Materiali per un tirocinio alla
democrazia - 2016/2017
Parte 1°
Ripubblico, raccolte in un unico documento, suddiviso in tre parti le
riflessioni di politica svolte sul blog <acvivearomavalli.blogspot.it>
dal settembre 2016 all'agosto 2017. Possono essere utili come materiale per un
tirocinio alla democrazia. E' possibile farne il copia/incolla in formato
word e, in questo modo, trasferirle molto rapidamente con i vari dispositivi
telematici oggi in uso. In gran parte si tratta di sintesi di pensieri altrui,
filtrati attraverso la mia esperienza di vita. Vi invito a vagliare
criticamente, in particolare alla luce del magistero se siete persone di fede,
ciò che ho scritto. Ciò che vi propongo può essere preso come base per una
discussione, ragionando di democrazia, ma ha necessità di essere sviluppato e
ampliato e, dove occorre, corretto. Autorizzo il libero utilizzo del materiale
offerto, esonerando dal menzionarne l'autore. Mi sono limitato infatti a
restituire ciò che ho ricevuto: ho fatto solo da tramite.
La mia posizione sulla questione democratica emerge chiaramente negli scritti che
propongo. Il mio primo riferimento è stato sempre l'ambiente dossettiano
bolognese, ma sono anche un ragazzo degli anni '70, formatosi nella FUCI di
allora. Ho accostato anche altre fonti.
Ho cercato di utilizzare il metodo del
dialogo e della mediazione culturale che mi è stato insegnato in religione e di
incoraggiare a impiegarlo nelle riflessioni politiche. Ho voluto stimolare una
discussione critica, non polemizzare. Ho cercato di comprendere il punto di
vista altrui, anche quando divergeva molto dal mio.
Da ultimo: il mio lavoro non riflette
il pensiero dei sacerdoti della parrocchia San Clemente papa, né quello
dell'Azione Cattolica. Scrivo da associato all'Azione Cattolica, ma sotto la
mia esclusiva responsabilità personale.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli.
Indice sommario:
0.Introduzione
1.Prepararsi per un grande
destino
2.Prendersi
cura della casa comune
3.
Democrazia: un sistema di potere collettivo con limiti stringenti a ciascuna
autorità pubblica o privata sulla base di valori condivisi
4. Illusione
dell’«uomo forte»
5. Capire la
politica
6. Nuovo inizio o prosecuzione della
costruzione della casa comune?
7. Persecuzioni e persecutori
8.Laudato
si’: pensare la globalizzazione in una visione di fede
9. Inequità
planetaria e lotta religiosa contro un modello di sviluppo
10. Cammini di
liberazione
11. Critica sociale, fede
religiosa e azione sociale: sviluppi nella dottrina sociale
12. Nuova santità
13. La politica come campo d’azione della fede
14. Europeismo
15. Nazionalizzazione degli stati
16.
Noi e i problemi europei
17. Un mandarino per Teo
18. In una fase di transizione
19.
L’evoluzione della
storia animata da formazioni sociali
20.
Francesco e il trumpismo
21. Critica e autocritica sociale, dialogo
22. Una nazione senza frontiere non è una nazione?
23. Il risorgente
nazionalismo mette in pericolo il mondo
24. La grande
storia ci si sta per rovesciare addosso
25. Religione tanto più coinvolgente quanto più inutile?
26. Noi, la pace e la religione
27. Antipapa?
28. Il neo-nazionalismo: un problema di corruzione spirituale della
società
29. Economia e comunione
30. Pace, perdono e indole personale
31. Un mondo sta finendo
32. Impegno
religioso e impegno politico: la particolarità italiana
33. Consapevolezza storica e partecipazione responsabile
34.
Nuove modernità
35. Crisi della parrocchia e crisi della politica
36.
La religione come problema sociale
37. Prepararsi a lavorare in società
38. I guai politici delle religioni tradizionali
39.
Affrontare con uno stesso spirito la crisi religiosa e la crisi politica
40. La radice politica dei problemi religiosi
41. Rivolti all’interno o rivolti all’esterno
42. L’immaginazione al
potere?
43. Scuola popolare di pensiero sociale
44. Ribelli
45. Il Cielo in una stanza
46. La
“Politica” con la maiuscola
47. La questione democratica
48. Informazioni sulla
democrazia.
49.
Pensare il popolo
50.
Costruire il popolo
51. Processi democratici nella costruzione di un popolo: la festa
52. Un
lavoro di lungo respiro: il serio dialogo fondato sulla buona volontà
53. Imparare la democrazia
54. Democrazia
e virtù
55. La salvezza dell’umanità come problema religioso e politico
56. Educare alla
democrazia globale
57. Il contributo della religione ad una nuova democrazia globale
58. Sperimentare soluzioni nuove: rivitalizzare i mondi
vitali
59. Festa della Repubblica
60. Il lavoro dell’istituzione
61. Politica e conflitti sociali
62. La giustizia come
metro dei sistemi sociali
63.
Non rassegnarsi
64.
Dignità
65.Non siamo formiche
66. Magistero costituzionale
67. Religione e democrazia da poco sono tra loro
contemporanee
68. Dialogo come metodo e mentalità
69. Interpretare il mondo contemporaneo
70.
Giustizia sociale come conversione. Papa Francesco: lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”. Note sul discorso di Papa Francesco ai sindacalisti della CISL, il 28
giugno 2017
71. Le
culture, veri miracoli dell’umanità
72.Partire da lontano per
capire i vicini
73.
Come si è popolo in religione?
74. Popolo sognato
75.
Grandi orizzonti
76. Noi e il
mondo
77. Che portiamo al mondo?
78. Costruire
democraticamente le basi della convivenza in religione
79.
Sperimentare nuove forme di democrazia
80.
Capire la democrazia
81. Comprendere gli esseri umani
82. Fare politica in
spirito di carità
83. Noi popolo
84. Serve un governo del
popolo?
85. Diventare popolo?
86.
La società costruita
87. Pensare come
popolo
88. La felicità di
tutti
89. La politica e i
valori
90. Cambiare le
persone al comando o le politiche?
91. Partecipare al
governo democratico
92. Vivere la politica
democratica
93. Fare la propria
parte
94. La dottrina
sociale: una grande opportunità
95. Prepararsi alla
cittadinanza
96. Fare politica
97. Informarsi, conoscere, capire
98. Usare
l'intelligenza
99. Uguali in dignità
100. Veramente uguali
101. Populismo
**************************************
0.Introduzione
La formazione della persona di fede dovrebbe
comprendere anche un tirocinio alla
democrazia, come parte del tirocinio alla carità in senso religioso. Non mi
riferisco ad un insegnamento di tipo dogmatico, quindi dei principi generali
che Papa e vescovi ci invitano a seguire in quel campo. Essi, nel loro
complesso, costituiscono un corpo molto esteso e sistematico, vale a dire
ordinato per certi fini, che viene chiamato “dottrina sociale”. Intendo invece
una pratica di democrazia a partire
dalle realtà sociali più vicine alle persone, per arrivare e quelle che più
vaste, a livello nazionale e
internazionale. Di solito ci si trova immersi in vari tipi di società, le prime
delle quali sono quelle dei giochi infantili e delle scuole primarie. E’
proprio da questo livello che occorre cominciare a imparare a praticare la
democrazia e, più in generale, a fare politica.
E’ un lavoro educativo che però, in genere, nella formazione di primo e secondo
livello, diciamo per intenderci per la preparazione alla Prima Comunione e alla
Cresima, non si fa. E più avanti, quando si fa, la si fa appunto come
insegnamento dogmatico, di norme generali da imparare e mettere in pratica. Ma
per imparare certi principi di azione sociale occorre convincersene e per
metterli in pratica, nel dettaglio delle nostre vite, occorre farne tirocinio,
come per ogni sapienza che si apprende.
Come organizzare un tirocinio alla politica
democratica in una parrocchia? La parrocchia è un’istituzione politica, nel
senso che raggruppa una società che richiede di essere governata. Per farlo
democraticamente, occorre fare pratica di partecipazione.
Fin dove si può farlo? Non è il parroco che decide tutto? Effettivamente il
parroco in genere ha l’ultima parola. Questo dipende dai diversi aspetti della
parrocchia, che è una società di tipo comunitario, in cui quindi conta molto la
partecipazione, ma anche un’istituzione amministrativa che si occupa, ad
esempio, di un patrimonio immobiliare e di compiti specificamente notarili,
nell’esercizio dei quali il sacerdote può anche assumere la veste di pubblico
ufficiale, in particolare nella celebrazione dei matrimoni detti concordatari perché hanno anche effetti
civili. Ad ogni funzione sono collegate specifiche responsabilità. Per le norme vigenti del diritto canonico e del
diritto statale alcune responsabilità sono proprie del parroco e dei sacerdoti
che con lui collaborano. Ma vi sono spazi di partecipazione democratica molto
ampi, alcuni previsti espressamente dalle norme del diritto canonico, vale a
dire da quello della Chiesa, ma altri che possono essere liberamente
strutturati da una comunità che voglia
farlo impegnandosi.
La partecipazione democratica è strettamente
legata all’impegno, nel senso che non
si partecipa veramente se non impegnandosi, facendosi carico e assumendosi
responsabilità. Ci si assume una responsabilità quando si accetta di rendere conto alla comunità di ciò che si è fatto e di come
lo si è fatto. Democrazia e impegno sono così strettamente connessi perché la
democrazia non è solo un metodo di voto per adottare delibere collettive, con
maggioranze più o meno ampie, ma anzitutto un sistema di valori. Questi ultimi, in democrazia, sono tutti
orientati verso la giustizia. Dall’economista bolognese
Stefano Zamagni, prendo la definizione di giustizia secondo tre aspetti:
-giustizia commutativa: negli scambi
contrattare un prezzo equo; non approfittare a danno degli altri di condizioni
di mercato loro eccessivamente sfavorevoli;
-giustizia distributiva: nella società
fare in modo che a nessuno manchi l’essenziale;
-giustizia partecipativa: ognuno faccia
il suo dovere in società; nessuno si
chiami fuori; ognuno si metta in gioco nell’interesse collettivo.
E’ chiaro che la democrazia non è faccenda
che si può risolvere con un clic.
Ma da dove cominciare per un tirocinio alla
democrazia? Direi che occorre organizzare degli incontri nei quali:
-
ragionare di democrazia;
-individuare
gli spazi di democrazia che ci sono nelle società in cui ci si è trovati
inseriti;
-progettare
forme di partecipazione democratica;
-realizzare
forme di partecipazione democratica, programmando verifiche periodiche.
Il materiale che segue serve appunto per
ragionare di democrazia. Non è un manuale. Non è dogmatica di dottrina sociale.
Si tratta di una raccolta di miei riflessioni, già pubblicate nel blog acvivearomavalli.blogspot.it , nelle
quali confluiscono un po’ di mia vita vissuta, un po’ di riferimenti storici,
e, in mezzo, riferimenti ai principi. I riferimenti storici di solito mancano
nelle lezioni sulla dottrina sociale. Questo perché ci si sente a disagio
nell’ammettere che in essa c’è stato uno sviluppo storico, che, quindi, è
cambiata nel tempo, in seguito alle esperienze concrete di partecipazione
sociale. Il cambiamento più rilevante ha riguardato proprio la democrazia, che
molto lentamente è stata individuata come il regime politico più degno per le
persone umane, in particolare in un processo che si è sviluppato prima alla
base e poi nel magistero, quanto a quest’ultimo tra il 1941 e il 1991.
Ognuna delle riflessioni che seguono può
essere lo spunto per iniziare a ragionare di democrazia, in uno degli incontri
di cui dicevo. Va però considerata una proposta aperta, innanzi tutto per vagliarne i fondamenti, l’attualità,
l’accettabilità sotto vari profili e quindi anche per contestarla, qualora
occorra. E’ solo così che si migliora,: individuando con l’aiuto degli altri
gli errori e imparando a non ripeterli.
Per ragionare di democrazia è indispensabile
avere sotto mano il libro di testo di storia dell’ultimo anno delle scuole
medie frequentate, inferiori o superiori. A chi non l’avesse più, consiglio l’ultima
edizione del volume 3 del corso di storia Nuovi
Profili Storici di A.Giardina, G.
Sabbatucci, V. Vidotto, editori Laterza, €40,90.
Tutti i documenti della dottrina sociale sono
pubblicati sul sito <www.vatican.va>. Per ricercarli velocemente si può
impostare una ricerca sul motore di ricerca Google,
inserendo il nome del documento che
si ricerca (di solito in latino, ad esempio pacem
in terris) e la parola vatican).
1.Prepararsi per un grande destino
Aldo Moro (1916-1978.
Esponente dell’Azione Cattolica, professore di diritto, politico, membro
dell’Assemblea Costituente, a lungo parlamentare, ministro e presidente del
Consiglio dei ministri, assassinato dai banditi delle brigate rosse nel 1978)
scrisse nel 1943, per i suoi studenti dell’Università di Bari:
“Probabilmente,
malgrado tutto, l’evoluzione storica, di cui noi saremo stati determinatori,
non soddisferà le nostre ideali esigenze; la splendida promessa, che sembra
contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà
mantenuta, Ciò vuol dire che gli uomini dovranno sempre restare di fronte al
diritto e allo stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il
dolore non sarà mai pienamente confortato. Ma questa insoddisfazione, ma questo
dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla sua vita, troppo
spesso più angusta di quanto la sua ideale bellezza sembrerebbe fare
legittimamente sperare.
Il dolore
dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la
cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno. E’ un dolore che
non si placa, se non un poco, quando sia confessato ad anime che sappiano
capire o cantato nell’arte o quando la forza di una fede o la bellezza della
natura dissolvano quell’ansia e ridonino la pace. Forse il destino dell’uomo
non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della
giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino.
[in: Aldo Moro, Lo
Stato - Il Diritto, Cacucci Editore, 2006, €15,00, un testo che, a parte
alcuni capitoli di impostazione filosofica, è prettamente centrato sulla
dottrina giuridica in materia di diritto pubblico e, in questo, non è
aggiornato ai nostri tempi].
Leggendo
l’enciclica Laudato si’, dell’anno scorso, ritrovo lo stesso
impegno verso un grande destino di cui scriveva Moro nel 1943.
Ci sono degli ideali e delle prospettive di azione collettive. Si lavora nel
mondo, si cerca di determinarne l’evoluzione storica, non si è indifferenti al
dolore degli altri e la forza della fede riesce talvolta a dissolvere l’ansia,
a ridarci la pace, a lenire l’insoddisfazione: perché lo vediamo bene che il
dolore umano non sarà mai pienamente confortato. Di quella pace, che significa
giustizia, rendere a ciascuno il suo, al Cielo e agli esseri umani, avremo
sempre fame e sete: è il nostro destino. Ma pensiamo ancora che sia un grande destino?
Uno può
pensare a un proprio futuro felice. Ma tutto passa e
anche noi. Se si ragiona così, la vita è fatta di brevi felicità e di molto
dolore. E il dolore va preso sul serio, questo posso testimoniarlo, perché non
c’è un limite alla capacità di soffrire, ed è la morte. Dicono che ci viene
assegnato solo il dolore che possiamo sopportare, ma io questo non l’ho potuto
constatare. Così, il destino personale è quello che è. E’ solo quando pensiamo
a un destino collettivo, ad esempio che riguarda la nostra discendenza,
che allora esso può essere grande. Questa contemplazione di un
destino grande dà poi una felicità più duratura. “Occorre
rendersi conto che quello che c’è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo
noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che
verrà dopo di noi. E’ dramma per noi stessi, perché ciò chiama in causa il
significato del nostro passaggio su questa terra”[Laudato si’,
n.159]. E’ per partecipare a questo lavoro collettivo, convinti di quel grande destino,
che ci si riunisce, si dialoga, si lavora insieme, anche in una collettività
come quella parrocchiale. E’ anche una via verso la vera felicità. Ed è una via
con un significato religioso, come ci ha spiegato il nostro vescovo nel
documento che ho citato. E’ una via che ci viene indicata, specialmente a noi
laici di fede, ma che qualche volta siamo esitanti a iniziare a percorrere.
Trascuriamo di parlarne nella formazione alla fede e, allora, guardate un
po’!, sembra quasi che nemmeno si sappia più di che parlare. E non ne parliamo
neppure ai nostri giovani. Noi adulti siamo un po’ sfiduciati, come scriveva
Moro: “in una posizione di più o meno acuto pessimismo”.Ecco che allora
il nostro catechismo talvolta appare un po’ troppo miserello per chi sta
aprendosi alla società, per parteciparvi attivamente, e non è più soddisfatto
dai discorsi per bambini.
Ma soprattutto,
per il lavoro che c’è da fare non basta il catechismo! E infatti di quella
specie di rivoluzione culturale invocata nella Laudato
si’non mi sembra rimanga traccia nei discorsi che facciamo ai giovani. E
forse ci siamo già dimenticati di quel documento, che è qualcosa di più delle
ricorrenti produzioni clericali del passato, che una persona non faceva nemmeno
tempo a leggere, non dico a studiare e a capire, che già ne arrivava
un’altra. O, quello che è ancora peggio, cerchiamo di pasticciarne
versioni riduttive, in modo che, in definitiva, confermi le nostre opinioni di
sempre. E’ quello che talvolta facciamo anche con le Scritture. Le apriamo a
caso, e, guarda un po’!, ci troviamo sempre confermato il nostro pensiero. La
scorsa domenica, alla Messa delle nove, il celebrante ha accennato a
Scritture esigenti, che mettono in crisi. E’
bello avere fra le mani le Scritture, ma siamo consapevoli di ciò che veramente
sono e dicono? Non sono il Libro delle Giovani Marmotte.
Ne parlò, in
un’omelia dell’8 giugno 2014, il vescovo di Palestrina, Domenico Sigalini:
«Non è scritto per
nessun cristiano il Libro delle Giovani Marmotte. Non so se avete
letto Paperino. Quando mancava Paperino, non sapevano
che fare quelle oche lì; allora c'era un libro nel quale andavano a leggersi
come fare un uovo fritto, lo prendi così, lo spacchi cosà, come fanno i vostri
mariti quando non ci siete voi a casa. Telefonano "Come faccio a
fare questo?", eh? Il Libro delle Giovani Marmotte,
dove c'è scritto tutto quello che devi fare quando manca il capo. Non abbiamo
ilLibro delle Giovani Marmotte perché manca Gesù, dove c'è scritto
tutto, già definito, tutto quello che si deve fare. Quante volte voi mamme e
papà avete dovuto tribolare per decidere cosa fare nella vostra famiglia, pur
essendo cristiani, pur sapendo il Vangelo, pur sapendo tutti i Comandamenti!
Perché la nostra vita non è mai all'altezza del Vangelo, se non c'è lo Spirito
Santo che ci illumina. "Prendi questa decisione!", "Prendi
quest'altra". Siamo sempre aperti, non abbiate in tasca nessuno la verità!
La verità è sempre Gesù ed è lo Spirito Santo, che ci aiuta ad essere più
docili. C'è solo lo Spirito Santo. La nostra docilità e la nostra umanità,
affidata tutta a Dio e soltanto a Dio.»
Quanti saggi si
sono amorevolmente dedicati a cercare di comprendere tutti i sensi delle
Scritture! Una letteratura sterminata e ancora inesauribile. Perché, come si
dice, sono Parola viva. Ed ecco che invece talvolta pretendiamo che
ci si appaghi di certi nostri predicozzi incolti, e addirittura ci inquietiamo
quando gli altri obiettano insoddisfatti.
E che succede
se noi teniamo la Parola viva in cassaforte senza farla
scendere veramente nel nostro mondo? E’ parola reclusa, prigioniera tra le
nostre mani. E, invece, che potenza esprime quando c’è chi se ne fa veramente
mediatore, con l’antica sapienza che ci è stata tramandata e con l’umiltà
devota di chi ne riconosce la santità e la rispetta! Come quando il celebrante,
nella Messa delle nove di domenica scorsa ha iniziato ad introdurci al
senso di questo versetto della lettera ai Galati “28 Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più
uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.” (Gal 3,27-29). "Altro
che bomba atomica!", ha concluso: ed è così! Vedete che cosa
abbiamo tra le mani!
Dobbiamo
fare reagire il nostro mondo con la nostra fede: occorre che portiamo il nostro
mondo nelle cose della fede. E’ il metodo seguito nella Laudato si’.
C’è tutto un mondo in quel documento, alla lettera. C’è un’ecologia, un
discorso sull’ambiente, che va molto oltre la natura, ma
comprende anche le società umane. Di tutto dovremmo prenderci
cura religiosamente. Ma come farlo se nessuno ce lo insegna, in
religione? E, in particolare, non ce lo insegna quando siamo più disposti ad
apprendere, nel corso dell’adolescenza. E' cosa che va molto oltre il
catechismo come lo si intende in genere, ma che riguarda anche il catechismo.
Ma che non molti catechisti mi pare sanno trattare. Dopo la Laudato si’ tutti
quelli che si occupano di formazione religiosa degli adolescenti e dei giovani
dovrebbero fare un esame di coscienza e dirsi se sono in grado o non sono in
grado di fare quel lavoro che ci si attende anche da loro. E se riconoscessero
di non essere in grado, con quale presunzione poi potrebbero voler
monopolizzare il lavoro di formazione dei più giovani riducendolo a catechismo
immiserito? Lascino spazio ad altre forze, in attesa di prepararsi
adeguatamente. E, soprattutto, lascino spazio ai sacerdoti, si facciano guidare
da loro.
I
più giovani sono più generosi di noi adulti. E’ perché sono aperti al nuovo. E
lo sono perché devono farsi largo, progettare un futuro in cui ci sia posto
anche per loro e per quelli che amano. Non hanno tempo da perdere: lo sanno per
istinto naturale! Se noi riduciamo tutto a catechesi miserelle, senza mettere
in campo quel grande destino di cui parlano Moro e Bergoglio,
poi li perdiamo. Che se ne fanno di una religione così? E io non posso
rimproverarli. Farei anch’io come loro.
Di solito sono restio a citare discorsi di papi. Siamo stati sommersi dal
profluvio esorbitante della loro produzione letteraria. Quasi non abbiamo avuto
il tempo di occuparci d’altro (anche se spesso lo abbiamo fatto
distrattamente). Ma, per dare un’idea di quel grandedestino che ho
evocato, concludo trascrivendo di seguito l’omelia pronunciata da papa
Francesco a Lampedusa, dopo fatti tragici, l’8 luglio 2013. L’ho trovata
citata nell’ultimo libro di Zygmunt Bauman che è stato pubblicato in
italiano: Stranieri alle porte (anche in formato e-book - ve
lo consiglio).
«
“Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di
speranza sono state una via di morte”. Così il titolo nei giornali. Quando
alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è
ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che
porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a
compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze
perché ciò che è accaduto non si ripeta, non si ripeta per favore. Prima però
vorrei dire una parola di sincera gratitudine e di incoraggiamento a voi,
abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di
sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio
verso qualcosa di migliore. Voi siete una piccola realtà, ma offrite un esempio
di solidarietà. Grazie!
Grazie
anche all’Arcivescovo Mons. Francesco Montenegro per il suo aiuto e il suo
lavoro e la sua vicinanza pastorale. Saluto cordialmente il sindaco, signora
Giusy Nicolini. Grazie tante per quello che lei ha fatto e fa. Un pensiero lo
rivolgo ai cari immigrati musulmani che stanno oggi, alla sera, iniziando il
digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi
è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie.
Questa
mattina alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei proporre
alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a
riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti. «Adamo, dove sei?»:
è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei,
Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella
creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere
Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione
con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che
disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino,
dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio,
anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta
a versare il sangue del fratello. Queste due domande di Dio risuonano anche
oggi, con tutta la loro forza; tanti di noi, mi includo anch’io, siamo
disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non
custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di
custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le
dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.
«Dov’è
tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è
una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di
noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili
per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e
per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che
cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano
solidarietà – e le loro voci salgono fino a Dio. E un’altra volta a voi,
abitanti di Lampedusa, ringrazio per la solidarietà! Ho sentito recentemente
uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui, sono passati per le mani dei
trafficanti, quelli che sfruttano la povertà degli altri; queste persone per le
quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto. E
alcuni non sono riusciti ad arrivare.
«Dov’è
tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura
spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti della
città di Fuente Ovejuna uccidono il Governatore perché è un tiranno, e lo fanno
in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del
re chiede: «Chi ha ucciso il Governatore?», tutti rispondono: «Fuente Ovejuna,
Signore». Tutti e nessuno. Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il
responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi
rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma
Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a
me?». Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il
senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita
del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola
del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada,
forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito
nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del
benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida
degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono
nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza
verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo
mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione
dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci
riguarda, non ci interessa, non è affare nostro.
Ritorna
la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci
rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto. «Adamo dove
sei?», «Dov’è tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della
storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo,
anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha
pianto per questo fatto e per fatti come questo?», chi ha pianto per la morte
di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla
barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che
desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che
ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione
dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere. Nel Vangelo abbiamo
ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli…
perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio
benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi…
Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro
cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza,
di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che
nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a
drammi come questo. «Chi ha pianto?», chi ha pianto oggi nel mondo?.
Signore
in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per
l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo, Padre, perdono per
chi si è accomodato, si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia
del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello
mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Perdono
Signore; Signore, che sentiamo anche oggi le tue domande: «Adamo dove sei?»,
«Dov’è il sangue di tuo fratello?».
2.Prendersi
cura della casa comune
L’enciclica Laudato
si’, dell’anno scorso, ha come sottotitolo: “sulla cura
della casa comune”. Si tratta di un testo che non ha precedenti nella
dottrina sociale. Questo risulta in modo evidente in particolare dalle note di
citazione, che fanno pochi riferimenti a precedenti documenti analoghi. Vi sono
invece molte citazioni di documenti di conferenze episcopali. Vi sono citazioni
di documenti dei papi regnanti dagli anni ‘70, ma con molti testi diversi
dalle encicliche, contenuti in discorsi e messaggi. Di documenti conciliari vi
sono tre citazioni e riferimenti tratti tutti dalla Costituzione La
gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2° (nota 50, sull’autonomia
delle realtà terrene; nota 100, sull’uomo quale autore, centro e fine di tutta
la vita economico-sociale; nota 122, sul concetto di bene comune come l’insieme
delle condizioni delle vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai
singoli di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più
speditamente). Ma è la prospettiva che viene proposta che è molto diversa da
quella dei precedenti insegnamenti della dottrina sociale e anche dalla
teologia francescana, a cui pure si fa riferimento come principio ispiratore.
Non basta rispettare e contemplare la natura, e riconoscervi l’opera del
Creatore: occorre averne cura. Non si tratta solo di soggiogare e sfruttare senza
inaridire le risorse, lasciando ciò che serve alle generazioni successive:
occorre anche mantenere, e ove occorre ristabilire, l’armonia del creato, di
cui gli stessi esseri umani sono parte. Occorre un’azione comune, collettiva,
che non è più riferita, come nei precedenti documenti che trattavano il tema,
solo ai governanti, ma a tutti. Questo richiede una conversione su
larga scala, la giustizia sociale tra le generazioni, un nuovo spirito civico e
nuove politiche. E’ in questione uno stile di vita. Ma anche il sistema
economico che regge le società contemporanee. Si parla di ecologia,
parola che significa studio dell’ambiente, ma l’ambiente a
cui si fa riferimento non è solo quello naturale, ma in primo luogo quello
sociale. Perché sono gli esseri umani ad essere chiamati a prendersi
cura della creazione. Si è chiamati ad una rivoluzione
culturale:
114. Ciò
che sta accadendo ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa
rivoluzione culturale. La scienza e la tecnologia non sono neutrali, ma possono
implicare dall’inizio alla fine di un processo diverse intenzioni e
possibilità, e possono configurarsi in vari modi. Nessuno vuole tornare
all’epoca delle caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per
guardare la realtà in un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e
sostenibili, e al tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da
una sfrenatezza megalomane.
Passare da una civiltà della crescita illimitata e dello spreco ad una della
sobrietà e della cura dell’ambiente richiede un lavoro specificamente politico,
che nella Laudato si’ è specificamente indicato come
compito di tutti.
178.
Il dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche
da popolazioni consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine.
Rispondendo a interessi elettorali, i governi non si azzardano facilmente a
irritare la popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo
o mettere a rischio investimenti esteri. 179. […
] Poiché il
diritto, a volte, si dimostra insufficiente a causa della corruzione, si
richiede una decisione politica sotto la pressione della popolazione. La
società, attraverso organismi non governativi e associazioni intermedie, deve
obbligare i governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi.
Se i cittadini non controllano il potere politico - nazionale, regionale e
municipale - neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali. 181.
[…] Occorre dare maggior spazio a una sana politica, capace di riformare le
istituzioni e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e
inerzie viziose.
Una politica in
cui il popolo abbia parte è una politica democratica. E’ la prima volta
che in un’enciclica vi è un così forte appello al popolo per una politica
democratica. In passato appelli del genere erano rivolti ai governanti.
Si tratta di un portato della difficile accettazione dei processi democratici
da parte della dottrina sociale, che si è avuta compiutamente piuttosto
recentemente, solo con l’enciclica Il centenario, del 1991, di
Karol Wojtyla. Questo documento fu pubblicato in un anno in cui tutto iniziò a
cambiare molto velocemente in Europa: fu l’anno della dissoluzione del
comunismo sovietico in Russia. In Europa il processo politico era iniziato nel
1989. Si trattò di sviluppi che in Occidente non si erano previsti e che,
quindi, sorpresero non poco. Si produsse, nell’Europa Orientale dominata
dal comunismo sovietico, una rivoluzione di sistema. Molto più, quindi, di una
rivoluzione politica, che comporta un cambio di chi comanda in politica. A
quell'epoca si volle fondare, progettare e stabilire un nuovo sistema sociale,
economico e politico insieme. E allora il Wojtyla condusse i fedeli verso la
democrazia, verso quale, fino ad allora, vi erano state sempre molte riserve, e
ancora per certi versi vi sono, tanto che essa viene poco praticata
nell’organizzazione religiosa e viene riservata a quella civile.
Wojtyla fu tra i
pochi, e il solo tra i grandi della Terra, a prevedere il cambiamento dei
sistemi politici integrati dell’Europa orientale, che tenevano sostanzialmente
prigioniere le Chiese di quelle regioni, e in particolare la Chiesa polacca
nella quale egli si era formato. Egli intuiva la fragilità di quei governi
nazionali. Ma, con il senno del poi, possiamo riconoscere che non aveva
veramente capito i moventi della rivoluzione in corso. Egli si illudeva che
fossero spirituali, che i popoli dell’Europa orientale volessero rientrare
nuovamente nel consesso delle genti della fede che era alle radici della
cultura civica europea.
Furono strani
moti rivoluzionari, quelli che cambiarono l’Europa in quegli anni. Ci fu poca
violenza. Non ci fu una classe contro l’altra. Non insorsero i ceti più poveri.
Si osservò che le piazze si riempirono di giovani e di professionisti, di gente
dei ceti più elevati della società. I governi, dinanzi a quelle piazze, e a
volte solo addirittura alla minaccia di raduni di piazza, mollarono tutto, come
convinti della propria inesistenza, come fu scritto. E’ stato osservato
(Zygmunt Bauman) che fu l’anelito al consumismo, alla libertà di creare e di
soddisfare sempre nuovi bisogni, che motivò gran parte delle folle che
manifestarono in piazza. Nella Germania orientale, dove, nel novembre 1989 si
produsse l’evento che viene denominato Crollo del muro di Berlino,
e che, in realtà, non comportò alcun crollo, ma solo l’apertura, su
ordine del Governo della Repubblica Democratica Tedesca, della frontiera che
all’epoca divideva in due la città di Berlino, non furono assaltati i palazzi
della politica, ma la gente si accalcò alla frontiera per andare in Occidente,
vedere che c’era, fare acquisti, incontrare parenti che da decenni non vedeva,
però poi facendo ritorno a casa attraverso la medesima frontiera.
Nei sistemi
economici e politici comunisti era vietato non lavorare e tutti avevano una
casa. Tutti potevano studiare e curarsi gratuitamente. Tutti avevano a basso
costo di che vivere. C’era tempo libero e venivano organizzati gratuitamente
svaghi e vacanze. Ma lo stato pretendeva di controllare i bisogni della
gente, di decidere quali erano meritevoli di soddisfazione e quali no. E
non riusciva neppure a soddisfare tutti i bisogni che riconosceva come degni.
Per cui nei negozi di stato c’era poca roba e, quando c’era, occorreva spesso
fare lunghe file per acquistarla. C’era il costume di comprare, ai bassi costi
che venivano praticati dallo stato, anche cose che non servivano al momento, ad
esempio scarpe di una taglia diversa da quella propria, per farne poi baratto.
Tutti i maggiori sforzi dello stato venivano dedicati all’industria pesante,
non a quella che produceva beni di consumo, per sorreggere i bisogni
dell’apparato militare. Infatti i governi di quel mondo vivevano in un perenne
clima di assedio, come agli esordi della rivoluzione bolscevica (quella che poi
produsse lo stato sovietico russo), nel 1917. E nell’industria si aveva di mira
innanzi tutto lo sviluppo sempre più rapido e imponente, non la sostenibilità
ambientale. Fu il desiderio di più beni di consumo la molla principale che
indusse le stesse classi dirigenti dei sistemi comunisti dell’Europa orientale
a cambiare politica, producendo una rivoluzione di sistema. A tutto ciò gli strati
meno ricchi, meno colti e più anziani delle popolazioni, infatti anche in
quelle società l’egualitarismo non era completo, rimasero sostanzialmente
estranei. Furono i più giovani e i ceti colti il motore di quelle
rivoluzioni.
Un indizio
significativo della dinamica che ho descritto può essere visto in un fatto di
cronaca avvenuto proprio a Roma. Nel 1991, venne in visita di stato in
Italia il nuovo presidente della Russia, Boris Eltsin. Sua moglie, mentre il
marito si intratteneva in colloqui politici, fu portata in visita per la città
e, in particolare, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, che è in una zona
della città non particolarmente elegante, si tratta infatti di un quartiere
popolare come il nostro, anche se situato in centro. Uscendo dalla Basilica, la
signora Eltsin vide lì di fronte un supermercato popolare, che ancora c’è,
volle entrare, lo girò tutto e fece anche acquisti, sotto lo sguardo sbalordito
delle commesse. Ne fu entusiasta. Fu criticato e preso in giro questo suo
ingenuo entusiasmo per un supermercato popolare. Fu osservato che non aveva
mostrato lo stesso entusiasmo durante la visita allo storico chiesone. Era
questo profluvio di merce che c’era nei supermercati occidentali il sogno degli
europei orientali.
[Cronaca dell'evento all'indirizzo WEB:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/04/25/quella-prima-volta-di-eltsin-in-italia.html ]
Ora tutta
l’Europa sta di fronte alla sostenibilità del suo modello di sviluppo
consumistico, quello che è stato uno dei moventi più importanti delle
rivoluzioni nell’Europa orientale. Non ce n’è per tutti. L’induzione di sempre
nuovi bisogni genera spreco di risorse. Per cui mentre c’è chi non ha di che
vivere, ci sono quelli che consumano molto di più di ciò che ragionevolmente
sarebbe loro sufficiente per stare molto bene. Tutto è concentrato nella
soddisfazione dei bisogni individuali di chi è riuscito a integrarsi nel
sistema economico, mentre per i bisogni sociali, ad esempio per i servizi
pubblici e per le pensioni sembra che, nelle nostre società straricche
dell’Occidente, manchino sempre le risorse. Il sistema economico non è stabile,
perché, per sostenersi, ha necessità di crescere sempre.
