere federale è caduto nelle mani di un uomo molto ricco, la cui figura ha diverse somiglianze con quelle degli oligarchi russi, che cercarono di controllare l’economia e la politica russa negli anni seguiti alla dissoluzione del regime sovietico; la Federazione russa è dominata da un ex militare della polizia politica sovietica che ha prevalso duramente su quegli oligarchi. Il primo segue un neo-nazionalismo  di tipo sostanzialmente economico, il secondo un nazionalismo di tipo più tradizionale, vicino a quello corrente nell’impero zarista, fortemente appoggiato dalla Chiesa ortodossa russa. Il leader americano, che non alcuna precedente esperienza di governo politico e, in particolare, in campo internazionale, si presenta come un uomo impulsivo, poco riflessivo e poco disposto a farsi consigliare. E’ solo un atteggiamento, una specie di proseguimento della campagna elettorale, o è veramente così? Il capo russo è l’esatto opposto, ha un’importante e lunga esperienza di governo, anche nelle relazioni internazionali, e ha una squadra di collaboratori che lo assiste da diversi anni, e ha una formazione militare, dura. E fatale che l’americano commetta prima o poi qualche grave errore e che il russo cerchi di approfittarne. I due si conoscono poco e questo aggrava la situazione. Il politico che al mondo sembra aver avuto le relazioni più intense con Putin è l’italiano Silvio Berlusconi. L’americano si è paragonato a Berlusconi, ma quest’ultimo ha espresso delle perplessità in merito: in effetti sono molto diversi. Ma, soprattutto, anche Berlusconi ha avuto una lunga storia politica e un’esperienza intensa di relazioni internazionali. Questo ha giovato all’Italia, qualche anno fa, quando il governo sembrava intenzionato a intervenire militarmente in Libia, e Berlusconi e Prodi, concordemente quella volta, lo sconsigliarono. E’ stato osservato che l’americano gira sempre con appresso i codici di avvio dell’apparato nucleare statunitense: egli è infatti il comandante in capo  della forza militare federale. Le decisioni che potrebbe prendere sono potenzialmente molto più gravi di quelle che il governo si trovò a decidere a quell’epoca. Nonostante che l’americano e il russo sembrino, ora, andare d’accordo, è possibile che sia solo questione di tempo, mesi, perché si generi una crisi grave come quella Ucraina, che, fra l’altro, non è neppure risolta. Ma il teatro di conflitto potenzialmente più grave sarà quello che corre in Asia, appena al largo della Repubblica popolare di Cina, e questo per le continue provocazioni dell’americano. Un conflitto in quella zona del mondo, benché agli antipodi dell’Italia, provocherebbe la fine del mondo come lo conosciamo: quasi tutto ciò che usiamo tutti i giorni viene prodotto laggiù. Anche la Cina sta diventando nazionalista, in un modo che ha qualche assonanza con il neo-nazionalismo statunitense: è infatti di tipo economico più che culturale.
 E’ l’Europa, la quarta grande attrice sulla scena globale?
 La federazione europea è l'unica garanzia concepibile che i rapporti con popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione”,   si legge nel Manifesto di Ventotene, e questo, pensavano i sui autro, “in una visione di insieme di tutti i popoli che costituiscono l'umanità”. Perché? All’epoca gli autori del Manifesto  pensavano al declino degli imperi coloniali e alla necessità di ottenere, sulla base di intese europee, una sistemazione pacifica delle questioni delle ex colonie. Nella situazione storica contemporanea un’Europa unita molto estesa, a livello quasi continentali, animata a politiche di collaborazione internazionale al suo interno e quindi di esempio anche verso l’esterno, potrebbe essere ancora quel campo  di pacificazione tra le altre potenze politiche in rotta di collisione di cui si avrà sempre più necessità. Ma essa è minacciata dallo stesso morbo che sta colpendo le altre maggiori potenze mondiali. Ma mentre nel caso di queste ultime il neonazionalismo tende a compattarle,  in difesa, il medesimo moto politico tende a dissolvere l’Unione Europea, costituita di tante nazionalità nessuna delle quali viene accettata come egemone. Essa è sotto attacco da parte del neo-presidente statunitense, che sembra spingere gli stati membri dell’Unione Europea a distaccarsene, seguendo l’esempio della Gran Bretagna. Egli ha mostrato di disprezzare l’Organizzazione delle Nazioni Unite, sulla base di considerazioni piuttosto superficiali. Non si mostra particolarmente informato dei problemi europei. Né, a differenza di diversi suoi predecessori, anche della sua stessa fazione politica, molto preoccupato di preservare la pace mondiale. E’ possibile che del mondo sappia meno dei suoi predecessori e questo è un grave problema. L’ONU e l’Unione Europee nascono come potenza di pace e lo sono effettivamente diventate. Screditandole, il mantenimento della pace viene messo in forse. Nessuna potenza mondiale, nemmeno gli Stati Uniti d’America, ha la forza di imporre  la pace con la minaccia delle armi: essa può scaturire solo da un ordine internazionale condiviso. In un mondo retto da relazioni bilaterali, come immaginato dal neo-presidente statunitense, verrebbe a mancare la rete di protezione che finora ha impedito conflitti caldi  tra le maggiori potenze mondiali.
  Tre delle maggiori potenze  mondiali sono rette da leader nazionalisti e sono in fase espansiva, in rotta di collisione. E’ quello che serve per far esplodere un conflitto armato. L’unica grande potenza di pace, legata da intensi rapporti economici con Stati Uniti, Russia e Cina, rimane la nostra nuova Europa. Ma fino a quando?
 Il movimento europeista è in crisi, minacciato dai nazionalismi europei risorgenti, che  saranno influenzati e probabilmente rafforzati anche dal nuovo corso statunitense. Il soft power americano [la capacità di persuasione esercitata per attrazione] che tanto influenza anche la nostra cultura sembra aver imboccato una strada nuova e rischiosa.” ha scritto oggi Lavazza su Avvenire. Ma, contrariamente a quanto superficialmente gridato dai populismi antieuropeisti, la nostra nuova Europa non è fatta solo di burocrati, ma di popoli che da decenni si sono conosciuti molto meglio e soprattutto molto più frequentati. E’ certamente ancora possibile  quello che si proponevano gli autori del Manifesto di Ventotene, vale a dire gettare le fondamento di un nuovo movimento europeista  e stabilire in tutti i modi accordi e legami tra i movimenti simili che nei vari paesi si vanno certamente formando,  per contrastare la fatale evoluzione della storia mondiale verso il conflitto. E’ quello che sostanzialmente ha raccomandato il Papa, nel suo messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace. E un movimento simile, per aver l’intensità umana che occorre, deve iniziare dalle realtà più vicine alle persone, dalla famiglia, dal condominio, dal quartiere, per estendersi alla città e a territori sempre più vasti, collegando movimenti con movimenti, superando ogni frontiera che i neonazionalismi vogliono chiudere e murare, arrivando a tutto il mondo.
[Dal Messaggio per la 50° Giornata mondiale per la pace]
5. Se l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, a conclusione di due anni di riflessione da parte della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono.  Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società.
   Tante volte, nei miei sessant’anni di vita, mi è parso che l’ideologia politica che in concreto era espressa dalla nostra organizzazione religiosa non fosse all’altezza dei grandi valori di fede proclamati e insegnati. Per una volta la situazione è diversa.
“«La Santa Sede è preoccupata per il segnale che si dà al mondo» con la costruzione del muro tra Usa e Messico, voluto da Donald Trump per frenare le migrazioni. E si augura che gli altri Paesi, anche in Europa, «non seguano il suo esempio». Lo ha evidenziato al Sir [l’agenzia  di stampa Servizio di informazione religiosa]  il cardinale Peter Turkson, presidente del dicastero per la promozione dello sviluppo umano integrale. «Noi ci auguriamo che il muro non sia costruito ma conoscendo Trump forse si farà - ha affermato ancora Turkson -. Non sono solo gli Usa che vogliono costruire i muri contro i migranti, accade anche in Europa. Mi auguro che non seguano il suo esempio. Un presidente può anche costruire un muro ma può arrivare un altro presidente che l'abbatterà»”, leggo su Avvenire  di oggi.
  La nostra nuova Europa è veramente nata quando si iniziò a demolire la muraglia e il sistema di fortificazioni  erette tra le due parti in cui la Germania era stata divisa dopo la caduta del regime nazista e all’interno della città di Berlino, e intorno ad essa. Quell’evento storico, ce lo racconta la grande storia, fu prodotta dai popoli che fecero pressione sulle frontiere. Le barriere nazionali cominciarono a cadere a furor di popolo.  E ora dovremmo ricostruirle? Divisi, saremmo preda dei nazionalismi più potenti e non ci potremmo fare nulla. Essi poi ci condurrebbero al conflitto mondiale.
[Dall’Inno di Mameli, Fratelli d’Italia]
Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popoli,
perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l'ora suonò.
 L’Inno  fu fortemente influenzato dal pensiero di Giuseppe Mazzini (1805-1872) che aveva una visione  religiosa  del processo che doveva portare i popoli alla libertà dai despoti che all’epoca li dominavano, dalle  superpotenze dell’epoca. Il suo motto era infatti Dio e Popolo. Anch’egli sognò qualcosa come la nostra nuova Europa. Un’Europa unita di popoli liberi, in cui ad ogni persona fosse riconosciuta dignità umana. E’ una visione che finalmente siamo liberi di condividere anche in religione.
“Sarà compito importante riflettere e dibattere su questi sviluppi”, scrive Lavazza oggi su Avvenire. Riflettere  e dibattere  su questi temi non sono inutili perdite di tempo, in particolare nella vita parrocchiale non sono tempo sottratto alla preghiera, alla liturgia e alla formazione religiosa. Infatti ne va della pace, che è una finalità espressamente religiosa. Dalla riflessione e dal dibattito può scaturire la condivisione e poi un impegno collettivo, un movimento. Per creare un ambiente favorevole alla pace che renda inutile la costruzione dei muri.