Ma può crescere solo soddisfacendo i bisogni dei sempre meno che hanno di che
pagare certi prezzi. Così, sembra che più aumenta la capacità di soddisfare
bisogni più diminuisca il numero di chi può pagare e, dunque, più sia in
pericolo la crescita costante. Il lavoro diventa
precario perché la sua stabilità è uno di quei costi per i quali non si trovano
mai le risorse. Divenendo precario viene retribuito meno, e quindi diminuisce
la capacità di spesa delle masse. Quindi diminuiscono i consumi e la gente si
indebita per consumare. E’ stato osservato che il debito privato impone un
pesante servaggio alle persone, così come l’entità del debito pubblico ,ora che
la si vuole tenere sotto controllo, limita la spesa sociale con decremento del
benessere collettivo. E’ un modello di sviluppo squilibrato e fondamentalmente
irrazionale, tanto che riesce difficile anche ad istituzioni sovranazionali
come l’Unione Europea tenerlo sotto controllo. Nelle crisi, poi, ognuno pensa
che la soluzione sia di liberarsi dall’onere della solidarietà verso gli altri.
Ci si rinchiude nuovamente nei confini nazionali, e, all’interno di essi,
dentro quelli regionali o comunali, e infine nel proprio privato. Ognuno
vuole tenersi il suo. Spendere ciò che produce. Il grido che sorge dalle masse
è, in fondo: “Meno tasse!”. Chi oggi si adatterebbe ad uno stile di
vita più sobrio? Chi rinuncerebbe al miraggio della crescita costante?
Scrive Bergoglio
nella Laudato si’:
222. La
spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità
della vita, e incoraggia uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di
gioire profondamente senza essere ossessionati dal consumo. È importante
accogliere un antico insegnamento, presente in diverse tradizioni religiose, e
anche nella Bibbia. Si tratta della convinzione che “meno è di più”. Infatti il
costante cumulo di possibilità di consumare distrae il cuore e impedisce di
apprezzare ogni cosa e ogni momento. Al contrario, rendersi presenti
serenamente davanti ad ogni realtà, per quanto piccola possa essere, ci apre
molte più possibilità di comprensione e di realizzazione personale. La
spiritualità cristiana propone una crescita nella sobrietà e una capacità di
godere con poco. È un ritorno alla semplicità che ci permette di fermarci a
gustare le piccole cose, di ringraziare delle possibilità che offre la vita
senza attaccarci a ciò che abbiamo né rattristarci per ciò che non possediamo.
Questo richiede di evitare la dinamica del dominio e della mera accumulazione
di piaceri.
Vedete come
ragionando sulla Laudato si’ ci si è messa di
mezzo tanta storia recente? E come sono venuti in primo piano argomenti
politici? Siamo invitati a costruire un nuovo modello di sviluppo, a realizzare
nell’Europa finalmente (ma per quanto ancora?) unita un nuovo modello di
civiltà, una rivoluzione sistemica analoga a quelle che cambiarono il nostro
continente a cavallo tra gli anni ’80 e ’90.
E' perché lo
vuole, lo ordina, un papa?
Le encicliche
sociali sono state sempre un lavoro collettivo, anche se poi è il sovrano
religioso che le firma. Ci sono sempre stati molti redattori. Per la Laudato
si’, per ciò che si è saputo, non è andata proprio così. C’è
effettivamente proprio il pensiero, e addirittura il lessico, del Papa. Ma le
idee che Bergoglio propone non sono in gran parte sue originali, bensì sono
state sviluppate in tutto il mondo da un movimento politico - religioso molto
vasto, come dimostrano le tante citazioni da testi di Conferenze episcopali.
C’è insomma, un popolo che reclama un nuovo modello di sviluppo. Noi, da che
parte stiamo?
Si tratta,
come è chiaro, di un lavoro che coinvolge innanzi tutto la sfera di
azione dei laici di fede. La cura della casa comune compete
in primo luogo a loro.
Ecco dunque
l’esigenza di una specifica formazione, che va molto oltre quella catechistica
e che deve essere potenziata in particolare a partire da quella post
Cresima. C’è necessità di studiare e di fare esperienze. Di incontrare
gente, anche al di fuori dell’Italia. Conoscere per progettare il cambiamento.
Di imparare a praticare il metodo democratico nella discussione e nelle
decisioni. Perché bisogna decidersi in masse e solo la democrazia consente di
farlo. Un’organizzazione che bisognerebbe creare anche a livello parrocchiale:
è da qui che la gente di fede deve essere educata ad andare oltre, in
particolare a ragionare su scala europea e mondiale. A essere consapevole della
prospettiva storica dei problemi.
Nella nostra
parrocchia siamo ancora ai primi passi e la dispersione della biblioteca
parrocchiale non aiuta.
3.
Democrazia: un sistema di potere collettivo con limiti stringenti a ciascuna
autorità pubblica o privata sulla base di valori condivisi
Se consideriamo la storia recente dell’umanità, possiamo
constatare facilmente che qualsiasi sistema di potere che abbia voluto
correggere la società introducendo limiti basati sull’idea di giustizia
sociale, quindi di valori e diritti fondamentali delle persone incomprimibili
dai sovrani e dall’economia, ha dovuto far ricorso a livelli vari di violenza
politica, per costringere la gente ad adattarsi ai nuovi comandi. Anche la
dottrina sociale della nostra fede non ha fatto eccezione. I livelli più
intensi di violenza politica a fini di giustizia sociale furono senz’altro
espressi dal comunismo sovietico. Ma anche la legislazione sociale democratica
è stata presidiata sia dal potere giudiziario che da quello amministrativo,
anche con misure coercitive. La legge, anche in un regime democratico
sociale, è tale se ci sono autorità che riescono a farla rispettare.
Se noi guardiamo all’esperienza
politica sovietica, ci rendiamo conto che la rivoluzione che essa espresse fu
violenta all’origine, e quindi fu
attuata anche mediante la soppressione e
incarceramento di avversari ideologici, comprese persone che appartenevano ad
diversi filoni del socialismo rivoluzionario, ma che la violenza politica, con
assassinii su larga scala intesi addirittura come decimazioni di
etnie che si ritenevano resistere al potere centrale organizzato dal partito
comunista sovietico, si intensificò nel corso del dominio assoluto espresso da
Giuseppe Stalin, nativo della Georgia, dal 1924
al 1953. Questi assassini politici sono apprezzabili addirittura nelle indagini
demografiche perché portarono a un decremento della popolazione inspiegabile
con altre cause (ad esempio epidemie, guerre ecc.). Fin dall’inizio della
rivoluzione sovietica fu organizzato un sistema di deportazione e di lavoro
forzato dei condannati politici in appositi campi, chiamati Gulag.
Esso rimase in vigore fino al 1987, venendo soppresso durante il dominio
politico di Mikhail Gorbaciov, dal 1985 al 1991, durante il quale il sistema
politico sovietico si dissolse a seguito di processi democratici inaspettati in
Occidente. Durante il dominio politico degli ucraini Nikita Krusciov, dal 1955
al 1964, e Leonida Breznev, molto più lungo, dal 1964 al 1982, lo
sterminio sistematico di coloro che venivano individuati come nemici politici
cessò, ma non cessò la persecuzione politica, amministrativa e giudiziaria,
punendo i dissidenti anche con l’esilio in Occidente e la
revoca della cittadinanza.
Della violenza politica sovietica
fecero le spese molti gruppi sociali, considerati nemici politici, e anche
esponenti di alto livello dello stesso partito comunista. In particolare furono
colpite le Chiese cristiane e i loro fedeli. La manifestazione della fede
cristiana spesso portava all’emarginazione sociale e politica. Nell’Unione
sovietica e in altre nazioni dell’Europa orientale cadute nel suo dominio la
religione non era proibita, ma veniva promossa una propaganda di ateismo: le
religioni e il clero venivano considerati infatti come strumenti di oppressione
della classe operaia e di quella contadina.
Con tutto ciò l’Unione Sovietica e le
nazioni dell’Europa orientale cadute nel suo dominio ebbero Costituzioni molto
avanzate, con affermazione di diritti sociali che nel resto d’Europa
cominciarono ad essere proclamati, in genere, dopo la Seconda guerra mondiale
(se si eccettua la costituzione della repubblica tedesca detta di Weimar,
corrente tra il 1919 e il 1933).
Ecco, ad esempio il catalogo dei diritti
fondamentali contenuto nella Costituzione sovietica del 1936, fatta
approvare da Stalin, quando l’Italia era ancora sotto il dominio del fascismo
mussoliniano:
118. I cittadini dell’URSS hanno diritto al
lavoro, cioè diritto di ricevere un lavoro garantito e retribuito secondo la
quantità e la qualità [delle loro prestazioni].
Il diritto al lavoro è assicurato
dall’organizzazione socialista dell’economia nazionale,
dall’aumento incessante delle forze produttive
della società sovietica, dall’eliminazione della possibilità di crisi
economiche e dalla liquidazione della disoccupazione.
119. I cittadini dell’URSS hanno diritto al
riposo.
Il diritto al riposo è assicurato dalla
riduzione della giornata lavorativa fino a 7 ore per l’immensa maggioranza
degli operai, dall’istituzione di congedi annuali per gli operai e gli
impiegati con mantenimento del salario, e dalla predisposizione di un’ampia
rete di sanatori, case di riposo e club, posta al servizio dei lavoratori.
120. I cittadini dell’URSS hanno diritto
all’assistenza materiale durante la vecchiaia, nonché in caso di malattia e di
perdita della capacità lavorativa.
Questo diritto è assicurato dall’ampio
sviluppo dell’assicurazione sociale degli operai e degli impiegati a carico dello
Stato, dall’assistenza medica gratuita ai lavoratori, e dall’ampia rete di
stazioni di cura messa a disposizione dei lavoratori.
121. I cittadini dell’URSS hanno diritto alla
istruzione. Questo diritto è assicurato dall’istruzione elementare, generale ed
obbligatoria, dal carattere gratuito dell’istruzione, compresa
l’istruzione superiore, da un sistema di borse di studio statali per l’immensa
maggioranza degli studenti delle scuole superiori, dall’insegnamento scolastico
nella lingua materna e dall’organizzazione dell’insegnamento professionale,
tecnico e agronomico gratuito per i lavoratori nelle officine, nei
sovchoz, nelle stazioni di macchine e trattori e nei kolchoz.
122. Alla donna sono accordati nell’URSS
diritti uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita economica,
statale, culturale e socio-politica.
La possibilità di esercitare questi diritti è
assicurata dall’attribuzione alla donna dello stesso diritto dell’uomo al
lavoro, alla retribuzione del lavoro, al riposo, all’assicurazione sociale e
all’istruzione; dalla tutela, da parte dello Stato, degli interessi della madre
e del bambino; dalla concessione di congedi di gravidanza alla donna, con
mantenimento del salario, e da un’ampia rete di case di maternità, di nidi e di
giardini d’infanzia.
123. L’uguaglianza giuridica dei cittadini
dell’URSS indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti i campi
della vita economica, statale, culturale e socio-politica, è legge
irrevocabile.
Qualsiasi limitazione diretta o indiretta dei
diritti e, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi diretti o
indiretti ai cittadini in dipendenza della razza o della nazionalità alla quale
appartengano, così come qualsiasi propaganda di settarismo razziale o
nazionale, ovvero di odio e disprezzo, è punita dalla legge.
124. Allo scopo di assicurare ai cittadini la
libertà di coscienza, la Chiesa nell’URSS è separata dallo Stato e la scuola
dalla Chiesa. La libertà di praticare culti religiosi e la libertà di
propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini.
125. In conformità con gli interessi dei
lavoratori e allo scopo di consolidare il regime socialista, ai cittadini
dell’URSS è garantita dalla legge:
a) la libertà di parola;
b) la libertà di stampa;
c) la libertà di riunione e di comizi;
d) la libertà di cortei e manifestazioni
di strada.
Questi diritti dei cittadini sono assicurati
mettendo a disposizione dei lavoratori e delle loro organizzazioni le
tipografie, le scorte di carta, gli edifici sociali, le strade, i mezzi di comunicazione
e le altre condizioni materiali necessarie per il loro esercizio.
126. In conformità con gli interessi dei
lavoratori e allo scopo di sviluppare l’autonomia organizzativa e l’attività
politica delle masse popolari, è assicurato ai cittadini dell’URSS il diritto
di unirsi in organizzazioni sociali: sindacati, consorzi cooperativi,
organizzazioni della gioventù, organizzazioni sportive e di difesa,
associazioni culturali, tecniche e scientifiche, mentre i cittadini più attivi
e più coscienti provenienti dalle file della classe operaia e da altri strati
di lavoratori si riuniscono nel Partito Comunista (bolscevico) dell’URSS, che è
il reparto d’avanguardia dei lavoratori nella loro lotta per il consolidamento
e lo sviluppo del regime socialista, e che rappresenta il nucleo direttivo di
tutte le organizzazioni dei lavoratori, sia sociali che statali.
127. Ai cittadini dell’URSS è assicurata
l’inviolabilità della persona. Nessuno può essere sottoposto ad arresto se non
in base a sentenza(postanovlenie) di un tribunale o con la conferma del
procuratore.
128. L’inviolabilità del domicilio dei
cittadini e il segreto della corrispondenza epistolare sono tutelati dalla
legge.
129. L’URSS accorda il diritto di asilo ai
cittadini stranieri perseguitati per avere difeso gli interessi dei lavoratori,
o per la loro attività scientifica, o per avere partecipato a lotte di
liberazione nazionale.
130. Ogni cittadino dell’URSS è tenuto ad
osservare la Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche,
ad eseguire le leggi, ad osservare la disciplina del lavoro, a comportarsi con
onestà nei confronti del dovere sociale e a rispettare le regole della
convivenza socialista.
131. Ogni cittadino dell’URSS è tenuto a
salvaguardare e a consolidare la proprietà sociale socialista, come base sacra
e inviolabile del regime sovietico, fonte della ricchezza e della potenza della
patria, fonte di vita agiata e civile per tutti i lavoratori.
Coloro che attentano alla proprietà sociale,
socialista, sono nemici del popolo.
E’ chiaro che, tuttavia, la gran parte
dei diritti di incolumità sociale e libertà rimasero solo proclamazioni formali
nei sistemi sovietici e in quelli che ad essi si ispiravano, perché nei fatti
veniva repressi e negati. Nell’Europa occidentale cominciarono ad essere
proclamati e attuati nel secondo dopoguerra, dopo la caduta dei regimi
nazifascisti. Un esempio di ciò è stata storicamente la Repubblica
italiana.
In particolare, nei sistemi sovietici e
di ispirazione sovietica, non era ammessa l’iniziativa economica privata, se
non su minima scala. I regimi comunisti si proponevano di selezionare i bisogni
degni di essere soddisfatti e di soddisfarli con una propria organizzazione
produttiva. In realtà non si riuscì mai a conseguire questo scopo e la vita
nelle nazioni governate da regimi comunisti appariva significativamente più
misera di quella delle popolazioni degli stati Occidentali. Anche l’arte e la
scienza ne risentirono. Il penetrante controllo politico ne limitò l’efficacia
e l’originalità.
L’attuazione dei diritti sociali
fondamentali nell’Europa Occidentale si sviluppò con procedure democratiche dal
secondo dopoguerra, dalla metà degli anni ‘40. Questo consentì di ottenere
risultati importanti con il minor grado di coercizione possibile. Infatti in
democrazia si fa conto sull'adesione volontaria alle decisioni collettive, a
prescindere da sanzioni. La nuova Europa dei nostri tempi, che affratella anche
nazioni che si liberarono dai regimi comunisti a cavallo tra gli anni ’80 e
’90, segue ancora questo metodo. La democrazia comporta che non possano
esistere poteri pubblici o privati illimitati: ogni potere deve averne un altro
che lo limiti e lo controlli. Il problema dei nostri tempi è l’eclissi dei
diritti sociali sotto l’aggressione dei sistemi di potere privati globalizzati,
in grado di condizionare interi stati. Gli stati e le istituzioni
sovranazionali, come l’Unione Europea, non si trovano a dover combattere poteri
che loro esplicitamente si oppongano, ma si trovano a dover soggiacere ad
un sistema economico e sociale al quali essi stessi partecipano, trovandone
risorse per i programmi pubblici. I problemi economici appaiono quindi come
provocati da una sorta di fenomeni naturali, come i terremoti, contro i quali
c’è poco da fare, in particolare per indirizzare a fini sociali, come la nostra
Costituzione ancora prevede, l’iniziativa economica privata, che è libera, ma
anch’essa, in quanto potere privato, ha dei limiti, in particolare nella
sicurezza, libertà e dignità umana e nei programmi e controlli pubblici perché
possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali (così è
scritto nell’art.41 della Costituzione). Possiamo dire che questi obiettivi
siano raggiunti, oggi, in Italia?
Mantenere una via democratica
all’affermazione dei diritti fondamentali sociali nelle società avanzate
Occidentali contemporanee è il grande problema dei nostri tempi.
La dottrina sociale è piena di
proclamazione di grandi diritti sociali, come gli articoli della costituzione
sovietica che ho sopra trascritto, ma renderli vivi tra la gente richiede che
ci si addestri nel metodo democratico, perché è esso che fa funzionare i poteri
pubblici nell’Europa di oggi: non c’è da attendersi da nessun uomo
forte che produca il risultato a cui si mira. I governi, anzi,
appaiono deboli di fronte alle temperie economiche globali che minacciano i
diritti fondamentali della gente. Ecco dunque che devono essere incalzati dalla
gente, appunto con metodo democratico.
E’ quanto siamo invitati a fare
nella Laudato si’:
178. Il dramma di una politica focalizzata sui
risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende
necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi
elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con
misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio
investimenti esteri.
179. [… ] Poiché il diritto, a volte, si
dimostra insufficiente a causa della corruzione, si richiede una
decisione politica sotto la pressione della popolazione. La società,
attraverso organismi non governativi e associazioni intermedie, deve obbligare
i governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi. Se i
cittadini non controllano il potere politico - nazionale, regionale e municipale
- neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali.
181. […] Occorre dare maggior spazio a una
sana politica, capace di riformare le istituzioni e dotarle di buone pratiche,
che permettano di superare pressioni e inerzie viziose.
Ecco perché la formazione e soprattutto il tirocinio alla
democrazia dovrebbe rientrare in quella alla vita di fede, in particolare per
il laico.
4. Illusione
dell’«uomo forte»
C’è sempre, nell’esperienza sociale, la tentazione di affidare
la realizzazione del bene comune all’azione di un “uomo forte”. C’è in
politica, come in religione e in tutti gli altri campi della vita umana in cui
certi risultati possono ottenersi solo con un lavoro collettivo.
Che cos’è il bene comune? Se ne sono
date molte definizioni. Si parte sempre, però, dall’idea che gli esseri umani
per essere felici dipendono dagli altri. La loro felicità dipende dall’ambiente
in cui sono inseriti. E non basta l’appagamento dei bisogni: è esperienza
comune che anche i ricchi soffrono. Tanto più che nell’era contemporanea
l’economia delle società più ricche sembra dipendere dalla creazione incessante
di nuovi bisogni e, quindi, su un costante loro inappagamento. E infatti nelle
straricche società occidentali l’esperienza della gioia, del sentimento di appagamento
interiore, è rara. Si può concludere che viviamo in un ambiente sociale che non
favorisce la felicità, che è difficile da raggiungere nonostante ognuno nella
propria vita si sforzi di farlo. Bisognerebbe introdurre delle modifiche, ma
trattandosi lavorare su una società, c'è da fare un lavoro collettivo. Ci
siamo però disabituati a svolgerlo: esso è propriamente la politica.
Ognuno tende a fare per sé, a sviluppare una propria idea di società che gli
consentirebbe di essere felice. Così ci sono moltissime idee di società felici,
ma poi la società corre come abbandonata a sé stessa, perché non ci si riesce a
mettere d’accordo su come modificarla. Bisognerebbe infatti tener conto anche
delle aspirazioni alla felicità altrui. Ma c’è sempre il sospetto che
ciascuno voglia fare solo gli affari propri. E spesso esso risulta fondato.
Così manca la fiducia nel prossimo e quindi la possibilità di svolgere un
lavoro comune. E’ difficile fare unità dalla molteplicità delle nostre vite. E’
in questo momento che sorge la tentazione dell’ “uomo forte”: una persona a cui
affidare tutte le nostre speranze e che, con autorità non più contestabile,
ponga fine alle discordie e decida una linea. Trattandosi di una persona sola,
sia pure con molta autorità, pensiamo che sia più facile liberarsene, quando
non ci andrà più bene. Nell’immaginazione comune i molti prevalgono sui
singoli. Temiamo di più i molti, per di più anarchici, senza una forza che li
tenga a bada e ci protegga da loro, che la singola autorità personalizzata.
Questo però è un grave errore. Prendendo consapevolezza della storia
dell’umanità possiamo facilmente convincerci che nulla è più stabile, nelle
società umane, dei poteri molto personalizzati, come erano quelli dei monarchi
assoluti che dominarono l’Europa fino al faticoso emergere delle democrazie,
dalla fine del Settecento. O come furono i despoti sovietici che ho ricordato
in un post di due giorni fa: Giuseppe Stalin,
Nikita Krusciov, che pure dichiarò di voler liberare la politica da quello che chiamò
il culto della personalità, Leonida Breznev (del fondatore del
comunismo sovietico,Lenin, non possiamo dire se sarebbe divenuto un
despota, perché regnò solo per sette anni, mentre l’ultimo capo dell’Unione
Sovietica, Mikhail Gorbaciov non volle più essere un despota, ma, a quel punto,
il sistema sovietico si dissolse). O, in Italia, il capo del Governo in epoca
fascista, Benito Mussolini, che chiamammo Duce, il condottiero di
un’intera nazione, un padre della patria, in tutti i
sensi il modello a cui noi italiani pensiamo subito quando parliamo di
“uomo forte”. Egli ebbe nelle sue mani l’Italia per un ventennio. E anche
in religione, nella nostra fede, noi facciamo molto conto su “uomini forti”: le
nostre collettività religiose sono infatti organizzati, almeno formalmente,
sotto il potere assoluto di un’unica persona, la cui autorità è stata
storicamente costruita come quella di un imperatore religioso: questo sistema
di governo dura ormai da mille anni.
Nei giorni passati si è evocata,
a proposito dei possibili effetti della riforma costituzionale che tra poco
sarà oggetto di un referendum, l’esperienza politica dispotica del capo di
stato Augusto Pinochet, che dominò il suo popolo dal 1973 al 1990. Ma il
paragone con l’esperienza cilena è improprio ed esagerato, se riferito
all’attuale situazione politica italiana, che si muove ancora saldamente entro
procedure democratiche. Tuttavia, dall’inizio degli anni ’90, di fronte
all’apparente disgregazione e dispersione della politica nazionale, si seguì la
via di personalizzare molto il confronto politico,
creando quelli che vengono definiti partiti personali, quelli che
fanno riferimento ad un preciso capo politico, del quale spesso viene inserito
in nome nel simbolo di partito. I maggiori partiti politici nazionali sono
attualmente organizzati come partiti personali. Se si pensa a quelle formazioni
non viene in mente un preciso programma politico, ma la persona del capo di
riferimento. E’ questo il metodo migliore per capire se un partito è o non è personale.
I capi dei partiti personali reclamano poi mano libera,
e chiedono la fiducia in questo la fiducia di chi li vota. Così spesso i
cittadini elettori sono posti nelle condizioni di coloro che firmano cambiali
completamente in bianco.
Tutti i capi dei partiti personali parlano
di riforme. Quali saranno precisamente? Non lo dicono. Ci
assicurano che ci cambieranno la vita in meglio. Ma come facciamo a valutarne
l’affidabilità senza che ci vengano esposte nel dettaglio? Quando però viene
fatto, emergono tanti problemi e soprattutto ciascuno capisce che, quando ci
viene detto che le riforme sono necessarie ma dolorose,
non è solo agli altri che recheranno dolore. Rimanendo sul vago
questo problema viene superato. Ognuno pensa al bene comune che
ha in mente, e non viene contraddetto dagli aspiranti riformatori, i
quali spesso sono in buona fede perché neppure loro hanno in testa un preciso
progetto di riforme, e può prevedere che il dolore sarà
solo a carico di altri.
E’ stato osservato che la recente
riforma costituzionale riduce di molto il peso del Senato nelle decisioni che
il Parlamento deve prendere inseduta comune, vale a dire riunendo
deputati e senatori e facendoli votare. E questo perché il Senato passa da
trecentoquindici membri, oltre ai senatori a vita (gli ex presidenti della
Repubblica) e quelli di nomina presidenziale (per aver “illustrato” la Patria),
a cento membri, compresi nomina presidenziale, oltre ai senatori a vita (gli ex
presidenti della Repubblica). Tenendo conto che il sistema elettorale per la
Camera di deputati assegna al partito che riesca a conseguire
il 40% dei voti validi degli elettori o riesca a vincere il ballottaggio tra
i due più forti partiti di minoranza una solida maggioranza assoluta, e tenuto
conto dell’analogo effetto che viene prodotto dai sistemi elettorali regionali
e comunali e dunque sulla composizione dei consigli regionali (che, secondo la
riforma costituzionale, nomineranno i senatori) e sulla scelta dei sindaci (tra
i quali verranno scelti alcuni senatori), possiamo prevedere che probabilmente,
quando il Parlamento deciderà in seduta comune, il partito che esprime il
Governo avrà la possibilità di far approvare le sue scelte. Il Parlamento,
secondo la riforma costituzionale, nominerò in seduta comune il
Presidente della Repubblica e un terzo (otto membri) dei componenti del
Consiglio superiore della magistratura. Poiché può prevedersi che, nell’attuale
scenario politico, i partiti che avranno la possibilità di vincere le
elezioni politiche saranno partiti personali, ecco che si può
temere che il capo del partito personale vincitore
avrà la possibilità di far approvare le sue scelte personali in
materia. Dunque che la più importante istituzione di garanzia costituzionale,
la Presidenza della Repubblica, finisca ad essere assegnato a persona di
fiducia del capo del partitopersonale. E che l’influenza del medesimo
capo politico sulla magistratura, dalla quale dipende l’attuazione dei diritti
dei cittadini, in modo che non rimangano solo sulla carta come begli enunciati
formali, aumenti di molto rispetto alla situazione attuale, incidendo
sull’indipendenza dei giudicanti dal potere di governo. Anche sotto questo
profilo la riforma costituzionale va verso un maggior poterepersonale di
governo. Del resto è proprio questa la soluzione che i capi politici
contemporanei propongo in Italia: un potere personale, di un uomo forte
(i capi personali dei maggiori partiti politici sono
attualmente uomini), per superare lo stallo che in politica è determinato che
non ci si riesce a mettere d’accordo, quindi dal fatto che, in definitiva, la
gente non sa più fare politica. Infatti la politica non è fatta
solo di chiacchiere, in cui ognuno dice la propria e
rimane della propria opinione, che risulta poi incomponibile con quella degli
altri, ma si costruisce sul dialogo, che significa tener
conto anche delle ragioni degli altri e proporsi di arrivare ad un’intesa.
Dal dialogo poi scaturiscono decisioni condivise.
Un’ultima considerazione: gli uomini
forti degradano rapidamente. Un potere senza sufficienti e
autorevoli contrappesi, innanzi tutto nella politica democratica espressa dalla
base dei cittadini, tende all’abuso e all’eccesso. Per ricordare l’esempio
sovietico, viene riferito che Leonida Breznev, il quale dominò un immenso
impero socialista per circa un ventennio, sviluppò una
passione personale per le automobili più costose prodotte in Occidente, che
amava guidare personalmente: ne aveva una vasta collezione e, personalmente,
non vi trovava alcuna contraddizione con gli ideali socialisti proclamati. E’
questa una dinamica che si riscontra, in genere, nella gran parte degli uomini
forti, papi compresi (se si eccettua quelli, molto più sobri in questo,
degli ultimi due secoli). L’orgoglio di uomo forte grida
veramente sfacciato, ad esempio, dal frontone del grande chiesone
vaticano. Leggere per credere. Dice sostanzialmente: "L'ho
fatto io!".
5. Capire la
politica
In Italia le masse delle persone di fede sono state protagoniste
della politica dalla fine del Settecento e, sotto certi aspetti, lo sono
ancora. La differenza rispetto al passato è che lo sono in modo molto meno
consapevole e convinto. Del resto è un problema che riguarda più in generale la
democrazia italiana, come anche quella europea. Ognuno è spinto nel proprio
privato e i capi politici pensano di poter influire sulla gente, raccogliendone
il consenso, non innescando processi collettivi, ma raggiungendo le persone, ad
una ad una, in quei piccoli mondi separati in cui si sono recluse. Questo
impedisce di ragionare insieme sulle cause sociali dei problemi della gente. Si
tratta di un atteggiamento deresponsabilizzante, sia per i capi politici sia
per le masse. E' l'antipolitica, il contrario della politica: politica è
ragionare e programmare insieme agli altri, consapevoli di vivere in quella che
è stata definita recentemente, con un bella immagine, la "casa
comune". Le soluzioni proposte dalla politica ne risentono. Si cerca di
venire in contro al privato della gente, senza tener conto della coerenza
dell’insieme, in particolare della sostenibilità economica delle misure
progettate. Si cerca di sollecitare dai cittadini atteggiamenti fideistici,
insomma l’accettazione di cambiali sociali in bianco. Si propone come positivo
il cambiamento per il cambiamento, come se la direzione del cambiamento non
fosse importante, soprattutto quando si tratta di riformare le fondamenta dello
stato. Si propone una riduzione della classe politica che, a ben vedere,
comporta anche un suo degrado, meno autonomia di giudizio, meno collegamenti
con i cittadini elettori. Si tace che si cerca di ottenere la coerenza
dell’azione di governo sostituendo una classe politica pluralista,
rappresentativa delle varie componenti della società, con una di stretta osservanza
partitica, scelta da capi autoreferenziali. E i maggiori partiti nazionali sono
oggi partiti personali, vale a dire centrati sulla figura di
un capo carismatico, e i loro capi non sono parlamentari. In un certo senso
quello che negli anni ’70 fu una anomali limitata, una politica extraparlamentare,
oggi è diventata la normalità. L’eclisse del Parlamento, che molti
studiosi segnalano, è la manifestazione
di una grave crisi della politica nazionale, la presa d’atto che non sembra non
essere più possibile fondare una nuova
politica democratica, che coinvolga nuovamente la partecipazione informata,
consapevole, responsabile delle masse.
Capire la politica richiede uno
sforzo e, innanzi tutto, la volontà di essere parte dei processi democratici.
Una vita di fede persa dietro fantasie neobibliche e spiritualismi vari,
centrata su neocomunità fortezza timorose di tutto ciò che si muove intorno a
loro nella società e pronte a vedervi l’azione del demonio, non è l’ambiente
giusto. Non basta l’invito autorevole a informarsi personalmente. Come
e dove farlo? Bisogna creare le occasioni sociali per approfondire questioni
che sono tanto rilevanti anche per la vita di fede. Se non se ne è capaci anche
la fede può essere facilmente strumentalizzata al servizio della politica
egemone. Si vorrebbe, secondo la fede, aiutare gli altri e invece si finisce
per respingerli, convinti del proprio buon diritto di farlo per salvare una
qualche propria identità. E sempre risorge la malattia clericale, che si
sviluppa nel clerico-moderatismo, che storicamente è stato, in Italia,
l’ambiente favorevole per ogni tendenza politica reazionaria e dello stesso
fascismo storico. Così il cambiamento per il cambiamento rischia di riproporre
un tremendo passato, che appare nuovo solo perché si è persa
la memoria storica.
6. Nuovo inizio o prosecuzione della
costruzione della casa comune?
Ci sono scadenze, come quella dell’annuale
consegna delle tessere di Azione Cattolica, che sembrano segnare un nuovo
inizio nella vita di un gruppo, come anche, su scala via via più grande, di
un’associazione, di una Chiesa, di una nazione, di un’era storica.
Ci fu, tra il 1962 e il 1965, il Concilio
ecumenico Vaticano 2°, qui a Roma, e presto ci si divise tra coloro che
sottolineavano le novità, che vi furono
e furono molte, e gli elementi di continuità con le idee e il lavoro del
passato. Questo dibattito finì presto per degenerare in polemica, spingendo e
persone a schierarsi. Sembrò allora che le novità avessero prodotto un
pericoloso disordine e i fautori della continuità
si assunsero il ruolo di difensori di un ordine bimillenario minacciato. Questo
sviluppo interferì pesantemente con quel rinnovamento, spesso indicato con il
termine attenuato di aggiornamento, che era stato al centro dei
lavori di quel concilio. A rinnovarsi doveva
essere la Chiesa, in un modo nuovo di confrontarsi con il mondo intorno a lei.
Si passava dalla polemica ideologica, che aveva caratterizzato l’impostazione
dal Settecento in avanti, in particolare nel duro contrasto con i processi
democratici e con il socialismo, alla condivisione di gioie, speranze,
tristezze e angosce dell’umanità contemporanea: una reale e intima solidarietà
con il genere umano e la sua storia (questo l’inizio di uno dei più importanti
documenti dell’ultimo concilio, la costituzione pastorale La gioia e la speranza, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo). Una delle più importanti caratteristiche del
movimento che il Concilio Vaticano 2° volle imprimere al lavoro della Chiesa
nella società fu il pressante appello alla collaborazione dei laici, vale a
dire dei fedeli che non sono diaconi, preti e vescovi, né sono inseriti in un
ordine religioso (frati e suore, monaci e monache). L’Azione Cattolica
italiana, dalla fine degli anni ’60, con la riforma attuata sotto la presidenza
di Vittorio Bachelet (dal 1964 al 1973), ha fatto della formazione dei laici
per questo impegno il suo campo principale di attività, accanto agli altri che
storicamente le erano stati propri, vale a dire l’impegno civile per la promozione
dei valori di fede nella società e il sostegno alla vita di fede.
In Italia si esce da un lungo confronto sui
temi politici della riforma delle istituzioni fondamentali dello stato.
Accostando gli insegnamenti contenuti nell’enciclica Laudato si’, di papa
Francesco, diffusa lo scorso anno, se ne poteva comprendere il valore anche
religioso: si trattava infatti di occuparsi della casa comune, che è l’ambiente naturale, urbanistico, sociale,
civile e politico che rende possibile ai nostri giorni la vita di un’umanità
mai così numerosa. Si è capito subìto bene che non si trattava di decidersi per
il Sì o per il No sulla base di impressioni emotive e superficiali, così come
accade in genere in certi concorsi artistici, come il Festival di Sanremo. E’ stato necessario approfondire, informarsi personalmente, cercare un
aiuto dove non si arrivava con le proprie forze, e dialogare confrontando le
rispettive opinioni. La decisione aveva un valore religioso, riguardando
questioni di sopravvivenza di una vasta collettività, ma la cultura religiosa non bastava per affrontarla. E’ stato
necessario formarsi prima di decidere.
A questo lavoro serve appunto l’adesione ad un gruppo di Azione Cattolica.
Nell’organizzazione dell’Azione Cattolica, che, strutturata come federazione di
gruppi parrocchiali e diocesani, ha dimensioni nazionali e internazionali, c’è
quello che serve per svolgerlo. Ad esempio, lo scorso anno si è ideato un ciclo
per la formazione alla politica dei più giovani, a livello parrocchiale, diocesano
e nazionale, a cominciare dai piccolissimi.
Si è insegnato a gestire un Comune, facendone fare tirocinio. Ne potete trovare
l’esposizione alla pagina WEB
<http://acr.azionecattolica.it/noi-la-parola>.
Penso che le persone del nostro quartiere si siano
rese conto della necessità di questa specifica formazione, che è, in
particolare, auto-formazione,
attraverso il dialogo. Ma
probabilmente molti non sanno che ciò di cui hanno bisogno c’è già ed è appunto
l’Azione Cattolica. Penso che la gente abbia un’idea un po’ vaga di ciò che è
l’Azione Cattolica. Probabilmente fanno fatica a distinguerla da altre
associazioni e movimenti che animano la vita di fede in Italia. Riprendendo una
metafora dell’antico filosofo greco Platone (vissuto tra il quinto e il quarto
secolo dell’era antica) riproposta dal costituzionalista Gustavo Zagrebelsky
nel corso del dibattito sui temi del recente referendum costituzionale, le
comunità possono essere organizzate intorno a pastori e a tessitori. Nelle prime si segue un pastore, un cammino da lui organizzato. Nelle seconde si creano
rapporti civili e poi, sulla loro base,
si costruisce la casa comune, una città. All’Azione Cattolica si attaglia meglio l’esempio del costruire una realtà civica. Si costruisce
secondo un progetto ed esso è frutto del pensiero di chi partecipa
al lavoro. Si lavora democraticamente, l’unico metodo per consentire a tutti di
partecipare. Il lavoro in AC è quindi anche tirocinio alla democrazia. Al centro di questo impegno c’è il prendersi cura dell’ambiente naturale,
urbanistico, sociale, civile e politico.
Esso è impregnato di valori di fede, come un biscotto inzuppato nel vino
(riprendo questa immagine da una poesia udita in gioventù, ma di cui non ho mai
saputo l’autore), appunto per quella condivisione di gioie, speranze, tristezze
e angosce dell’umanità contemporanea che caratterizza la vita di fede secondo
la visione dei saggi dell’ultimo Concilio.
E costruendo,
innanzitutto progettando, ci si rende facilmente conto che non si riparte mai veramente da
capo, che ogni nuovo inizio è in realtà una prosecuzione di un lavoro
comune. Questo è talvolta tanto difficile da accettare negli ambienti di
fede. Ma è la base perché il lavoro di costruttori sia valido: consente infatti
di imparare dagli errori del passato. A volte invece sembra che tutto ciò che
c’è stato tra i primi tempi, tra i tempi apostolici, dal primo secolo della
nostra era, e i nostri tempi sia senza valore, che si possa disinvoltamente ripartire per nuovi cammini disinteressandosi
a tutto ciò che c’è stato prima. Così poi si finisce per ripetere all’infinito
gli stessi sbagli del passato, ad esempio le stesse intolleranti divisioni e
incomprensioni, la stessa presunzione di bastare a sé stessi. In Azione
Cattolica non facciamo così: ad esempio quest’anno facciamo memoria della lunga
storia associativa che dura da 150 anni, in un percorso non lineare, ma con
molte svolte, non di rado drammatiche, dure, specialmente a cavallo tra
Ottocento e Novecento, attraverso le
quali però complessivamente si è cresciuti, costruendo
realtà nuove.
7. Persecuzioni e persecutori
La persecuzione religiosa è strettamente
legata alla negazione della libertà religiosa. Quest’ultima si può presentare
in un quadro sociale e politico che tollera
scelte religiose diverse da quelle
della maggioranza della popolazione o da quelle fatte dallo stato o in quadro
legislativo che riconosce il diritto a scegliere e a praticare in privato e in
pubblico una determinata religione. Storicamente, nelle società europee o
comunque di cultura europea si è passati dalla tolleranza all’affermazione del diritto alla libertà religiosa.
Attualmente la comunità mondiale degli stati riunita nell’Organizzazione delle
Nazioni Unite riconosce la libertà religiosa come diritto umano fondamentale.
Si legge infatti nell’art.18 della Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea delle Nazioni Unite:
“Ogni
individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione;
tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la
libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in
privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle
pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti.”
L’anno precedente, l’Assemblea Costituente
della Repubblica italiana aveva approvato nella Costituzione entrata in vigore
il 1 gennaio 1948 l’art.19 che dispone: “Tutti
hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi
forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato
o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.
Norme analoghe si trovano nella Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
del 1950 e nella Carta dei diritti dell’Unione Europea, che dal 2009 ha la
stessa forza normativa dei trattati istitutivi dell’Unione Europea.
Il diritto di libertà religiosa comporta il principio della laicità delle istituzioni pubbliche, che
comporta il divieto di discriminazione su base religiosa e il divieto di
imposizione normativa della pratica di una determinata religione, quindi il
divieto di stabilire una religione di stato.
All’inizio della loro storia le nostre prime comunità religiose, formate
di collettività poco numerose sparse per tutto l’impero mediterraneo ai margini
del quale la nostra fede era nata, subirono forme di persecuzione propriamente
religiosa da parte dell’ebraismo loro contemporaneo, nella fase di distacco
della nostra fede da esso. Successivamente subirono forme di persecuzione da
parte delle autorità pubbliche dell’impero romano, le quali inizialmente si
muovevano essenzialmente su denuncia di privati: questo dimostra una certa frizione
tra le nostre prime collettività religiose e le società in cui erano immerse.
Successivamente le autorità pubbliche dell’impero romano promossero cicli di
repressione, essenzialmente per motivi politici, anche se gli storici
riconoscono che il numero delle persone colpite è ampiamente sovrastimato dalla
tradizione religiosa. A seguito di un processo storico che è ancora piuttosto
oscuro, ad un certo punto la nostra fede nel Quarto secolo si affermò come
ideologia politica dell’antico impero romano e gli altri culti religiosi
vennero vietati. A quel punto i cristiani divennero persecutori dell’ebraismo,
dei preesistenti culti pagani e anche delle correnti religiose basate su
teologie non ammesse dallo stato. La teologia divenne un affare di stato e tutti
i Concili ecumenici del primo millennio furono convocati e, in genere, anche
presieduti dagli imperatori romani. Nel secondo millennio venne istituito un
sistema poliziesco giudiziario diretto dai papi romani per la repressione delle
correnti religiose ritenute erronee. Esso venne progressivamente smantellato
solo a partire dal Settecento, con l’affermazione in Europa del principio della
laicità dello stato. Non è disponibile una contabilità precisa degli
imprigionati, torturati e uccisi da quel sistema repressivo: i clericali
tendono a ridurne il numero, gli anticlericali a sovrastimarlo. Molti
riformatori religiosi furono da esso inquisiti, così come diverse forme di
spiritualità popolare. Ne furono vittime, ad esempio, la mistica Giovanna
d’Arco (giustiziata, arsa viva, nel 1431
e proclamata santa nel 1920), il monaco e riformatore religioso Girolamo
Savonarola (giustiziato arso vivo, nel 1498) e il filosofo Giordano Bruno
(giustiziato, arso vivo in piazza Campo de’ Fiori a Roma, nel 1600).
Nel 1864 il Sillabo, un
documento in cui il papa Mastai Ferretti, regnante con il nome di Pio 9°,
elencò le affermazioni erronee correnti nella società contemporanea, era
condannata l’idea di libertà religiosa. Da allora, in un processo durato circa
un secolo, si produsse un mutamento nella dottrina ufficiale, essenzialmente
per l’azione delle correnti cattolico-democratiche. Infine, nel corso del
Concilio Vaticano 2° (1962-1965), il 7-12-1965 venne approvata la Dichiarazione
Della dignità umana che riconobbe,
anche nella dottrina della nostra fede la libertà religiosa, in quanto
espressione della dignità umana:
Oggetto e fondamento della libertà religiosa
2.
Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla
libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani
devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di
gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa
nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro
debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in
forma individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà
religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale
l'hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione. Questo
diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e
sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società.
A
motivo della loro dignità, tutti gli esseri umani, in quanto sono persone,
dotate cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale
responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a
cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure
tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e ad ordinare tutta la loro
vita secondo le sue esigenze. Ad un tale obbligo, però, gli esseri umani non
sono in grado di soddisfare, in modo rispondente alla loro natura, se non
godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell'immunità dalla
coercizione esterna. Il diritto alla libertà religiosa non si fonda quindi su
una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura. Per cui
il diritto ad una tale immunità perdura anche in coloro che non soddisfano
l'obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa, e il suo esercizio,
qualora sia rispettato l'ordine pubblico informato a giustizia, non può essere
impedito.
Questo
principio si affermò piuttosto faticosamente nelle nostre collettività di fede,
in cui ancora permangono manifestazioni delle antiche concezioni.
Durante la solenne liturgia della Giornata
del perdono, il 12-12-2000, durante il Grande
Giubileo dell’Anno 2000, il papa Karol Wojtyla, regnante come Giovanni
Paolo 2°, ci guidò a fare memoria delle persecuzioni dei quali i cristiani
erano stati responsabili, a pentircene, e a fare solenne proposito di non
ripeterle:
“II.
CONFESSIONE DELLE COLPE NEL SERVIZIO DELLA VERITÀ
Un Rappresentante della
Curia Romana:
Preghiamo perché
ciascuno di noi,
riconoscendo che anche uomini di Chiesa,
in nome della fede e della morale,
hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici
nel pur doveroso impegno di difesa della verità,
sappia imitare il Signore Gesù,
mite e umile di cuore.
Preghiera in
silenzio.
II Santo Padre:
Signore, Dio di tutti
gli uomini,
in certe epoche della storia
i cristiani hanno talvolta accondisceso a metodi di intolleranza
e non hanno seguito il grande comandamento dell'amore,
deturpando così il volto della Chiesa, tua Sposa.
Abbi misericordia dei tuoi figli peccatori
e accogli il nostro proposito
di cercare e promuovere la verità nella dolcezza della carità,
ben sapendo che la verità
non si impone che in virtù della stessa verità.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
R. Kyrie, eleison; Kyrie, eleison; Kyrie,
eleison.
Viene accesa una lampada
davanti al Crocifisso.”
La decisione del Wojtyla venne aspramente criticata negli ambienti
religiosi, anche se aveva avuto l’adesione della Commissione Teologica
Internazionale. Tuttora non è condivisa da molti della nostra fede. Si
sostiene che non possiamo pentirci per ciò che si è fatto nel passato da parte
di altri. E che, nel valutare la vita di questi ultimi, occorre tener conto del
contesto sociale, culturale e storico in cui operavano. In realtà Wojtyla volle guidarci in quello
che definì purificazione della memoria, che significa fare memoria
veritiera dei fatti del passato per
distaccarci dal male che in essi vi è, anche se compiuti da persone della
nostra fede: perché il passato cattivo non sia di esempio per il futuro.
Fino agli anni ’80, in Italia, ma anche in Europa, il problema della
libertà religiosa e della laicità dello stato consisteva essenzialmente nel non
discriminare chi apparteneva ad una confessione religiosa della nostra fede
diversa da quella maggioritaria in una certa nazione e chi faceva la scelta di
non seguire alcuna fede religiosa. Dagli
anni ’90, con le correnti migratorie da varie parti del mondo, e anche da popoli
in erano maggioritarie fedi non cristiane, in particolare l’Islam, l’Induismo e
il Buddismo, si produsse un contesto multi-etnico che fu anche multi-religioso
che mise a dura prova il principio fondamentale della laicità dei pubblici
poteri. Si sostenne che la religione maggioritaria avesse diritto di
manifestarsi in forme più intense delle altre religioni negli spazi
pubblici, benché, con l’Accordo di
revisione del Concordato lateranense del 1984, Repubblica Italiana e Santa Sede
avessero convenuto che non fosse più in vigore il principio della religione
cattolica come unica religione dello
stato, proclamato dallo Statuto
Albertino, la costituzione del Regno d’Italia che ebbe vigore dal 1848 al
1946:
Art. 1. -
La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato.
Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi.
Manifestazioni
di queste pretese si sono avute nella questione dell’esposizione del Crocifisso
negli uffici pubblici, in particolare nelle aule scolastiche e nelle aule
giudiziarie, nella questione dell’allestimento di presepi negli edifici
pubblici, in particolare nelle scuole pubbliche, nella questione delle visite
pastorali dei vescovi negli uffici pubblici, in particolare nelle scuole pubbliche.
Spesso si respingono le critiche di lesione del principio della laicità
delle istituzioni pubbliche osservando che si potranno cambiare certe
consuetudini quando anche nelle nazioni in cui sono maggioritarie religioni che
da noi sono ancora minoranza si farà lo stesso. Ma le norme che sanciscono il
diritto di libertà religiosa e il principio di laicità delle istituzioni
pubbliche non prevedono la condizione di reciprocità, in quanto sono relative a
diritti fondamentali degli esseri umani.
Manifestazioni di intolleranza religiosa sono
frequenti anche nelle nostre collettività di fede, quando si pretende che una
certa via, un certo metodo, un certo cammino, siano gli unici che possono
essere seguiti, a pena di esclusione. In questo campo compete all’autorità
religiosa di correggere certe impostazioni, rendendole conformi alla dottrina
corrente. Ma questo servirà a poco se l’idea di libertà religiosa non
corrisponderà ad una conquista cultura delle persone della nostra fede,
seguendo il percorso di purificazione
della memoria indicato dal Wojtyla.
Viene prima la carità o la verità? Papa Ratzinger vi ha dedicato una enciclica, la Carità nella Verità, del 2009, che in
certe parti appare in dialettica con la precedente enciclica Lo sviluppo dei popoli, del papa
Montini, del 1967. La carità, intesa
come agàpe, benevolenza universale per cui si
vuole far partecipare tutti ad un lieto convito, è criterio per distinguere ciò che è verità? La questione appare
ancora aperta. Alcuni infatti sostengono che per esigenze di carità si sta
modificando la dottrina tradizionale. Altri replicano che secondo carità quella
dottrina tradizionale viene meglio intesa.
Al di fuori del contesto europeo e delle nazioni di cultura europea le
persone della nostra fede subiscono persecuzioni, a volte per motivi
essenzialmente politici, ma spesso anche per motivi propriamente religiosi.
Infatti in molte parti del mondo, anche in nazione che formalmente accettano i
principi umanitari proclamati dalle Nazioni Unite, la libertà religiosa è molto
limitata e a volta si limita a una tolleranza religiosa. Ciò accade in molte nazioni a
maggioranza islamica, specialmente in quelle che non riconoscono il principio
della laicità delle istituzioni pubbliche. La situazione si è molto aggravata
con l’affermazione politica del fondamentalismo islamico globalizzato, un
movimento rivoluzionario politico a sfondo religioso. Si teme che
l’immigrazione dalle nazioni a maggioranza islamica porti prima o poi a
limitazioni nella libertà religiosa della nostra fede. In realtà l’Islam
diffuso in Europa e nelle nazioni di cultura europea, in particolare in
America, sta assimilando i nostri principi umanitari, anche se il mutamento
culturale, intendendo la cultura come il complesso dei costumi, linguaggi, miti,
relazioni sociali di un popolo, sarà molto più lento e faticoso. In particolare
il fattore principale di progresso in quel campo religioso appare quello
dell’affermazione dei diritti delle donne: purtroppo in materia stiamo vivendo
una fase storica in cui nella nostra fede alcune correnti spirituali riprendono
a criticarla, facendosi portatrici di ideologie maschiliste e paternaliste.
Come fare per sostenere le persone della nostra fede nella repressione
che è in atto in altre nazioni, con altre religioni maggioritarie? La via
principale è quella delle istituzioni internazionali. C’è poi quella del
diritto di asilo, a cui hanno diritto, secondo il nostro ordinamento, tutti i
perseguitati. E, infine, quello del sostegno al lavoro culturale che in quelle
nazioni si sta svolgendo per modificare la situazione: lo si fa mandando
personale religioso, volontari, aiuti materiali. Ma il dialogo interreligioso
qui da noi in Europa, già molto intenso,
sarà fondamentale per creare le condizioni culturali per nuove forme di
coesistenza anche in quelle nazioni.
8.Laudato
si’: pensare la globalizzazione in una visione di fede
Se la religione ha tante controindicazioni,
come dimostra la lunga e tragica storia della nostra confessione, perché non
farla finita?
Storicamente lo si è tentato nei vari regimi
comunisti che hanno avuto corso nel mondo, a partire dalla rivoluzione
sovietica del 1917. Le religioni propagandavano falsi miti per mantenere la
sottomissione della masse lavoratrici a oligarchie dominanti? Vietiamole o,
almeno, contrastiamole impendendone la propaganda, controllandone i ministri,
opponendo loro un ateismo militante! Tutto questo non ha funzionato, le
religioni sono sopravvissute anche in quei regimi. Fondamentalmente perché
rispondono a una necessità dello spirito umano. Inoltre, nell’esperienza
storica, si è capito che le religioni possono essere riformate e che, anzi, ne
è necessaria una riforma costante, un aggiornamento. In particolare questo può
dirsi della nostra religione, che è fondata sull’idea di un far nuove tutte le cose, di un
mondo di prima che è destinato a cedere il passo a un mondo
nuovo.
Molte grandi anime sono state e sono religiose, vivono quindi una vita di
fede seguendo certe modalità espressive del proprio tempo. Infatti una
religione, ma ance la fede che ne è all’origine, non si inventa. Quindi si deve
sempre fare i conti con la storia, che è fatta di bene e di male, perché è
animata da esseri umani e negli esseri umani c’è il bene e c’è il male. Ogni
vita umana dalla sua notte va verso la luce, scrisse il poeta francese Victor
Hugo (1802-1885). E spesso la vita di fede
è descritta come un andare verso la luce. Anzi nelle nostre Scritture si
legge che l’Onnipotente stesso è luce. Da adolescente, quando ebbi problemi con
la fede che mi era stata insegnata da piccolo, un sacerdote amico di famiglia
mi scrisse che sperava che un giorno mi sarei aperto alla luce.
Nella vita umana c’è più di quello che
appare. La realtà sociale, economica, politica, l’urbanistica: tutto questo non
esaurisce l’esperienza umana. Si studiano le biografie dei grandi e si scopre
che in genere anche loro ne erano
convinti. E non è vero che la fede
religiosa sia per gli incolti, perché essa ha espresso ed esprime un grande
pensiero. La nostra fede evoca l’unità del genere umano. La si intuisce, ma le
vie per realizzarla sono tante: come raggiungere l’unità percorrendole? Non
sarebbe meglio progettare un’unica via? Questa è stata la tentazione di sempre
nelle religioni. Finora tutti i programmi religiosi totalitari non hanno
funzionato. Se però ci si incontra e ci si parla cercando di realizzare
l’agàpe, il benevolo convito che non esclude nessuno, spesso ci si intende e,
pur nella diversità delle esperienze, si possono condividere certe finalità di
bene.
Chi ha vissuto la fede religiosa e poi l’ha
abbandonata in genere, prima o poi, al di là di certe baldanzose proclamazioni,
vive questa esperienza come un senso di vuoto e di mancanza. Recuperare una
fede perduta da tempo può essere difficile, a volte non c’è più abbastanza vita
per farlo. Ma è anche più difficile per chi la fede non l’ha mai vissuta e,
avvicinandola da fuori, se ne sente attratto. La fede non è solo emotività
superficiale, comporta una sapienza che si apprende. Altrimenti rimane solo a
livello spettacolare, come quando si va a teatro o al cinema e si provano delle
emozioni. La nostra Chiesa dovrebbe appunto servire a condurre le persone verso
la fede. Lo si fa costruendo relazioni che si vorrebbero progressivamente
estese a tutto il genere umano, che non comprende solo i viventi di oggi ma
anche quelli a venire e anche la storia di coloro che li hanno preceduti. La
fede è portata ai popoli, con la loro storia
e il loro futuro. Non è medicina dell’anima ad uso individuale: assunta
così non funziona più. Dà sempre una prospettiva che supera la vita personale.
Ti trae dall’angoletto della società in cui sei in qualche modo incastrato e ti
proietta verso la grande storia dell’umanità. Questo è vero anche per
l’esperienza delle famiglie, che alcuni vorrebbero limitata a mamma, papà e
figli. L’esperienza della famiglia è sempre sociale: del resto come pensare un
avvenire ai propri figli senza interpretare il futuro della società in cui si è
immersi? Ed in effetti storicamente incontriamo nelle società umane molti
modelli di famiglia, come anche molti modelli di persona umana: ce ne parlano
gli antropologi, anche se spesso non li stiamo ad ascoltare e preferiamo
pensare che si debba tendere a un unico tipo di famiglia e a un unico tipo di
persona umana perché sono quelli naturali.
Quindi vivere la fede è anche pensare una società e ai tempi nostri c’è
l’opportunità di pensarla molto in grande, tanto da comprendere tutti i popoli
della terra. Infatti siamo nell’era della globalizzazione,
che significa appunto una rete di relazioni umane a livello mondiale per cui ci
scopriamo tutti interdipendenti, senza che nessun popolo della Terra possa dire
di bastare a sé stesso. Un esempio di come pensare la globalizzazione in una
visione di fede è costituito dall’enciclica Laudato
si’ , diffusa nel 2015 dal papa Francesco. La sua caratteristica principale
è quella di affidarsi religiosamente a un compimento beato della nostra storia,
quindi anche delle opportunità offerte dalla globalizzazione, con i suoi tanti sovvertimenti e rimescolamenti
sociali contro i quali molti profeti di sventura vorrebbero prevenirci:
243. Alla fine ci incontreremo faccia a faccia
con l’infinita bellezza di Dio (cfr 1
Cor 13,12) e potremo leggere con gioiosa ammirazione il mistero
dell’universo, che parteciperà insieme a noi della pienezza senza fine. Sì,
stiamo viaggiando verso il sabato dell’eternità, verso la nuova Gerusalemme,
verso la casa comune del cielo. Gesù ci dice: «Ecco, io faccio nuove tutte le
cose» (Ap 21,5). La vita
eterna sarà una meraviglia condivisa, dove ogni creatura, luminosamente
trasformata, occuperà il suo posto e avrà qualcosa da offrire ai poveri
definitivamente liberati.
9. Inequità
planetaria e lotta religiosa contro un modello di sviluppo
L’esortazione apostolica La gioia del Vangelo, del
2013, e l’enciclicaLaudato si’¸ del 2015, del Papa regnante,
l’argentino Jorge Mario Bergoglio, in religione Francesco,
sono espressioni di una medesima linea di pensiero. Si tratta di
documenti senza precedenti nella dottrina sociale. Al centro di essi vi è
l’analisi, anche religiosa, di una condizione di sofferenza umana definita con
il neologismo inequità.
Questa parola appare per la prima volta in italiano nel testo
nella nostra lingua dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium diffuso
da Libreria Editrice Vaticana. Deriva dallo dallo spagnolo. Nel testo
inglese del documento è reso con inequality (=ineguaglianza
- nell'inglese il termine è spesso implicitamente associato all'idea di
ingiustizia). Nel testo spagnolo, lingua nella quale il documento è stato
verosimilmente pensato, si legge inequidad, da cui
verosimilmente il neologismo italiano: in un dizionario spagnolo si definisce
"El concepto de inequidad se ha considerado sinónimo del concepto de
desigualdad. Es fundamental diferenciar estos dos conceptos. Mientras
desigualdad implica diferencia entre individuos o grupos de población,
inequidad representa la calificación de esta diferencia como injusta…";
quindi "disuguaglianza ingiusta".
All’origine di questa disuguaglianza
ingiusta, ed ingiusta in quanto
fonte di sofferenza umana, vi è un modello di sviluppo economico che degrada
insieme sia l’ambiente naturale, ormai fortemente pervaso della presenza e
delle attività umane e quindi da esse condizionato, e l’ambiente sociale.
Questo modello di sviluppo è espressione di unantropocentrismo
deviato. In quest’ottica è completamente ripensato il tema
del relativismo pratico, che presentato dal Ratzinger come il
rifiuto personale di valori assoluti e in particolare di quelli religiosi della
nostra fede proclamati dalla dottrina, quindi dei dogmi di
fede, viene presentato ora come patologia sociale che spinge una persona ad
approfittare di un’altra e a trattarla come un mero oggetto (Laudato si’,n.123).
Esso deriva dall’onnipresenza di un paradigma tecnocratico, secondo
cui tutto, in particolare il bene delle persone umane, diviene irrilevante se
non serve ai propri interessi immediati (Laudato si’,n.123). In
quest’ottica si diviene insofferenti delle leggi, che vengono considerate solo
come imposizioni arbitrarie e come ostacoli da evitare (questa ideologia
consiglia infatti la deregolamentazione, in particolare del mercato
del lavoro). Il senso del lavoro viene quindi stravolto. In particolare la finalità
dell’economia è diventata quella del riduzione dei costi di
produzione in ragione della diminuzione del costo del lavoro e della
diminuzione dei posti di lavoro, che sempre più vengono sostituiti dalle
macchine (Laudato si’, n.128).
A fronte di questa situazione di
sofferenza umana, troviamo sia nellaGioia del Vangelo sia
nella Laudato si’ l’appello a un impegno di lottaper
contrastare quel modello di sviluppo fondato su un antropocentrismo deviato.
Laudato si’, 13: “Meritano una gratitudine speciale quanti lottano con
vigore per risolvere le drammatiche conseguenze del degrado ambientale nella
vita dei più poveri del mondo. I giovani esigono da noi un cambiamento. Essi si
domandano com’è possibile che si pretenda di costruire un futuro migliore senza
pensare alla crisi ambientale e alle sofferenze degli esclusi.”
Laudato si’, 55: “A poco a poco alcuni
Paesi possono mostrare progressi importanti, lo sviluppo di controlli più
efficienti e una lotta più sincera contro la corruzione. E’ cresciuta la
sensibilità ecologica delle popolazioni, anche se non basta per modificare le
abitudini nocive di consumo, che non sembrano recedere, bensì estendersi e
svilupparsi. E’ quello che succede, per fare solo un semplice esempio, con il
crescente aumento dell’uso e dell’intensità dei condizionatori d’aria: i
mercati, cercando un profitto immediato, stimolano ancora di più la domanda. Se
qualcuno osservasse dall’esterno la società planetaria, si stupirebbe di fronte
a un simile comportamento che a volte sembra suicida.”
Laudato si’, 244: “ Nell’attesa,
ci uniamo per farci carico di questa casa che ci è stata affidata, sapendo che
ciò che di buono vi è in essa verrà assunto nella festa del cielo. Insieme a
tutte le creature, camminiamo su questa terra cercando Dio, perché «se il mondo
ha un principio ed è stato creato, cerca chi lo ha creato, cerca chi gli ha
dato inizio, colui che è il suo Creatore». Camminiamo cantando! Che
le nostre lotte e la nostra preoccupazione per questo pianeta non ci tolgano la
gioia della speranza.”
Laudato si’, Preghiera finale
per la nostra terra:
Dio Onnipotente,
che sei presente in tutto l’universo
e nella più piccola delle tue creature,
Tu che circondi con la tua tenerezza
tutto quanto esiste,
riversa in noi la forza del tuo amore
affinché ci prendiamo cura
della vita e della bellezza.
Inondaci di pace, perché viviamo come fratelli e
sorelle
senza nuocere a nessuno.
O Dio dei poveri,
aiutaci a riscattare gli abbandonati
e i dimenticati di questa terra
che tanto valgono ai tuoi occhi.
Risana la nostra vita,
affinché proteggiamo il mondo e non lo
deprediamo,
affinché seminiamo bellezza
e non inquinamento e distruzione.
Tocca i cuori
di quanti cercano solo vantaggi
a spese dei poveri e della terra.
Insegnaci a scoprire il valore di ogni cosa,
a contemplare con stupore,
a riconoscere che siamo profondamente uniti
con tutte le creature
nel nostro cammino verso la tua luce infinita.
Grazie perché sei con noi tutti i giorni.
Sostienici, per favore, nella nostra lotta
per la giustizia, l’amore e la pace.
Questo appello non
viene proposto dall’autore di quei documenti tanto come maestro di teologia e
di fede quanto come persona religiosa compartecipe di una situazione di
sofferenza umana e desiderosa, anche per moventi religiosi, di intervenire su
di essa per apportare cambiamenti. Ecco perché, di fronte ai sofferenti dei
campi di battaglia di una società basata sull’inequità, viene proposto
un modello di impegno religioso basato sull’idea dell’ospedale da campo,
il luogo di soccorso d’emergenza più vicino ai sofferenti, e su quella di
essere in uscita. In altri tempi forse si sarebbe proposti di
mandare più predicatori.
L’appello di Bergoglio
cade in una società religiosa italiana che ancora non è uscita dalla lunga
glaciazione indotta dai suoi predecessori, timorosi che quel tipo di impegno di
fede che oggi viene proposto conducesse alla frammentazione e alla dissoluzione
delle nostre collettività di fede. Con molta fatica, e con forti resistenze, si
inizia, non dico a recepirlo, ma a confrontarsi con esso. Il pensiero di
Bergoglio si è formato in una società molto lontana dalla nostra, in ogni
senso: l’America Latina, un continente europeizzato che però si trova ai
margini del modello di sviluppo dominante in Occidente. L’Italia è invece al
suo centro e adotta l’ideologia dei potenti della Terra, di quelli che
nella Laudato si’ sono criticati come oppressori dei
poveri e dei lavoratori e, insieme, come responsabili del degrado dell’ambiente
naturale, in particolare di quello abitato dai più poveri. E’
stato sostanzialmente questo il senso di alcune delle principali riforme attuate
e progettate da noi, in particolare nel campo delle regole del lavoro. In
questo senso il pensiero del Bergoglio non trova ancora terreno fertile da noi.
Infatti in genere si dà per scontato che quel modello di sviluppo criticato
nella Gioia del Vangelo e nella Laudato si’ sia
inevitabile, naturale, per quanto fonte di sofferenza umana. Lo
vediamo, ad esempio, in certi atteggiamenti verso i cosiddetti immigrati
economici.
10. Cammini di
liberazione
Quando si parla dell’enciclica Laudato si’, diffusa
nel 2015 dal Papa, spesso la si inquadra nei discorsi sull’ecologia correnti,
nei quali ci si lamenta del degrado dell’ambiente naturale e della cattiva
sorte degli animali che ci sono più simpatici, un po’ sulla falsariga del testo
della canzone Ragazzo della via Gluck, interpretata da
Celentano dal ‘68.
Questa è la storia
di uno di noi,
anche lui nato per caso in via Gluck,
in una casa, fuori città,
gente tranquilla, che lavorava.
Là dove c'era l'erba ora c'è
una città,
e quella casa
in mezzo al verde ormai,
dove sarà?
Questo ragazzo della via Gluck,
si divertiva a giocare con me,
ma un giorno disse,
vado in città,
e lo diceva mentre piangeva,
io gli domando amico,
non sei contento?
Vai finalmente a stare in città.
Là troverai le cose che non hai avuto qui,
potrai lavarti in casa senza andar
giù nel cortile!
Mio caro amico, disse,
qui sono nato,
in questa strada
ora lascio il mio cuore.
Ma come fai a non capire,
è una fortuna, per voi che restate
a piedi nudi a giocare nei prati,
mentre là in centro respiro il cemento.
Ma verrà un giorno che ritornerò
ancora qui
e sentirò l'amico treno
che fischia così,
"wa wa"!
Passano gli anni,
ma otto son lunghi,
però quel ragazzo ne ha fatta di strada,
ma non si scorda la sua prima casa,
ora coi soldi lui può comperarla
torna e non trova gli amici che aveva,
solo case su case,
catrame e cemento.
Là dove c'era l'erba ora c'è
una città,
e quella casa in mezzo al verde ormai
dove sarà.
Ehi, Ehi,
La la la... la la la la la...
Eh no,
non so, non so perché,
perché continuano
a costruire, le case
e non lasciano l'erba
non lasciano l'erba
non lasciano l'erba
non lasciano l'erba
Eh no,
se andiamo avanti così, chissà
come si farà,
chissà...
La lirica riprendeva
ragionamenti di critica sociale e politica che all’epoca si facevano, e che
potremmo considerare di impostazione rivoluzionaria, ma rimane ad un livello
molto più superficiale, del contrasto erba - cemento e vita rurale - vita di
città. D’altra parte era destinata al grande pubblico. Bene, nella Laudato
si’ c’è molto di più.
E’ dagli anni ’60 che
i Papi scrivono moltissimo. Ma scarseggiano i lettori e, ancor più, i lettori
attenti. D’altra parte, a volersi impegnare nello studio dei loro testi, non
rimarrebbe tempo per molto altro, almeno per gran parte della gente comune. Una
critica che si fa ai Papi contemporanei è che hanno lasciato ben poco spazio
alla riflessione e al dialogo, e soprattutto alla ricerca mediante il dialogo,
mettendo sempre di mezzo questi loro documenti lunghi e complessi, che,
provenendo da un’autorità religiosa e pretendendo quindi di essere obbediti
oltre che studiati, tendono a troncare le discussioni. Direi però che la Laudato
si’ è un documento di altro tipo, che apre il
dibattito invece che chiuderlo. Vi è scritto infatti che vuole aprire un
dialogo con tutti per cercare insieme cammini di liberazione [Laudato
si’, 64].
In genere sono
piuttosto insofferente verso il modo di presentare la vita religiosa come
un cammino, anche se si tratta di una metafora utilizzata fin dai
tempi antichi. Sì, si cammina, ma dove si va? In genere i traguardi sono
piuttosto vaghi. E così, appunto, questo camminare mi appare
un vagare senza una vera meta, un cammino che
non finisce mai e che soprattutto è progettato per non finire mai. L’idea è
quella della sequela, che mi attira se si tratta di seguire il
Maestro, molto meno se si tratta di seguire senza tante storie altri sedicenti
maestri. Se però si prende come riferimento per questo camminare la liberazione è
diverso, perché la liberazione è una meta. Ed è diverso
soprattutto se in questo impegnativo camminare ci
si apre al dialogo, per cui non si tratta solo di essere condotti e
di seguire, ma anche di decidere, insieme a molti
altri, dove andare e che cosa fare. Perché
in questo lavoro occorre fare innanzi tutto il punto della situazione ed
è bene farlo avendo quanti più punti di vista possibile. Lo studio delle
Scritture e la teologia non bastano. In passato, alle origini della dottrina
sociale, si è pensato invece che fossero sufficienti e che quindi, siccome
nella nostra confessione ne abbiamo un interprete autorevole assistito da potenze
soprannaturali, un Papa potesse legiferare in materia sociale e politica,
stabilendo come organizzare una società. Non è questa la pretesa della Laudato
si’.
Che l’enciclica non
rientrasse nella letteratura propriamente ecologica lo
si poteva capire già dal sottotitolo: “Enciclica sulla cura della casa
comune”. La casa è dove si abita. Nella parola ecologia la
casa c’è, perché essa contiene il termine del greco antico
òikos che significa casa (ma anche ambiente):
però è stata inventata in Germania a fine Ottocento e si riferiva allo studio
delle dinamiche degli ambienti naturali. E’ dagli anni ’60 del secolo scorso
che ha assunto un senso anche politico, come critica di un modello di sviluppo
(ne può essere considerato un indizio la canzone di Celentano che ho trascritto
sopra). La Laudato si’ si muove appunto su questa linea.