24. La grande storia ci si sta per rovesciare addosso

[dal Manifesto di Ventotene - 1941 - di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

La caduta dei regimi totalitari significherà per interi popoli l'avvento della "libertà" sarà scomparso ogni freno ed automaticamente regneranno amplissime libertà di parola e di associazione.
  Sarà il trionfo delle tendenze democraticheEsse hanno innumerevoli sfumature che vanno da un liberalismo molto conservatore, fino al socialismo e all'anarchiaCredono nella "generazione spontanea" degli avvenimenti e delle istituzioni, nella bontà assoluta degli impulsi che vengono dal basso. Non vogliono forzare la mano alla "storia" al "popolo" al "proletariato" o come altro chiamano il loro dio. Auspicano la fine delle dittature immaginandola come la restituzione al popolo degli imprescrittibili diritti di autodeterminazione. Il coronamento dei loro sogni è un'assemblea costituente eletta col più esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto degli elettori, la quale decida che costituzione il popolo debba darsi. Se il popolo è immaturo se ne darà una cattiva, ma correggerla si potrà solo mediante una costante opera di convinzione.
  I democratici non rifuggono per principio dalla violenza, ma la vogliono adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità, cioè propriamente quando non è più altro che un pressoché superfluo puntino da mettere sulla i. Sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono essere ritoccate solo in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente. La pietosa impotenza dei democratici nelle rivoluzioni russa, tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi.
 In tali situazioni, caduto il vecchio apparato statale, con le sue leggi e la sua amministrazione, pullulano immediatamente, con sembianza di vecchia legalità o sprezzandola, una quantità di assemblee e rappresentanze popolari in cui convergono e si agitano tutte le forze sociali progressiste. Il popolo ha sì alcuni bisogni fondamentali da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie, con i suoi milioni di teste non riesce a raccapezzarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta tra loro.
  Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarrirti non avendo dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni; pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare; perdono le occasioni favorevoli al consolidamento del nuovo regime, cercando di far funzionare subito organi che presuppongono una lunga preparazione e sono adatti ai periodi di relativa tranquillità; danno ai loro avversari armi di cui quelli poi si valgono per rovesciarli; rappresentano insomma, nelle loro mille tendenze, non già la volontà di rinnovamento, ma le confuse volontà regnanti in tutte le menti, che, paralizzandosi a vicenda, preparano il terreno propizio allo sviluppo della reazione. La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria.
  Man mano che i democratici logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi.
  Il principio secondo il quale la lotta di classe è il termine cui van ridotti tutti i problemi politici, ha costituito la direttiva fondamentale, specialmente degli operai delle fabbriche, ed ha giovato a dare consistenza alla loro politica, finché non erano in questione le istituzioni fondamentali della società. Ma si converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si imponga la necessità di trasformare l'intera organizzazione della società. Gli operai educati classisticamente non sanno allora vedere che le loro particolari rivendicazioni di classe, o di categoria, senza curarsi di come connetterle con gli interessi degli altri ceti, oppure aspirano alla unilaterale dittatura delle loro classe, per realizzare l'utopistica collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione, indicata da una propaganda secolare come il rimedio sovrano di tutti i loro mali.Questa politica non riesce a far presa su nessun altro strato fuorché sugli operai, i quali così privano le altre forze progressive del loro sostegno, e le lasciano cadere in balia della reazione, che abilmente le organizza per spezzare le reni allo stesso movimento proletario.

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  In questi giorni la grande storia ci si sta rovesciando addosso, provenendo da oltre Oceano. Il mondo sta velocemente cambiando, ma non nel senso che in genere si auspicava. Risorgono i nazionalismi egoistici e i popoli sono spinti l’uno verso l’altro. Il contesto internazionale che costituiva l’ambiente considerato dalla dottrina sociale degli ultimi sessant’anni sta andando in pezzi. Non c’è più fiducia  in un ordine internazionale pacifico frutto di grande istituzioni sovranazionali, ma si pensa che sia meglio trincerarsi ognuno dietro frontiere sempre più impenetrabili e formare accordi limitati, tra stato e stato, contro tutti gli altri. In accordo bilaterale il più forte, il più grosso, ha la meglio mentre in una grande istituzione sovranazionale tutti i membri hanno pari dignità e viene perseguito il bene comune. Il mondo fatto di accordi bilaterali sarà regolato dalla legge delle giungla, in cui il più grosso mangia il più debole. La gente, mossa da passioni istintive, primordiali e inconsapevoli crede a chi le propone questo, pensando di guadagnarci. Ma a proporlo sono i più forti: ci rimetteranno i più deboli, la maggioranza, sia all'interno delle società sia nel contesto internazionale.  In questo contesto l’attuale nostra dottrina sociale appare come rivoluzionaria, mentre prima sembrava addirittura troppo prudente. Da essa si sono già separati importanti settori delle collettività statunitensi della nostra fede.
  Ci si diceva che occorreva prepararsi, studiare, dialogare, per affrontare qualcosa del genere, e ci accorgiamo che siamo rimasti indietro e che improvvisamente non c’è più tempo per farlo. La formazione di base è stata estremamente carente, in particolare per la comprensione degli eventi sociali. Ci siamo più o meno limitati a briciole di storia sacra e a inscenare giochi a tema a sfondo religioso, immaginando di vivere nel primo secolo della nostra era, estraniandoci da essa. Invitati a smontare frontiere e dogane, ci siamo adeguati, ma da fuori, guardando dentro, c’è più o meno quello che c’era prima. Cambiare, dopo tanti anni in cui si è andati in una certa direzione, è difficile. La gente, in particolare i più giovani, non viene tra noi perché non abbiamo quello che le serve. La fede e la religione appaiono inutili e, in un certo senso, lo sono realmente. Non ci si deve perdere d’animo, naturalmente. Ci sono tra noi persone che si spendono totalmente per cambiare, ma lo scenario è cambiato improvvisamente, troppo velocemente.
  Ciò che intuirono gli autori del Manifesto di Ventotene, che la scarsa formazione alla democrazia conduce alla svalutazione della democrazia, perché nelle masse prevalgono passioni tumultuose che le portano verso gli  “uomini forti”, o apparentemente  forti, fu ben chiaro fin dall’antichità. I leader populisti della nostra epoca sarebbero stati definiti  demagoghi dai pensatori dell’antica Grecia, semplici trascinatori  di popolo. La dottrina sociale li vorrebbe invece come formatori  e guide sapienti.
  Che fare, in questa situazione?
  Nel nostro piccolo mondo di quartiere occorre continuare l’opera iniziata, cercando di avvicinare di nuovo la gente agli spazi religiosi e migliorare l’attività di formazione e dialogo. In questo modo si possono costituire punti di resistenza e gettare i semi di un movimento  che abbia più capacità di incidere sulla società intorno. E’ ciò che si fece, nell’Azione Cattolica, verso la metà degli anni ’30 del secolo scorso, in un’altra epoca buia. All’epoca si aveva la diffidenza delle autorità religiose, oggi è molto diverso e questo aiuterà senz’altro. La dottrina sociale contemporanea, in particolare da ultimo con l’enciclica Laudato si’, dà un’idea realistica di ciò che accade e delle soluzioni a cui bisogna puntare. E invita a federarsi con tutte le altre persone di buona volontà, abbandonando ogni pretesa di autosufficienza religiosa, per creare un movimento che dalle realtà di prossimità, la famiglia, il condominio, il quartiere, la parrocchia, si estenda a livello globale. Ci invita a creare un movimento, come appunto, dopo aver scritto ilManifesto di Ventotene, fecero i suoi autori.

25. Religione tanto più coinvolgente quanto più inutile?

  Da adolescente, negli anni ’70, ho vissuto in un mondo in cui si pensava che la religione fosse in declino. Oggi sembra che lo sia solo in Europa. Ne hanno scritto i sociologi Peter Berger, Grace Davie ed Effie Fokas nel 2008, in un libro pubblicato in Italiano da Il Mulino,  con il titolo America religiosa, Europa laica? Perché il secolarismo europeo è un’eccezione, €18,50.
  Il secolarismo è una cultura che spiega i fatti umani e della natura senza fare ricorso alla religione. Il principio della laicità dello stato, per cui le istituzioni pubbliche non devono far ricorso alla religione per motivare quello che fanno ed è vietata ogni discriminazione su base religiosa, ne è un’applicazione. Esso garantisce la pace religiosa nel nostro continente. Storicamente la progressione culturale non è andata dal secolarismo al principio della laicità dello stato, e poi alla pace religiosa, ma si è sviluppata al contrario. Prima si è voluto ottenere la pace religiosa, e allora si è pensato di separare gli affari pubblici dalla religione e poi si è sviluppato il secolarismo, come estensione di questo metodo. Questa è stata una via originale, ed è per questo che le società europee presentano un marcato secolarismo, a differenza di quasi tutto il resto del mondo. Quando si è pensata di finirla di fare guerre sotto bandiere religiose, è sembrato che la religione divenisse progressivamente inutile. La si è continuata da usare per l'educazione morale, ma i suoi principi sempre più sono risultati arretrati e discriminatori, solo una ciliegina sulla torta nella formazione dei più ricchi e poco più che un anestetico per i meno ricchi; poi, da ultimo, la si è usata come medicina dell'anima, insieme ad altri rimedi, confinata nel privato  o in piccoli gruppi. In realtà i più grandi principi umanitari della nostra fede sono rimasti ancora come ideologia politica anche nella nostra nuova Europa (fondano la sua Carta dei diritti), ma laicizzati, per cui senza una formazione specifica non se ne riesce più a cogliere l'origine religiosa. Ma la politica, nella nostra organizzazione religiosa, fino a non molto tempo fa fu ritenuta sconveniente per la maggior parte del popolo: era riservata ai capi del nostro clero, i quali  ne hanno sempre fatta molta. Per loro la religione ha infatti ancora senso. E per gli altri?
 Negli ultimi sessant’anni ci siamo abituati ad associare la nostra religione, e la fede che la sorregge, con la pace. In realtà la nostra religione, come da più parti si è osservato, è stata storicamente ben poco pacifica. Alcuni hanno osservato che condivide questa caratteristica con le altre due religioni monoteistiche, che hanno in comune con la nostra fede un importante patrimonio culturale. Il politeismo è più pacifico del monoteismo? Una realistica consapevolezza storica smentisce questa tesi. Le società umane si sono sempre combattute, usando i loro dei come bandiere e immaginando che anch’essi si combattessero tra loro. Le storie sacre dei politeismi sono piene di queste guerre tra dei. Questa concezione, di dei troppo umani, cominciò a essere considerata insoddisfacente nell’antica Grecia, tra il Quinto e il  Quarto secolo dell’era antica. Nell’antica Grecia si svilupparono le filosofie che sono ancora alla base della cultura europea. L’idea che le società potessero essere organizzato secondo un ordine razionale che le rendesse stabili e pacifiche nasce da lì. Molti concetti che sono entrati nella nostra teologia monoteistica derivano da quelle filosofie. L’universalismo  umanitario della nostra fede deriva da lì, dall’incontro di un pensiero religioso sviluppatosi intorno alla Siria  con la cultura greca. Ora noi consideriamo Terra Santa  quella intorno a Gerusalemme, ma, attenendoci alla realtà storica, dovremmo cambiare opinione. La veraTerra Santa  della nostra fede è tra il lago di Tiberiade, nella Galilea delle genti dove iniziò la predicazione del Maestro,  Damasco e la città di Antiochia, che è ora è nella Turchia meridionale, al confine con la Siria, ma che anticamente era la capitale della provincia romana della Siria. In quella che viene considerata in genere la nostra Terra Santac’è invece poco o nulla della nostra religione delle origini. Il sospetto che certe memorie siano state contraffatte è fortissimo. Su tutto, antica Siria e Palestina, si è sovrapposta la cultura islamica, che ha trasformato, in particolare, l’urbanistica di Gerusalemme. Così, in realtà, la vera Terra Santa  della nostra fede è l’intero mondo in cui si è diffusa, e un posto come Roma sicuramente di più dell’attuale Gerusalemme.
  Il nostro monoteismo non ha avuto l’opportunità, quando si è imposto come ideologia dello stato romano, di imporsi come potenza culturale di pace e questo per tanti motivi. Il principale è che molto presto, l’antica cultura universalistica greco-romana che lo aveva profondamente conformato, determinando i principali suoi concetti teologici, è andata in pezzi insieme all’impero mediterraneo di cui aveva costituito l’anima. E questo anche se i popoli nuovi che, a partire del Terzo secolo, conquistarono con le armi l’Europa occidentale furono in qualche modo conquistati dalla sua cultura politica a sfondo religioso. Essi erano fascinati dall’immaginifica maestà della corte bizantina, che ancora si riflette nei riti della corte papale contemporanea. Ma l’unione politica continentale che era stata la culla della nostra fede religiosa non rinacque mai più, fino al secolo scorso, con la nostra nuova Europa. La politica fu saldamente connessa alla fede e ogni stato si propose come delegato della divinità, interprete del vero monoteismo. Ed anche il papa romano, nel secondo millennio della nostra era, iniziò ad agire politicamente come un capo di stato. I conflitti politici si connotarono religiosamente, pur rimanendo al fondo politici. La situazione si aggravò molto con gli scismi del Cinquecento, in Europa Occidentale. Da qui una serie continua di guerre, che finirono quando ci si accordò per farle finire, da questo derivò la nostra nuova Europa. Si decise di non fare più della religione una fonte di guerra. Da qui il principio della laicità degli stati e poi il secolarismo. A questo punto la religione sembrò divenire progressivamente inutile. Se ne poteva fare a meno e non succedeva nulla.
  Da una consapevolezza storica realistica emerge che, per quanto riguarda il problema della pace, non fu dannoso il monoteismo, ma l’appropriazione del monoteismo da parte degli stati, al modo in cui era avvenuto nell’antico impero bizantino. Gli stati vollero essere imperi universali cercando giustificazioni religiose al loro dominio e quindi, poiché nessuno di essi aveva la forza di imporsi su tutti gli altri, scaturirono continue guerre. Da ciò deriva che non bisogna pensare che la pace europea, fondata su principi di secolarismo, sia conseguita all’abbandono della fede religiosa, perché ciò avvenne piuttosto tardi, verso la metà del secolo scorso, mentre la pace religiosa europea risale a una serie di trattati conclusi nella provincia tedesca della Vestfalia nel Seicento. Certo, fu importante decidere di non fare più delle questioni religione un motivo di guerra, ma all’origine della pace fu la rinuncia all’idea di dominare l’Europa al modo in cui l’aveva dominata l’antico impero romano dopo aver sostituito la nostra fede monoteistica come ideologia politica dello stato al politeismo. Questo fu l’accordo. Tutte le volte che si attenuò, ripresero le guerre europee. Rispetto ad esse la nostra fede, a fronte di un ambiente secolarizzato dal principio di laicità degli stati, rimase neutrale. Solo nel secolo scorso nelle nostre collettività religiose si sviluppò faticosamente una cultura di pace. Ai tempi nostri la religione non è più neutrale di fronte al problema della guerra. Essendo ormai esterna  agli stati, fa loro la morale, cerca di condurli sulle vie della pace. Ma questo movimento coinvolge poco i fedeli. In Europa cercano dalla religione più il benessere psicologico, quella che viene definita pace spirituale, che un ammaestramento di pace. E sono endemiche concezioni magiche risalenti culturalmente agli antichi politeismi. Gli eventi straordinari, la spettacolarizzazione di pretesi eventi prodigiosi, coinvolge ancora le masse. Ma, tanto più la religione diviene questo, tanto più diviene inutile, in particolare per i più giovani, che devono farsi spazio nel mondo e non sentono il bisogno di rimedi consolatori. Fare spazio nel mondo a gente nuova, tutta quella che la natura produce in gran numero (siamo ormai circa sette miliardi) richiede di ragionare di politica e di farlo anche in termini religiosi, ponendosi alcuni punti fermi, come quello dell'uguale dignità delle persona e del diritto di tutti alla  vita e alla ricerca della felicità. Altrimenti il mondo esploderà, se si pretende di governarlo con la legge della giungla, secondo l'ideologia corrente del grande capitalismo globale.  Si osserva però che il monoteismo non può riprendere a fare politica perché la sua politica storicamente non ha prodotto la pace. Questa è la principale obiezione rivolta storicamente anche alla dottrina sociale. Come unire religiosamente un’umanità in cui devono convivere molte grandi religioni, che in genere si manifestano intolleranti le une contro le altre? E’ possibile sviluppando una nuova cultura religiosa, secondo quanto, ad esempio, è indicato nell’enciclica Laudato si’.  Occorre, in particolare, prendere atto che dalla nostra fede sono scaturiti i grandi principi sui quali si fonda oggi l’integrazione europea, in un grande processo di pacificazione continentale. Far capire come sia successo che, pur abbandonando l’idea di religione di stato, la fede delle Beatitudini costituisca in fondo, ancora, la base culturale della nostra nuova Europa, e che quindi il processo di secolarizzazione europea non sia sfociato in realtà in un’apostasia, come superficiali critici ritengono, è la sfida che si propone oggi nella formazione religiosa ad ogni livello, fin dall’inizio. In questo modo la religione può divenire utile, oltre che coinvolgente.