Essa infatti contiene una marcata critica politica, in particolare
dell’Occidente capitalistico, il modello economico e sociale dominante a
livello globale. Le reazioni più negative sono venute dagli Stati Uniti
d’America, che possiamo considerare ancora il centro di quel modello di
sviluppo: il Papa è stato invitato a farsi gli affari propri e a limitarsi ai
discorsi religiosi. Penso che la situazione si aggraverà ulteriormente
nell’era apertasi dopo le ultime elezioni presidenziali statunitensi.
Il discorso sviluppato
nella Laudato si’ è centrato sulle società umane, non
sulla natura. In questo si distacca marcatamente dall’ecologismo politico che
tende a considerare l’umanità una specie di malattia del pianeta. Gli esseri
umani, come tutti gli altri esseri viventi, sono di casa sul
questa Terra. Tutti i viventi sono uniti da legami invisibili e formano
una sorta di famiglia universale (Laudato si’, 89), ma
questo non significa equiparare tutti gli esseri viventi e togliere all’essere
umano quel valore peculiare che implica al tempo stesso una tremenda
responsabiltà (Laudato si’, 90): non può essere autentico un sentimento
di intima unione con gli altri esseri della natura, se nel tempo stesso nel
cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani (Laudato
si’, 91).
Questa idea che tutti
i viventi, gli umani e i non umani, costituiscano una famiglia, non
è realistica. La natura è costituita in modo che i viventi si mangino tra loro
e quindi siano costantemente in lotta mortale gli uni con gli altri. Questa è
la principale obiezione a coloro che vorrebbero che gli umani rinunciassero a
nutrirsi degli altri animali. In questo modo si pongono gli umani al di sopra
della natura di cui invece sono parte. Si divinizzano gli umani. Lo si può fare
nel quadro di un discorso religioso, ma non di uno propriamente ecologico. Se
però, religiosamente, si vuole intendere che gli umani, come viventi di un tipo
molto particolare, dotati di spirito e ragione, e anche di una potenza
tecnologica che li ha portati a dominare (fino ad un certo punto) gli ambienti
da loro abitati, sentono una particolare responsabilità anche verso gli altri
viventi e si propongono di fare del mondo, quindi anche degli ambienti
naturali, la casa di tutti i viventi, nel senso innanzi tutto di porsi
dei limiti allo sfruttamento delle risorse naturali, e
quindi anche di ogni tipo di vita umana e non umana, allora il discorso
della famiglia universale diviene accettabile. Ma a quel
punto in questione non è tanto l’ecologia, ma un modello di sviluppo delle
società umane. E infatti l’enciclica è piena di raccomandazioni su come
migliorare l’organizzazione sociale e politica, a partire però da una
conversione personale ad uno stile di vita definito sobrio. Esso richiede
la costruzione di una spiritualità personale. Questo è un
apporto caratteristico dell’enciclica ed ha un’origine religiosa. Di solito i
modelli di sviluppo sono collegati a politiche e queste ultime a interessi
confliggenti che, ad un certo punto, possono trovare un accomodamento in un
equilibrio precario di rapporti di forza sociale, ma sono sempre in balìa
degli egoismi collettivi. Da qui il senso di precarietà e insicurezza dell’insieme,
tanto maggiore nel mondo globalizzato contemporaneo nel quale, per le
dimensioni gigantesche dei fenomeni sociali, ne sembra impossibile il governo
razionale. Tuttavia una rivoluzione culturale (Laudato
si, 114) che portasse a nuovi stili personali di vita per via di
conversione potrebbero avere anche una efficacia propriamente economica e
politica, come quando i movimenti dei consumatori riescono a far sì che si
smetta di acquistare certi prodotti e così diventano efficaci per
modificare il comportamento delle imprese, forzandole a considerare l’impatto
ambientale e i modelli di produzione (Laudato si’i, 206).
L’esperienza corrente è invece quella di una manipolazione dei consumatori da
parte delle imprese, in particolare di quelle maggiori che hanno raggiunto un
potere tale da poter condizionare addirittura le politiche degli stati, per
creare meccanismi consumistici compulsivi, per cui le persone finiscono per
essere travolte dal vortice degli acquisti e delle spese superflue (Laudato
si’, 203).
11. Critica sociale, fede
religiosa e azione sociale: sviluppi nella dottrina sociale
La dottrina sociale fin dall’origine ha
espresso anche una marcata critica sociale. Il primo documento del genere
dell’era contemporanea viene considerata l’enciclica Le novità,
diffusa nel 1891 dal papa Gioacchino Pecci ed era in polemica con il
socialismo. Considerava necessarie le diseguaglianze sociali, quelle che
nell’enciclica Laudato si’ vengono definite con il
neologismo inequità, vale a dire diseguaglianze ingiuste. Leggiamo
infatti nel documento del Pecci:
1 - Necessità delle ineguaglianze sociali e
del lavoro faticoso
14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo
principio, che si deve sopportare la condizione propria dell'umanità: togliere
dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i
socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile.
Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti
posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze
in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la
differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati
che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie
e di uffici diversi, e l'impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare
tali uffici, è la disparità dello stato. Quanto al lavoro, l'uomo nello stato
medesimo d'innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che
allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell'animo, lo impose
poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità,
secondo quell'oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro;
mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen 3,17).
Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure,
difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si
voglia o no, accompagnano l'uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque
il retaggio dell'uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v'è forza né
arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di
poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di
pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che
conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le
cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il
rimedio ai mali.
L’enciclica Le novità non è stata il
primo documento della dottrina sociale, che si è sviluppata fin dalle
origini e in modo sempre più imponente man mano che, dal Quarto secolo della
nostra era, cresceva la rilevanza politica della nostra fede (questa non è
stata una caratteristica solo dell’Islam) e la conseguente potenza
politica dell’apparato religioso.
Nell’Ottocento troviamo un altro
importante documento della dottrina sociale, quello definito Sillabo (=elenco,
dalla prima parola dell’espressione Elenco dei principali errori della
nostra epoca), allegato all’enciclica Con quanta cura (e pastorale
vigilanza), diffusa nel 1864 dal papa Giovanni Maria Mastai Ferretti, nel
quale si condannavano alcune delle principali idee del liberalismo, tra le
quali la libertà di coscienza in materia religiosa, inserita tra le mostruose,
false e perverse opinioni. Lo potete leggere alla pagina WEB
https://w2.vatican.va/content/pius-ix/it/documents/epistola-encyclica-quanta-cura-8-decembris-1864.html
L’enciclica Le novità segna però l’inizio
di un nuovo filone della dottrina sociale, nel quale, criticando
principalmente il socialismo, se ne recepiscono alcune idee di giustizia
sociale. In uno sviluppo durato più di un secolo, si è arrivati quindi a
ribaltare la posizione del magistero sulle diseguaglianze sociali, che ora
vengono definite non solo ingiuste, ma anche peccaminose dal
punto di vista religioso. I ragionamenti sulle cause sociali delle
diseguaglianze ingiuste sono stati molto approfonditi nel magistero del papa
Karol Wojtyla, in particolare a partire dall’esortazione apostolica
post-sinodaleRiconciliazione è penitenza, del 1984), e
dall’enciclica La sollecitudine sociale (della Chiesa), diffusa
nel 1987. Sono documenti che potete leggere sul Web ai seguenti indirizzi:
http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_exhortations/documents/hf_jp-ii_exh_02121984_reconciliatio-et-paenitentia.html
http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_30121987_sollicitudo-rei-socialis.html
Nella discussione dell’assemblea del Sinodo dei vescovi del 1983
emerse la discussione sui peccati sociali, vale a dire
quelli che riguardano i rapporti sociali e dipendono anche dall’organizzazione
delle società, con le loro strutture sociali, ad esempio i
peccati contro la giustizia nei rapporti sia da persona a persona, sia
dalla persona alla comunità, sia ancora dalla comunità alla persona, quelli
contro i diritti della persona umana, a cominciare dal diritto alla vita, non
esclusa quella del nascituro, o contro l'integrità fisica di qualcuno; ogni
peccato contro la libertà altrui, specialmente contro la suprema libertà di
credere in Dio e di adorarlo; ogni peccato contro la dignità e l'onore del
prossimo, ogni peccato contro il bene comune e contro le sue esigenze, in tutta
l'ampia sfera dei diritti e dei doveri dei cittadini, quelli dei dirigenti
politici, economici, sindacali, che, pur potendolo, non s'impegnano con
saggezza nel miglioramento o nella trasformazione della società secondo le
esigenze e le possibilità del momento storico, quelli dei lavoratori, che
vengono meno ai loro doveri di presenza e di collaborazione, perché le aziende
possano continuare a procurare il benessere a loro stessi, alle loro famiglie,
all'intera società, e infine quelli che si manifestano nei rapporti tra
le varie comunità umane.
Nell’esortazione post-sinodale Riconciliazione
e penitenza ci si preoccupò che l’idea di peccato
sociale non andasse a sminuire la responsabilità delle persone per
il peccato personale, osservando che, anche denunciando come
peccati sociali certe situazioni o certi comportamenti collettivi di gruppi
sociali più o meno vasti, o addirittura di intere nazioni e blocchi di nazioni,
si dovesse avere consapevolezza che anche in tali casi il peccato sociale
deriva dall'accumulazione e dalla concentrazione di molti peccati personali. Si
tratta infatti dei personalissimi peccati di chi genera o favorisce
l'iniquità o la sfrutta. Tuttavia il discorso venne ripreso e sviluppato molto
nella successiva enciclica La sollecitudine sociale, introducendo
il concetto di strutture di peccato, vale a dire la
somma dei fattori sociali negativi, derivanti in
particolare dall’organizzazione civile e politica delle società, che agiscono
in senso contrario a una vera coscienza del bene comune universale e
all'esigenza di favorirlo, orientando le persone verso il peccato sociale.
Esse, rafforzandosi e diffondendosi, diventano sorgente di altri peccati,
condizionando la condotta degli uomini. Negli anni ’80 si viveva ancora, in particolare
in Europa in un mondo diviso in blocchi politici con ideologie molto marcate,
quello degli stati con organizzazione dell’economia capitalista e quello degli
stati con organizzazione dell’economia socialista. Wojtyla nell’enciclica
citata ne parlò come di due forme diverse di imperialismo, di
ostacoli da superare in quanto caratterizzate da strutture di peccato, in
particolare mediante decisioni di ordine politico,
orientate da determinazioni essenzialmente morali, le quali, per i
credenti, specie se cristiani, si devono ispirare ai principi della fede con
l'aiuto della grazia divina. Questa impostazione aprì la strada ad una critica
sociale molto più ampia che nel passato, diretta in particolare ad una
riorganizzazione sociale e politica che negli anni ’80 si palesò sempre più
urgente soprattutto per la crisi terminale, intuita da pochi ma molto
chiaramente dal Wojtyla, dell’imperialismo sovietico, e quindi della metà
orientale dell’Europa di allora. Questi ragionamenti sfociarono in uno dei più
grandi e innovativi documenti della dottrina sociale, vale a dire
l’enciclica Il Centenario, diffusa dal Wojtyla nel 1991 in
occasione del centenario dall’enciclica Le novità, nel quale, tra
l’altro, è contenuta per la prima volta l’accettazione incondizionata della
democrazia come unico sistema politico rispettoso della dignità umana. Questo
filone del magistero conteneva anche un forte appello al laicato di fede
all’impegno sociale, richiamandosi al precedente dell’enciclica Lo
sviluppo dei popoli, diffusa nel 1967 dal papa Giovanni Battista
Montini. Critica sociale e azione sociale dovevano andare di pari passo,
in questo recependo l’insegnamento del socialismo storico. Questo pur
considerando che il Wojtyla, formatosi da capo religioso nell’ambiente del totalitarismo
comunista polacco, fu sempre marcatamente anti-socialista, nel filone della
prima dottrina sociale ottocentesca.
Grosso modo si possono distinguere
queste fasi nella critica sociale espressa dalla nostra dottrina sociale:
- dal Quarto secolo e per tutto il primo
millennio della nostra era: consolidamento dell’affermazione della nostra fede
come ideologia politica prevalente tra i popoli intorno al Mediterraneo e poi
anche nel nord Europa e lotta di stato contro i dissenzienti teologici e
religiosi, dall’Ottavo secolo affermazione progressiva del papato romano come
principato vassallo degli imperatori germanici in polemica con l’imperatore
bizantino;
- nel secondo millennio e fino al Settecento:
consolidamento della posizione del papato romano, come impero religioso
feudale, nei confronti dell’impero germanico, dei nascenti stati
nazionali europei, e dell’impero bizantino fino alla metà del Quattrocento,
nonché nei confronti della società civile, mediante un esteso e pervasivo
sistema poliziesco-giudiziario;
- dal Settecento e fino al Concilio Vaticano
2° (1962-1965): polemica del papato contro liberalismo, democrazia, socialismo,
e stati costruiti su queste ideologie, con sollevazione crescente delle masse
cattoliche utilizzate come corpo politico in difesa del papato;
- dal Concilio Vaticano 2°: critica ideologica
e politica basata su principi religiosi di giustizia sociale con coinvolgimento
attivo delle massa cattoliche nei processi democratici, per determinare
politiche per il rivolgimento delle strutture sociali di peccato: processi di
riforma religiosa e sociale che coinvolgono anche ruolo, funzioni e poteri del
papato romano.
Fino all’enciclica Laudato
si’ la critica sociale su base religiosa espressa dalla dottrina
sociale era caratterizzata dalla pretesa di autosufficienza: si riteneva
sostanzialmente che nelle Scritture e nelle tradizione teologica vi fosse tutto
ciò che occorreva per proclamare giusti principi di organizzazione sociale e
questo nonostante i sempre più estesi riferimenti alla situazione storica e
sociale e all’impiego di nozioni tratte dalle scienze sociali.
L’enciclica Laudato si’ è invece caratterizzata da un’analisi
che parte dalle considerazioni delle scienze naturali e sociali, applicandovi
poi i ragionamenti teologici della nostra fede. Questo metodo in
particolare è evidenziato dalla menzione di due autori: il filosofo e teologo
tedesco Romano Guardini (1885-1968), e in particolare del suo lavoro dal
titolo La fine dell’epoca moderna, del 1965, e dello scienziato
teologo gesuita Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955). Ciò crea una base per
un’ampia condivisione, anche al di là degli ambienti religiosi, degli
impegni sociali e politici conseguenti, la base per un dialogo con tutti per cercare insieme cammini di
liberazione [Laudato
si’, 64].
12. Nuova santità
Dopo le innovazioni introdotte dai
provvedimenti presi nel corso del Concilio ecumenico Vaticano 2° (1962-1965)
prese forza, fu accreditata, l’idea di nuove forme di santità, in particolare
dei laici. Si parla di santità e si vuole intendere nuovi modelli di vita
religiosa. Si può prendere come esempio di questa evoluzione il caso della
santità della francese Giovanna D’Arco, giustiziata a Rouen nel 1431 a 19 anni
dopo un processo per eresia seguìto ad avventure militari della ragazza durate
circa due anni, motivate da intenti politici a sfondo religioso. Giovanna,
guidata da voci celesti, volle far incoronare re di Francia Carlo di
Valois, figlio del defunto re Carlo 6° e pretendente al trono dopo la morte dei
fratelli maggiori che lo precedevano nella linea di successione, osteggiato
dagli inglesi che all’epoca controllavano parte della Francia. Ella, donna
laica, divenne condottiera di milizie e riuscì nel suo intento, cadendo infine
prigioniera dei suoi nemici nel 1430.
Se si leggono la bolla del papa
Benedetto 15°, Giacomo Della Chiesa, mediante la quale fu proclamata santa nel
1920
http://w2.vatican.va/content/benedict-xv/it/bulls/documents/hf_ben-xv_bulls_19200516_divina-disponente.html
e la presentazione che ne fece papa Joseph
Ratzinger, Benedetto 16°, nel 2011 (di seguito ho trascritto il testo del
discorso):
https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110126.html
si nota una completa rivisitazione della
figura della santa.
In particolare papa Ratzinger ne fece un
modello di impegno laicale in politica e, soprattutto, di impegno femminile,
mentre nel documento di Della Chiesa era centrale il suo patriottismo
nazionalistico non ben raccordato con la pietà religiosa esemplare. Questa
evoluzione è stata possibile, credo, per il fatto che, almeno
formalmente, il papato, con il papa regnante nel 1431, Eugenio 4°, non fu
coinvolto nella condanna di Giovanna: l’appello della ragazza al Papa fu
infatti respinto dai giudici di Rouen. Nelle parole di Ratzinger appare
centrale l’opera di liberazione del suo popolo da parte della ragazza, la
quale, a soli diciassette anni, si mostrò come
una persona molto forte e decisa, capace di convincere uomini insicuri e
scoraggiati, in un contesto di lacerazione all'interno della Chiesa e di
continue guerre fratricide tra i popoli cristiani d'Europa, la più drammatica
delle quali fu l'interminabile “Guerra dei cent’anni” tra Francia e
Inghilterra. Secondo Ratzinger “Uno degli aspetti più
originali della santità di questa giovane è proprio questo legame tra
esperienza mistica e missione politica.”
Il modello di santità
di Giovanna d’Arco, a prescindere dall’accentuazione del ruolo politico
della figura della giovane, è sicuramente divergente da quello tradizionalmente
femminile ed è caratterizzato da una marcata autonomia di decisione e dal saper
tener testa ad un mondo condotto interamente dagli uomini, che si trattasse del
pretendente al trono di Francia e poi re, o delle milizie e dei loro capi
militari, o dei giudici ecclesiastici. Contrasta anche con il modello di
secondo piano che le correnti religiose neo-fondamentaliste vogliono riservare
alle donne, riconducendole nelle prigioni domestiche, a ruoli di semplice cura.
La questione sui nuovi
modelli di santità, vale a dire di vita religiosa, impegna ancora le
discussioni di fede, perché certe idee hanno sostenitori e detrattori. Essa è
collegata al discorso sull’aggiornamento, in realtà sulla
riforma della vita religiosa, per renderla efficace ai tempi nuovi.
L’allontanamento dei giovani dalle parrocchie può essere considerato come un
segno che questo lavoro non si è fatto bene.
I più anziani hanno
molti pregiudizi sui giovani e vedono nei loro comportamenti innanzi tutto
quelli diretti a procurarsi piaceri immediati ed effimeri. Ma la ragione della
separazione tra mondo giovanile e mondo religioso, che è piuttosto evidente,
sta in realtà nel fatto che la vita religiosa, come è proposta prevalentemente,
appare, ed effettivamente è, inutile, e addirittura controproducente, per un
giovane. Contrasta infatti con le esigenze dei giovani del difficile
inserimento nel mondo loro contemporaneo. Volendo preservarli da influenze
nocive, si pretende di rinchiuderli. E, in definitiva, una certa quota di
coloro che in religione pontificano sui mali giovanili, probabilmente al tempo
di Giovanna sarebbero stati con i giudici che la condannarono ad essere arsa
viva, quindi annientata totalmente, resa un nulla. Del resto i meno giovani, se
fanno memoria veritiera del loro passato, di quando erano giovani, in
particolare nella fascia 18-30, possono convincersi facilmente dell’inefficacia
del modello di vita di fede proposto spesso ai più giovani.
Da giovane sono vissuto
in ambienti religiosi che seguivano tutt’altra impostazione. Ci preparavano al
governo della società. Ciò che un tempo veniva riservato alle organizzazioni
laicali intellettuali dovrebbe divenire invece
patrimonio comune del laicato. La formazione alla cittadinanza democratica
dovrebbe essere integrata in quella religiosa, perché il compito principale del
laico di fede, e anche il suo modo di promuovere i valori di fede nella
società, si fa con gli strumenti democratici. E’ la via di liberazione
che si apre ai laici di fede nelle società democratiche, in particolare in
quelle Europee. Invece, talvolta, questi discorsi vengono considerati solo un
espediente per interessare i più giovani e portarli in
chiesa.
Uno strumento molto
importante, per sostenere il lavoro di cui ho trattato, è l’enciclica Laudato
si’, che possiamo considerare una specie di manuale in
questo campo. Essa è stimolo ad approfondire, non esaurisce i temi trattati, e,
innanzi tutto, è appello all’azione civile a sfondo religioso.
Possiamo considerare
l’incoronazione di Carlo 7° a re di Francia, nel 1429, a Reims, il
risultato di un riuscito processo di liberazione, in senso moderno?
La guerra tra inglesi e francesi per il dominio in Francia, nel Quattrocento,
fu un conflitto dinastico o una vera guerra di liberazione? In
definitiva i modelli di governo della società non cambiarono veramente
sotto Carlo 7° rispetto a prima. All’epoca, va osservato, non si era consumato
ancora lo scisma tra la Chiesa d’Inghilterra e il papato, dunque dal punto
religioso non vi erano ragioni di contrasto tra inglesi e francesi. La
liberazione di cui si tratta nell’enciclica Laudato si’ va più
in profondità e, in particolare, non si basa su progetti nazionalistici.
Richiede una critica del modello corrente di sviluppo e modelli nuovi di
impegno civile a sfondo religioso. Ma certi modelli vanno ancora costruiti e
probabilmente individuati tenendo conto anche di esperienze religiose al di
fuori della nostra confessione. Qualche giorno fa, ad esempio, Bergoglio ha
fatto riferimento a Ghandi e a Martin Luther King, due modelli di vita di forte
impegno politico di liberazione con moventi a sfondo religioso. Ma in Italia
abbiamo molte figure storiche di politici di fede, impegnati nei processi
democratici, che possono essere prese come riferimento. Il problema è
naturalmente che esse vissero in ambienti ecclesiali in cui furono spesso
fortemente avversate dai clericali di ogni orientamento, reazionario,
conservatore, moderato e, da ultimo, sono svalutate dai neo-fondamentalismi,
tacciate a volta di protestantesimo come, all'inizio del Novecento, lo furono
di modernismo. E l’impegno democratico nella società civile non è compatibile
sia con il clericalismo, che si conferma una piaga della vita religiosa, così
come, sotto altri aspetti, con ogni tipo di fondamentalismo.
Trascrivo di seguito
il discorso del papa Benedetto 16° dal quale ho tratto le meditazioni su
Giovanna d’Arco che precedono,
da:
https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110126.html
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 26 gennaio 2011
Santa Giovanna d'Arco
Cari fratelli e sorelle,
oggi
vorrei parlarvi di Giovanna d'Arco, una giovane santa della fine del Medioevo,
morta a 19 anni, nel 1431. Questa santa francese, citata più volte nel Catechismo
della Chiesa Cattolica, è particolarmente vicina a santa Caterina da Siena,
patrona d'Italia e d'Europa, di cui ho parlato in una recente catechesi. Sono infatti due giovani
donne del popolo, laiche e consacrate nella verginità; due mistiche impegnate,
non nel chiostro, ma in mezzo alle realtà più drammatiche della Chiesa e del
mondo del loro tempo. Sono forse le figure più caratteristiche di quelle “donne
forti” che, alla fine del Medioevo, portarono senza paura la grande luce del
Vangelo nelle complesse vicende della storia. Potremmo accostarle alle sante
donne che rimasero sul Calvario, vicino a Gesù crocifisso e a Maria sua Madre,
mentre gli Apostoli erano fuggiti e lo stesso Pietro lo aveva rinnegato tre
volte. La Chiesa, in quel periodo, viveva la profonda crisi del grande scisma
d'Occidente, durato quasi 40 anni. Quando Caterina da Siena muore, nel 1380, ci
sono un Papa e un Antipapa; quando Giovanna nasce, nel 1412, ci sono un Papa e
due Antipapa. Insieme a questa lacerazione all'interno della Chiesa, vi erano
continue guerre fratricide tra i popoli cristiani d'Europa, la più drammatica
delle quali fu l'interminabile “Guerra dei cent’anni” tra Francia e
Inghilterra.
Giovanna d'Arco non sapeva né leggere né
scrivere, ma può essere conosciuta nel più profondo della sua anima grazie a
due fonti di eccezionale valore storico: i due Processi che la
riguardano. Il primo, il Processo di Condanna (PCon),
contiene la trascrizione dei lunghi e numerosi interrogatori di Giovanna
durante gli ultimi mesi della sua vita (febbraio-maggio 1431), e riporta le
parole stesse della Santa. Il secondo, il Processo di Nullità della
Condanna, o di “riabilitazione” (PNul), contiene le deposizioni di
circa 120 testimoni oculari di tutti i periodi della sua vita (cfr Procès
de Condamnation de Jeanne d'Arc, 3 vol. e Procès en Nullité de la
Condamnation de Jeanne d'Arc, 5 vol., ed. Klincksieck, Paris l960-1989).
Giovanna
nasce a Domremy, un piccolo villaggio situato alla frontiera tra Francia e
Lorena. I suoi genitori sono dei contadini agiati, conosciuti da tutti come
ottimi cristiani. Da loro riceve una buona educazione religiosa, con un
notevole influsso della spiritualità del Nome di Gesù, insegnata da
san Bernardino da Siena e diffusa in Europa dai francescani. Al Nome di Gesù
viene sempre unito il Nome di Maria e così, sullo sfondo della
religiosità popolare, la spiritualità di Giovanna è profondamente
cristocentrica e mariana. Fin dall'infanzia, ella dimostra una grande carità e
compassione verso i più poveri, gli ammalati e tutti i sofferenti, nel contesto
drammatico della guerra.
Dalle
sue stesse parole, sappiamo che la vita religiosa di Giovanna matura come
esperienza mistica a partire dall'età di 13 anni (PCon, I, p.
47-48). Attraverso la “voce” dell'arcangelo san Michele, Giovanna si sente
chiamata dal Signore ad intensificare la sua vita cristiana e anche ad
impegnarsi in prima persona per la liberazione del suo popolo. La sua immediata
risposta, il suo “sì”, è il voto di verginità, con un nuovo impegno nella vita
sacramentale e nella preghiera: partecipazione quotidiana alla Messa,
Confessione e Comunione frequenti, lunghi momenti di preghiera silenziosa
davanti al Crocifisso o all'immagine della Madonna. La compassione e l’impegno
della giovane contadina francese di fronte alla sofferenza del suo popolo sono
resi più intensi dal suo rapporto mistico con Dio. Uno degli aspetti più
originali della santità di questa giovane è proprio questo legame tra
esperienza mistica e missione politica. Dopo gli anni di vita nascosta e di
maturazione interiore segue il biennio breve, ma intenso, della sua vita
pubblica: un anno di azione e un anno di passione.
All'inizio dell'anno 1429, Giovanna inizia la sua opera di liberazione.
Le numerose testimonianze ci mostrano questa giovane donna di soli 17 anni come
una persona molto forte e decisa, capace di convincere uomini insicuri e scoraggiati.
Superando tutti gli ostacoli, incontra il Delfino di Francia, il futuro Re
Carlo VII, che a Poitiers la sottopone a un esame da parte di alcuni teologi
dell'Università. Il loro giudizio è positivo: in lei non vedono niente di male,
solo una buona cristiana.
Il 22 marzo 1429, Giovanna detta un'importante
lettera al Re d'Inghilterra e ai suoi uomini che assediano la città di Orléans
(Ibid., p. 221-222). La sua è una proposta di vera pace nella
giustizia tra i due popoli cristiani, alla luce dei nomi di Gesù e di Maria, ma
è respinta, e Giovanna deve impegnarsi nella lotta per la liberazione della
città, che avviene l'8 maggio. L'altro momento culminante della sua azione
politica è l’incoronazione del Re Carlo VII a Reims, il 17 luglio 1429. Per un
anno intero, Giovanna vive con i soldati, compiendo in mezzo a loro una vera
missione di evangelizzazione. Numerose sono le loro testimonianze riguardo alla
sua bontà, al suo coraggio e alla sua straordinaria purezza. E' chiamata da
tutti ed ella stessa si definisce “la pulzella”, cioè la vergine.
La passione di
Giovanna inizia il 23 maggio 1430, quando cade prigioniera nelle mani dei suoi
nemici. Il 23 dicembre viene condotta nella città di Rouen. Lì si svolge il
lungo e drammatico Processo di Condanna, che inizia nel febbraio
1431 e finisce il 30 maggio con il rogo. E' un grande e solenne processo,
presieduto da due giudici ecclesiastici, il vescovo Pierre Cauchon e
l'inquisitore Jean le Maistre, ma in realtà interamente guidato da un folto
gruppo di teologi della celebre Università di Parigi, che partecipano al
processo come assessori. Sono ecclesiastici francesi, che avendo fatto la
scelta politica opposta a quella di Giovanna, hanno a priori un giudizio
negativo sulla sua persona e sulla sua missione. Questo processo è una pagina
sconvolgente della storia della santità e anche una pagina illuminante sul
mistero della Chiesa, che, secondo le parole del Concilio Vaticano II, è “allo
stesso tempo santa e sempre bisognosa di purificazione” (LG, 8). E’
l'incontro drammatico tra questa Santa e i suoi giudici, che sono
ecclesiastici. Da costoro Giovanna viene accusata e giudicata, fino ad essere
condannata come eretica e mandata alla morte terribile del rogo. A differenza
dei santi teologi che avevano illuminato l'Università di Parigi, come san
Bonaventura, san Tommaso d'Aquino e il beato Duns Scoto, dei quali ho parlato
in alcune catechesi, questi giudici sono teologi ai quali mancano la carità e
l'umiltà di vedere in questa giovane l’azione di Dio. Vengono alla mente le
parole di Gesù secondo le quali i misteri di Dio sono rivelati a chi ha il
cuore dei piccoli, mentre rimangono nascosti ai dotti e sapienti che non hanno
l'umiltà (cfr Lc 10,21). Così, i giudici di Giovanna sono
radicalmente incapaci di comprenderla, di vedere la bellezza della sua anima:
non sapevano di condannare una Santa.
L'appello di Giovanna al giudizio del Papa, il 24 maggio, è respinto dal
tribunale. La mattina del 30 maggio, riceve per l'ultima volta la santa
Comunione in carcere, e viene subito condotta al supplizio nella piazza del
vecchio mercato. Chiede a uno dei sacerdoti di tenere davanti al rogo una croce
di processione. Così muore guardando Gesù Crocifisso e pronunciando più volte e
ad alta voce il Nome di Gesù (PNul, I, p. 457; cfr Catechismo
della Chiesa Cattolica, 435). Circa 25 anni più tardi, il Processo
di Nullità, aperto sotto l'autorità del Papa Callisto III, si
conclude con una solenne sentenza che dichiara nulla la condanna (7 luglio
1456; PNul, II, p 604-610). Questo lungo processo, che
raccolse le deposizioni dei testimoni e i giudizi di molti teologi, tutti
favorevoli a Giovanna, mette in luce la sua innocenza e la perfetta fedeltà
alla Chiesa. Giovanna d’Arco sarà poi canonizzata da Benedetto XV, nel 1920.
Cari fratelli e sorelle, il Nome di Gesù,
invocato dalla nostra Santa fin negli ultimi istanti della sua vita terrena,
era come il continuo respiro della sua anima, come il battito del suo cuore, il
centro di tutta la sua vita. Il “Mistero della carità di Giovanna d'Arco”, che
aveva tanto affascinato il poeta Charles Péguy, è questo totale amore di Gesù,
e del prossimo in Gesù e per Gesù. Questa Santa aveva compreso che l’Amore
abbraccia tutta la realtà di Dio e dell'uomo, del cielo e della terra, della
Chiesa e del mondo. Gesù è sempre al primo posto nella sua vita, secondo la sua
bella espressione: “Nostro Signore servito per primo” (PCon, I, p.
288; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 223). Amarlo
significa obbedire sempre alla sua volontà. Ella afferma con totale fiducia e
abbandono: "Mi affido a Dio mio Creatore, lo amo con tutto il mio
cuore" (ibid., p. 337). Con il voto di verginità, Giovanna
consacra in modo esclusivo tutta la sua persona all'unico Amore di Gesù: è “la
sua promessa fatta a Nostro Signore di custodire bene la sua verginità di corpo
e di anima” (ibid., p. 149-150). La verginità dell'anima è lo stato
di grazia, valore supremo, per lei più prezioso della vita: è un dono di
Dio che va ricevuto e custodito con umiltà e fiducia. Uno dei testi più conosciuti
del primo Processo riguarda proprio questo: “Interrogata se
sappia d'essere nella grazia di Dio, risponde: Se non vi sono, Dio mi voglia
mettere; se vi sono, Dio mi voglia custodire in essa” (ibid., p. 62;
cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 2005).
La
nostra Santa vive la preghiera nella forma di un dialogo continuo con il
Signore, che illumina anche il suo dialogo con i giudici e le dà pace e
sicurezza. Ella chiede con fiducia: “Dolcissimo Dio, in onore della vostra
santa Passione, vi chiedo, se voi mi amate, di rivelarmi come devo rispondere a
questi uomini di Chiesa” (ibid., p. 252). Gesù è contemplato da
Giovanna come il “Re del Cielo e della Terra”. Così, sul suo stendardo,
Giovanna fece dipingere l'immagine di “Nostro Signore che tiene il mondo” (ibid., p.
172): icona della sua missione politica. La liberazione del suo popolo è
un’opera di giustizia umana, che Giovanna compie nella carità, per amore di
Gesù. Il suo è un bell’esempio di santità per i laici impegnati nella vita
politica, soprattutto nelle situazioni più difficili. La fede è la luce che
guida ogni scelta, come testimonierà, un secolo più tardi, un altro grande
santo, l’inglese Thomas More. In Gesù, Giovanna contempla anche tutta la realtà
della Chiesa, la “Chiesa trionfante” del Cielo, come la “Chiesa militante”
della terra. Secondo le sue parole, ”è un tutt'uno Nostro Signore e la Chiesa”
(ibid., p. 166). Quest’affermazione, citata nel Catechismo
della Chiesa Cattolica (n. 795), ha un carattere veramente eroico nel
contesto del Processo di Condanna, di fronte ai suoi giudici,
uomini di Chiesa, che la perseguitarono e la condannarono. Nell'Amore di Gesù,
Giovanna trova la forza di amare la Chiesa fino alla fine, anche nel momento
della condanna.
Mi piace ricordare come santa Giovanna d’Arco
abbia avuto un profondo influsso su una giovane Santa dell'epoca moderna:
Teresa di Gesù Bambino. In una vita completamente diversa, trascorsa nella
clausura, la carmelitana di Lisieux si sentiva molto vicina a Giovanna, vivendo
nel cuore della Chiesa e partecipando alle sofferenze di Cristo per la salvezza
del mondo. La Chiesa le ha riunite come Patrone della Francia, dopo la Vergine
Maria. Santa Teresa aveva espresso il suo desiderio di morire come Giovanna,
pronunciando il Nome di Gesù (Manoscritto B, 3r), ed era animata
dallo stesso grande amore verso Gesù e il prossimo, vissuto nella verginità
consacrata.
Cari
fratelli e sorelle, con la sua luminosa testimonianza, santa Giovanna d’Arco ci
invita ad una misura alta della vita cristiana: fare della preghiera il filo
conduttore delle nostre giornate; avere piena fiducia nel compiere la volontà
di Dio, qualunque essa sia; vivere la carità senza favoritismi, senza limiti e
attingendo, come lei, nell'Amore di Gesù un profondo amore per la Chiesa. Grazie.