26. Noi, la pace e la religione

   In una riunione del gruppo parrocchiale di AC in San Clemente papa,  con l’aiuto di alcuni pensieri di nonviolenza di grandi anime che ciascuno di noi ha letto ad alta voce su un foglietto che ci è stato distribuito, un pensiero su ogni foglietto, abbiamo continuato la riflessione sulla pace, che avevamo avviato in vista dell’incontro diocesano dell’AC sul Messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace  di papa Francesco, che si è tenuto nella nostra parrocchia.
  Nella discussione che è seguita sono emerse gran parte delle obiezioni che di solito vengono portate contro la nonviolenza, e anche contro la pace. In parte venivano proposte ai giovani che chiedevano l’esenzione dal servizio militare armato per ragioni di coscienza, gli obiettori di coscienza.  “Se qualcuno ti uccidesse un parente stretto?”, “C’è tanta malvagità nel mondo, tanta corruzione…”,  e via dicendo. Si è manifestata poi la difficoltà a condividere pensieri di nonviolenza  di persone appartenenti ad altre tradizioni religiose, anche se cristiane come il pastore battista Martin Luther King. E c’è stata anche un’eco della storica diffidenza che si è avuta in religione per i processi democratici, in particolare valutando il risultato delle ultime elezioni presidenziali statunitensi.
 Può sembrare che si tratti di discorsi lontani dalla nostra realtà quotidiana, eppure tremendi episodi di violenza e di intolleranza sociale sono accaduti proprio dalle nostre parti, veramente a due passi dalle nostre case. E tutti i problemi che vediamo a livello globale si manifestano anche da noi, ad esempio quello di uno sviluppo economico inumano, che porta degrado degli ambienti urbani e naturali e insicurezza economica ed esistenziale. Il nostro quartiere appare abbandonato, ci si limita a garantire i servizi essenziali, ma in una città come Roma ci si aspetterebbe qualcosa di più. A parte la parrocchia, non ci sono posti per incontrarsi. E’ stato dato alle fiamme il bar più grande, che costituiva un bel punto di ritrovo per la gente del quartiere: ecco un segno della violenza sociale molto vicina a noi, che ha sfigurato l’ambiente urbano del quartiere. Ora è lì, povera maceria annerita, a ricordarci che qualcosa non va nella nostra società di quartiere. Siamo assediati dal traffico, da grandi correnti di traffico dirette verso altri posti. Questo rende pericolose le strade del quartiere per i più piccoli e i più anziani. La bellezza nel nostro quartiere non c’è e nessuno ci pensa. Potrebbe esserci anche tra i nostri palazzoni. La bellezza, infatti, è democratica, alla portata di tutti, perché tutti ne hanno bisogno e se ce n’è troppo poca si soffre. Si vive, allora, come in una grande stazione ferroviaria, in un ambiente funzionale ma anonimo.  E’ anche la cura che si riserva al grande parco al lato delle nostre case, il Pratone, conquistato in un lungo periodo di lotte sociali è insufficiente, del resto come accade negli altri parchi della città.
  Che c’entra tutto questo con la  nonviolenza? C’entra perché la radice  dei mali che ho descritto è la medesima da cui scaturisce la mala pianta della violenza sociale, su piccola e grande scala: il crescente egoismo per cui ognuno guarda solo al proprio particolare e pensa sia inutile intendersi con gli altri per migliorare le cose. La violenza, tra le persone, i gruppi e gli stati, serve a farsi spazio  e a rapinare gli altri. Gli altri, in questa prospettiva, diventano solo degli ostacoli o persone che possiedono cose che vorremmo sottrarre loro. E, invece, il progresso sociale per cui si può vivere una vita sicura, decorosa e anche bella, dipende dal nostro rapporto positivo con la società intorno per cui si possano trovare all’interno di essa degli alleati. La società contemporanea è stata paragonata a una macchina, a una macchina sociale. Ma gli esseri umani non sono ingranaggi, anche se talvolta li si vuole rendere tali, come in certe produzioni industriali. Ognuno di loro ha quella che le religioni definiscono anima e che significa che sono più di un meccanismo biologico  e hanno bisogno di dare senso alla proprie esistenza. E questo senso lo si ritrova solo nel rapporto positivo con gli altri, che significa costruire una società orientata verso la persona umana. La città solo come macchina sociale diventa un inferno urbano, come se ne sono creati molti in Oriente.
  Se si reagisce alla violenza con altra violenza ci sarà solo più violenza e, si dice, occhio per occhio  rende il mondo cieco. Un verità tanto chiara, perché costantemente confermata dall’esperienza, è ancora difficile da accettare, anche in religione. Quando si passa dalla teologia in pillole del catechismo dell’infanzia al pensare qualcosa di più serio e impegnativo sorgono problemi. Non siamo stati abituati, in religione, a pensare la società: immaginavamo che la verità sociale ci venisse insegnata dall’alto e fluisse fino a noi attraverso i nostri preti. Spesso, ancora quando si parla di problemi sociali chiediamo loro di spiegarci perché questo, perché quello, perché la violenza, perché il male,  e via dicendo, come se il sapere di teologia, quindi della nostra fede comune, li costituisse tuttologi. Lorenzo Milani diceva invece che dovremmo essere noi a spiegare loro come va il mondo. Ma anche quest’idea non mi convince, perché presuppone che i preti vivano fuori del mondo, e non è così. In realtà la comprensione realistica di come vanno le cose nel mondo, dei problemi che ci sono, e delle soluzioni possibili, deriva dal mettere insieme tanti punti di vista particolari, anche  quelli dei preti, in modo che facendo luce su tanti aspetti della realtà, come quando si marcia di notte in campagna e ognuno fa luce con la sua piccola torcia, si riesca a capire dove bisogna andare per trasformare il mondo.
 Ecco, su un pensiero di Aldo Capitini che abbiamo letto l’altro giorno c’era scritto che la nonviolenza  non lascia il mondo così com’è, ma lo trasforma in meglio. Penso che la nostra parrocchia avrà superato molti dei suoi problemi quando potrà dire di aver contribuito a trasformare il quartiere in cui è immersa. In passato mi è parso che  a lungo se ne sia disinteressata, preferendo dedicarsi alla realizzazione di quelle che ho chiamato  serre umane, a coltivare belle anime  al suo interno, al modo in cui lo si fa con le piante nelle serre dei giardinieri. E da dove può venire una soluzione ai problemi sociali del quartiere se non da una realtà come la parrocchia, che che è quasi l’unica, e comunque credo la maggiore, a disporre di luoghi d’incontro? La parrocchia può riprendere ad essere (lo è già stata in passato) la potenza spirituale che può innescare dinamiche sociali virtuose, in grado di cambiare il mondo dalle nostre parti. Per pensare, ad esempio, una nuova sistemazione urbanistica del quartiere, che liberi via Val Padana dall’assedio delle automobili, e per rendere più sicure per tutti  le strade del quartiere. Da impegni sociali virtuosi, catalizzati dalla parrocchia, scaturirebbe, ci si può giurare, un forte impegno di volontariato, perché in Italia, basta che se ne dia occasione, esso si sviluppa rigoglioso.

27. Antipapa?

"Nella mia precedente carriera diplomatica ho aiutato ad abbattere l'Unione sovietica, ora sembra che ci sia un'altra Unione che ha bisogno di una scossa”. Ted Malloch, proposta dal nuovo presidente statunitense come ambasciatore U.S.A. presso l’Unione Europea


 Se consideriamo il pensiero politico diffuso dal nuovo presidente statunitense Donald Trump e gli insegnamenti sulla dottrina sociale contenuti nell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco ci convinciamo a prima vista che sono agli opposti. Il messaggio di Trump al mondo è più che politico e quello del Papa è più che spirituale. Entrambi sostengono che il mondo va male e che bisogna fare dei cambiamenti, ma le soluzioni divergono radicalmente. Per Trump gli Stati Uniti d’America possono salvarsi anche senza il resto del mondo, per il Papa nessuno stato, anche molto potente, può salvarsi da solo. Per Trump gli Stati Uniti d’America, lo stato per ora più potente del mondo, sia dal punto di vista economico sia da punto di vista militare, ci stanno rimettendo per salvare il mondo e quindi per salvarsi devono cominciare a pensare di più a loro stessi, al loro interessa nazionale, per il Papa questo è ciò che gli stati più potenti del mondo hanno sempre fatto, a discapito dei meno potenti e ricchi, generando sofferenza sociale a livello globale. Per Trump occorre una rivoluzione culturale, ed è in questo che il suo pensiero è più che politico, e può dirsi lo stesso per il Papa, ed è in questo che il suo insegnamento è più che spirituale. Trump dichiara che gli Stati Uniti d’America sono disposti a tutto per salvarsi, il Papa indica il metodo della nonviolenza. La dottrina sociale indica la strada della grandi istituzioni sovranazionali per promuovere la pace, Trump vuole scioglierle perché ritiene che ingabbino la potenza statunitense a discapito dei cittadini americani, che nella sua visione sono solo quelli del suo stato. E il resto di quelli che vivono nel continente Americano, compreso Bergoglio, che è nato americano? Trump non ci dice che ne pensa, salvo che ritiene siano persone che vogliono oltrepassare abusivamente le barriere che già ci sono tra Messico e Stati Uniti d’America. In sostanza “bad hombres”, gente cattiva, come sembra abbia detto l’altro ieri parlando con il presidente messicano. Trump vuole costruire un mondo di accordi bilaterali, tra gli Stati Uniti e, di volta in volta, un altro stato: pensa così di avere sempre la meglio, per ora, perché gli Stati Uniti d’America sarebbero il pesce grosso che mangia il pesce piccolo. Ma fino a quando? Ci sono altri pesci che si stanno ingrossando molto. Quando se la sentiranno di ragionare come Trump sarà la guerra mondiale.
  Il pensiero di Trump ha e avrà ancor più seguaci in Occidente, anche tra chi non è americano. Anche in Italia, benché essa sia una nazione piccola e poco influente sullo scenario mondiale: nei futuri accordi bilaterali  è destinata ad avere la peggio. Questo perché non si è ancora raggiunto la capacità di pensare europeo, su scala continentale. Parliamo dell’Europa  come nell’Ottocento da noi si parlava dell’Impero d’Austria, come di una potenza che ci ha invaso, e invece noi siamo Europa. Sono italiani il presidente del Parlamento europeo, il ministro degli esteri dell’Unione, il presidente della Banca Centrale Europea e un gran numero di alti funzionari dell’Unione Europea. Nel Consiglio Europeo, il nostro governo condivide tutte le decisioni più importanti. In un rapporto bilaterale con gli Stati Uniti d’America l’Unione Europea tratterebbe da pari, perché, nell’insieme, è una grande potenza economica e un grande mercato: è uno dei pesci grossi del mondo e non si lascerebbe tiranneggiare da altri. E’ per questo che Trump, nelle sue dichiarazioni pubbliche di questi giorni, l’ha aggredita violentemente, per ora verbalmente (ma egli si è dimostrato uomo capace di passare rapidamente dalle parole ai fatti, cambiando con pochi tratti di penna la vita di moltitudini di persone, per ora tra quelle che nelle società stanno peggio). Vuole mandare da noi come ambasciatore presso l’Unione Europea uno come Ted Malloch che la paragona all’Unione Sovietica e si propone di dare una mano a scuoterla. In realtà gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea condividono ancora una medesima ideologia democratica, anche se sembra che in certe cose il presidente Trump se ne stia sbrigativamente discostando. Egli sembra apprezzare l’attuale capo egemone della Russia, il quale si è formato in tutti i sensi, come uomo, come soldato, ma anche nell’azione politica, in Unione Sovietica, in particolare come ufficiale della polizia politica segreta, e che dell’Unione Sovietica vuole riaffermare certi fasti, mischiandovi anche quelli della Russia zarista. Negli anni ’70 l’Unione Sovietica stava vincendo la sua battaglia globale con gli Stati Uniti d’America:  a quell’epoca raggiunse il picco della sua fase espansiva, della sua potenza economica e della sua capacità d’influenza ideologica. Stava diventando il pesce più grosso. Tutto poi cambiò, in processi che ancora oggi non sono chiari, ma che fondamentalmente sono collegati all’azione politica del leader sovietico Michail Gorbaciov e alle sue intese con il presidente statunitense Ronald Reagan (1911-2004, presidente statunitense dal 1981 al 1989). Qualcosa che oggi si ripropone nel caso di Trump e del presidente russo Vladimir Putin (n.1952), ma con un senso molto diverso.  Qui si tratta di confronto bilaterale tra pesci grossi  in fase espansiva: cose così vanno sempre a finire male. Al fondo dell’azione politica di Gorbaciov c’era invece l’idea di umanizzare la politica sovietica, risultato che, in definitiva, egli non riuscì ad ottenere. Negli anni successivi alla sua caduta, gli Stati Uniti d’America acquisirono sempre più potere nelle cose russe, in particolare sotto la presidenza di Boris Eltsin (1931-2007, presidente della Russia dal 1992 al 1999). E’ appunto sotto la presidenza Eltsin che Putin cominciò ad ottenere incarichi politici sempre più importanti e da Eltsin fu nominato per la prima volta capo del governo. Egli però si è manifestato molto diverso da Eltsin, in particolare nella politica verso gli Stati Uniti d’America. Solo apparentemente nel rapporto Trump-Putin sembra riproporsi quello Reagan-Gorbaciov: la Russia di Putin e gli Stati Uniti d’America di Trump sono infatti in rotta di collisione. Il terreno di battaglia più probabile tra le due grandi potenze, i due pesci grossi,  è l’Europa. Ed è per evitarlo che l’Europa dovrebbe rimanere molto forte e coesa. Ma di questo non c’è sufficiente consapevolezza tra le forze politiche italiane e, soprattutto, tra i cittadini, disabituati a pensare in grande e invece abituati  fare i conti solo nelle proprie case e in base a ciò che vedono nell’arco di cento metri da dove vivono di solito. Gli africani, gli europei orientali e i rom che vivono tra noi saranno l’ultimo dei nostri problemi se Russia e Stati Uniti d’America si faranno la guerra in Europa, e invece i populisti delle nostre parti è proprio su quelli che attirano l’attenzione degli elettori, sollecitando le nostre paure verso il diverso, mentre per il mondo ricominciano a soffiare venti di un conflitto globale. In questo quadro il Papa fa la figura del grillo parlante  della storia di Pinocchio, e rischia di finire acciaccato contro una parete da gente, noi!,  talvolta ridotta un po’, ormai, sul piano della capacità di pensiero politico, alla condizione di bambini discoli.
 Si legge nell’enciclica  Laudato si:
5°. AMORE CIVILE E POLITICO
228. La cura per la natura è parte di uno stile di vita che implica capacità di vivere insieme e di comunione. Gesù ci ha ricordato che abbiamo Dio come nostro Padre comune e che questo ci rende fratelli. L’amore fraterno può solo essere gratuito, non può mai essere un compenso per ciò che un altro realizza, né un anticipo per quanto speriamo che faccia. Per questo è possibile amare i nemici. Questa stessa gratuità ci porta ad amare e accettare il vento, il sole o le nubi, benché non si sottomettano al nostro controllo. Per questo possiamo parlare di una fraternità universale.
229. Occorre sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo, che vale la pena di essere buoni e onesti. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e impedisce lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente.
230. L’esempio di santa Teresa di Lisieux ci invita alla pratica della piccola via dell’amore, a non perdere l’opportunità di una parola gentile, di un sorriso, di qualsiasi piccolo gesto che semini pace e amicizia. Un’ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo. Viceversa, il mondo del consumo esasperato è al tempo stesso il mondo del maltrattamento della vita in ogni sua forma.
231. L’amore, pieno di piccoli gesti di cura reciproca, è anche civile e politico, e si manifesta in tutte le azioni che cercano di costruire un mondo migliore. L’amore per la società e l’impegno per il bene comune sono una forma eminente di carità, che riguarda non solo le relazioni tra gli individui, ma anche «macro-relazioni, rapporti sociali, economici, politici». Per questo la Chiesa ha proposto al mondo l’ideale di una «civiltà dell’amore». L’amore sociale è la chiave di un autentico sviluppo: «Per rendere la società più umana, più degna della persona, occorre rivalutare l’amore nella vita sociale – a livello, politico, economico, culturale - facendone la norma costante e suprema dell’agire»[dal  Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 582].In questo quadro, insieme all’importanza dei piccoli gesti quotidiani, l’amore sociale ci spinge a pensare a grandi strategie che arrestino efficacemente il degrado ambientale e incoraggino una cultura della cura che impregni tutta la società. Quando qualcuno riconosce la vocazione di Dio a intervenire insieme con gli altri in queste dinamiche sociali, deve ricordare che ciò fa parte della sua spiritualità, che è esercizio della carità, e che in tal modo matura e si santifica.
232. Non tutti sono chiamati a lavorare in maniera diretta nella politica, ma in seno alla società fiorisce una innumerevole varietà di associazioni che intervengono a favore del bene comune, difendendo l’ambiente naturale e urbano. Per esempio, si preoccupano di un luogo pubblico (un edificio, una fontana, un monumento abbandonato, un paesaggio, una piazza), per proteggere, risanare, migliorare o abbellire qualcosa che è di tutti. Intorno a loro si sviluppano o si recuperano legami e sorge un nuovo tessuto sociale locale. Così una comunità si libera dall’indifferenza consumistica. Questo vuol dire anche coltivare un’identità comune, una storia che si conserva e si trasmette. In tal modo ci si prende cura del mondo e della qualità della vita dei più poveri, con un senso di solidarietà che è allo stesso tempo consapevolezza di abitare una casa comune che Dio ci ha affidato. Queste azioni comunitarie, quando esprimono un amore che si dona, possono trasformarsi in intense esperienze spirituali.
  A chi vogliamo dare retta, noi adulti di fede italiani? A Trump o al Papa? I due, come ho osservato, sono agli opposti: uno è l’ “anti-“ dell’altro. Non si può essere trumpisti  in politica e papisti  in religione, perché, il messaggio di Trump è più che politica e quello del Papa è più che spirituale, e sono in rotta di collisione. Entrambi infatti sollecitano ad un impegno sociale, ma seguendo una spiritualità dell’egoismo nazionale il  primo, mentre il secondo invitando a quella dell’umanesimo e della fraternità globali. La prima via conduce alla guerra tra pesci grossi, la seconda ha di mira la pace come bene essenziale dell’umanità. La prima vuole  mantenere, anche a scapito di tutto il resto del mondo, la ricchezza nella nazione che per ora è la più ricca del mondo, la seconda vuole la giustizia tra le nazioni come strategia di pace. Mentre Trump urla “Solo noi!”, il Papa dice “Tutti noi”.

28. Il neo-nazionalismo: un problema di corruzione spirituale della  società

[Dal Manifesto di Ventotene, ideato nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

  Immense masse di uomini e di ricchezze sono già schierate contro le potenze totalitarie. Le forze di queste potenze hanno raggiunto il loro culmine e non possono oramai che consumarsi progressivamente. Quelle avverse hanno invece già superato il momento della massima depressione e sono in ascesa. La guerra degli alleati risveglia ogni giorno di più la volontà di liberazione anche nei paesi che avevano soggiaciuto alla violenza ed erano come smarriti per il colpo ricevuto.  E persino risveglia tale volontà nei popoli delle potenze dell'Asse, i quali si accorgono di essere trascinati in una situazione disperata solo per soddisfare la brama di dominio dei loro padroni.
  Il lento processo, grazie al quale enormi masse di uomini si lasciavano modellare passivamente dal nuovo regime, vi si adeguavano e contribuivano così a consolidarlo, è arrestato; si è invece iniziato il processo contrario. In questa immensa ondata, che lentamente si solleva, si ritrovano tutte le forze progressiste; e, le parti più illuminate delle classi lavoratrici che si erano lasciate distogliere, dal terrore e dalle lusinghe, nella loro aspirazione ad una superiore forma di vita; gli elementi più consapevoli dei ceti intellettuali, offesi dalla degradazione cui è sottoposta l'intelligenzaimprenditori, che sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi dalle bardature burocratiche, e dalle autarchie nazionali, che impacciano ogni loro
movimento
tutti coloro, infine, che, per un senso innato di dignità, non sanno piegar la spina dorsale nella umiliazione della servitù.
 A tutte queste forze è oggi affidata la salvezza della nostra civiltà.
[…]
  Le forze conservatrici, cioè i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati nazionali […] hanno uomini e quadri abili ed adusati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati. Si proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuati dentro i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovrà fare i conti.
  Il punto sul quale essi cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse popolari l'unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l'ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare, sia esse che i loro capi più miopi, sul terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera.
  Se raggiungessero questo scopo avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi.
[…]
  Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani.
[…]
  Gli spiriti sono giù ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell'Europa. La dura esperienza ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere ed ha fatto maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale.
[…]
 E' ormai dimostrata la inutilità, anzi la dannosità di organismi, tipo della Società delle Nazioni, che pretendano di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni e rispettando la sovranità assoluta degli stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei.
  Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente: tracciati dei confini a popolazione mista, difesa delle minoranze allogene, sbocco al mare dei paesi situati nell'interno, questione balcanica, questione irlandese, ecc., che troverebbero nella Federazione Europea la più semplice soluzione, come l'hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte delle più vaste unità nazionali, quando hanno perso la loro acredine, trasformandosi in problemi di rapporti fra le diverse provincie.
  D'altra parte la fine del senso di sicurezza nella inattaccabilità della Gran Bretagna, che consigliava agli inglesi la "splendid isolation", la dissoluzione dell'esercito e della stessa repubblica francese, al primo serio urto delle forze tedesche - risultato che è da sperare abbia di molto smorzata la presunzione sciovinista della superiorità gallica - e specialmente la coscienza della gravità del pericolo corso di generale asservimento, sono tutte circostanze che favoriranno la costituzione di un regime federale che ponga fine all'attuale anarchia. Ed il fatto che l'Inghilterra abbia accettato il principio dell'indipendenza indiana, e la Francia abbia potenzialmente perduto col riconoscimento della sconfitta, tutto il suo impero, rendono più agevole trovare anche una base di accordo per una sistemazione europea dei problemi coloniali.