13. La politica come campo d’azione della fede
[da: Guido Formigoni, Alla prova della
democrazia - Chiesa cattolici e modernità nell’Italia del 900, edizioni Il
Margine, 2008, p.1]
Studiando l’approccio del mondo
cattolico italiano all’idea di nazione e ai miti nazioni tra Otto e Novecento,
colpisce una sorta di straordinaria prevalenza più che secolare e quasi
onnivora di una cultura “guelfa”, che valorizzava fortemente l’idea e il
mito nazionale alla luce delle sue radici “cattoliche”. Esistenza e sviluppo
della nazione italiana venivano infatti largamente interpretati, per un lungo
periodo di tempo, mettendo l’accento sui legami costitutivi tra fede e civiltà.
L’Italia era “nazione cattolica” per eccellenza: questo elemento culturale e
naturalmente anche “ideologico” (in quanto si trattava di una interpretazione
della realtà con caratteri prescrittivi e operativi) correva in modo amplissimo
lungo tutta questa storia.
[…]
La Conciliazione del 1929 fu
largamente presentata come inveramento finale dell’antica visione guelfa della
nazionalità […]
All’ombra di questa visione,
propria del papa lombardo [Achille Ratti, in religione Pio 11°] va
riletto l’accentuato processo di “nazionalizzazione della fede” che si dispiegò
tra gli anni ’20 e ’30. Prese forma una sorta di coscienza religiosa nuova,
segnata da elementi che mi pare possano essere definiti di vero e proprio
“nazional-cattolicesimo”. Cioè di un’interpretazione e un’esperienza simbolica
e organizzata della fede che trovava sul terreno della cultura e della
mitologia nazionale un riconoscimento decisivo e centrale. Si trattò di un
percorso (ancora per molti versi da studiare analiticamente) che si intrecciò
in modo problematico e ambiguo con l’età dei nazionalismi di massa, della
modernizzazione industriale e della politica totalitaria, fino ad uscirne
lacerato al suo interno, ma serbando una grandissima capacità di rilancio.”
Qualche tempo fa, papa Jorge Mario
Bergoglio, in religione Francesco ,menzionò la frase “la
politica è la più alta forma di carità”, attribuendola a Montini, ma
aggiungendo di non essere riuscito a trovare la fonte della citazione. Chi ci è
riuscito? In effetti qualcosa di molto simile lo disse il papa Achille Ratti -
Pio 11°. Egli concluse nel 1929, la Conciliazione con il Regno
d’Italia sotto regime fascista. E’ in questo contesto che vide nella politica
nazionale italiana un’opportunità religiosa. E spinse le masse dei fedeli, in
particolare l’Azione Cattolica, su quella via. Oggi quella storia è
ritenuta disonorevole e ci sorvola sopra. Eppure è stata gravida di
conseguenze: l’ibridazione dell’ideologia politica a sfondo religioso con il
nazionalismo fascista fu molto profonda e si ancora avverte distintamente
dietro la visione di settori potenti del movimento cattolico. Si tratta
di concezioni profondamente ostili alla democrazia, come lo fu il fascismo
storico.
Eppure, la sfida dei tempi nuovi che
stiamo vivendo richiede di saper agire sapientemente nei processi democratici,
gli unici che sono in grado di produrre civiltà di integrazione delle
differenze culturali che sono espresse dai popoli che sempre più si mescolano,
non accettando i confini in genere arbitrari imposti dagli stati nazionali.
Ma di democrazia si fa poco tirocinio
nelle istituzioni e altre formazioni religiose.
Perché appunto in genere prevale lo
spirito guelfo, di cui ha scritto Formigoni. Nel Duecento /
Trecento in Italia i guelfi erano quelli che
appoggiavano la politica del papato. Nell’Ottocento si parlò di neo-guelfi per
coloro che, nella questione dell’unità nazionale, pensavano a un ruolo politico
del papato per costituire una federazione tra gli stati italiani di allora.
Il papato ha sempre fatto
politica: alle origini politica ecclesiastica, e poi, dal
Quarto secolo, anche la politica civile. Nel primo millennio della nostra
era, ha agito con un ruolo minore rispetto agli imperatori civili, dei quali,
politicamente, era un feudatario. Dal secondo millennio ha fatto politica come
imperatore religioso, rivendicando la supremazia sugli altri monarchi europei.
Nell’Ottocento, vistosi insidiare il suo stato nell’Italia centrale e capendo
di non avere più l’appoggio delle altre monarchie europee, in crisi di
trasformazione da fine Settecento a seguito dello sviluppo dei processi democratici
(oggi le residue monarchie europee, regnano ma non governano),
cercò di organizzare le masse cattoliche a difesa dei suoi interessi politici
di sovrano territoriale, non bastandogli più per questo la sua autorità
religiosa. Il papato fu, con l’impero d’Austria, il maggiore avversario
dell’unità nazionale italiana. Spinse le masse cattoliche ad una lotta
ideologica e politica contro il nazionalismo liberale dell’epoca e, poi, contro
le istituzioni del Regno d’Italia. La legge contro il terrorismo, promossa da
Francesco Crispi nel 1866, fu attuata ampiamente anche contro i movimenti
cattolici, come ho ricordato in un post di qualche
giorno fa, parlando di precursori dell’Azione Cattolica.
In questo contesto il papato osteggiò apertamente i processi democratici,
arrivando a comminare la scomunica religiosa a Romolo Murri, tra gli ideatori e
i primi fautori di una democrazia cristiana, non intesa come
partito politico, ma come forma istituzionale dello stato che consentisse la
partecipazione attiva dei cattolici alla vita politica italiana, all’epoca
proibita.
La Conciliazione del 1929 con il
Mussolini, consentì al papato di recuperare un simulacro di stato nella città
di Roma e soprattutto uno straordinario potere di influenza ideologica sulla
masse popolari italiane. Da qui derivarono gran parte dei problemi che
travagliarono la partecipazione dei laici di fede alla politica democratica
dopo la caduta del fascismo, dalla metà degli scorsi anni Quaranta.
Il papato, fino all’elezione di papa
Francesco, non accettò mai di ritirarsi dalla politica italiana. La
ripresa neoguelfa fu evidentissima durante il lungo
regno religioso di Karol Wojtyla, anche se, a quei tempi, svolse un ruolo
sempre più rilevante la Conferenza episcopale italiana, e soprattutto il suo
presidente.
Il papato ha cercato sempre di
mantenere un dominio politico sulla società italiana, fino a che i movimenti di
massa suscitati dal papato come strumenti neoguelfi hanno iniziato a lottare
per la conquista del papato, sviluppando politiche autonome. Ora lo stesso
papato è in crisi e si pensa di trasformarlo. Il papa Francesco ne interpreta
una specie di nuovo modello. Questa è la storia ecclesiastica recente.
Di questa evoluzione in genere non
si tratta nella formazione religiosa di secondo e terzo livello, che dovrebbe
comprendere anche elementi di storia nazionale ed ecclesiastica. L’ingenuo
papismo che viene in genere proposto in religione maschera una vera e propria
ideologianeoguelfa, spesso declinata però ora in un modo
particolare, nel senso che sembra non essere preso come riferimento questo papa,
quello che ha deciso di spogliarsi dei simboli imperiali del suo ufficio che
sono solo pesanti incrostazioni del millennio appena trascorso, e vive in un
albergo invece che nella reggia che gli era destinata, ma unpapa ideale, futuro, un papa
a venire, che ancora non c’è ma che ciascuno spera possa essere
conforme ai suoi progetti, tanto che molti si industriano per generarlo. Sotto
questo profilo Francesco, nonFrancesco 1° come
dovrebbe essere il nome di un imperatore religioso, è stato una bella sorpresa.
Che fare, allora?
I tempi sono quelli che sono e non
sono un granché, ma possiamo consolarci ricordandoci che ce ne sono stati di
peggiori, come, ad esempio, all’epoca della Conciliazione con il fascismo, in
particolare nei passati anni Trenta.
Occorre far fare tirocinio democratico
in religione, visto che si concorda che “la politica è una delle più alte
forme di carità”, ciò che richiede di fare memoria della storia, in particolare
di quella recente e contemporanea. La consapevolezza storica è alla base dei
processi democratici. Da dove cominciare? La parrocchia può essere un buon
inizio. Anche l’Azione Cattolica, e in particolare il nostro gruppo
parrocchiale, può essere un buon inizio, perché dagli anni Sessanta si occupa
anche di tirocinio democratico. Ma occorre sviluppare processi democratici, ad
esempio , n parrocchia, rendendo realmente rappresentativo il Consiglio
pastorale. Un altro dei principi cardine della democrazia è la partecipazione
politica alle scelte economiche che si fanno nelle istituzioni, attraverso la
pubblicazione e approvazione di conti consuntivi e preventivi e dello stato
patrimoniale. Altrimenti le istituzioni che ambiscono ad essere comunitarie si
burocratizzano e uno si disinteressa del bilancio della parrocchia come si
disinteressa di quelli delle ASL. Poi però può accadere che la biblioteca
parrocchiale sia da ricostituire da capo (è la situazione che ha trovato il
nuovo parroco, ho sentito) e questo per qualche motivo che non è stato
spiegato (servivano fondi per urgenze parrocchiali, si voleva impiegare
altrimenti la stanza della biblioteca?), e che quindi adesso i giovani non
abbiano di che studiare. Avessi potuto partecipare democraticamente alla
decisione mi sarei opposto con tutte le mie forze. E’ tutto uno stile da
costruire, perché in questo campo in religione, da noi, non si è molto
avanti e anche nella politica nazionale si manifestano molti problemi. Ma
l’Italia non si salverà senza un nuovo spirito civico: storicamente i laici di
fede, in particolare nel secondo dopoguerra, sono stati protagonisti in questo
campo, naturalmente sempre con la palla al piede del clerico-fascismo, il nome
meno gentile di quello che Formigoni definisce come il sempre persistente neo-guelfismo.
14. Europeismo
Quando si inizia a parlare di Europa e di europeismo
spesso le persone che incontro attaccano con le critiche, riprendendo
superficialmente i discorsi che sentono fare da diversi politici nazionali, come
se gran parte dei problemi che ci sono in Italia derivassero dall’Europa, concepita secondo la mentalità
fascista (scrivo le cose come sono!), come un coacervo di nazione d’oltralpe
che ce l’hanno con noi. In realtà di Europa
si sa poco, in particolare della sua
storia e di come è diventata cercando di superare gli stati nazionali, i quali
(quelli sì) erano stati protagonisti della sanguinosa, tragica, storia europea.
Ecco un primo punto da tenere presente: l’idea di una unificazione istituzionale tra i popoli europei scaturiva dalla volontà
di stabilire una pace europea, dopo
secoli di conflitti. In effetti il progressivo processo di unificazione istituzionale europea, vale a dire, innanzi tutto,
prima ancora della creazione di un governo
europeo, la creazione di norme europee, che favorissero la cooperazione europea e l’avvicinamento delle
società europee, ci ha dato un lungo periodo di pace, che dura
tutt’oggi. L’ultima guerra mondiale finì
in Europa nella primavera del 1945 e non era scontato che non potesse
riprendere. Solo sei anni dopo, a Parigi, nel 1951, venne concluso il primo
degli accordi internazionali che diede inizio al processo di unificazione
istituzionale europea: il trattato che istituì la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, più nota con la sigla CECA. Lo conclusero sei stati nazionali: Belgio, Francia,
Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi (Olanda). Notate qualcosa? In questo
gruppo c’erano stati nazionali che si
erano combattuti durante la Seconda guerra mondiale: Germania e Italia da una
parte, Belgio, Francia, Lussemburgo e Paesi Bassi dall’altra. Le ultime due
guerre mondiali (1914/1918 e 1939-1945) erano originate sulla frontiera tra
Francia e Germania. Oggi il problema della pace europea non scalda i cuori, e
invece dovrebbe. Negli anni ’40 era diverso, perché sia aveva l’esperienza
diretta di due guerre mondiali che avevano provocato tante sofferenze ai popoli
europei e, in particolare, tra le classi popolari, operai e contadini, che
fornivano i militari di truppa, in
particolare la fanteria, votata allo sterminio. L’idea di unificazione europea era rivoluzionaria durante il regime fascista
(1922-1945). E infatti uno dei documenti più citati, ma poco conosciuto,
dell’europeismo italiano, il Manifesto di
Ventotene, che ho pubblicato ieri, venne scritto nell’Isola di Ventotene,
da tre pregiudicati sottoposti alla
misura di polizia del confino per
ragioni politiche, che era molto di più dell’obbligo di soggiorno che si applica oggi alle persone pericolose.
Comportava infatti una serie di gravi limitazioni che, in definitiva,
obbligavano i confinati a stare
sempre tra di loro. Quei confinati si
chiamavano Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. Il più noto dei
tre è Spinelli, che nel 1941 aveva 34 anni. Gli altri due ne avevano 44 e
32. Li possiamo considerare tre rivoluzionari, perché volevano cambiare
totalmente il mondo in cui si erano trovati a vivere.
Come c’entra l’europeismo con la fede
religiosa? C’entra per vari motivi. Innanzi tutto l’ideale di una pace tra i popoli è diventato dalla metà del secolo
scorso molto importante nella nostra dottrina sociale. E l’unificazione europea
è stata una via verso la pace. E poi perché l’ideologia dell’unificazione
europea è vista con sospetto, tra noi in religione, nonostante che i laici di
fede siano stati protagonisti in quel processo politico. In effetti negli
ultimi decenni essa ha surclassato quella religiosa come potenza di pace, in
particolare, più recentemente, nelle politiche contro la discriminazione
sociale che sta attuando. Le organizzazioni religiose sono in genere andate a
rimorchio, spesso riottosamente, come quando si cerca di contrastare le
discriminazioni a sfondo sessuale. Si tende allora a pensare che la rivoluzione che si sta attuando nel processo
di unificazione europea sia antireligiosa, e non è così, come si potrebbe
facilmente capire se si trovasse il tempo di approfondire.
15. Nazionalizzazione degli stati
[Dal Manifesto
di Ventotene, 1941, di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
La sconfitta della Germania non porterebbe
automaticamente al riordinamento dell'Europa secondo il nostro ideale di
civiltà.
Nel breve intenso periodo di crisi generale, in cui gli stati nazionali
giaceranno fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose la parola nuova e saranno
materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di
accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti, i ceti che più erano privilegiati nei vecchi
sistemi nazionali
cercheranno subdolamente o con la violenza di smorzare l'ondata dei sentimenti
e delle passioni internazionalistiche, e si daranno ostinatamente a
ricostruire i vecchi organismi statali. Ed è probabile che i dirigenti inglesi,
magari d'accordo con quelli americani, tentino di spingere le cose in questo
senso, per riprendere la politica dell'equilibrio delle potenze nell'apparente
immediato interesse del loro impero.
Le
forze conservatrici, cioè i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati
nazionali: i quadri superiori delle
forze armate, culminanti là, dove ancora esistono, nelle monarchie; quei gruppi del capitalismo monopolista
che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelle degli stati; i grandi proprietari fondiari e le alte gerarchie ecclesiastiche, che solo da
una stabile società
conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie; ed al
loro seguito tutto l'innumerevole stuolo di coloro che da essi dipendono o che
son anche solo abbagliati dalla loro tradizionale potenza; tutte queste forze reazionarie, già fin da oggi, sentono che l'edificio scricchiola e
cercano di salvarsi. Il crollo le priverebbe di colpo di tutte le garanzie
che hanno
avuto fin'ora e le esporrebbe all'assalto delle forze progressiste.
Ma essi hanno uomini e quadri abili ed adusati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare
la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati.
Si proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle
classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuati dentro
i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati convertiti nel preciso
contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovrà fare i
conti.
Il
punto sul quale essi cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato
nazionale. Potranno così far presa
sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più
facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In
tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli
avversari, dato che per le masse
popolari l'unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi
entro l'ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare, sia esse
che i loro capi più miopi, sul terreno della ricostruzione degli stati
abbattuti dalla bufera.
Se raggiungessero questo scopo avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici o
socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo
questione di tempo. Risorgerebbero
le gelosie nazionali e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione
delle proprie esigenze solo nella forza delle armi. Loro compito precipuo tornerebbe ad essere, a più o meno breve
scadenza, quello di convertire i loro popoli in eserciti. I generali
tornerebbero a comandare, i monopolisti ad approfittare delle autarchie, i
corpi burocratici a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si
raggrinzerebbero in un nulla di fronte alla necessità di prepararsi nuovamente
alla guerra.
L’europeismo che si sviluppa dagli anni ’30
del Novecento è di tipo rivoluzionario, perché progetta di cambiare
profondamente la politica e istituzioni esistenti all’epoca in un’Europa
dominata da stati totalitari fascisti,
al seguito del cancelliere tedesco Adolf
Hitler (1889-1945) e del presidente del Consiglio del Regno
d’Italia Benito Mussolini (1883-1945), mentre in Russia, una parte importante
dell’Europa, dominava il totalitarismo sovietico di ispirazione comunista,
nella versione imposta dal segretario del Partito comunista dell’Unione
Sovietica Iosif Stalin (1879-1953), anch’esso
un sistema politico-istituzionale totalitario.
Un sistema politico è totalitario
quando il potere cala dall’alto, non ammette dissenso e pretende di regolare
tutti gli aspetti della vita del popolo che domina. Quindi l’europeismo di quell’epoca fu democratico
perché si oppone ai totalitarismi che
c’erano allora in Europa. Anche il nazionalsocialismo
tedesco, il movimento politico fondato da Adolf Hitler, e il comunismo
sovietico nella versione di Josif Stalin avevano progetti di dominio europeo,
ma non consideriamo Hitler e Stalin come europeisti
in quanto associamo l’europeismo alla
democrazie e quei due uomini politici non erano democratici.
Nel brano del Manifesto di Ventotene che
ho sopra riportato si legge un’aspra critica alle forze conservatrici,
accusate di aver provocato la lunga situazione di conflitto europeo protrattasi
dal 1914 al 1945 dominando gli stati
nazionali. Tra di esse vengono le “alte gerarchie
ecclesiastiche, che solo da una stabile società
conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie”. Questa visione può ritenersi strettamente
collegata alla storia italiana, in cui, nel 1929, il papato aveva concluso
accordi di pacificazione con il
Regno d’Italia dominato dal regime fascista, tanto che essi furono
sottoscritti per l’Italia, nel palazzo romano del Laterano personalmente da
Benito Mussolini. In esecuzioni di quegli accordi al papato fu riconosciuta la
sovranità, al modo di uno stato, su un quartiere della città di Roma,
importanti indennizzi finanziari, e, soprattutto, la possibilità di una
rinnovata egemonia religiosa sugli italiani, in particolare con la possibilità
di controllare l’istruzione religiosa nella scuola statale.
Al centro della critica
politica del Manifesto di Ventotene vi è l’evoluzione degli stati nazionali europei che
li avevi portati a combattersi incessantemente.
Che cosa è lo stato nazionale.
Questa espressione è
composta di due parole: stato e nazione.
Bisogna capire questo: storicamente lo stato, come istituzione politica di vertice, in Europa non nasce
come nazionale.
Il concetto di nazione in senso politico si sviluppa sostanzialmente tra il Settecento
e l’Ottocento. Nell’Ottocento si produce una nazionalizzazione politica
degli stati europei. L’ideologia politica dello stato nazionale emerge in
quell’epoca.
La costruzione degli stati nazionali in Europa è però di molto precedente: la si fa
risalire al Duecento. Qualche giorno fa ho ricordato la figura di Giovanna
d’Arco, vissuta nel Quattrocento, e vediamo la santa in una guerra
sostanzialmente volta alla consolidamento di uno stato nazionale, contrastando il dominio che all’epoca ancora
esercitava in Francia la monarchia inglese.
Che cos’è lo stato? Uno stato è un’organizzazione
politica che domina su una popolazione stanziata su un territorio e che non
ammette sopra di sé poteri superiori, salvo che sul base consensuale, quindi
sulla base di accordi.
Che cos’è la nazione: è un popolo che ha una storia e
una cultura comuni, quindi legato storicamente da relazioni più intense che con
i popoli intorno, ciò che si può manifestare con una lingua o una religione
prevalenti e altri costumi sociali, che possono riguardare vari ambiti, in
particolare l’industria, il commercio, la famiglia, ma anche in un passato di
coalizioni militari per la difesa di interessi comuni. Nell’Ottocento, che
possiamo considerare il secolo in cui originarono i nazionalismi europei, si aveva però chiaro che la nazione preesiste ma anche si costruisce:
si ricorda in merito la frase di Massimo D’Azeglio (1798-1866), verso il termine del processo di unificazione
nazionale italiana, dopo la costituzione del Regno d’Italia nel 1861, “la nazione è fatta, bisogna fare gli
italiani”.
Il processo di nazionalizzazione degli stati europei, nel senso di affermazione
dell’ideologia nazionalista di quegli stati, si sviluppa tra l’Ottocento e il
Novecento è sbocca nei totalitarismi europei del Novecento e nei conflitti mondiali tra il 1914 e il 1945. Quei conflitti
divennero mondiali innanzi tutto perché coinvolsero un mondo
ancora dominato in gran parte da potenze europee. Coinvolsero anche il Giappone che, all’epoca,
agiva politicamene al modo dei nazionalismi europei.
16.
Noi e i problemi europei
16.1 Perché e, soprattutto, per chi scrivo queste note?
Scrivo principalmente per persone di fede che vogliono fare tirocinio di democrazia. Faccio il lavoro che una volta si attendeva
dai più anziani: spiegare il senso delle cose sulla base di un’esperienza
personale e tramandare conoscenze e tradizioni. E’ ciò che dovrebbe essere di
routine nella formazione religiosa di secondo e terzo di livello, ma non mi
pare che in genere si riesca a farlo. Il tempo in cui si riesce ad avere la
disponibilità della gente è poco. Si prova a raccontare un po’ di storia sacra
e si spera di poter completare in seguito. Molti però si allontanano prima che
si possa approfondire. Allora può avvenire che il fedele non sia preparato a
fare quello che da lui ci si attende oggi in religione, vale a dire di cercare
di fare dell’umanità un’unica famiglia. Non è cosa che possa
riuscire incollando progressivamente famiglia a famiglia,
fino a fare di tutta l’umanità un’unica tribù. L’unificazione
pacifica della famiglia umana, questa è l’espressione che
ricorre in religione per definire quell’obiettivo strategico, richiede di fare
politica, che appunto è l’arte di governare le società umane in modo che la
gente, tentando di fare i propri interessi, non metta mano alle armi e cominci
ad ammazzarsi. E, ormai, si tratta di fare politica a livello continentale,
vale a dire almeno europeo, perché, a causa delle vaste interconnessioni
che si sono create in tutti i campi nell’umanità contemporanea, anche i
problemi si presentano su quella scala. Ce se ne accorge subito quando si tenta
di far fronte a problemi continentali con le risorse di un singolo stato
nazionale. Se, ad esempio, consideriamo l’ultima fase di recessione economica,
iniziata dal 2008 negli Stati Uniti d’America e ancora in corso, capiamo bene
che essa avrebbe travolto gli stati nazionali europei se non ci fosse stata una
reazione a livello europeo, resa possibile dall’esistenza di istituzioni
europee forti. Analogamente accade nella questione delle migrazioni verso
l’Europa di popoli dall’Africa, dall’Asia e dall’Europa orientale. Nessuno
stato nazionale ha la forza di farvi fronte da solo e, in particolare, non può
farlo chiudendo le frontiere, vale a dire immaginando di chiudere
le porte di uno stato come si fa quando la sera si danno le
mandate alle porte di casa. Perché la storia, anche recente, insegna che si
possono impedire migrazioni dall’interno verso l’esterno, ma non nella
direzione contraria. Vale a dire che è possibile impedire a cittadini,
quindi a persone radicate in un sistema politico-istituzionale nel quale hanno
riconosciuta un’identità, di andarsene all’estero, ma nessuno è mai
riuscito a impedire del tutto ad apolidi, vale a dire a
persone che hanno perso o rifiutato quell’identità politico-istituzionale,
di entrare in un territorio governato da un diverso sistema
politico istituzionale, anche se molto deciso ad ostacolarli con misure di
polizia e addirittura militari, e ciò in particolare in tempi di crisi
economica, nelle migrazioni da posti dove si vive male, e addirittura
malissimo, a posti dove si vive meglio. I politici che predicano cose diverse
valgono poco, perché non tengono conto della lezione della storia e quindi sono
come guide cieche.
Ho scritto di lezione della
storia. Questo è molto importante: per fare politica occorre
conoscere almeno un po’ di storia, perché in politica non si parte mai da zero.
E’ come quando in stazione si sale su un treno e bisogna informarsi su dove va
e prendere quello che va dove vogliamo andare. E, innanzi tutto, decidere
dove si vuole andare.
Si parla di ricorsi storici:
date certe condizioni, eventi storici si ripetono simili. Questo è un
altro buon motivo per informarsi di storia.
Quando a scuola, da ragazzi, ci si
annoia nelle lezioni di storia, forse è perché non si ha ben chiara
l’importanza che essa ha e avrà sempre più, da adulti, per la propria
vita. Certo, è acqua passata, ma conta, perché l’umanità la prende
come riferimento per dare un senso a ciò che fa e decide. Essa è tanto
importante da essere ritenuta costitutiva del concetto di nazione,
che sta dietro sistemi politico-istituzionali molto vasti e potenti, tanto da
determinare gran parte di ciò che i singoli esseri umani possono essere,
diventare, fare. Ad esempio il Regno d’Italia, costituito nel 1861 e
sostituito nel 1946 all’esito di un referendum popolare dalla Repubblica
italiana, era uno stato nazionale. E la nostra Repubblica, lo
è? Che ne pensate?
16.2
La domanda è: “La Repubblica italiana è un nazione?”.
Non ho chiesto se l’Italia sia una nazione, ma se lo
fosse la nostra Repubblica. C’è una differenza ed essa consiste nella mitologia che
c’è dietro l’idea di nazione.
Un mito è un
storia semplificata e piuttosto fantasiosa, e per questo in genere anche
affascinante, che spiega il senso che si vuole
dare a un storia che spesso senso coerente non ha o se lo ha è molto più
complesso di quello che si preferirebbe fosse. Diversi miti sono contenuti
nelle scritture sacre delle religioni. Li troviamo anche nelle nostre.
Definiscono più quello che si vorrebbe essere, e in definitiva diventare,
più che quello che si è veramente stati e si è. L’idea di Italia che
fu alla base del nostro nazionalismo ottocentesco, il quale produsse un
movimento politico e militare di popolo e varie guerre fra
stati, conteneva molti miti. Se, invece che all’Italia, mi
riferisco alla Repubblica italiana mi impegno a osservare ciò che
è, facendo a meno di quei miti.
Un ampio utilizzo della mitologia fu
invece fatto dal regime fascista storico, che dominò il Regno d’Italia dal 1922
al 1945. Lo costruì scegliendo arbitrariamente nella storia italiana alcuni
eventi e strumentalizzandoli per indicare, in realtà, ciò che voleva che l’Italia divenisse.
Il fascismo storico pensò sé stesso come erede legittimo della romanità,
e in particolare di quella espressa dall’antico impero romano stanziato in
Italia, quello che visse nell’era che si definisce classica,
centrato su Roma (la storia dell’impero romano dalla fine del terzo
secolo della nostra era fu invece sempre più centrata su Bisanzio, in Oriente).
Riteneva di essere veicolo di civilizzazione e in questo integrò nella sua
ideologia la nostra confessione religiosa: questa fu la base ideologica
della Conciliazione conclusa tra il Regno d’Italia e la Santa
Sede (che significa il papato romano), ma mediata dal fascismo italiano: per
quest’ultimo e l’organizzazione ecclesiastica quei patti furono
ben più di un accordo di compromesso. Religione e partito politico
totalitario si rafforzarono a vicenda, cessò l’ostilità del regime verso la
religione e quella del potere ecclesiastico verso il regime, sulla base di una
precisa delimitazione di campo d’azione, sia pure con iniziali recrudescenze di
conflitti verso quelle organizzazioni di stampo religioso che non rispettavano
i confini posti da quegli accordi. Questa è oggi una memoria dolorosa,
spiacevole, in religione e in genere si preferisce costruire sopra quei fatti,
avvertiti ora come disonorevoli, un mito resistenziale
delle nostre organizzazioni religiose coeve al fascismo che non corrisponde
alla realtà se non in minima parte. Negli anni ’30 la nostra religione,
in Italia, si fascistizzò e la religione fu integrata nel nazionalismo
fascista. Le guerre coloniali del regime, in Libia e in Etiopia, vennero
presentate anche come imprese di civilizzazione religiosa e questo nonostante
che in Etiopia si combattesse contro cristiani di antichissima tradizione. Non
ci fu all’epoca una reale opposizione dei nostri capi religiosi, in particolare
del papato. Il fascismo storico immaginò una nazione imperiale
cristiana e in questo non trovò reali smentite da parte di quello che,
allora come oggi, concepiva sé stesso come un impero religioso e storicamente
aveva tenuto a marcare nettamente i confini per difendersi dalle ingerenze dei
poteri civili. La Conciliazione fu definita come opera
della Provvidenza e ci si condusse poi di conseguenza per circa una decina
d’anni. Poi cominciarono effettivamente le prese di distanza.
L’idea di nazione che
stava dietro i moti di unificazione nazionale era più simile a quella che ai
tempi nostri ne abbiamo e derivava dal pensiero di Giuseppe Mazzini
(1805-1872). Si pensava che vi fosse un popolo umiliato da potenze
straniere perché diviso e che si dovesse elevarlo alla
sovranità, innanzi tutto facendone un unico stato. Nel pensiero di Mazzini
questo doveva avvenire realizzando anche una democrazia, quindi un sistema
politico istituzionale che consentisse un’ampia partecipazione popolare alle
decisioni di governo. Mazzini aveva un’idea religiosa di questa democrazia di
popolo: la pensava fondata su principi supremi di origine divina. In questo
contesto il moto democratico avrebbe dovuto coinvolgere, e liberare, tutti i
popoli europei e affratellarli. Questa ideologia si
manifesta chiaramente nelle parole del nostro inno nazionale Fratelli
d’Italia.
L’idea di nazione del
fascismo era diversa e ne ho scritto sopra.
L’idea di nazione che
prevalse tra le forze politiche che, dopo aver vinto la guerra di
resistenza contro il fascismo, progettarono la nostra Repubblica era simile a
quella del Mazzini, ma con molto di più. Infatti andava oltre il
concetto di nazione che era stato alla base del movimento per
l’unificazione nazionale italiana e, rovesciando l’ideologia nazionalista
fascista, prevedeva un ordinamento politico istituzionale in cui non si
distinguesse tra le persone sulla base della razza, della lingua e della
religione (art. 3 della Costituzione), tre elementi che si erano ritenuti
fondamentali per definire la nazione.
Di fatto, la Repubblica italiana iniziò la sua vita
come stato nazionale, nel senso di stato che comprendesse tutti gli
italiani di stirpe, lingua, cultura e religione, come aveva voluto essere
quello fascista, ma senza più l’ambizione imperiale, anzi con l’impegno di
limitare le proprie pretese nazionalistiche se ciò fosse necessario per un
assetto internazionale pacifico sulla base di accordi con gli tri stati. Molti
dei miti del fascismo sopravvissero nell’era della repubblica
democratica. In particolare quello che integrava nell’ideologia nazionale la
nostra religione. Ma progressivamente ad essi si sostituì una realtà molto
diversa basata su sviluppi caratteristici del nuovo mondo in cui l’Italia si
era trovata a vivere dopo l'affrancamento dal fascismo. Nell’ideologia
nazionalista, come è vissuta oggi in concreto dalla gente, l’etnia, quindi la
stirpe, e la religione hanno molto meno importanza di un tempo, sono molto meno
caratterizzanti. Ci si è molto mescolati tra le genti delle varie regioni
italiane, che in gran parte corrispondono alle ripartizioni territoriali degli
stati precedenti all’unificazione nazionale. La lunga pratica della libertà di
coscienza ha permesso scelte diverse in materia religiosa, in particolare anche
di ateismo o di indifferenza religiosa, senza che ciò sia più sentito
come squalificante sul piano civile. Hanno avuto invece un potentissimo ruolo
nella costruzione di una nuova identità nazionale l’istruzione pubblica di
massa e il sistema radiotelevisivo pubblico, quindi poi l'affermarsi
dell'italiano scolastico sui dialetti, la vasta partecipazione ad un mercato
del lavoro su scala nazionale resa possibile dall’espansione economica vissuta
in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso e, soprattutto, il
consumismo popolare, che ha creato modi di vivere, e di desiderare, quindi
anche prospettive di vita, molto simili in tutte le
regioni d’Italia. La nostra Repubblica però sta ancora diventando una
nazione come non c’è mai stata prima: la costruzione nazionale è quindi
ancora in divenire. L’integrazione europea ha poi consentito ai più
giovani di iniziare a costruirsi un’identità civica continentale, con
sempre più fitte relazioni con le genti europee di altre lingue e culture. Ed è
sbagliato, quando ci riferisce ai nostri giovani che studiano o lavorano in
altri stati dell’Unione Europea, parlarne come di migranti, come
gli italiani che emigrarono in massa alla volta dell’America e dell’Australia
dalla fine dell’Ottocento fino più o meno agli anni ’30 del secolo scorso, ma
anche quelli che emigrarono nel Nord Europa in epoca più recente. I giovani di
oggi girano l’Europa da cittadini europei, partecipi di una cultura politica,
istituzionale, economica e sociale sovranazionale nella quale sta producendosi
una nuova nazionalità europea, simboleggiata dalla bandiera a
dodici stelle in campo azzurro dell’Unione Europea.
Su questo nuovo contesto nazionale ed
europeo si è abbattuta la fase di recessione economica che stiamo
attualmente vivendo, derivata fondamentalmente dalla globalizzazione
dell’economia, e stanno incidendo in maniera sempre più rilevante le migrazioni di
popoli dall’Europa orientale, dall’Africa, dall’Asia e dall’America
Latina, non attirati tanto dal nostro benessere economico, ma innanzi tutto
dalla possibilità concreta di una vita libera, sicura e
dignitosa. Si tratta di popoli che prendono sul serio le
nostre dichiarazioni di principio su grandi valori umani. A fronte
di questo c’è chi propone di tornare al vecchio nazionalismo di tipo clerico-fascista,
e con questa espressione intendo riferirmi a ciò che uscì dalla Conciliazione di
cui ho scritto. Ma, a prescindere da tutte le altre
controindicazioni, quell’ideologia era strumento di una politica di espansione
militare in Europa e in Africa, mentre ora si vorrebbe bloccare l’arrivo
dei nuovi venuti, non di andare a invadere i posti da dove ci giungono. E anche
il vecchio nazionalismo che sorresse il processo di unificazione statale
italiana rispondeva a problemi diversi: si proponeva di mandare fuori
d’Italia le potenze straniere che all'epoca la occupavano, e in
particolare l’Impero austriaco, non di contrastare migrazioni di
massa da altri continenti verso l’Italia che all'epoca non solo non
c’erano ma non erano nemmeno immaginabili. Ma anche l’ideologia nazionalista
repubblicana, come si è venuta costruendo dalla metà degli anni Quaranta ad
oggi, non sembra andare bene perché, in definitiva, si limita a unire,
legandoli culturalmente, gruppi, ceti, classi, etnie, movimenti, religioni che
già erano insediati da noi da lungo tempo e hanno beneficiato dello statuto
di eguaglianza in dignità riconosciuta dal nuovo assetto politico
istituzionale democratico, ma sembra insufficiente per costruire
l’integrazione delle masse di migranti che, provenienti non solo
da altri continenti, ma da altre culture, giungono tra noi
rivendicando la medesima eguaglianza, come diritto umano
fondamentale. Che fare dunque? Che ne pensate? Innanzi tutto: vi
ponete il problema del che fare? L’attuale dottrina sociale, veramente tanto
diversa dall’antico clerico-fascismo che in Italia si produsse dopo la Conciliazione del
1929, ci impegna a pensarci. E quando scrivo “ci impegna” significa
che non ci spinge solo a rifletterci sopra, ma a progettare e
costruire una nuova realtà sociale, in linea con i nostri valori di fede: questo
è politica.