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  Gli autori del Manifesto di Ventotene  pensavano di costruire la pace europea istituendo in Europa uno stato federale simile agli Stati Uniti d’America, con una propria organizzazione armata in grado di imporre le sue decisioni anche con la forza e che superasse gli stati nazionali, vale a dire quelli fortemente caratterizzati sul piano delle culture sociali, quindi con riguardo a determinati connotati etnici, linguistici, religiosi, economici, militari, derivanti dalla loro storia. Questo perché la lunga fase di conflitto bellico sviluppatasi tra il 1914 e il loro tempo (scrivevano ne mezzo dell’ultima epoca di guerra) appariva originata da conflitti tra stati nazionali, benché nella Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) avessero preso sempre più importanza i motivi di divisione ideologica, in particolare tra le società democratico-liberali con economia capitalista, quelle riorganizzate dai fascismi europei, il più potente dei quali si era manifestato il nazismo tedesco, e le società cadute sotto il dominio sovietico, nell’immenso territorio un tempo dominato dal regime della Russia zarista. Pensavano quindi di ripetere sul continente il processo politico che aveva portato alla faticosa costruzione dell’unità nazionale italiana. Il processo di unificazione europea ha poi presso un’altra via, in particolare seguendo il pensiero del politico francese Jean Monnet (1988-1979). Chi desidera approfondire può farlo sul portale WEB della Treccani a questo indirizzo 
<http://www.treccani.it/enciclopedia/europeismo_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/>.
  I nazionalisti italiani dell’Ottocento scoprirono che  “fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani”, vale a dire che gli elementi culturali unificantiche avevano sorretto il movimento politico per l’unità nazionale erano propri di classi piuttosto ristrette, in particolare di ceti colti, con scarsa rappresentanza delle masse popolari. Bisognava creare nei popoli italiani i presupposti per il consolidamento dell’unità nazionale, innanzi tutto elevando il livello di istruzione popolare, che era molto basso, istituendo un servizio nazionale di stato per l’istruzione  di base, quella elementare. Anche la leva militare fu utilizzata a questo scopo, anche se coinvolgeva solo i maschi. Il più potente fattore di coesione culturale delle genti italiane era costituito, all’epoca, dalla fede religiosa, ma esso poté essere utilizzato politicamente solo molto più tardi,  nel secondo decennio del Novecento, perché l’unità nazionale si era fatta anche contro il papato, che dominava uno dei piccoli regni in cui l’Italia era suddivisa e che vennero soppressi nel processo politico di unificazione. I Papi, quindi, vietarono a lungo ai fedeli cattolici la politica nazionale e ciò fino al 1913.
 Nel processo di unificazione europea iniziato negli anni ’50 del secolo scorso, si cominciò dal tentativo di indurre un avvicinamento delle economie e delle società europee, come premessa per una progressiva cessione di sovranità degli stati nazionali alle istituzioni europee. Negli ultimi trent’anni questo processo ha coinvolto masse di giovani in programmi di integrazione scolastica che prevedono che liceali e universitari possano svolgere parte dei loro studi in altri stati europei. Questo ha portato i giovani ad essere molto più europeisti dei loro genitori, formatisi nella cultura dello stato nazionale. Nelle difficoltà attuali dell’Europa, però, molta  gente non pensa alle istituzioni europee come una risorsa per resistere e superarle, ma come a un impedimento e addirittura come una loro causa. Nel voto al referendum in Gran Bretagna per l’uscita dall’Unione Europea è risultato che i più anziani, quelli meno acculturati all'europeismo, sono stati determinanti. Il processo culturale per l’unificazione europea non ha quindi ancora raggiunto quel grado che consenta di proteggere le nuove istituzioni dalla minaccia di dissoluzione.  Ai tempi in cui fu scritto il Manifesto di Ventotene, e ancor più alla caduta dei fascismi europei, nel 1945, fu chiaro invece che i popoli europei potevano risollevarsi solo tutti insieme, superando gli egoismi nazionali che li avevano divisi e condotti a combattersi.
  I nazionalismi in cui sta ricadendo l’Europa sono molto diversi da quelli del passato, che facevano leva, in particolare in Italia, sulla scarsa istruzione popolare, che rendeva la gente più facilmente manovrabile. Piuttosto essi appaiono come un’estensione su grande scala, dalla realtà domestica a quella degli stati e dell’organizzazione del continente, di egoismi consumistici individuali, per cui si pensa che, possedendo ciò che bisogna possedere, tutto il resto conti poco e, in particolare il grado di ingiustizia sociale che c’è in ciò che si è comprato e si possiede. I vecchi nazionalismi facevano leva sullo spirito di sacrificio della gente, spingendola anche a dare la vita  per il bene della nazione, intesa  in definitiva come la casa dei padri, la patria. Tutta l’epica nazionalista Ottocentesca è piena di figure esemplari così. Il nazionalismo di oggi si basa invece sull’idea che non valga assolutamente la pena di sacrificarsi per nulla al mondo e quindi sulla volontà di tutelare, non tanto la propria roba, ma la possibilità dicomprare  tutto ciò che si desidera, buttando ciò che non è più di moda possedere. L’idea di limitarsi in questo per ragioni umanitarie spaventa, perché da cittadini siamo diventati consumatori, come ha spiegato bene Zygmunt Bauman, e in questo continuo consumare  troviamo ilsenso della vita, il nostro benessere sociale, la nostra fonte di integrazione con gli altri. Ecco perché il neo-nazionalismo non ha più bisogno dei miti  che riempivano ad esempio l’ideologia popolare del fascismo mussoliniano, basata su una reinterpretazione della storia imperiale romana. Il vecchio nazionalismo era altruistico, benché solo su scala nazionale: per la patria  si era spinti a dare anche la vita, a perdere tutto, come si cantava nella lirica di Paolo Pola:  Chi per la patria muor / vissuto è assai / la fronda dell’allor/ non langue mai[dal melodramma di Saverio MercadanteCaritea, regina di Spagna, ossia La morte di Don Alfonso re di Portogallo, messo in scena nel 1826; due atti  con libretto  curato da Paolo Pola]. Nel neo-nazionalismo contemporaneo tutti vogliono salvarsi anche a costo di abbandonare gli altri, in particolare ributtando a mare  le genti che arrivano da altri continenti.  Questo mette in questione la fede religiosa? Come si raggiunge l’integrazione tra fede e vita, ragionando così? E se si vuole innanzi tutto salvarsi  come individui, come ci si salverà come nazione? E come ci si salverà come individui, se il salvarsi richiede di agire come nazione e anche in un ambito più vasto? C’è in questione anche una spiritualità, come è spiegato nell’ultimo capitolo dell’enciclica Laudato si’. Occorre una specifica formazionealla cittadinanza europea, che, proprio per gli elementi di spiritualità che connotano i problemi di oggi, dovrebbe farsi anche in religione, ma in genere non si fa.
 Bauman ha spiegato che quello che i vecchi nazionalismi ottenevano con la mitologia e la forza, quelli attuali riescono ad ottenere spontaneamente dalla gente: quest’ultima si accomoda disciplinatamente alla cassa, senza più necessità di polizia per tenerla a freno. E lì pensa solo a sé stessa e a ciò che sta acquistando, al proprio giocattolo nuovo, che presto abbandonerà. Come è scritto nell’enciclica la nostra società produce molti rifiuti, e anche di tipo umano, vite abbandonate.
 Spinelli e i suoi amici avevano una certa idea delle classi conservatrici,  che avrebbero tentato di mantenere il dominio anche dopo la caduta dei fascismi europei. Bisogna dire che esse sono molto mutate, si sono fatte meno visibili, nascoste dietro uno dei miti di oggi, quello delmercato. Quest’ultimo, per la sua dimensione anche spirituale e la sua personificazione al modo delle antiche divinità, è divenuto, nella considerazione di molta gente, un nuovo dio. Anche di questo si parla nell’enciclica Laudato si’. Esso ci domina e, spingendoci gli uni contro gli altri, dividendoci, mantiene il controllo su di noi. E noi, pensando di fare solo il nostro interesse, lasciandoci dividere dagli altri, facciamo il suo gioco.  Il suo, però, è un vero giogo, e non è dolce come quello del Maestro. Infatti ci rende schiavi. "Schiavi di un dio minore", secondo il titolo del bel libro di Arduino e Lipperini sulle nuove schiavitù che ho citato qualche giorno fa (disponibile anche in e-book).


29. Economia e comunione

Di solito sono piuttosto parco nel citare e riportare documenti dei Papi, perché è stata letteratura sovrabbondante che ha un po’ compresso tutto il resto limitando il dialogo,  ma questo breve pezzo  che segue lo devo proprio trascrivere integralmente per la grande emozione che mi ha procurato e il sentimento di totale condivisione.
dal sito WEB
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/february/documents/papa-francesco_20170204_focolari.html

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO "ECONOMIA DI COMUNIONE",
PROMOSSO DAL MOVIMENTO DEI FOCOLARI
Aula Paolo VI
Sabato, 4 febbraio 2017



Cari fratelli e sorelle,

 sono lieto di accogliervi come rappresentanti di un progetto al quale sono da tempo sinceramente interessato. A ciascuno di voi rivolgo il mio saluto cordiale, e ringrazio in particolare il coordinatore, Prof. Luigino Bruni, per le sue cortesi parole. E ringrazio anche per le testimonianze.
  Economia e comunione. Due parole che la cultura attuale tiene ben separate e spesso considera opposte. Due parole che voi invece avete unito, raccogliendo l’invito che venticinque anni fa vi rivolse Chiara Lubich, in Brasile, quando, di fronte allo scandalo della diseguaglianza nella città di San Paolo, chiese agli imprenditori di diventare agenti di comunione. Invitandovi ad essere creativi, competenti, ma non solo questo. L’imprenditore da voi è visto come agente di comunione. Nell’immettere dentro l’economia il germe buono della comunione, avete iniziato un profondo cambiamento nel modo di vedere e vivere l’impresa. L’impresa non solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può edificarla, può promuoverla. Con la vostra vita mostrate che economia e comunione diventano più belle quando sono una accanto all’altra. Più bella l’economia, certamente, ma più bella anche la comunione, perché la comunione spirituale dei cuori è ancora più piena quando diventa comunione di beni, di talenti, di profitti.
  Pensando al vostro impegno, vorrei dirvi oggi tre cose.
  La prima riguarda il denaro. È molto importante che al centro dell’economia di comunione ci sia la comunione dei vostri utili. L’economia di comunione è anche comunione dei profitti, espressione della comunione della vita. Molte volte ho parlato del denaro come idolo. La Bibbia ce lo dice in diversi modi. Non a caso la prima azione pubblica di Gesù, nel Vangelo di Giovanni, è la cacciata dei mercanti dal tempio (cfr 2,13-21). Non si può comprendere il nuovo Regno portato da Gesù se non ci si libera dagli idoli, di cui uno dei più potenti è il denaro. Come dunque poter essere dei mercanti che Gesù non scaccia? Il denaro è importante, soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo quando diventa il fine. L’avarizia, che non a caso è un vizio capitale, è peccato di idolatria perché l’accumulo di denaro per sé diventa il fine del proprio agire. E’ stato Gesù, proprio Lui, a dare categoria di “signore” al denaro: “Nessuno può servire due signori, due padroni”. Sono due: Dio o il denaro, l’anti-Dio, l’idolo. Questo l’ha detto Gesù. Allo stesso livello di opzione. Pensate a questo.
  Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto. La “dea fortuna” è sempre più la nuova divinità di una certa finanza e di tutto quel sistema dell’azzardo che sta distruggendo milioni di famiglie del mondo, e che voi giustamente contrastate. Questo culto idolatrico è un surrogato della vita eterna. I singoli prodotti (le auto, i telefoni…) invecchiano e si consumano, ma se ho il denaro o il credito posso acquistarne immediatamente altri, illudendomi di vincere la morte.
  Si capisce, allora, il valore etico e spirituale della vostra scelta di mettere i profitti in comune. Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo, condividerlo con altri, soprattutto con i poveri, o per far studiare e lavorare i giovani, vincendo la tentazione idolatrica con la comunione. Quando condividete e donate i vostri profitti, state facendo un atto di alta spiritualità, dicendo con i fatti al denaro: tu non sei Dio, tu non sei signore, tu non sei padrone! E non dimenticare anche quell’alta filosofia e quell’alta teologia che faceva dire alle nostre nonne: “Il diavolo entra dalle tasche”. Non dimenticare questo!
  La seconda cosa che voglio dirvi riguarda la povertà, un tema centrale nel vostro movimento.
  Oggi si attuano molteplici iniziative, pubbliche e private, per combattere la povertà.   E tutto ciò, da una parte, è una crescita in umanità. Nella Bibbia i poveri, gli orfani, le vedove, gli “scarti” della società di quei tempi, erano aiutati con la decima e la spigolatura del grano. Ma la gran parte del popolo restava povero, quegli aiuti non erano sufficienti a sfamare e a curare tutti. Gli “scarti” della società restavano molti. Oggi abbiamo inventato altri modi per curare, sfamare, istruire i poveri, e alcuni dei semi della Bibbia sono fioriti in istituzioni più efficaci di quelle antiche. La ragione delle tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso.
  Ma – e questo non lo si dirà mai abbastanza – il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare. Il principale problema etico di questo capitalismo è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere. Una grave forma di povertà di una civiltà è non riuscire a vedere più i suoi poveri, che prima vengono scartati e poi nascosti.
  Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!
  L’economia di comunione, se vuole essere fedele al suo carisma, non deve soltanto curare le vittime, ma costruire un sistema dove le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci siano più. Finché l’economia produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, la comunione non è ancora realizzata, la festa della fraternità universale non è piena.
  Bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon samaritano del Vangelo non è sufficiente. Certo, quando l’imprenditore o una qualsiasi persona si imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e magari, come il buon samaritano, associare anche il mercato (l’albergatore) alla sua azione di fraternità. So che voi cercate di farlo da 25 anni. Ma occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che producono briganti e vittime. Un imprenditore che è solo buon samaritano fa metà del suo dovere: cura le vittime di oggi, ma non riduce quelle di domani. Per la comunione occorre imitare il Padre misericordioso della parabola del figlio prodigo e attendere a casa i figli, i lavoratori e collaboratori che hanno sbagliato, e lì abbracciarli e fare festa con e per loro – e non farsi bloccare dalla meritocrazia invocata dal figlio maggiore e da tanti, che in nome del merito negano la misericordia. Un imprenditore di comunione è chiamato a fare di tutto perché anche quelli che sbagliano e lasciano la sua casa, possano sperare in un lavoro e in un reddito dignitoso, e non ritrovarsi a mangiare con i porci. Nessun figlio, nessun uomo, neanche il più ribelle, merita le ghiande.
  Infine, la terza cosa riguarda il futuro. Questi 25 anni della vostra storia dicono che la comunione e l’impresa possono stare e crescere insieme. Un’esperienza che per ora è limitata ad un piccolo numero di imprese, piccolissimo se confrontato al grande capitale del mondo. Ma i cambiamenti nell’ordine dello spirito e quindi della vita non sono legati ai grandi numeri. Il piccolo gregge, la lampada, una moneta, un agnello, una perla, il sale, il lievito: sono queste le immagini del Regno che incontriamo nei Vangeli. E i profeti ci hanno annunciato la nuova epoca di salvezza indicandoci il segno di un bambino, l’Emmanuele, e parlandoci di un “resto” fedele, un piccolo gruppo.
  Non occorre essere in molti per cambiare la nostra vita: basta che il sale e il lievito non si snaturino. Il grande lavoro da svolgere è cercare di non perdere il “principio attivo” che li anima: il sale non fa il suo mestiere crescendo in quantità, anzi, troppo sale rende la pasta salata, ma salvando la sua “anima”, cioè la sua qualità. Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri. Salviamo la nostra economia, restando semplicemente sale e lievito: un lavoro difficile, perché tutto decade con il passare del tempo. Come fare per non perdere il principio attivo, l’ “enzima” della comunione?
  Quando non c’erano i frigoriferi, per conservare il lievito madre del pane si donava alla vicina un po’ della propria pasta lievitata, e quando dovevano fare di nuovo il pane ricevevano un pugno di pasta lievitata da quella donna o da un’altra che lo aveva ricevuto a sua volta. È la reciprocità. La comunione non è solo divisione ma anche moltiplicazione dei beni, creazione di nuovo pane, di nuovi beni, di nuovo Bene con la maiuscola. Il principio vivo del Vangelo resta attivo solo se lo doniamo, perché è amore, e l’amore è attivo quando amiamo, non quando scriviamo romanzi o quando guardiamo telenovele. Se invece lo teniamo gelosamente tutto e solo per noi, ammuffisce e muore. E il Vangelo può ammuffirsi. L’economia di comunione avrà futuro se la donerete a tutti e non resterà solo dentro la vostra “casa”. Donatela a tutti, e prima ai poveri e ai giovani, che sono quelli che più ne hanno bisogno e sanno far fruttificare il dono ricevuto! Per avere vita in abbondanza occorre imparare a donare: non solo i profitti delle imprese, ma voi stessi. Il primo dono dell’imprenditore è la propria persona: il vostro denaro, seppure importante, è troppo poco. Il denaro non salva se non è accompagnato dal dono della persona. L’economia di oggi, i poveri, i giovani hanno bisogno prima di tutto della vostra anima, della vostra fraternità rispettosa e umile, della vostra voglia di vivere e solo dopo del vostro denaro.
Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle “briciole”. Invece, anche solo cinque pani e due pesci possono sfamare le folle se sono la condivisione di tutta la nostra vita. Nella logica del Vangelo, se non si dona tutto non si dona mai abbastanza.
  Queste cose voi le fate già. Ma potete condividere di più i profitti per combattere l’idolatria, cambiare le strutture per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti; donare di più il vostro lievito per lievitare il pane di molti. Il “no” ad un’economia che uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione.
Vi auguro di continuare sulla vostra strada, con coraggio, umiltà e gioia. «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). Dio ama i vostri profitti e talenti donati con gioia. Lo fate già; potete farlo ancora di più.
Vi auguro di continuare ad essere seme, sale e lievito di un’altra economia: l’economia del Regno, dove i ricchi sanno condividere le loro ricchezze, e i poveri sono chiamati beati. Grazie.