17. Un mandarino per Teo
[Dal Manifesto
di Ventotene, 1941, di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
La civiltà
moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà,
secondo il quale l'uomo non deve essere
un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice
alla mano si è venuto imbastendo un grandioso
processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale che non lo
rispettino:
1. Si è affermato l'eguale
diritto a tutte le nazioni di organizzarsi in stati indipendenti. Ogni popolo, individuato nelle sue caratteristiche
etniche geografiche linguistiche e storiche, doveva trovare nell'organismo
statale, creato per proprio conto secondo la sua particolare concezione della
vita politica, lo strumento per soddisfare nel modo migliore ai suoi bisogni,
indipendentemente da ogni intervento estraneo.
L'ideologia
dell'indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha
fatto superare i meschini campanilismi
in un senso di più vasta solidarietà
contro l'oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli
uomini e delle merci; ha fatto estendere,
dentro il territorio di ciascun nuovo stato, alle popolazioni più arretrate, le
istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi del nazionalismo
imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati t talitari ed allo
scatenarsi delle guerre mondiali.
La
nazione non è più ora considerata come lo storico prodotto della convivenza
degli uomini, che, pervenuti, grazie ad un lungo processo, ad una maggiore
uniformità di costumi e di aspirazioni, trovano nel loro stato la forma più
efficace per organizzare la vita collettiva entro il quadro di tutta la società
umana. E' invece divenuta un'entità
divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al
proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possono
risentirne. La sovranità assoluta degli
stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo
"spazio vitale" territori sempre più vasti che gli permettano di
muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza senza dipendere da
alcuno. Questa volontà di dominio non
potrebbe acquietarsi che nell'egemonia dello stato più forte su tutti gli altri
asserviti.
In conseguenza lo stato, da tutelatore della libertà dei
cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi, tenuti a servirlo con tutte le facoltà per
rendere massima l'efficienza bellica. Anche nei periodi di pace, considerati
come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive, la volontà
dei ceti militari predomina ormai, in molti paesi, su quella dei ceti civili,
rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi; la scuola, la scienza, la produzione,
l'organismo amministrativo sono principalmente diretti ad aumentare il
potenziale bellico; le madri vengono
considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli
stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più
tenera età al mestiere delle armi e dell'odio per gli stranieri; le libertà individuali si riducono a nulla
dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestar
servizio militare; le guerre a
ripetizione costringono ad abbandonare la famiglia, l'impiego, gli averi ed a
sacrificare la vita stessa per obiettivi di cui nessuno capisce veramente il
valore, ed in poche giornate distruggono i risultati di decenni di sforzi
compiuti per aumentare il benessere collettivo.
******************************************************
Nel
1960 c’era al teatro Sistina di Roma la commedia di Garinei e Giovannini di
Pietro Garinei e Sandro Giovannini Un
mandarino per Teo, nella quale il diavolo proponeva a un uomo di ereditare
un mucchio di soldi uccidendo un mandarino in Cina con il premere il pulsante di un campanello, senza rischiare
nulla. Il protagonista lo fa, riceve un
anticipo dell’eredità, si dà alla bella vita, ma poi gli viene rivelato che si
tratta di firmare un patto con il diavolo, ha una crisi di coscienza e, per
liberarsi dalla soggezione al demonio, restituisce tutti il denaro ricevuto. La
trama di quella commedia propone il dilemma di coscienza in cui tutti noi
cittadini europei ci troviamo. Infatti il nostro benessere dipende dalla
sofferenza di gente lontana, di lavoratori-schiavi che producono gran parte
delle nostre cose di nostro uso quotidiano, dal vestiario al computer con il
quale sto scrivendo, per salari bassissimi, ciò che rende possibile i prezzi
bassi che vengono praticati da noi. Si tratta di persone umane, ma, appunto,
molto lontane, in genere in Asia, e allora non ci facciamo tanti problemi. Ma
lavoratori schiavi ci sono anche da noi, ci raccontano le cronache
giornalistiche e ci confermano le inchieste giudiziarie: in particolare sono
quelli che raccolgono il pomodoro e diversi tipo di frutta. Ma la gran parte di
loro sono irregolarmente in Italia e quindi non protestano per non rischiare
guai con la polizia e la legge. Oltre a ciò, c’è altra gente che lavora in
condizioni difficili, perché costretta a ritmi di produzione molto serrati e
duri, e tra di essa ci sono anche molti giovani italiani. In genere per tutte
queste persone il lavoro è precario, vale a dire che possono essere licenziati
senza tanti problemi. Chi è in queste condizioni difficilmente protesta e si
associa ai sindacati, per non subire ritorsioni sul lavoro. C’è un libro,
disponibile anche in formato digitale, che racconta tutto questo, di Giovanni
Arduino e Loredana Lipperini, Schiavi di
un dio minore - Sfruttati, illusi e
arrabbiati, UTET, 2016, €11,40 in
formato cartaceo, €7,99 in ebook. Ve
ne consiglio la lettura, così, in particolare avrete qualche idea in più quando
in confessione non vi viene in mente nulla di più dei soliti peccati di routine, sesso, maldicenza, messe
saltate. Noi Occidentali siamo tutti colpevoli di un tremendo peccato sociale
che consiste nel trattamento ingiusto di lavoratori lontani, che non
conosciamo, un peccato di quelli che, è scritto, grida, nel senso che trova ascolto soprannaturale molto più di
altri. E’ la conseguenza di un ordine sociale ingiusto a livello globale del
quale ci siamo fatti complici, per interesse. Cambiare non si può con le risorse
di un singolo stato nazionale.
Bisogna infatti incidere su un sistema che si estende a livello
intercontinentale. Ma, in fondo, vogliamo veramente cambiare le cose? Eppure
queste cose stanno cambiando anche noi, perché i patti con
il demonio sono sempre distruttivi per la parte debole, vale a dire per
l’essere umano che li conclude. Ecco che allora questo sistema sta privando del
futuro i nostri figli.
Uno
dei maestri del pensiero che più chiaramente ci ha spiegato il problema è stato
l’anziano sociologo polacco Zygmunt Bauman, morto qualche giorno fa. Lo ha
fatto con diversi libri divulgativi (la sociologia contemporanea è una scienza
molto complessa, in cui si impiegano sofisticati modelli di matematica
statistica), a partire dal più famoso: Modernità
liquida, del 2000, che è in commercio in traduzione italiana edito
da Laterza. Se dovessi programmare un ciclo di incontri in parrocchia con
persone dell’età dell’università, tra i 18 e 25 anni, lo metterei come libro di
testo. A proposito: ricordate bene che non si ragiona insieme su nulla senza
avere un buon libro di testo. Ci deve essere una base comune. E le Scritture
non bastano. Francesco d’Assisi sbagliava pensandola diversamente: sbagliava
già ai suoi tempi, ma tanto più il suo pensiero in questo non va bene ai nostri
tempi e, soprattutto, non va bene per chi voglia elevarsi alla cittadinanza e
abbia bisogno di capire realisticamente ciò che accade.
C’è
stata in Europa un’evoluzione storica che ha portato agli stati nazionali, dal Duecento al Cinquecento. Ma in Italia siamo
arrivati molto più tardi, nell’Ottocento. E quando ci si è arrivati, si è
prodotto un grosso problema religioso, perché il papato possedeva uno degli
stati che si voleva abolire per realizzare l’Italia unita.
Ad un
certo punto, le masse, sviluppandosi istituzioni democratiche, hanno contato di
più negli stati nazionali, che hanno iniziato a occuparsi della gente comune
sviluppando politiche di giustizia sociale e di sviluppo collettivo. E’ a
questo che si riferirono gli autori del Manifesto
di Ventotene, scrivendo che “L'ideologia
dell'indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso”, per il quale
furono superati meschini
campanilismi e furono estesi, dentro il territorio di ciascun nuovo stato, alle popolazioni
più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Poi però segnalano l’involuzione degli stati
nazionali, che guidati da oligarchie liberate o non sufficientemente trattenute
dai vincoli democratici si impadronirono dei loro popoli facendone strumento di
una politica di potenza imperialista, diretta a imporre l’egemonia di uno stato
sugli altri. Ebbero in questo, in particolare, l’immagine dell’involuzione del
Regno d’Italia, lo stato nazionale italiano costituito nel 1861, a seguito
della fascistizzazione del regime politico. L’istituzione della Repubblica
italiana, nel 1946, andò in senso contrario, riportando lo stato nelle mani
della gente comune, attraverso processi democratici che, per la prima volta in
Italia, coinvolsero le donne. Tra le masse femminili più preparate a questo
nuovo impegno politico ci furono le donne dell’Azione Cattolica, che dettero un
contributo determinante alla politica nazionale, sia con loro voto che con
l’impegno nell’Assemblea Costituente e poi in Parlamento. Al centro dell’impegno del nuovo stato
nazionale democratico furono le riforme sociali, in ogni campo del lavoro, a
fini di giustizia sociale e di estensione del benessere collettivo alle masse. Presto si capì che questo lavoro richiedeva
collaborazione internazionale, in particolare a livello europeo, e si
progettarono le istituzioni sovranazionali dalle quali, in un lungo processo
dal 1951 al 2009 scaturì la nostra nuova Europa, che non è solo un’istituzione
dei banchieri, mercanti e commercianti, come ritengono alcuni politici
populisti di oggi, ma è centrata su un catalogo di diritti fondamentali, che potete leggere nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata nel
2000 a Nizza ed entrata in vigore, anche come legge vigente nella Repubblica
italiana, il 1 dicembre 2009 (sul Web:
http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex:12016P/TXT).
Bauman ha spiegato che l’economia
globalizzata, dove si produce, si spostano capitali (il denaro impiegato nella produzione nel commercio) e commercia secondo criteri
condivisi in tutto il mondo come se fosse un'unica nazione, ha sovrastato il
potere degli stati nazionali e delle stesse istituzioni politiche
sovranazionali, esprimendo un potere anonimo, non centrato quindi su uno o più imperatori del mondo, ma effettivo, che
viene spesso evocato con l’espressione “i
mercati”. Le vite della gente comune sono
asservite ad esso, in particolare quella che è legata ad un certo posto
e non ha né la voglia né la possibilità di spostarsi. In particolare si vive in
una crescente condizione di insicurezza sul proprio destino, a riguardo del
lavoro ma anche in altre cose, come la salute e la sicurezza da aggressioni di
vario tipo. Si ha la sensazione che il mondo in cui si vive sia divenuto
instabile, che valga fino a nuova
notifica. Tutto può cambiare molto velocemente e la gente è invitata ad
adattarsi a questa nuova situazione. Anche i governi degli stati nazionali,
quelli democratici come quelli non democratici, e addirittura il Presidente
degli Stati Uniti d’America, che per ora rappresenta il massimo del potere
mondiale che sia oggi attribuito ad una persona, non ci possono fare molto. Ci
viene così imposto un nuovo stile di vita in cui il saper fare conta molto meno
e invece conta di più il saper essere,
le relazioni che si riescono a sviluppare, ma senza legami forti, in maniera
tale da potersene liberare in un secondo quando non servono più. E’ la
mentalità dei consumatori dei nostri tempi, che vaga in mezzo a offerte commerciali
che sembrano infinite, per cui l’ultima cosa a cui si pensa è di concentrarsi
su un determinato stile di vita, perché si pensa che il benessere consista nel
cogliere tutte le opportunità che all’infinito si presentano.
In questo modo le relazioni veramente significative per le persone divengono
più rare, vengono sentite come limitanti: è questa la causa dell’apparente
crisi dell’istituzione matrimoniale. Ed essendo tutti presi dal proprio
benessere, non si pensa alla sofferenza che c’è dietro la produzione di tante
cose di uso quotidiano, che arraffiamo senza tanti problemi dagli scaffali dei
grandi magazzini e poi presto buttiamo. La nostra è diventata una civiltà dello scarto ci dice il nostro Padre Francesco, e tra gli
scarti sono finiti anche gli esseri umani. Ad un certo punto può accadere anche
a noi stessi di venire scartati se, ad un certo punto, non riusciamo a tenere
il ritmo.
Di
questi tempi c’è in Europa un ritorno del nazionalismo populista, anche da noi.
Ma il neo-stato nazionale, ormai
inutile a salvarci dal processo di scarto
dell’economia globalizzata, è
pensato non come difesa dalle potenti forze che stanno guastando la nostra
vita, ma come forma di chiusura verso che vive i nostri stessi guai, per chiudere le porte alle sofferenze altrui, illudendosi così di
riuscire a trattenere per noi, solo per noi, le poche risorse rimaste. Il neo-stato nazionale è in fondo uno di quei meschini (e inutili) campanilismi disprezzati dagli autori del Manifesto di Ventotene.
Ma
l’evoluzione omicida dell’economia globalizzata non dipende da potenze
soprannaturali: anche se il potere non ha più il volto dell’uomo forte nel quale in passato veniva impersonato e quindi è anonimo un po’ come una grande società
di capitali della quale non si conosca il presidente del consiglio di
amministrazione, è tuttavia semplicemente un’istituzione umana, che può essere
descritta e capita, anche se il suo funzionamento è divenuto bizzarro e
imprevedibile. Il potere globale è un
insieme di norme e di istituzioni, concordate dagli stati nazionali e dalle
istituzioni sovranazionali, per cui si è uniformato il modo di produrre,
commerciare e trasferire capitali. Si è creato un sistema globale che ha
lasciato campo libero ad una nuova classe dirigente globale, libera di muoversi
senza tener conto delle frontiere nazionali
per fare i propri interessi, mentre
la gran parte dell’umanità vi è ancora asservita, come i disperati i quali,
prendendo esempio da quelli che Bauman chiama cittadini globali, cercano di raggiungere l’Europa per salvarsi da
vite miserabili. Questo nuovo potere, sostiene Bauman, non ha più bisogno di
estesi apparati di polizia per tenerci sotto controllo: siamo noi stessi a
rendercene schiavi, adottando l’ideologia e lo stile di vita che ci separano
dagli altri, dei quali non facciamo più conto anche se stanno molto male. In
definitiva noi, da consumatori globali,
stiamo divenendo insieme complici e schiavi di questo sistema. Gli attori
principali di questo scenario sanno bene chi sono le vittime del sistema e le
cause delle loro sofferenze, ma ci invitano a disinteressarcene. E’ la proposta
che il demonio fa a Teo, il protagonista della commedia che ho citato
all’inizio. E noi, aderendo all’invito, firmiamo una specie di patto con il
demonio, autodistruttivo. La soluzione? Bauman la indica: riscoprire la
cittadinanza vera, le relazioni forti, e unirci per cambiare un sistema che sta
prendendo una brutta piega. Si tratta di costruire una vera cittadinanza globale, cogliendo così le
opportunità positive della globalizzazione,
in modo che ciascun essere umano si senta in tutto il mondo a
casa propria. In altre parole: fare
dell’umanità un’unica famiglia, secondo i nostri auspici religiosi. Questo
però richiede anche una giustizia sociale
su scala globale, come è spiegato
nell’enciclica Laudato si’. Non
potremo salvarci se non cambiando molto i nostri stili di vita, facendo posto
agli altri.
Come si vede è una sfida
più estesa di quella che si presentava agli autori del Manifesto di Ventotene, i quali avevano essenzialmente davanti
problemi su scala europea e proponevano
soluzioni europee. Ai tempi nostri l’Europa
è solo il punto di inizio, ma un
punto di inizio indispensabile perché i problemi posti dalla
globalizzazione dell’economia non possono che avere soluzioni su scala
continentale.
18. In una fase di transizione
[Dal Manifesto di Ventotene, scritto del 1941
da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
Gli stati totalitari sono quelli che hanno reali nel modo più
coerente la unificazione di tutte le
forze, attuando il massimo di accentramento e di autarchia, e si sono
perciò dimostrati gli organismi più adatti all'odierno ambiente internazionale.
Basta che una nazione faccia un passo
più avanti verso un più accentuato totalitarismo, perché sia seguita dalle
altre nazioni, trascinate nello stesso solco dalla volontà di
sopravvivere.
****************************************************************************
Qualche giorno fa è morto l’anziano sociologo polacco Zygmunt Bauman,
autore di numerosi scritti divulgativi di grande successo che cercano di far
capire alla gente comune che cosa le accade intorno. Ha osservato che con
la globalizzazione, il processo culturale ed economico a livello
mondiale che ha molto ridotto le differenze tra i popoli e li ha portati a
legarsi in una fitta rete di relazioni divenendo interdipendenti, gli stati
nazionali hanno molto meno potere e si sono allentate, divenendo
da solide a liquide, le
relazioni sociali al loro interno.
Dopo la morte di Bauman si stanno
riproponendo alcuni sui interventi televisivi e l’altro ieri mi è capitato di
guardarne uno su Rai Storia, in cui si parlava dell’evoluzione
della situazione europea. Bauman ha esposto a grandi linee il suo pensiero.
Lo stato nazionale è nato per esercitare un forte
potere di controllo su una popolazione che condivide molte caratteristiche
culturali ed etniche, unificandone le forze e
rendendosi così autosufficiente, ha detto. Gli stati
nazionali dal Cinquecento fino alla metà del secolo
scorso hanno espresso il massimo potere politico e nazionale delle
collettività umane. E tra glistati nazionali più
potenti ci sono stati quelli totalitari, vale a dire quelli in cui
il controllo al loro interno era arrivato al massimo grado, in
cui le istituzioni statali non ammettono il dissenso e pretendono di regolare
ogni aspetto della vita collettiva. Un esempio di stato nazionale molto
potente non totalitario è stato l’Impero britannico. Un esempio di stato
nazionale totalitario molto potente è stata la Germania sotto il regime
nazista. L’Unione Sovietica, che comprendeva gli immensi territori conquistati
dall’Impero russo degli Zar, non era invece uno stato nazionale ma una Federazione
di stati, sotto fortissimo controllo ideologico totalitario.
Dalla dissoluzione dell’Unione sovietica è scaturito un nuovo stato
nazionale russo. Attualmente i sistemi politici più potenti nel
mondo sono ancora stati nazionali e sono quelli degli Stati
Uniti d’America, della Federazione Russa e della Repubblica popolare di Cina.
Ma anche questi stati soggiacciono ora a un potere più forte e
impersonale, sostiene Bauman, che è dato dal quadro giuridico ed economico
delle relazioni con le quali essi stessi, per convenienza di interesse, si sono
legati e che di solito si evoca, anche se descriverlo riesce difficile, con il
nome di mercati.
Dal Cinquecento gli stati nazionali in
fase di formazione o consolidamento si sono trovati ad affrontare la crisi
molto grave determinata dalle divergenze religiose al loro interno, ma anche
dai problemi di coesistenza in tempi in cui essi divenivano sempre più potenti
e sviluppavano mire di conquista nei confronti dei confinanti. Furono quindi
travagliati da un lungo periodo di conflitti bellici che terminarono con
accordi di pace conclusi nella provincia tedesca della Vestfalia nel 1648,con i
quali si confermò il principio affermato circa un secolo prima ad Augusta
(città tedesca. In tedesco Ausburg) che il sovrano avesse il
potere di determinare la religione di stato, ma nel contempo
si separarono gli affari religiosi da quelli di stato, e furono risolte varie
questioni territoriali. Da ciò si ritiene che sia sorta l'Europa moderna. Per
altro questa sistemazione fu molto più efficace a garantire il controllo all’interno degli
stati nazionali, sulle popolazioni soggette, che a mantenere un
ordine internazionale pacifico. Dopo la lunga fase di
conflitti bellici tra il 1914 e il 1945 scaturì infine un nuovo ordine
internazionale in cui gli stati nazionali, al fine di
mantenere la pace tra di loro, accettavano di rispettare le decisioni di grandi
istituzioni sovranazionali create sulla base dell’affermazione di grandi
principi umanitari, come le Nazioni Unite e le varie istituzioni
sovranazionali, che in un processo durato dal 1951 al 2009, sono scaturite
nell’attuale Unione Europea, organizzata a livello continentale. Sembrava
realizzato l’obiettivo di un forte controllo interno e
di unefficiente controllo internazionale. Di fatto dal 1945 non sono più
esplosi conflitti di portata mondiale, anche se gravi situazioni di
tensione sono rimaste latenti e quindi sono rimaste le condizioni e,
soprattutto, le organizzazioni militari che potrebbero farli scoppiare. E, in
effetti, come sostiene i Papa, se consideriamo in uno sguardo d'insieme tutti i
conflitti regionali che ci sono stati potremmo anche parlare di guerra
mondiale a pezzi. Ma, in effetti, qualcosa come la Seconda guerra
mondiale non si è finora ripetuta.
Con la globalizzazione sia il controllo interno che
quello esterno sono divenuti molto meno efficienti.
Siamo quindi, ha detto Bauman, in una fase di passaggio ad un
diverso ordine internazionale, che necessariamente sarà a
livello globale, per le fitte relazioni internazionali che consentono la
sopravvivenza di un'umanità ormai fatta di circa sette miliardi di persone. Ma
sembra difficile poterlo istituire con accordi internazionali come quelli di
Vestfalia del 1648, perché gli stati nazionali si sono
molto indeboliti, perdendo il controllo della situazione, divenendo soggetti
all’economia globalizzata della quale essi stessi hanno creato i
presupposti giuridici, e anche le istituzioni sovranazionali, animate dagli
stessi stati nazionali, sono entrate in crisi, perché, di fronte alle
difficoltà, ogni sistema politico è ora tentato di fare da sé, chiudendosi di
fronte a problemi che sembrano provenire da fuori.
Gli stati nazionali si sono indeboliti
perché l’economia è stata resaextraterritoriale e
sfugge al loro controllo, così come anche la classe di imprenditori e dirigenti
apicali d’impresa che la anima. Questo ha comportato dei vantaggi per le
popolazioni: in Occidente ad esempio compriamo ancora a poco prezzo prodotti di
uso comune, ma di alta qualità, realizzati in Oriente. In Oriente una classe di
imprenditori si sta molto arricchendo con i profitti fatti in Occidente. Ne è
immagine evidente il velocissimo sviluppo urbanistico della Cina
continentale, le cui maggiori città industriali e la cui capitale assomigliano
sempre più al modello della città statunitense di New York. La gran parte degli
oggetti domestici di uso comune sono fatti in Cina, o comunque in Oriente,
anche il computer che sto utilizzando in questo momento. Però i prodotti
a tecnologia più sofisticata sono spesso ancora prodotti su progetto di imprese
occidentali. La protezione dei diritti di chi progetta i prodotti, che viene
definita proprietà intellettuale, è parte di quel sistema
normativo globale che consente la realtà economica dellaglobalizzazione,
in cui si può liberamente produrre e commerciare in tutto il mondo come se si
fosse sempre all'interno di un unico sistema politico, di un solo stato. Che
cosa consente agli Occidentali di prevalere ancora nel mercato
globale se, in definitiva, la gran parte di ciò che si produce è
realizzata in Oriente? Che cosa diamo in cambio? Fondamentalmente l’Occidente
vende ancora sé medesimo, il proprio modello di umanità, la propria civiltà
anche se prevalentemente nei suoi aspetti consumistici. Quando uno diventa
molto ricco in Oriente tende ancora a vivere, vestirsi, mangiare, divertirsi,
acquistare cose belle, istruirsi come i ricchi occidentali. Durerà? Per Bauman
siamo in una fase di transizione, quindi non durerà.
E’ difficile scorgere il futuro, la sua
evoluzione. Nel mondo ci sono tre grandi sistemi nazionali prevalenti:
quello statunitense, ancora democratico; quello russo, che ha elementi di
democrazia e di totalitarismo; quello cinese che è ancora totalitario.
Apparentemente essi stanno convergendo verso un modello che combina elementi di
democrazia e di totalitarismo, come nella Russia di oggi. Sono diventati
molto critici verso le istituzioni sovranazionali che finora hanno garantito la
pace mondiale. In particolare lo è stato il presidente statunitense eletto
Donald Trump. Nei giorni scorsi egli si è reso protagonista di una vera e
propria aggressione verbale all’Unione Europea, sostanzialmente invitando gli
stati suoi membri a lasciarla seguendo l’esempio britannico. Come fu scritto
nel Manifesto di Ventotene, osservando la situazione della politica
internazionale degli anni ’30 e ’40, gli stati tendono ad
imitarsi fra loro, quando si tratta disopravvivere e, in
particolare, ad imitarsi in ciò che li sembra rendere più potenti. La Cina e il
Giappone ne sono stati un esempio evidente: si sono occidentalizzati quando
l'Occidente ha avuto il dominio del mondo. Dal secondo dopoguerra, quindi
dalla caduta del fascismo e dall’istituzione della Repubblica, l’Italia fa
riferimento all’ordine politico intercontinentale centrato sugli Stati
Uniti d’America e realizzato dalla NATO, l’organizzazione politico-militare che
lega nord americani ed europei a scopi difensivi. Bisogna attendersi quindi che
l’ideologia del presidente eletto Trump trovi seguaci anche da noi. Essa è
condensata nello slogan “America first!”, vale a dire che prima di
tutto vengono gli interessi nazionali. Il presidente eletto Trump vuole ad
esempio rafforzare la frontiera con il Messico, costruendo una grande muraglia
per impedire l’immigrazione da quello stato, e propone agli europei di fare
altrettanto. La sua quindi è apparentemente una ideologia di
chiusura ai problemi del mondo. Essa è stata già seguita dai
britannici. Per l’Italia ci sarebbero difficoltà a farlo, perché il nostro
territorio è fatto di isole e da una penisola e quindi la gran parte
delle nostre frontiere sono marittime. Non si costruiscono muri sul mare. Ma
storicamente, come ho scritto l’altro giorno, nessun sistema politico, anche
quello che si è barricato dietro a muraglie, e l'antica Cina con la
sua Grande muraglia ne è l'esempio storico più
impressionante, è riuscito a impedire immigrazioni di apolidi.
Neanche gli Stati Uniti d’America ci riusciranno, per quanto potenti pensino di
essere. L’ideologia di chiusura serve sostanzialmente a dare
un’immagine di sicurezza all’interno per consentire agli
stati nazionali di recuperare un po’ del controllo sulle loro popolazioni che
hanno perso nell’era della globalizzazione. Ma è solo un’immagine,
perché la nostra sopravvivenza dipende ormai dalla fitta rete di relazioni,
innanzi tutto economiche ma anche culturali, che legano i popoli della terra,
per cui la soluzione dei nostri problemi o sarà globale o
non avrà alcuna efficacia, per cui si rimarrà soggetti a quel potere
impersonale di cui dicevo, che appare dominato dalla spietata
legge della natura, dove il più grosso mangia il più
piccolo e i più grossi lottano tra loro a rischio della vita.
Il punto, sosteneva Bauman, è che una
soluzione soddisfacente a livello globale non si può centrare sull’aumento
indefinito del PIL (Prodotto interno lordo), vale a dire della ricchezza
prodotta e dei conseguenti consumi, perché questo è insostenibile dal
punto di vista ambientale. Questo significa che sarà necessario scoprire un
nuovomodello di sviluppo e quindi poi una nuova civiltà,
in cui si dia di nuovo valore a ciò che veramente crea il benessere
umano, vale a dire a cose come rapporti umani positivi di vicinato, la
soddisfazione di far bene il proprio lavoro, e, aggiungo io, molto di ciò
che comprendiamo nelle cose della fede. Non si tratta quindi di consumare
di più, di avere di più, ma di essere diversi. L’alternativa
è la ripresa dei conflitti a livello globale, un nuovo bagno di sangue
come quello che ci fu tra il 1914 e il 1945. E’ questo che porterà, se non
corretta con decisione, la ripresa delle politiche di stato
nazionale con accentuazione totalitaria, per reprimere il dissenso
interno. Di questa insofferenza verso il dissenso cominciamo a notare qualche
segno nello stile di questi giorni del presidente eletto statunitense Trump,
con il fastidio che egli ha mostrato verso i giornalisti di organi di stampa
che sono stati critici nei suoi confronti.
Questa soluzione di un diverso
modello di sviluppo, come base di un nuovo ordine mondiale pacifico, e di diversi
stili di vita per attuare quel modello è al centro
dell’enciclica Laudato si’, diffusa lo scorso anno dal Papa, che in
parrocchia dovremmo adottare come libro di testo di un
gruppo di formazione religiosa di terzo livello, per giovani adulti che
vogliano rispondere a pieno all'impegno laicale che si richiede oggi in
religione, per cambiare il mondo secondo i valori di fede con un impegno
sociale e politico.
19.
L’evoluzione della
storia animata da formazioni sociali
[dal Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto
Rossi ed Eugenio Colorni]
La civiltà
moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà,
secondo il quale l'uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un
autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico […]
2.Si è affermato l'uguale
diritto per i cittadini alla formazione della volontà dello stato. Questa
doveva così risultare la sintesi delle mutevoli esigenze economiche e ideologiche
di tutte le categorie sociali liberamente espresse. Tale organizzazione politica ha permesso di correggere, o almeno di
attenuare, molte delle più stridenti ingiustizie ereditarie dai regimi passati.
Ma la libertà di stampa e di
associazione e la progressiva estensione del suffragio rendevano sempre più
difficile la difesa dei vecchi privilegi mantenendo il sistema rappresentativo.
I nullatenenti a poco a poco imparavano
a servirsi di questi istrumenti per dare l'assalto ai diritti acquisiti
dalle classi abbienti; le imposte
speciali sui redditi non guadagnati e sulle successioni, le aliquote
progressive sulle maggiori fortune, le esenzioni dei redditi minimi, e dei beni
di prima necessità, la gratuità della scuola pubblica, l'aumento delle spese di
assistenza e di previdenza sociale, le riforme agrarie, il controllo delle
fabbriche, minacciavano i ceti privilegiati nelle loro più fortificate
cittadelle.
Anche
i ceti privilegiati che avevano consentito all'uguaglianza dei diritti politici
non potevano ammettere che le classi diseredate se ne valessero per cercare di
realizzare quell'uguaglianza di fatto che avrebbe dato a tali diritti un
contenuto concreto di effettiva libertà. Quando, dopo la fine della prima
guerra mondiale, la minaccia divenne troppo forte, fu naturale che tali ceti applaudissero calorosamente ed appoggiassero
le instaurazioni delle dittature che toglievano le armi legali di mano ai loro
avversari.
D'altra
parte la formazione di giganteschi complessi industriali e bancari e di sindacati
riunenti sotto un'unica direzione interi eserciti di lavoratori, sindacati e
complessi che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai
loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo stato stesso in tante
baronie economiche in acerba lotta tra loro.
Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi
gruppi si valevano per meglio sfruttare l'intera collettività, perdevano sempre
più il loro prestigio, e così si
diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, abolendo la
libertà popolare, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi
che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a contenere.
Di fatto poi i regimi totalitari
hanno consolidato in complesso la posizione delle varie categorie sociali nei
punti volta a volta raggiunti, ed hanno precluso, col controllo poliziesco di
tutta la vita dei cittadini e con la violenta eliminazione dei dissenzienti,
ogni possibilità legale di correzione dello stato di cose vigente. Si è così assicurata l'esistenza del ceto
assolutamente parassitario dei proprietari terrieri assenteisti, e dei
redditieri che contribuiscono alla produzione sociale solo col tagliare le
cedole dei loro titoli, dei ceti monopolistici e delle società a catena che
sfruttano i consumatori e fanno volatilizzare i denari dei piccoli
risparmiatori, dei plutocrati, che, nascosti dietro le quinte, tirano i fili
degli uomini politici, per dirigere tutta la macchina dello stato a proprio
esclusivo vantaggio, sotto l'apparenza del perseguimento dei superiori
interessi nazionali. Sono conservate
le colossali fortune di pochi e la miseria delle grandi masse, escluse
dalle possibilità di godere i frutti delle moderna cultura. E' salvato, nelle
sue linee sostanziali, un regime
economico in cui le risorse materiali e le forze di lavoro, che dovrebbero
essere rivolte a soddisfare i bisogni fondamentali per lo sviluppo delle
energie vitali umane, vengono invece indirizzate alla soddisfazione dei
desideri più futili di coloro che sono in
grado di pagare i prezzi più alti; un
regime economico in cui, col diritto di successione, la potenza del denaro si
perpetua nello stesso ceto, trasformandosi in un privilegio senza alcuna
corrispondenza al valore sociale dei servizi effettivamente prestati, e il
campo delle alternative ai proletari resta così ridotto che per vivere sono
costretti a lasciarsi sfruttare da chi offra loro una qualsiasi possibilità
d'impiego.
Per tenere immobilizzate e sottomesse le
classi operaie, i sindacati sono stati trasformati, da liberi organismi di
lotta, diretti da individui che godevano la fiducia degli associati, in organi
di sorveglianza poliziesca, sotto la direzione di impiegati scelti dal gruppo
governante e ad esso solo responsabili.
Se qualche correzione viene fatta a un tale regime economico, è sempre solo
dettata dalle esigenze del militarismo, che hanno confluito con le
reazionarie aspirazioni dei ceti privilegiati nel far sorgere e consolidare gli
stati totalitari.
******************************************
Uno dei principali scogli da affrontare e
superare nell’affrontare i problemi dell’umanità contemporanea con animo
religioso, per fare nelle società il lavoro che ci si aspetta dai laici, è
quello del considerare il mondo che c’è intorno prevalentemente sotto il
profilo degli individui che lo compongono, non dei gruppi. Questo ostacola la
critica sociale che è al fondo di ogni riforma. La troviamo, ad esempio, molto
forte nell’enciclica Laudato si’,
diffusa lo scorso anno; più forte di come mai è stata prima. E lo è per una sua
particolarità che la distingue da tutti gli altri documenti del genere che sono
stati diffusi in passato: di fronte ad una società che non va bene, illumina movimenti che vi si oppongono; questo il
senso delle numerose citazioni di documenti di conferenze di vescovi di tutto
il mondo. E si propone di suscitare un moto
popolare che sostenga un cambiamento
radicale, un nuovo modello di sviluppo.
[dall’enciclica
Laudato si’, del 2015, n.13 e 14 “Il
mio appello”]
La sfida urgente di
proteggere la nostra casa comune
comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di
ogni sviluppo sostenibile e integrale, perché sappiamo che le cose possono
cambiare. […] L’umanità ha ancora la capacità di
collaborare per costruire la nostra casa comune […] Rivolgo un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo
costruendo il futuro del pianeta. Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca
tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci
riguardano e ci toccano tutti. Il movimento ecologico mondiale ha già percorso
un lungo e ricco cammino, e ha dato vita a
numerose aggregazioni di cittadini che hanno favorito una presa di coscienza.