30. Pace, perdono  e indole personale

Dal Messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace  di papa Francesco
La radice domestica di una politica nonviolenta
5. Se l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia [= La gioia dell’amore], a conclusione di due anni di riflessione da parte della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono. Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società.  D’altronde, un’etica di fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono fondare questo tipo di etica Con uguale urgenza supplico che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini.
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  In una riunione del gruppo parrocchiale di AC ci siamo interrogati sulle radici personali e familiari della vita pacificata. Preferiamo essere amati  o temuti? Ci conosciamo veramente, o siamo troppo indulgenti con noi stessi nel riconoscere caratteristiche della nostra indole come l’aggressività, l’intransigenza, la durezza, che portano inevitabilmente a situazioni di conflitto. Abbiamo letto un brano della Regola  di Benedetto da Norcia (480-547), nella quale si consiglia ai capi di comunità di cercare di farsi amare più che temere, e un brano tratto dal Principe di Niccolò Machiavelli (1469-1527) in cui si dà l’indicazione opposta, perché il capo che faccia conto sull’amore dei suoi sottoposti viene in genere tradito nelle avversità, mentre il timore dura per sempre e rende coese le società. Infine con l’aiuto di don Giorgio abbiamo meditato sul brano evangelico con la parabola detta del Servo malvagio (Mt 18, 21-35), in cui a un servo viene condonato un debito rilevantissimo, ma poi rifiuta di condonare a sua volta a un suo debitore un debito molto più piccolo, facendolo gettare in prigione, subendo lo sdegno del suo padrone. Siamo capaci di perdonare, di condonare  agli altri i debiti che pensiamo abbiano contratto verso di noi? Il parroco, che è da poco tornato da un viaggio in Uganda per incontrare alcuni missionari che là operano, ci ha raccontato dei duri conflitti tribali che travagliano quella parte dell’Africa e che non si riesce a sopire: la soluzione, attuata in altre parti dell’Africa, potrebbe basarsi sul perdono, al modo in cui lo si è fatto in Italia alla caduta del fascismo. Vendetta chiama vendetta e di vendetta in vendetta si distrugge il contesto civile, come ancora osserviamo in alcune zone del nostro Meridione.  Abbiamo infine richiamato alla memoria il passo del recente Messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace  di papa Francesco, in cui si esorta a “percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia”. Infatti, ha scritto il Papa, “l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini”.
  In quel messaggio il Papa indica la necessità di una politica nonviolenta  a partire dalla realtà domestica. Quest’ultima non sempre è  pacificata  e fonte di gioia. Vive tensioni che possono sfociare in violenza, come le cronache ci raccontano sempre più spesso. Per certi versi i mali sociali si riflettono sulle realtà familiari, le quali a loro volta ne sono anche sono espressione e origine. Parlare di pace è facile  e bello, praticare la pace è molto più difficile. E, quando si vive in famiglia, sono appunto le pratiche quotidiane di vita  che possono fare soffrire e che, dunque, bisognerebbe cambiare. Nella famiglia si può educare alla pace o, al contrario, alla violenza e alla sopraffazione. E’ lì che si può cominciare a sperimentare la sopraffazione tra esseri umani, ad esempio tra maschi e femmine, tra genitori e figli e tra fratelli. Le tradizioni etniche, religiose e politiche della società in cui la famiglia è immersa la possono condizionare pesantemente anche in senso negativo. In religione, in particolare, è in genere ancora piuttosto critica la questione del ruolo delle donne nella famiglia, sia nel rapporto coniugale sia in quello filiale. E’ in famiglia che si forma la nostra indole, certe nostre caratteristiche che tendono a permanere nel corso di tutta la vita, e la psicologia ce ne dà la spiegazione. Ma non dobbiamo sottovalutare la capacità di cambiamento che una persona può avere nel corso della propria vita, solo che riesca a prendere coscienza della radice del male che c’è in lei e nella società intorno ed avere gli amici giusti. Di solito i problemi sociali non derivano solo e in primo luogo dall’indole degli individui, ma dall’organizzazione sociale che una civiltà ha prodotto e che è alla base della produzione e distribuzione delle risorse e di ciò che la gente desidera per sé per raggiungere la felicità, come anche delle regole della vita delle famiglie. E’ qui che la pace diventa un problema politico. Se non si riesce a compiere il passaggio dal particolare, dall'individuo e dalla sua famiglia alla società intorno, non si passa mai alla dimensione politica e anche le soluzioni ai mali sociali sfuggono. Spesso però in religione si è indicata una via della pace attraverso il perdono che si esprimeva nella rinuncia alla lotta, per cui la religione è apparsa, è non di rado lo è effettivamente diventata, uno dei modi con cui le classi dominanti tiranneggiavano quello sottoposte. L’ingenua ideologia corporativa delle origini della dottrina sociale in sostanza consisteva proprio in questo: non era capace di apprezzare il potenziale di liberazione attraverso coscienza collettiva e lotta sociale espresso da certe politiche, ad esempio quelle nonviolente che furono proprie di Mohandas Gandhi in India e di Martin Luther King negli Stati Uniti d’America.
Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società”, si legge nel Messaggio  del Papa: questa, in realtà, più che una constatazione di ciò che veramente accade, è un auspicio e un’esortazione. E’ però tanto difficile passare dalla dimensione domestica a quella sociale, fino a comprendere tutto il mondo. Il mondo fa paura e allora non di rado veniamo consigliati a rinchiuderci nelle realtà familiari, appagandocene. E’, in fondo, una via neo-tribale  ad una religione difensiva, di protezione contro i mali del mondo, la comunità di fede come neo-tribù di famiglie. Difficile però far sopravvivere un mondo di sette miliardi di persone con organizzazioni neo-tribali: in questo modo, in realtà, ritirandosi sostanzialmente dalla politica, si lascia il campo alle forze che, a livello globale, diffondono un’organizzazione ingiusta e predatoria delle società, creando tanta sofferenza e, in particolare, privando progressivamente, nel nome della libertà, le organizzazioni pubbliche dei poteri e risorse che loro competono per realizzare il bene comune, in particolare l’equità sociale. L’ideologia globale proclama la legge della giungla, quella del forte che mangia il debole e rifiuta ogni limite posto dalle collettività a fini di giustizia sociale: preferisce rapporti bilaterali, tra un forte e un debole, e in questo modo finisce come deve finire. Così una persona può cercare di essere buona e di farsi amare, e anche di costruire una famiglia basata su questi principi, ma se poi non si occupa di politica, quindi di ciò che c’è appena oltre la porta di casa, non fa tutto il suo dovere, anche in senso religioso. E’  docile, non usa la violenza, ma questo diventa in fondo una manifestazione di resa al male, di arrendevolezza. Capire la società per influirvi consapevolmente è però più difficile che capire la propria famiglia, fondata su rapporti elementari. Anche perché la società si è fatta molto più complessa di una volta: siamo tanti di più di prima al mondo. E non bastano i testi sacri per orientarsi. Dunque una formazione religiosa fatta solo di questi ultimi, di qualche istruzione liturgica  e di famiglia è insufficiente. Fin da molto piccoli, fin dalle società di bambini, ci si confronta con il male sociale, ma se non si ha avuta, in famiglia o a scuola o in religione, una formazione specifica non si riesce ad affrontarlo. Lavorarci su richiede di creare un’organizzazione, fin da molto giovani. Una realtà sociale come la parrocchia dispone delle strutture giuste per attuarla. E’ una grande responsabilità. Come partire, o ripartire, nei casi in cui si è interrotta una tradizione, una memoria. Certe cose vanno riscoperte e riprese. Innanzi tutto occorre creare occasioni di incontro in parrocchia molto più prolungate delle usuali liturgie ed esercizi spirituali. Un ragazzo dovrebbe abituarsi a venire a studiare da noi, insieme agli altri: così la religione inizierebbe ad apparirgli utile per la vita. Ci vorrebbe un ambiente adatto, con molti libri, connessione wi-fi e strumenti multimediali. E un’organizzazione di volontariato per custodirlo e curarlo. Poi un programma di riflessione, basato su certi libri di testo, e gente che spieghi come si lavora insieme in queste cose, delle quali i più non hanno più esperienza, in modo che il tempo insieme non sia tempo perso o solo impiegato per lo studio personale. E' infatti dal confronto tra tanti punti di vista che scaturisce un'immagine affidabile della realtà intorno.
 Serve materiale, soprattutto servono libri, che ora sono divenuti più accessibili in formato digitale. Se non se ne ha a sufficienza o non se ne ha del tutto, come fare a capire la società?
 Ricordo che la sala della Rettoria di S. Ivo alla Sapienza, a corso Rinascimento, nell’antica sede dell’Università Sapienza, dove si riunivano i soci del movimento romano dei Laureati cattolici che tanta parte ebbero nella ricostruzione politica ed economica dell’Italia dopo la caduta del fascismo, era appunto un luogo di incontro con un tavolo e tante sedie e, intorno, tanti libri. Lì si attuò il passaggio virtuoso, il tirocinio innanzi tutto,  dalla religione individuale e domestica alla politica animata dai valori di fede, attraverso la costruzione di una sapienza collettiva. Era un posto all'interno dell'Università, proprio lì dove gli universitari e i loro docenti passavano gran parte del giorno: al centro della società non in suo angolino appartato.