L’ecologia
di cui si tratta nell’enciclica
menzionata è molto distante dal senso che le si attribuisce nella società
intorno a noi, come un’azione per preservare gli ambienti naturali dall’azione
distruttrice e inquinatrice delle attività umani, in particolare
dell’espansione urbanistica e dell’industrializzazione. Essa comprende infatti
anche la stessa umanità e, proponendosi un’ecologia
umana, quindi uno sviluppo
sostenibile, essa è essenzialmente politica,
e i movimenti a cui si accenna in quel documento sono politici. Se leggiamo con attenzione la Laudato si’ vi cogliamo
l’eco della critica sociale che troviamo anche nel Manifesto di Ventotene, anche se espressa con terminologia inusuale
nel gergo politico consueto.
[Dall’enciclica
Laudato si’, n.139]
Quando parliamo di “ambiente”
facciamo riferimento anche a una particolare relazione: quella tra la natura e
la società che la abita. Questo ci
impedisce di considerare la natura come
qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo
inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati. Le ragioni per le
quali un luogo viene inquinato richiedono
un’analisi del funzionamento della società, delle sua economia, del suo
comportamento, dei suoi modi di comprendere la realtà. Data l’ampiezza dei cambiamenti,
non è più possibile trovare una risposta specifica e indipendente per ogni
singola parte del problema. E’ fondamentale cercare soluzioni integrali che
considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi
sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale,
bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la
soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per
restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura
della natura.
Il Manifesto
di Ventotene e la Laudato si’ presentano significative assonanze, che le
manifestano come parte di un unico movimento
di critica sociale.
Segnalo ad esempio:
[dall’enciclica
Laudato si’]
203. Dal momento che il mercato tende a creare
un meccanismo consumistico compulsivo per piazzare i suoi prodotti, le persone
finiscono con l’essere travolte dal vortice degli acquisti e delle spese
superflue. Il consumismo ossessivo è il riflesso soggettivo del paradigma
tecno-economico.
[dal
Manifesto di Ventotene, nel brano sopra citato]
E' salvato, nelle sue
linee sostanziali, un regime economico in cui le risorse materiali e le forze
di lavoro, che dovrebbero essere rivolte a soddisfare i bisogni fondamentali
per lo sviluppo delle energie vitali umane, vengono invece indirizzate alla
soddisfazione dei desideri più futili di coloro che sono in grado di pagare i
prezzi più alti.
La politicità del magistero
sociale del Papa è ciò che lo rende veramente capace di indurre il cambiamento
che serve per fronteggiare i problemi dell’umanità contemporanea, non
limitandosi all’appello moralistico ai governanti
che si ritrova nella gran parte
della letteratura del genere, ma sollecitando all’aggregazione sociale per
cambiare le cose. Questo poi comporta che l’azione per il cambiamento sia
realisticamente concepita anche come lotta
tra formazioni sociali.
55. A poco a poco alcuni Paesi possono mostrare
progressi importanti, lo sviluppo di controlli più efficienti e una lotta più sincera contro la corruzione.
59. […] Se guardiamo in modo superficiale, al di
là di alcuni segni visibili di inquinamento e di degrado, sembra che le cose
non siano tanto gravi e che il pianeta potrebbe rimanere per molto tempo nelle
condizioni attuali. Questo comportamento evasivo ci serve per mantenere i
nostri stili di vita, di produzione e di consumo. E’ il modo in cui l’essere umano si arrangia per alimentare tutti i
vizi autodistruttivi: cercando di non vederli, lottando per non riconoscerli, rimandando
le decisioni importanti, facendo come se nulla fosse.
91. Non può essere autentico un sentimento di
intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel
cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani. È evidente l’incoerenza di chi lotta
contro il traffico di animali a rischio di estinzione, ma rimane del tutto
indifferente davanti alla tratta di persone, si disinteressa dei poveri, o è
determinato a distruggere un altro essere umano che non gli è gradito. Ciò mette a rischio il senso della lotta
per l’ambiente.
207. La Carta della Terra [Carta della Terra, L’Aja (29 giugno 2000)] ci chiamava tutti a lasciarci alle spalle
una fase di autodistruzione e a cominciare di nuovo, ma non abbiamo ancora sviluppato
una coscienza universale che lo renda possibile. Per questo oso proporre
nuovamente quella preziosa sfida: «Come mai prima d’ora nella storia, il
destino comune ci obbliga a cercare un nuovo inizio […]. Possa la nostra epoca essere ricordata per il risveglio di una nuova
riverenza per la vita, per la risolutezza nel raggiungere la sostenibilità, per
l’accelerazione della lotta per la giustizia e la pace, e per la gioiosa
celebrazione della vita».
Nei Paesi che dovrebbero produrre i maggiori
cambiamenti di abitudini di consumo, i giovani hanno una nuova sensibilità
ecologica e uno spirito generoso, e alcuni di loro lottano in modo ammirevole
per la difesa dell’ambiente, ma sono cresciuti in un contesto di altissimo
consumo e di benessere che rende difficile la maturazione di altre abitudini.
Per questo ci troviamo davanti ad una sfida educativa.
209. […]
Tocca i cuori
di quanti cercano solo vantaggi
a spese dei poveri e della terra.
Insegnaci a scoprire il valore di ogni cosa,
a contemplare con stupore,
a riconoscere che siamo profondamente uniti
con tutte le creature
nel nostro cammino verso la tua luce infinita.
Grazie perché sei con noi tutti i giorni.
Sostienici, per favore, nella nostra lotta
per la giustizia, l’amore e la pace.
La politicità del magistero sociale del
Papa è ciò che fa di Jorge Mario Bergoglio uno dei papi più diffamati
dai suoi stessi fedeli: un fenomeno impressionante e non solo sul WEB dove i
discorsi in libertà sono la normalità. Tra i primi e violenti critici del suo
pensiero vi sono stati settori importanti della politica e dell’economia
statunitense, quelli stessi che hanno appoggiato l’ascesa politica del nuovo
presidente statunitense Donald Trump. E, in effetti, gli Stati Uniti d’America,
insieme alle potenze economiche asiatiche, in particolare la Cina continentale,
il Giappone e la Corea del Sud sono al centro del modello di sviluppo criticato
nella Laudato si’. Data
l’organizzazione globale, vale a dire
in un sistema di relazioni che lega tutto il mondo, dell’economia
contemporanea, la critica sociale del magistero sociale del Papa riguarda anche
quei potenti sistemi politico-economici. E vediamo anche che le opinioni
politiche del nuovo presidente statunitense sono particolarmente critiche verso
il processo di unificazione europea e, in particolare, verso le nuove
istituzioni europee dell’Unione Europea, di cui Trump, in dichiarazioni di
qualche giorno fa, ha sostanzialmente auspicato la dissoluzione.
Spesso l’idea di pace e di pacificazione che la dottrina sociale ha manifestato è
apparsa con un senso di compromesso in cui, per amore di pace, le masse di chi stava peggio erano invitate ad
accettare serenamente la loro condizione e ad accettare i miglioramenti che le
classi dominanti, una minoranza, erano
disposte a elargire, a patto di non toccare la loro posizione di egemonia
sociali. Quindi: maggioranze che dovevano sottomettersi a minoranze, l’opposto
dei processi democratici.
[dall’enciclica
Le novità, del 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci,
regnante in religione come Leone 13°]
1 - Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso
14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si
deve sopportare la condizione propria dell'umanità: togliere dal mondo le
disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma
ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande
varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso
ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da
queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni
sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio,
perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e
l'impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la
disparità dello stato. Quanto al lavoro, l'uomo nello stato medesimo
d'innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora
avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell'animo, lo impose poi,
ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo
quell'oracolo divino: Sia
maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni
della tua vita (Gen 3,17). Similmente il dolore non mancherà mai
sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree
conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l'uomo fino
alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell'uomo; e qualunque cosa
si faccia e si tenti, non v'è forza né arte che possa togliere del tutto le
sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle
misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto,
illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi
di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel
medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali.
[…]
16. Innanzi tutto, l'insegnamento cristiano, di
cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in
accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i
mutui doveri incominciando da quello imposto dalla giustizia. Obblighi di
giustizia, quanto al proletario e all'operaio, sono questi: prestare
interamente e fedelmente l'opera che liberamente e secondo equità fu pattuita;
non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa
stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in
ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose grandi,
senza altro frutto che quello di inutili pentimenti e di perdite rovinose. E
questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai
schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana, nobilitata dal
carattere cristiano.
Ma la
storia insegna che ogni conquista sociale dell’umanità, in particolare ogni
progresso verso l’estensione del benessere verso le masse che stanno peggio,
non si è raggiunta se non a seguito di una lotta
sociale, vale a dire su uno scontro politico tra gruppi sociali, che
in democrazia si fa in modo non violento, ma si fa e si deve fare, pena non
progredire o addirittura regredire.
La
politica, l’azione per il governo e la trasformazione della società, ha anche
un valore religioso, insegna oggi la dottrina sociale ed è dovere anche
religioso del laico di fede impegnarsi nell’azione politica. Ma nella
formazione religiosa la politica in genere non c’è. Da quando bisognerebbe cominciare?
Da molto presto, fin dal primo catechismo, da quando la persona comincia a
vivere in società e comincia a soffrirne o a ricavarne vantaggi. E’
un’esperienza che si fa fin da piccoli e gli psicologi dell’infanzia ci
raccontano delle tremende sofferenze che si possono vivere nelle società dei
bambini, che a volte ci appaiono sfacciatamente crudeli: è un’esperienza che,
del resto, tutti fanno, da vittime o da persecutori o da semplici spettatori.
Ma il discorso andrebbe molto approfondito con il maturare della persona e
soprattutto con le acquisizioni culturali scolastiche, che mettono in grado di
capire discorsi più complessi su come vanno le cose del mondo e soprattutto
creano una consapevolezza storica. In un movimento
democratico per la riforma della
società, tutti sono riformatori e la critica sociale che è al fondo di ogni progetto di riforma parte
dall’osservazione della società e dalla consapevolezza della sua storia. Lo fa
anche Bergoglio, all’inizio della Laudato
sì, nel capitolo che appunto si intitola Quello che sta accadendo alla nostra casa. Si tratta di un’attività
di formazione che non sempre rientra nella capacità dei preti, perché non
sempre rientra nella loro stessa formazione. E questo nonostante che nella
storia recente delle nostre collettività religiose ci sono stati preti maestri
in questo campo e cito ad esempio Romolo Murri, Luigi Sturzo, Primo Mazzolari,
Lorenzo Milani, Ernesto Balducci, Gianni Baget Bozzo e molti altri: preti con
un forte impegno civile che li spingeva alla politica. Un tempo questo era
considerato sconveniente e addirittura osteggiato e punito. Tutti i preti che
ho sopra citato hanno infatti avuto problemi disciplinari. Ai tempi di papa
Francesco la situazione è diversa. Bisognerebbe cogliere l’occasione, ma serve
innanzi tutto un più forte impegno laicale, perché la politica è uno dei campi
privilegiati dell’azione laicale. E, per cominciare, occorrerebbe programmare
occasioni sistematiche di incontro. L’ideale sarebbe farle in un locale con
molti libri e una connessione internet, che sono finestre sul mondo e sulla
storia. Non si cambia il mondo da incolti.
20.
Francesco e il trumpismo
Dal Messaggio per la 50° Giornata
mondiale per la pace 2017 di papa
Francesco
Nelle situazioni di
conflitto facciamo della nonviolenza attiva il nostro stile di vita.
Il beato Papa Paolo VI si
rivolse a tutti i popoli, non solo ai cattolici, con parole inequivocabili: «E’
finalmente emerso chiarissimo che la pace è l’unica e vera linea
dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non
le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile)».
Metteva in guardia dal «pericolo di credere che le controversie internazionali
non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate
sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti
e micidiali». Al contrario, citando la Pacem in terris del
suo predecessore san Giovanni XXIII, esaltava «il
senso e l’amore della pace fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla
libertà, sull’amore».
Desidero soffermarmi
sulla nonviolenza come stile di una politica di pace.
Dal livello locale e quotidiano fino
a quello dell’ordine mondiale, possa la nonviolenza diventare lo stile
caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre
azioni, della politica in tutte le sue forme.
Un mondo frantumato
Non è facile sapere se il mondo attualmente
sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i moderni mezzi di
comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più
consapevoli della violenza o più assuefatti ad essa. In ogni caso, questa
violenza che si esercita “a pezzi”, in modi e a livelli diversi, provoca enormi
sofferenze di cui siamo ben consapevoli.
La violenza non è la cura per il nostro
mondo frantumato.
Come ha affermato il mio
predecessore Benedetto XVI –
«nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia,
e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di
più di amore, un di più di bontà. [La
nonviolenza] «non consiste nell’arrendersi al male[…] ma nel rispondere al
male con il bene (cfr Rm 12,17-21), spezzando in tal modo la
catena dell’ingiustizia».
Più potente della violenza
4. La nonviolenza è talvolta intesa
nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è così.
La nonviolenza praticata con decisione e
coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma
Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin
Luther King Jr contro la discriminazione razziale non saranno mai dimenticati.
Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio,
Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di
preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto
livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia.
Né possiamo dimenticare il decennio epocale
conclusosi con la caduta dei regimi comunisti in Europa. Le comunità cristiane
hanno dato il loro contributo con la preghiera insistente e l’azione
coraggiosa. Speciale influenza hanno esercitato il ministero e il magistero di
san Giovanni Paolo II.
Riflettendo sugli avvenimenti del 1989 nell’Enciclica Centesimus annus (1991),
il mio predecessore evidenziava che un cambiamento epocale nella vita
dei popoli, delle nazioni e degli Stati si realizza «mediante una lotta
pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia».Questo
percorso di transizione politica verso la pace è stato reso possibile in parte
«dall’impegno non violento di uomini che, mentre si sono sempre rifiutati di
cedere al potere della forza, hanno saputo trovare di volta in volta forme
efficaci per rendere testimonianza alla verità». E concludeva: «Che gli
uomini imparino a lottare per la giustizia senza violenza, rinunciando alla
lotta di classe nelle controversie interne ed alla guerra in quelle
internazionali».
La Chiesa si è impegnata per l’attuazione di
strategie nonviolente di promozione della pace in molti Paesi, sollecitando persino gli attori più
violenti in sforzi per costruire una pace giusta e duratura.
Questo impegno a favore delle vittime
dell’ingiustizia e della violenza non è un patrimonio esclusivo della Chiesa
Cattolica, ma è proprio di
molte tradizioni religiose, per le quali «la compassione e la nonviolenza sono
essenziali e indicano la via della vita». Lo ribadisco con forza: «Nessuna
religione è terrorista».La violenza è una profanazione del nome di Dio.
Non stanchiamoci mai di ripeterlo: «Mai il nome di Dio può giustificare
la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!»
Se l’origine da cui scaturisce la
violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il
sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia.
Un’etica di fraternità e di coesistenza
pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla logica della
paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul
rispetto e sul dialogo sincero.In questo senso, rivolgo un appello in favore
del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la
deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non
possono fondare questo tipo di etica Con uguale urgenza supplico che si
arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambi
invito
6. La costruzione della pace mediante
la nonviolenza attiva è elemento necessario e coerente con i continui sforzi
della Chiesa per limitare l’uso della forza attraverso le norme morali,
mediante la sua partecipazione ai lavori delle istituzioni internazionali e
grazie al contributo competente di tanti cristiani all’elaborazione della
legislazione a tutti i livelli. Gesù stesso ci offre un “manuale” di questa
strategia di costruzione della pace nel cosiddetto Discorso della montagna. Le
otto Beatitudini (cfr Mt 5,3-10) tracciano il profilo della
persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice
Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che
hanno fame e sete di giustizia.
Questo è anche un programma e una
sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni
internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo: applicare
le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità. Una
sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono responsabili
con lo stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia rifiutando
di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo.
Questo richiede la disponibilità «di sopportare il conflitto, risolverlo e
trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo». Operare
in questo modo significa scegliere la solidarietà come stile per fare la storia
e costruire l’amicizia sociale. La nonviolenza attiva è un modo per mostrare
che davvero l’unità è più potente e più feconda del conflitto.
La Chiesa Cattolica accompagnerà ogni
tentativo di costruzione della pace anche attraverso la nonviolenza attiva e
creativa. Il 1° gennaio 2017 vede la luce il nuovo Dicastero per il Servizio
dello Sviluppo Umano Integrale, che aiuterà la Chiesa a promuovere in modo
sempre più efficace «i beni incommensurabili della giustizia, della pace e
della salvaguardia del creato» e della sollecitudine verso i migranti, «i
bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei
conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le
vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura». Ogni azione in questa
direzione, per quanto modesta, contribuisce a costruire un mondo libero.
Nel 2017, impegniamoci, con la preghiera e con
l’azione, a diventare persone che hanno bandito dal loro cuore, dalle loro
parole e dai loro gesti la violenza, e a costruire comunità nonviolente, che si
prendono cura della casa comune.
******************
Papa Francesco richiamando l’idea
di nonviolenza (scritta tutta attaccata o con il
trattino di congiunzione, non-violenza) ha evocato
espressamente il messaggio politico del leader indiano Mohandas Karamchand Gandhi
(1869-1945), liberatore dell’India dal dominio europeo, che nel Messaggio
per la giornata della pace 2017 è menzionato espressamente.
In ambito cattolico di
Gandhi spesso si fa una specie di santino: egli fu, in realtà, un
agitatore politico, un rivoluzionario. Non fuggiva i conflitti, ma vi si
cacciava dentro, li affrontava. Egli combatteva e incitava a combattere
mediante la nonviolenza, che in primo luogo si attuava nella pervicace
disobbedienza di massa alle leggi ingiuste sopportando la reazione violenta del
potere senza opporre altra violenza, in secondo luogo nella non-menzogna,
l’impegno a non esercitare un dominio ingiusto mentendo alla gente e, infine,
con un diverso stile di vita da consumatori, quindi da attori del mercato, in
particolare del mercato globale della sua epoca, rifiutando di acquistare
prodotti che avessero dentro ingiustizia e sofferenza umana. Questo suo impegno
lo portò ripetutamente in carcere.
Era un agitatore
sociale, un rivoluzionario, anche Martin Luther King, anch’egli evocato
nel Messaggio. Anche King finì ripetutamente in carcere.
In linea con l’appello
fortissimo all’azione politica di massa contenuto nell’enciclica Laudato
si’ Francesco - Bergoglio guida la Chiesa a porsi di traverso,
in una posizione fortemente conflittuale, con l’ideologia globale
dell’ingiustizia sociale, fondando a tal fine anche un nuovo ministero
nella sua Curia.
Nel solco della lezione
gandhiana ci spinge a organizzarci in movimento contro la cultura dell’egoismo
nazionalistico, dello scarto dei perdenti e dello spreco senza curarsi delle
conseguenze sull’ambiente naturale: in una parola, contro il trumpismo,
l’ideologia politica manifestata in campagna elettorale da nuovo presidente
statunitense. Nella linea del gandhismo Francesco ci incita a non arrenderci al
male, a rifiutare atteggiamento di passività e di resa, a non rifiutare il
conflitto, ma a combattere in modo nonviolento per impedire la degenerazione
del mondo.
Si tratta di un
impegno tutto da costruire, perché la pesante eredità culturale del compromesso
con il fascismo storico italiano, con la conseguente pervasiva integrazione tra
religione e ideologia mussoliniana, ha portato storicamente le collettività di
fede italiane in altra direzione, verso una visione corporativa della
risoluzione dei conflitti sociali, in cui, fatalmente, le masse di chi sta
peggio soccombono alle pretese di dominio delle oligarchie che controllano
l’economia e quindi la società e la politica.
Il conflitto con
il trumpismo si prospetta tremendo, tragico, ma
inevitabile, in una visione religiosa dei fatti sociali che prende come
riferimento le Beatitudini, perché, sorretto da quella che è
ancora la maggiore potenza militare del mondo, colpirà duramente le masse dei
popoli che hanno avuto la peggio nel nuovo ordine economico globalizzato del
quale gli Stati Uniti d’America e le potenze economiche dell’Asia sono stati
protagonisti, ma secondo una cultura marcatamente statunitense.
Significherà anche mettersi di traverso rispetto ai processi bellici che si
intuiscono dietro i risorgenti nazionalismi. E difendere l’umanesimo europeista
dall’assalto populista che vuole dissolvere la nostra nuova Europa, attualmente
ancora la più grande potenza politica di pace del mondo. “Bisogna pregare”, ha detto un politico italiano a chi gli chiedeva
come vedesse il futuro del mondo nell’era del trumpismo, ma l’appello di Francesco chiede molto di più di questo.
E’ una nuova cultura politica che si tratta di costruire.
21. Critica e autocritica sociale, dialogo
[Dal Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto
Rossi ed Eugenio Colorni]
3.Contro il dogmatismo
autoritario si è affermato il valore permanente dello spirito critico. Tutto
quello che veniva asserito doveva dare ragione di sé o scomparire. Alla
metodicità di questo spregiudicato atteggiamento sono dovute le maggiori
conquiste della nostra società in ogni campo.
Ma questa
libertà spirituale non ha resistito alla crisi che ha fatto sorgere gli stati
totalitari. Nuovi dogmi da accettare per fede o da accettare ipocritamente,
si stanno accampando in tutte le scienze. Quantunque nessuno sappia che cosa
sia una razza e le più elementari nozioni storiche ne facciano risultare
l'assurdità, si esige dai fisiologi di credere di mostrare e convincere che si
appartiene ad una razza eletta, solo perché l'imperialismo ha bisogno di questo
mito per esaltare nelle masse l'odio e l'orgoglio. I più evidenti concetti
della scienza economica debbono essere considerati anatema per presentare la
politica autarchica, gli scambi bilanciati e gli altri ferravecchi del
mercantilismo, come straordinarie scoperte dei nostri tempi. A causa della interdipendenza economica di
tutte le parti del mondo, spazio vitale per ogni popolo che voglia conservare
il livello di vita corrispondente alla civiltà moderna, è tutto il globo; ma si
è creata la pseudo scienza della geopolitica che vuol dimostrare la consistenza
della teoria degli spazi vitali, per dare veste teorica alla volontà di
sopraffazione dell'imperialismo. La
storia viene falsificata nei suoi dati essenziali, nell'interesse della classe
governante. Le biblioteche e le librerie vengono purificate di tutte le opere
non considerate ortodosse. Le tenebre dell'oscurantismo di nuovo minacciano di
soffocare lo spirito umano.
La
stessa etica sociale della libertà e dell'uguaglianza è scalzata. Gli uomini
non sono più considerati cittadini liberi, che si valgono dello stato per
meglio raggiungere i loro fini collettivi. Sono servitori dello stato che
stabilisce quali debbono essere i loro fini, e come volontà dello stato viene
senz'altro assunta la volontà di coloro che detengono il potere. Gli uomini non sono più soggetti di
diritto, ma gerarchicamente disposti, sono tenuti ad ubbidire senza discutere
alle gerarchie superiori che culminano in un capo debitamente divinizzato.
Il regime delle caste rinasce prepotente dalle sue stesse ceneri.
Questa
reazionaria civiltà totalitaria, dopo aver trionfato in una serie di paesi, ha
infine trovato nella Germania nazista la potenza che si è ritenuta capace di
trarne le ultime conseguenze. Dopo una meticolosa preparazione, approfittando
con audacia e senza scrupoli delle rivalità, degli egoismi, della stupidità
altrui, trascinando al suo seguito altri stati vassalli europei - primo fra i
quali l'Italia - alleandosi col Giappone che persegue fini identici in Asia
essa si è lanciata nell'opera di sopraffazione.
La sua vittoria significherebbe
il definitivo consolidamento del totalitarismo nel mondo. Tutte le sue
caratteristiche sarebbero esasperate al massimo, e le forze progressive
sarebbero condannate per lungo tempo ad una semplice opposizione negativa.
La tradizionale arroganza e
intransigenza dei ceti militari tedeschi può già darci un'idea di quel che
sarebbe il carattere del loro dominio dopo una guerra vittoriosa. I tedeschi
vittoriosi potrebbero anche permettersi una lustra di generosità verso gli
altri popoli europei, rispettare formalmente i loro territori e le loro
istituzioni politiche, per governare così
soddisfacendo lo stupido sentimento
patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli
uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle
forze ed al contenuto effettivo degli organismi dello stato. Comunque
camuffata, la realtà sarebbe sempre la stessa: una rinnovata divisione
dell'umanità in Spartiati ed Iloti [nell’antica città greca di Sparta,
erano schiavi di proprietà dello stato].
Anche
una soluzione di compromesso tra le parti ora in lotta significherebbe un
ulteriore passo innanzi del totalitarismo, poiché tutti i paesi che fossero
sfuggiti alla stretta della Germania sarebbero costretti ad accettare le sue
stesse forme di organizzazione politica, per prepararsi adeguatamente alla
ripresa della guerra.
Ma la Germania hitleriana, se ha potuto abbattere ad uno ad uno gli stati
minori, con la sua azione ha costretto forze sempre più potenti a scendere in
lizza. La coraggiosa combattività della Gran Bretagna, anche nel momento
più critico in cui era rimasta sola a tener testa al nemico, ha fatto si che i
Tedeschi siano andati a cozzare contro la strenua resistenza dell'esercito
sovietico, ed ha dato tempo all'America di avviare la mobilitazione delle sue
sterminate forze produttive. E questa lotta contro l'imperialismo tedesco si è
strettamente connessa con quella che il popolo cinese va conducendo contro
l'imperialismo giapponese.
******************************************************************
I processi democratici, che cercano di
realizzare la compartecipazione alle decisione di governo delle masse,
richiedono capacità critica e di autocritica, vale a dire di rendersi conto del
corso degli eventi storici, delle cause dei mali sociali e della propria
corresponsabilità nel provocarli. A questo appunto serve il dialogo, che non va inteso solo come un parlare insieme, né solo come un parlare e ascoltare
(che è già di più), ma come uno sforzo per capire le ragioni degli altri cercando di costruire relazioni. Questo
metodo è richiamato nel Messaggio per la
50° Giornata della pace diffuso nel
dicembre scorso da papa Francesco, citando un brano della sua esortazione
apostolica La gioia del Vangelo, del
2013:
227. Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente
lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter
continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne
rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le
proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato,
di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto,
risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo.
«Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9).
Non vi è
vero dialogo se non c’è questo spirito di voler tentare di creare anelli di collegamento tra gli esseri umani, come singoli e nei
gruppi che danno senso alla loro vita, quelli che un filone della sociologica
definisce mondi vitali.
Ma su che cosa dialogare innanzitutto? Per
un laico di fede si dovrebbe sempre partire da come va il mondo intorno, a partire dalle realtà più prossime,
nelle quali si è immersi appena sceso l’ultimo gradino del sagrato. E bisognerebbe cominciare con il tentare di capirle bene: questo riesce meglio nel dialogo, perché si tiene conto di
diversi punti di vista, che fanno superare le limitazioni individuali. Lo ha
spiegato la filosofa Hanna Arendt (1906-1975):
[da: Hannah Arendt, Che cos’è la politica, Einaudi, 2006]
Nessuno senza compagni può comprendere
adeguatamente nella sua piena realtà tutto ciò che è obiettivo, in quanto gli
si mostra e gli si rivela sempre in un’unica prospettiva, conforme e intrinseca
alla sua posizione nel mondo. Se si vuole vedere ed esperire il mondo così come
è realmente si può farlo solo considerando una cosa che è comune a molti, che
sta tra loro, che li separa e unisce, che si mostra a ognuno in modo diverso, e
dunque diventa comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e
confrontano le loro opinioni e prospettive. Solo nella libertà di dialogare il
mondo appare quello di cui si parla, nella sua obiettività visibile da ogni
lato”.
Se si procede in
questo modo, dal piccolo al grande, dal proprio condominio al proprio
quartiere, da quest’ultimo alla città e poi alla nazione, al continente, al
mondo, ci si accorge facilmente di ciò di cui scrissero molto tempo fa, nel
1941, in piena Seconda guerra mondiale, dall’isola di Ventotene dove erano confinati, costretti a rimanervi con
moltissime limitazioni alla possibilità di relazioni con la poca gente intorno,
Spinelli, Rossi e Colorni: “A causa della interdipendenza economica di tutte le parti del
mondo, spazio vitale per ogni popolo che voglia conservare il livello di vita
corrispondente alla civiltà moderna, è tutto il globo”. E’ anche ciò che ha scritto anche il nostro
vescovo e padre universale nell’enciclica Laudato
si’. Se globali sono i problemi, e
lo sono perché la sopravvivenza dell’umanità, oggi molto più che negli anni ’40
del secolo scorso, dipende da relazioni a livello mondiale, anche le soluzioni
devono essere globali. Ma è ciò che i risorgenti nazionalismi europei, come
anche il neo-nazionalismo statunitense (una cultura che così come appare
nel pensiero politico del nuovo presidente statunitense non c’è mai stata nella
storia degli Stati Uniti d’America), vogliono dimenticare, pensando, illudendosi, come già i fascismi europei
degli anni tra le due Guerre mondiali, che la soluzione sia chiudersi nei propri spazi
vitali, lasciando fuori il resto del mondo con i suoi problemi.
Nel Manifesto di Ventotene, così come nell’enciclica Laudato si’, c’era anche l’autocritica
sociale. L’Italia fu maestra e parte attiva dei totalitarismi fascisti che trasformarono
l’Europa Centro-Occidentale in una prigione, fino alla loro tragica caduta, nel
1945. In questo quadro si produsse quella profonda contaminazione tra cultura
religiosa e cultura fascista che ancora oggi si avverte distintamente tra noi,
come una sorta di rumore di fondo:
essa è all’origine della profonda avversione verso Jorge Mario Bergoglio e il
suo pensiero sociale, la sua dottrina
sociale, di ampi
settori delle nostre collettività di fede, così come di un’analoga avversione
dei medesi ambienti verso la cultura europeista e le istituzioni della nostra
nuova Europa unita.
“Lo stupido sentimento
patriottico che guarda ai colori dei pali di confine”, si legge nel Manifesto di Ventotene. Perché “stupido”? Perché non riesce, o peggio non vuole, vedere ciò che è
evidente, vale a dire che è tutta una civiltà basata su un’organizzazione dello
sviluppo economico concepito secondo la legge della giungla, secondo cui i più
forti ammazzano i più deboli, che, entrando in crisi, ci peggiora l’esistenza
di sulla soglia di casa e anche dentro.
Il dialogo per capire la realtà come veramente
è dovrebbe essere di casa nelle parrocchie, in particolare nella formazione dei
laici di fede. Ma in genere non si riesce a praticarlo e, soprattutto, a
insegnarlo. Così la nostra gente, anche i più giovani, ha un’idea troppo vaga e
imprecisa della realtà. Non viene abituata a capirla per incidervi con
un’efficace azione sociale. Ci si limita ad un po’ di storia sacra, ma prevalentemente a fini apologetici, per farci sentire
i migliori di tutti, per diritto
divino per così dire, senza
verificare questa convinzione. E’ quello che si è fatto, per la generalità
delle persone religiose, per la gran
parte della storia delle nostre collettività di fede: è a partire dalla metà
del secolo scorso che si è prodotto, anche tra noi, la convinzione che
bisognasse cambiare, ciò che però si è affermato ufficialmente, con decisione d’autorità, solo negli scorsi anni
’60, durante il Concilio Vaticano 2°.
Per capire la realtà come veramente è non
basta chiacchierarci sopra sulla base delle proprie estemporanee espressioni, e
non bastano nemmeno solo i quotidiani, anche se tenendone conto si è già un bel
pezzo avanti, servono libri, dove
troviamo un pensiero sistematico,
concentrato, potente. “Le biblioteche e le librerie vengono purificate
di tutte le opere non considerate ortodosse.”, scrissero gli autori del Manifesto di Ventotene, e si riferivano ai roghi di libri accaduti
nella Germania nazista, ma anche in Italia nel corso degli assalti alle sedi
dei giornali, a quelle di partito, alle Case
del popolo, e anche alle sedi della nostra Azione Cattolica, ma più in
generale all’insofferenza dei totalitarismi fascisti (ma in generale di tutti i totalitarismi) verso la potenza del pensiero
che scaturisce dalle raccolte di libri. E penso alla nostra biblioteca
parrocchiale che, nel nuovo corso inaugurato un anno e mezzo fa, non si è più
trovata, e non se ne sono avute spiegazioni del perché, probabilmente
sacrificata a bisogni ritenuti più urgenti e importanti.
Perché un libro
costituisce una base di partenza del dialogo, è qualcosa che, come scrisse la
filosofa Hannah Arendt, insieme unisce e divide, ma che, in definitiva, dopo
averlo condiviso, unisce. E’ così che si cominciano a creare anelli di collegamento. Questa è anche un via verso la libertà, e la nostra fede vorrebbe esserlo, perché
pensa di essere fondata sulla verità e che la verità
ci renderà liberi. Amen.
22. Una nazione senza frontiere non è una nazione?
“Una nazione senza frontiere non è una
nazione”. L’ha affermato il presidente statunitense Donald Trump, stando a
quello che hanno riportato radio e televisione.
Questa frase è estremamente efficace:
condensa in pochissime parole tutto ciò che l’ideologia dell’europeismo, a
partire dal Manifesto di Ventotene del 1941, di
Spinelli, Rossi e Colorni, ha voluto superare, per creare la pace sul nostro
continente. In particolare l’idea di una nazione definita
da frontiere. E’ possibile che gli Stati Uniti d’America, il più
antico sistema politico della democrazia moderna, non riescano più a
definire sé stessi se non tracciando frontiere? Dimenticando
completamente la cultura dei diritti umani fondamentali che è alla base della
loro fondazione e che hanno insegnato a tutto il mondo? E tra questi il diritto
di essere liberi di cercare la felicità, che sta
scritto nellaDichiarazione di indipendenza statunitense del 1776.
La nostra nuova Europa, quella delle 28
nazioni, con altrettante culture e lingue, un fantastico mosaico di umanità
rispetto all’uniformità statunitense da costa a costa, più o meno
due lingue, spagnolo e angloamericano, e tre culture, quelle della costa
orientale, del centro (la Cintura della Bibbia) e della costa
orientale, è stata costruita puntando all’abolizione delle frontiere, in gran
parte effettivamente realizzata, come di quella, caldissima un tempo, tra
l’Italia e l’Austria. Questo ha portato ad una lunga epoca di pace, mentre,
negli stessi anni, gli Stati Uniti d’America sono stati impegnati in continue
guerre in tutti i continenti: infatti hanno ancora la forza militare più
potente della Terra, ritengono di averne ancora bisogno e addirittura di
doverla aumentare.
“Una nazione non è una nazione senza
frontiere”? E’ un po’ come dire che il valore di un’orchestra sinfonica
dipende dalla sala dove suona.
Osservo infine che l’ideologia politica
del nuovo presidente statunitense appare in rotta di collisione con la dottrina
sociale diffusa da Jorge Mario Bergoglio, anche lui un americano,
benché gli statunitensi quando parlano di americani si
riferiscano solo a loro stessi. “America first”, “l’America
prima di tutto”, significa per loro “Gli Stati Uniti prima di tutto”.
Sembra una novità, ma è ciò che è sempre successo: la politica statunitense è
sempre stata improntata a questo principio, e infatti gli Stati Uniti d’America
sono ancora lo stato più ricco della Terra, e vogliono diventare sempre più
ricchi. Non sono i popoli dell’Asia, per ora molto meno ricchi, ad aver rubato la
ricchezza agliamericani, tanto è vero che negli Stati Uniti d’America ci
sono alcune delle persone più ricche della Terra, come lo stesso presidente
statunitense è. E’ la divisione delle ricchezze prodotte che, come anche in
Europa, ha determinato ineguaglianze per cui nello stato più ricco della Terra
c’è anche molta gente sulla soglia della povertà e anche molto sotto, e molta
gente che a quella soglia si sta avvicinando. Questo in Europa è sentito come
un ordine ingiusto, ma, sembra, non più negli Stati Uniti d’America.
La veloce metamorfosi degli Stati Uniti
d’America in un neo-stato nazionalista, come non sono stati mai
nella loro storia avendo sempre accolto genti da tutto il mondo e avendo
fondato proprio su questo la loro potenza, è potenzialmente tragica, perché
riguarda la massima potenza militare del mondo.
23. Il risorgente
nazionalismo mette in pericolo il mondo
si veda sul
WEB http://www.treccani.it/enciclopedia/unione-europea/
[dal Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto
Rosse ed Eugenio Colorni]
E quando, superando l'orizzonte del vecchio
continente, si abbracci in una visione di insieme tutti i popoli che
costituiscono l'umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione
europea è l'unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e
americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di
un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l'unità politica dell'intero
globo.
La linea di divisione fra i partiti
progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai,
non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o
minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che
separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico,
cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno,
sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la
lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio
stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come
compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che
indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il
potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per
realizzare l'unità internazionale. Con la propaganda e con l'azione,
cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami tra i movimenti
simili che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre fin d'ora
gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per
far sorgere il nuovo organismo, che sarà la creazione più grandiosa e più
innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo stato
federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto
degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina
dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per
fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a
mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l'autonomia che
consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo
le peculiari caratteristiche dei vari popoli.
Se ci sarà nei principali paesi europei un
numero sufficiente di uomini che comprenderanno ciò, la vittoria sarà in breve
nelle loro mani, perché la situazione e gli animi saranno favorevoli alla
loro opera e di fronte avranno partiti e tendenze già tutti squalificati dalla
disastrosa esperienza dell'ultimo ventennio. Poiché sarà l'ora di opere nuove,
sarà anche l'ora di uomini nuovi, del movimento per l'Europa libera e unita!
Da:
<https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/l-ordine-di-trump-uno-schiaffo-alla-solidarieta-internazionale>,
sabato 28-1-17, di Andrea Lavazza, “L’ordine di Trump uno schiaffo alla
solidarietà nazionale
L'ordine
esecutivo con cui il presidente americano Donald Trump blocca l'ingresso ai
cittadini mediorientali di 7 Paesi, ferma per 4 mesi il programma a favore dei
rifugiati, riduce la quota di profughi accolti nell'anno in corso e chiude le
frontiere a tempo indeterminato per i siriani appare come uno schiaffo
alla solidarietà internazionale, alla libera circolazione delle persone e alle
istanze universalistiche cui l'America ha dato un impulso con la sua storia
recente.
[…]
vi sarà un probabile seppure non auspicabile
effetto traino. Se gli Stati Uniti si muovono in questa direzione, molti
politici europei si sentiranno ancor più legittimati nel proporre politiche di
chiusura verso profughi e migranti. Con un crescente favore dell'opinione
pubblica. Il soft power americano che tanto influenza anche la nostra
cultura sembra aver imboccato una strada nuova e rischiosa. Sarà compito
importante riflettere e dibattere su questi sviluppi, figli in taluni casi
anche di una sottovalutazione della portata del fenomeno migratorio e delle sue
conseguenze.
*******************************************************
Due delle
quattro maggiori potenze economiche e militari del mondo, gli Stati Uniti
d’America e la Federazione russa, stanno seguendo politiche neo-nazionaliste. Sono entrambe in fase
militare espansiva, ma con motivazioni molto diverse da quelle dei vecchi
imperi nazionali: nella concezione dei loro capi politici egemoni si
tratterebbe di strategie di difesa nazionale.
Queste le rende molto pericolose, perché, se si pensa di doversi difendere si è pronti a
tutto. Negli Stati Uniti d’America il potere federale è caduto nelle mani
di un uomo molto ricco, la cui figura ha diverse somiglianze con quelle degli oligarchi russi, che cercarono di
controllare l’economia e la politica russa negli anni seguiti alla dissoluzione
del regime sovietico; la Federazione russa è dominata da un ex militare della
polizia politica sovietica che ha prevalso duramente su quegli oligarchi. Il
primo segue un neo-nazionalismo di tipo sostanzialmente economico, il secondo
un nazionalismo di tipo più tradizionale, vicino a quello corrente nell’impero
zarista, fortemente appoggiato dalla Chiesa ortodossa russa. Il leader
americano, che non alcuna precedente esperienza di governo politico e, in
particolare, in campo internazionale, si presenta come un uomo impulsivo, poco
riflessivo e poco disposto a farsi consigliare. E’ solo un atteggiamento, una
specie di proseguimento della campagna elettorale, o è veramente così? Il capo
russo è l’esatto opposto, ha un’importante e lunga esperienza di governo, anche
nelle relazioni internazionali, e ha una squadra di collaboratori che lo
assiste da diversi anni, e ha una formazione militare, dura. E fatale che
l’americano commetta prima o poi qualche grave errore e che il russo cerchi di
approfittarne. I due si conoscono poco e questo aggrava la situazione. Il
politico che al mondo sembra aver avuto le relazioni più intense con Putin è
l’italiano Silvio Berlusconi. L’americano si è paragonato a Berlusconi, ma
quest’ultimo ha espresso delle perplessità in merito: in effetti sono molto
diversi. Ma, soprattutto, anche Berlusconi ha avuto una lunga storia politica e
un’esperienza intensa di relazioni internazionali. Questo ha giovato
all’Italia, qualche anno fa, quando il governo sembrava intenzionato a
intervenire militarmente in Libia, e Berlusconi e Prodi, concordemente quella
volta, lo sconsigliarono. E’ stato osservato che l’americano gira sempre con
appresso i codici di avvio dell’apparato nucleare statunitense: egli è infatti
il comandante in capo della forza militare federale. Le decisioni
che potrebbe prendere sono potenzialmente molto più gravi di quelle che il
governo si trovò a decidere a quell’epoca. Nonostante che l’americano e il
russo sembrino, ora, andare d’accordo, è possibile che sia solo questione di
tempo, mesi, perché si generi una crisi grave come quella Ucraina, che, fra
l’altro, non è neppure risolta. Ma il teatro di conflitto potenzialmente più
grave sarà quello che corre in Asia, appena al largo della Repubblica popolare
di Cina, e questo per le continue provocazioni dell’americano. Un conflitto in
quella zona del mondo, benché agli antipodi dell’Italia, provocherebbe la fine
del mondo come lo conosciamo: quasi tutto ciò che usiamo tutti i giorni viene
prodotto laggiù. Anche la Cina sta diventando nazionalista, in un modo che ha
qualche assonanza con il neo-nazionalismo statunitense: è infatti di tipo
economico più che culturale.
E’ l’Europa,
la quarta grande attrice sulla scena globale?
“La
federazione europea è l'unica garanzia concepibile che i rapporti con popoli
asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione”, si legge nel Manifesto di Ventotene, e
questo, pensavano i sui autro, “in una
visione di insieme di tutti i popoli che costituiscono l'umanità”. Perché?
All’epoca gli autori del Manifesto
pensavano al declino degli imperi coloniali e alla necessità di
ottenere, sulla base di intese europee, una sistemazione pacifica delle
questioni delle ex colonie. Nella situazione storica contemporanea un’Europa
unita molto estesa, a livello quasi continentali, animata a politiche di
collaborazione internazionale al suo interno e quindi di esempio anche verso
l’esterno, potrebbe essere ancora quel campo
di pacificazione tra le altre potenze politiche in rotta di collisione
di cui si avrà sempre più necessità. Ma essa è minacciata dallo stesso morbo
che sta colpendo le altre maggiori potenze mondiali. Ma mentre nel caso di queste
ultime il neonazionalismo tende a compattarle,
in difesa, il medesimo moto politico tende a dissolvere l’Unione
Europea, costituita di tante nazionalità nessuna delle quali viene accettata
come egemone. Essa è sotto attacco da parte del neo-presidente statunitense,
che sembra spingere gli stati membri dell’Unione Europea a distaccarsene,
seguendo l’esempio della Gran Bretagna. Egli ha mostrato di disprezzare
l’Organizzazione delle Nazioni Unite, sulla base di considerazioni piuttosto
superficiali. Non si mostra particolarmente informato dei problemi europei. Né,
a differenza di diversi suoi predecessori, anche della sua stessa fazione
politica, molto preoccupato di preservare la pace mondiale. E’ possibile che
del mondo sappia meno dei suoi predecessori e questo è un grave problema. L’ONU
e l’Unione Europee nascono come potenza di pace e lo sono effettivamente
diventate. Screditandole, il mantenimento della pace viene messo in forse.
Nessuna potenza mondiale, nemmeno gli Stati Uniti d’America, ha la forza di imporre la pace con la minaccia delle armi: essa può
scaturire solo da un ordine internazionale condiviso. In un mondo retto da
relazioni bilaterali, come immaginato
dal neo-presidente statunitense, verrebbe a mancare la rete di protezione che finora ha impedito conflitti caldi tra le maggiori potenze mondiali.
Tre delle maggiori potenze mondiali sono rette da leader nazionalisti e
sono in fase espansiva, in rotta di collisione. E’ quello che serve per far
esplodere un conflitto armato. L’unica grande potenza di pace, legata da
intensi rapporti economici con Stati Uniti, Russia e Cina, rimane la nostra
nuova Europa. Ma fino a quando?
Il movimento europeista è in crisi, minacciato
dai nazionalismi europei risorgenti, che
saranno influenzati e probabilmente rafforzati anche dal nuovo corso
statunitense. “Il soft power americano [la capacità di persuasione esercitata per attrazione] che tanto influenza anche la nostra cultura
sembra aver imboccato una strada nuova e rischiosa.” ha scritto oggi
Lavazza su Avvenire. Ma,
contrariamente a quanto superficialmente gridato dai populismi antieuropeisti,
la nostra nuova Europa non è fatta solo di burocrati, ma di popoli che da
decenni si sono conosciuti molto meglio e soprattutto molto più frequentati. E’
certamente ancora possibile quello che
si proponevano gli autori del Manifesto
di Ventotene, vale a dire gettare le
fondamento di un nuovo movimento europeista e stabilire
in tutti i modi accordi e legami tra i movimenti simili che nei vari paesi si
vanno certamente formando, per
contrastare la fatale evoluzione della storia mondiale verso il conflitto. E’
quello che sostanzialmente ha raccomandato il Papa, nel suo messaggio per la
50° Giornata mondiale della pace. E un movimento simile, per aver l’intensità
umana che occorre, deve iniziare dalle realtà più vicine alle persone, dalla
famiglia, dal condominio, dal quartiere, per estendersi alla città e a
territori sempre più vasti, collegando movimenti con movimenti, superando ogni
frontiera che i neonazionalismi vogliono chiudere e murare, arrivando a tutto il mondo.
[Dal Messaggio per la 50° Giornata
mondiale per la pace]
5. Se l’origine da cui
scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale
percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della
famiglia. È una componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello
scorso marzo nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, a conclusione di due
anni di riflessione da parte della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La
famiglia è l’indispensabile crogiolo attraverso il quale coniugi, genitori e
figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni
degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i
conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il
rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono.
Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si
irradia in tutta la società.
Tante volte, nei miei
sessant’anni di vita, mi è parso che l’ideologia politica che in concreto era
espressa dalla nostra organizzazione religiosa non fosse all’altezza dei grandi
valori di fede proclamati e insegnati. Per una volta la situazione è diversa.
“«La Santa Sede è
preoccupata per il segnale che si dà al mondo» con la costruzione del muro tra
Usa e Messico, voluto da Donald Trump per frenare le migrazioni. E si augura
che gli altri Paesi, anche in Europa,
«non seguano il suo esempio». Lo ha evidenziato al Sir [l’agenzia di stampa Servizio
di informazione religiosa] il cardinale Peter Turkson, presidente del
dicastero per la promozione dello sviluppo umano integrale. «Noi ci auguriamo
che il muro non sia costruito ma conoscendo Trump forse si farà - ha affermato
ancora Turkson -. Non sono solo gli Usa che vogliono costruire i muri
contro i migranti, accade anche in Europa. Mi auguro che non seguano il suo
esempio. Un presidente
può anche costruire un muro ma può arrivare un altro presidente che l'abbatterà»”, leggo su Avvenire di oggi.
La nostra
nuova Europa è veramente nata quando si iniziò a demolire la muraglia e il
sistema di fortificazioni erette tra le
due parti in cui la Germania era stata divisa dopo la caduta del regime nazista
e all’interno della città di Berlino, e intorno ad essa. Quell’evento storico,
ce lo racconta la grande storia, fu prodotta dai popoli che fecero pressione
sulle frontiere. Le barriere nazionali cominciarono a cadere a furor di
popolo. E ora dovremmo ricostruirle?
Divisi, saremmo preda dei nazionalismi più potenti e non ci potremmo fare
nulla. Essi poi ci condurrebbero al conflitto mondiale.
[Dall’Inno di Mameli,
Fratelli d’Italia]
Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popoli,
perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l'ora suonò.
L’Inno fu fortemente influenzato dal pensiero di
Giuseppe Mazzini (1805-1872) che aveva una visione religiosa del processo che doveva portare i popoli alla
libertà dai despoti che all’epoca li dominavano, dalle superpotenze dell’epoca. Il
suo motto era infatti Dio e Popolo. Anch’egli sognò
qualcosa come la nostra nuova Europa. Un’Europa unita di popoli liberi, in cui
ad ogni persona fosse riconosciuta dignità umana. E’ una visione che finalmente
siamo liberi di condividere anche in religione.
“Sarà compito
importante riflettere e dibattere su questi sviluppi”, scrive Lavazza oggi su Avvenire. Riflettere e dibattere su questi temi non sono inutili perdite di
tempo, in particolare nella vita parrocchiale non sono tempo sottratto alla
preghiera, alla liturgia e alla formazione religiosa. Infatti ne va della pace,
che è una finalità espressamente religiosa. Dalla riflessione e dal dibattito
può scaturire la condivisione e poi un impegno collettivo, un movimento. Per
creare un ambiente favorevole alla pace che renda inutile la costruzione dei
muri.
24. La grande storia
ci si sta per rovesciare addosso
[dal Manifesto di Ventotene - 1941 - di Altiero
Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
La caduta dei regimi totalitari significherà
per interi popoli l'avvento della "libertà" sarà scomparso
ogni freno ed automaticamente regneranno amplissime libertà di parola e di
associazione.
Sarà il trionfo delle tendenze
democratiche. Esse hanno innumerevoli sfumature che vanno da un
liberalismo molto conservatore, fino al socialismo e all'anarchia. Credono
nella "generazione spontanea" degli avvenimenti e delle istituzioni,
nella bontà assoluta degli impulsi che vengono dal basso. Non vogliono
forzare la mano alla "storia" al "popolo" al
"proletariato" o come altro chiamano il loro dio. Auspicano
la fine delle dittature immaginandola come la restituzione al popolo degli
imprescrittibili diritti di autodeterminazione. Il coronamento dei loro
sogni è un'assemblea costituente eletta col più esteso suffragio e col più
scrupoloso rispetto degli elettori, la quale decida che costituzione il popolo
debba darsi. Se il popolo è immaturo se ne darà una cattiva, ma correggerla si
potrà solo mediante una costante opera di convinzione.
I democratici non
rifuggono per principio dalla violenza, ma la vogliono adoperare solo quando la
maggioranza sia convinta della sua indispensabilità, cioè propriamente quando
non è più altro che un pressoché superfluo puntino da mettere sulla i. Sono perciò dirigenti
adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è
nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che
debbono essere ritoccate solo in aspetti relativamente secondari. Nelle
epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere
amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente. La
pietosa impotenza dei democratici nelle rivoluzioni russa, tedesca, spagnola,
sono tre dei più recenti esempi.
In tali situazioni, caduto
il vecchio apparato statale, con le sue leggi e la sua amministrazione,
pullulano immediatamente, con sembianza di vecchia legalità o
sprezzandola, una quantità di assemblee e rappresentanze popolari in
cui convergono e si agitano tutte le forze sociali progressiste. Il popolo ha
sì alcuni bisogni fondamentali da soddisfare, ma non sa con precisione cosa
volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie, con i suoi
milioni di teste non riesce a raccapezzarsi, e si disgrega in una quantità di
tendenze in lotta tra loro.
Nel momento in cui occorre la massima
decisione e audacia, i democratici si sentono smarrirti non avendo
dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di
passioni; pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si
presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino
sapendo dove arrivare; perdono le occasioni favorevoli al
consolidamento del nuovo regime, cercando di far funzionare subito organi che
presuppongono una lunga preparazione e sono adatti ai periodi di relativa
tranquillità; danno ai loro avversari armi di cui quelli poi si valgono
per rovesciarli; rappresentano insomma, nelle loro mille tendenze, non
già la volontà di rinnovamento, ma le confuse volontà regnanti in tutte le
menti, che, paralizzandosi a vicenda, preparano il terreno propizio allo
sviluppo della reazione. La metodologia politica democratica sarà un peso morto
nella crisi rivoluzionaria.
Man mano che i democratici
logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della
libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero
immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e
la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della
contrapposizione delle classi.
Il principio secondo il quale
la lotta di classe è il termine cui van ridotti tutti i problemi politici,
ha costituito la direttiva fondamentale, specialmente degli operai delle
fabbriche, ed ha giovato a dare consistenza alla loro politica, finché non
erano in questione le istituzioni fondamentali della società. Ma si
converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si imponga la
necessità di trasformare l'intera organizzazione della società. Gli
operai educati classisticamente non sanno allora vedere che le loro
particolari rivendicazioni di classe, o di categoria, senza curarsi di come
connetterle con gli interessi degli altri ceti, oppure aspirano
alla unilaterale dittatura delle loro classe, per realizzare
l'utopistica collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione,
indicata da una propaganda secolare come il rimedio sovrano di tutti i loro
mali.Questa politica non riesce a far presa su nessun altro strato fuorché
sugli operai, i quali così privano le altre forze progressive del loro
sostegno, e le lasciano cadere in balia della reazione, che abilmente le
organizza per spezzare le reni allo stesso movimento proletario.
***************************************************************
In questi giorni la grande storia ci si
sta rovesciando addosso, provenendo da oltre Oceano. Il mondo sta velocemente
cambiando, ma non nel senso che in genere si auspicava. Risorgono i
nazionalismi egoistici e i popoli sono spinti l’uno verso l’altro. Il contesto
internazionale che costituiva l’ambiente considerato dalla dottrina sociale
degli ultimi sessant’anni sta andando in pezzi. Non c’è più fiducia in un
ordine internazionale pacifico frutto di grande istituzioni sovranazionali, ma
si pensa che sia meglio trincerarsi ognuno dietro frontiere sempre più
impenetrabili e formare accordi limitati, tra stato e stato, contro tutti gli
altri. In accordo bilaterale il più forte, il più grosso, ha la meglio mentre
in una grande istituzione sovranazionale tutti i membri hanno pari dignità e
viene perseguito il bene comune. Il mondo fatto di accordi bilaterali sarà regolato
dalla legge delle giungla, in cui il più grosso mangia il più debole. La gente,
mossa da passioni istintive, primordiali e inconsapevoli crede a chi le propone
questo, pensando di guadagnarci. Ma a proporlo sono i più forti: ci
rimetteranno i più deboli, la maggioranza, sia all'interno delle società sia
nel contesto internazionale. In questo contesto l’attuale nostra dottrina
sociale appare come rivoluzionaria, mentre prima sembrava addirittura troppo
prudente. Da essa si sono già separati importanti settori delle collettività
statunitensi della nostra fede.
Ci si diceva che occorreva prepararsi,
studiare, dialogare, per affrontare qualcosa del genere, e ci accorgiamo che
siamo rimasti indietro e che improvvisamente non c’è più tempo per farlo. La
formazione di base è stata estremamente carente, in particolare per la
comprensione degli eventi sociali. Ci siamo più o meno limitati a briciole di
storia sacra e a inscenare giochi a tema a sfondo religioso, immaginando di
vivere nel primo secolo della nostra era, estraniandoci da essa. Invitati a
smontare frontiere e dogane, ci siamo adeguati, ma da fuori, guardando dentro,
c’è più o meno quello che c’era prima. Cambiare, dopo tanti anni in cui si è
andati in una certa direzione, è difficile. La gente, in particolare i più
giovani, non viene tra noi perché non abbiamo quello che le serve. La fede e la
religione appaiono inutili e, in un certo senso, lo sono realmente. Non ci si
deve perdere d’animo, naturalmente. Ci sono tra noi persone che si spendono totalmente
per cambiare, ma lo scenario è cambiato improvvisamente, troppo velocemente.
Ciò che intuirono gli autori del Manifesto
di Ventotene, che la scarsa formazione alla democrazia conduce alla
svalutazione della democrazia, perché nelle masse prevalgono passioni
tumultuose che le portano verso gli “uomini forti”, o apparentemente forti,
fu ben chiaro fin dall’antichità. I leader populisti della nostra epoca
sarebbero stati definiti demagoghi dai pensatori
dell’antica Grecia, semplici trascinatori di popolo. La
dottrina sociale li vorrebbe invece come formatori e guide
sapienti.
Che fare, in questa situazione?
Nel nostro piccolo mondo di quartiere
occorre continuare l’opera iniziata, cercando di avvicinare di nuovo la gente
agli spazi religiosi e migliorare l’attività di formazione e dialogo. In questo
modo si possono costituire punti di resistenza e gettare i
semi di un movimento che abbia più capacità di incidere
sulla società intorno. E’ ciò che si fece, nell’Azione Cattolica, verso la metà
degli anni ’30 del secolo scorso, in un’altra epoca buia. All’epoca si aveva la
diffidenza delle autorità religiose, oggi è molto diverso e questo aiuterà
senz’altro. La dottrina sociale contemporanea, in particolare da ultimo con
l’enciclica Laudato si’, dà un’idea realistica di ciò che accade e
delle soluzioni a cui bisogna puntare. E invita a federarsi con tutte le altre
persone di buona volontà, abbandonando ogni pretesa di autosufficienza
religiosa, per creare un movimento che dalle realtà di prossimità, la famiglia,
il condominio, il quartiere, la parrocchia, si estenda a livello globale. Ci
invita a creare un movimento, come appunto, dopo aver scritto ilManifesto
di Ventotene, fecero i suoi autori.
25. Religione tanto più coinvolgente quanto più inutile?
Da adolescente, negli anni ’70, ho
vissuto in un mondo in cui si pensava che la religione fosse in declino. Oggi
sembra che lo sia solo in Europa. Ne hanno scritto i sociologi Peter Berger,
Grace Davie ed Effie Fokas nel 2008, in un libro pubblicato in Italiano
da Il Mulino, con il titolo America religiosa,
Europa laica? Perché il secolarismo europeo è un’eccezione, €18,50.
Il secolarismo è una cultura che spiega i
fatti umani e della natura senza fare ricorso alla religione. Il principio
della laicità dello stato, per cui le istituzioni pubbliche non
devono far ricorso alla religione per motivare quello che fanno ed è vietata
ogni discriminazione su base religiosa, ne è un’applicazione. Esso garantisce
la pace religiosa nel nostro continente. Storicamente la progressione culturale
non è andata dal secolarismo al principio della laicità
dello stato, e poi alla pace religiosa, ma si è sviluppata al
contrario. Prima si è voluto ottenere la pace religiosa, e allora si è pensato
di separare gli affari pubblici dalla religione e poi si è sviluppato il
secolarismo, come estensione di questo metodo. Questa è stata una via
originale, ed è per questo che le società europee presentano un marcato
secolarismo, a differenza di quasi tutto il resto del mondo. Quando si è
pensata di finirla di fare guerre sotto bandiere religiose, è sembrato che la
religione divenisse progressivamente inutile. La si è continuata da usare per
l'educazione morale, ma i suoi principi sempre più sono risultati arretrati e
discriminatori, solo una ciliegina sulla torta nella
formazione dei più ricchi e poco più che un anestetico per i meno ricchi; poi,
da ultimo, la si è usata come medicina dell'anima, insieme ad altri rimedi,
confinata nel privato o in piccoli gruppi. In realtà i più grandi
principi umanitari della nostra fede sono rimasti ancora come ideologia
politica anche nella nostra nuova Europa (fondano la sua Carta dei
diritti), ma laicizzati, per cui senza una formazione specifica
non se ne riesce più a cogliere l'origine religiosa. Ma la politica, nella
nostra organizzazione religiosa, fino a non molto tempo fa fu ritenuta
sconveniente per la maggior parte del popolo: era riservata ai capi del nostro
clero, i quali ne hanno sempre fatta molta. Per loro la religione ha infatti
ancora senso. E per gli altri?
Negli ultimi sessant’anni ci siamo
abituati ad associare la nostra religione, e la fede che la sorregge, con la
pace. In realtà la nostra religione, come da più parti si è osservato, è stata
storicamente ben poco pacifica. Alcuni hanno osservato che condivide questa
caratteristica con le altre due religioni monoteistiche, che hanno in comune
con la nostra fede un importante patrimonio culturale. Il politeismo è più
pacifico del monoteismo? Una realistica consapevolezza storica smentisce questa
tesi. Le società umane si sono sempre combattute, usando i loro dei come
bandiere e immaginando che anch’essi si combattessero tra loro. Le storie sacre
dei politeismi sono piene di queste guerre tra dei. Questa concezione, di dei
troppo umani, cominciò a essere considerata insoddisfacente nell’antica Grecia,
tra il Quinto e il Quarto secolo dell’era antica. Nell’antica Grecia si
svilupparono le filosofie che sono ancora alla base della cultura europea.
L’idea che le società potessero essere organizzato secondo un ordine razionale
che le rendesse stabili e pacifiche nasce da lì. Molti concetti che sono
entrati nella nostra teologia monoteistica derivano da quelle filosofie. L’universalismo umanitario della
nostra fede deriva da lì, dall’incontro di un pensiero religioso sviluppatosi
intorno alla Siria con la cultura greca. Ora noi consideriamo Terra
Santa quella intorno a Gerusalemme, ma, attenendoci alla realtà
storica, dovremmo cambiare opinione. La veraTerra Santa della
nostra fede è tra il lago di Tiberiade, nella Galilea delle genti dove
iniziò la predicazione del Maestro, Damasco e la città di Antiochia, che
è ora è nella Turchia meridionale, al confine con la Siria, ma che anticamente
era la capitale della provincia romana della Siria. In quella che viene
considerata in genere la nostra Terra Santac’è invece poco o nulla
della nostra religione delle origini. Il sospetto che certe memorie siano state
contraffatte è fortissimo. Su tutto, antica Siria e Palestina, si è sovrapposta
la cultura islamica, che ha trasformato, in particolare, l’urbanistica di
Gerusalemme. Così, in realtà, la vera Terra Santa della
nostra fede è l’intero mondo in cui si è diffusa, e un posto come Roma
sicuramente di più dell’attuale Gerusalemme.
Il nostro monoteismo non ha avuto
l’opportunità, quando si è imposto come ideologia dello stato romano, di
imporsi come potenza culturale di pace e questo per tanti motivi. Il principale
è che molto presto, l’antica cultura universalistica greco-romana che lo aveva
profondamente conformato, determinando i principali suoi concetti teologici, è
andata in pezzi insieme all’impero mediterraneo di cui aveva costituito
l’anima. E questo anche se i popoli nuovi che, a partire del Terzo secolo,
conquistarono con le armi l’Europa occidentale furono in qualche modo
conquistati dalla sua cultura politica a sfondo religioso. Essi erano fascinati
dall’immaginifica maestà della corte bizantina, che ancora si riflette nei riti
della corte papale contemporanea. Ma l’unione politica continentale che era
stata la culla della nostra fede religiosa non rinacque mai più, fino al secolo
scorso, con la nostra nuova Europa. La politica fu saldamente connessa alla
fede e ogni stato si propose come delegato della divinità, interprete del vero
monoteismo. Ed anche il papa romano, nel secondo millennio della nostra era,
iniziò ad agire politicamente come un capo di stato. I conflitti politici si
connotarono religiosamente, pur rimanendo al fondo politici. La situazione si
aggravò molto con gli scismi del Cinquecento, in Europa Occidentale. Da qui una
serie continua di guerre, che finirono quando ci si accordò per farle finire,
da questo derivò la nostra nuova Europa. Si decise di non fare più della
religione una fonte di guerra. Da qui il principio della laicità degli stati e
poi il secolarismo. A questo punto la religione sembrò divenire
progressivamente inutile. Se ne poteva fare a meno e non succedeva nulla.
Da una consapevolezza storica
realistica emerge che, per quanto riguarda il problema della pace, non fu
dannoso il monoteismo, ma l’appropriazione del monoteismo da parte degli stati,
al modo in cui era avvenuto nell’antico impero bizantino. Gli stati vollero
essere imperi universali cercando giustificazioni religiose al loro dominio e quindi,
poiché nessuno di essi aveva la forza di imporsi su tutti gli altri,
scaturirono continue guerre. Da ciò deriva che non bisogna pensare che la pace
europea, fondata su principi di secolarismo, sia conseguita all’abbandono della
fede religiosa, perché ciò avvenne piuttosto tardi, verso la metà del secolo
scorso, mentre la pace religiosa europea risale a una serie di trattati
conclusi nella provincia tedesca della Vestfalia nel Seicento. Certo, fu
importante decidere di non fare più delle questioni religione un motivo di
guerra, ma all’origine della pace fu la rinuncia all’idea di dominare l’Europa
al modo in cui l’aveva dominata l’antico impero romano dopo aver sostituito la
nostra fede monoteistica come ideologia politica dello stato al politeismo. Questo
fu l’accordo. Tutte le volte che si attenuò, ripresero le guerre europee.
Rispetto ad esse la nostra fede, a fronte di un ambiente secolarizzato dal
principio di laicità degli stati, rimase neutrale. Solo nel secolo scorso nelle
nostre collettività religiose si sviluppò faticosamente una cultura di pace. Ai
tempi nostri la religione non è più neutrale di fronte al problema della
guerra. Essendo ormai esterna agli stati, fa loro la
morale, cerca di condurli sulle vie della pace. Ma questo movimento coinvolge
poco i fedeli. In Europa cercano dalla religione più il benessere psicologico,
quella che viene definita pace spirituale, che un ammaestramento di
pace. E sono endemiche concezioni magiche risalenti culturalmente agli antichi
politeismi. Gli eventi straordinari, la spettacolarizzazione di pretesi eventi
prodigiosi, coinvolge ancora le masse. Ma, tanto più la religione diviene
questo, tanto più diviene inutile, in particolare per i più giovani, che devono
farsi spazio nel mondo e non sentono il bisogno di rimedi consolatori. Fare
spazio nel mondo a gente nuova, tutta quella che la natura produce in gran
numero (siamo ormai circa sette miliardi) richiede di ragionare di politica e
di farlo anche in termini religiosi, ponendosi alcuni punti fermi, come quello
dell'uguale dignità delle persona e del diritto di tutti alla vita e alla
ricerca della felicità. Altrimenti il mondo esploderà, se si pretende di
governarlo con la legge della giungla, secondo l'ideologia corrente del grande
capitalismo globale. Si osserva però che il monoteismo non può riprendere
a fare politica perché la sua politica storicamente non ha prodotto la pace.
Questa è la principale obiezione rivolta storicamente anche alla dottrina
sociale. Come unire religiosamente un’umanità in cui devono convivere molte
grandi religioni, che in genere si manifestano intolleranti le une contro le
altre? E’ possibile sviluppando una nuova cultura religiosa, secondo quanto, ad
esempio, è indicato nell’enciclica Laudato si’. Occorre,
in particolare, prendere atto che dalla nostra fede sono scaturiti i grandi
principi sui quali si fonda oggi l’integrazione europea, in un grande processo
di pacificazione continentale. Far capire come sia successo che, pur
abbandonando l’idea di religione di stato, la fede delle
Beatitudini costituisca in fondo, ancora, la base culturale della
nostra nuova Europa, e che quindi il processo di secolarizzazione europea non
sia sfociato in realtà in un’apostasia, come superficiali critici ritengono, è
la sfida che si propone oggi nella formazione religiosa ad ogni livello, fin
dall’inizio. In questo modo la religione può divenire utile, oltre che
coinvolgente.
26. Noi, la pace e la religione
In una riunione del gruppo
parrocchiale di AC in San Clemente papa,
con l’aiuto di alcuni pensieri di nonviolenza di grandi
anime che ciascuno di noi ha letto ad alta voce su un foglietto che ci
è stato distribuito, un pensiero su ogni foglietto, abbiamo continuato la
riflessione sulla pace, che avevamo avviato in vista dell’incontro diocesano
dell’AC sul Messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace di
papa Francesco, che si è tenuto nella nostra parrocchia.
Nella discussione che è seguita sono
emerse gran parte delle obiezioni che di solito vengono portate contro la nonviolenza,
e anche contro la pace. In parte venivano proposte ai giovani che chiedevano
l’esenzione dal servizio militare armato per ragioni di coscienza, gli obiettori
di coscienza. “Se qualcuno ti uccidesse un parente stretto?”,
“C’è tanta malvagità nel mondo, tanta corruzione…”, e via
dicendo. Si è manifestata poi la difficoltà a condividere pensieri di nonviolenza di
persone appartenenti ad altre tradizioni religiose, anche se cristiane come il
pastore battista Martin Luther King. E c’è stata anche un’eco della storica
diffidenza che si è avuta in religione per i processi democratici, in
particolare valutando il risultato delle ultime elezioni presidenziali
statunitensi.
Può sembrare che si tratti di discorsi
lontani dalla nostra realtà quotidiana, eppure tremendi episodi di violenza e
di intolleranza sociale sono accaduti proprio dalle nostre parti, veramente a
due passi dalle nostre case. E tutti i problemi che vediamo a livello globale
si manifestano anche da noi, ad esempio quello di uno sviluppo economico inumano,
che porta degrado degli ambienti urbani e naturali e insicurezza economica ed
esistenziale. Il nostro quartiere appare abbandonato, ci si limita a garantire
i servizi essenziali, ma in una città come Roma ci si aspetterebbe qualcosa di
più. A parte la parrocchia, non ci sono posti per incontrarsi. E’ stato dato
alle fiamme il bar più grande, che costituiva un bel punto di ritrovo per la
gente del quartiere: ecco un segno della violenza sociale molto vicina a noi,
che ha sfigurato l’ambiente urbano del quartiere. Ora è lì, povera maceria
annerita, a ricordarci che qualcosa non va nella nostra società di quartiere.
Siamo assediati dal traffico, da grandi correnti di traffico dirette verso
altri posti. Questo rende pericolose le strade del quartiere per i più piccoli
e i più anziani. La bellezza nel nostro quartiere non c’è e
nessuno ci pensa. Potrebbe esserci anche tra i nostri palazzoni. La bellezza,
infatti, è democratica, alla portata di tutti, perché tutti ne hanno bisogno e
se ce n’è troppo poca si soffre. Si vive, allora, come in una grande stazione
ferroviaria, in un ambiente funzionale ma anonimo. E’ anche la cura che
si riserva al grande parco al lato delle nostre case, il Pratone,
conquistato in un lungo periodo di lotte sociali è insufficiente, del resto
come accade negli altri parchi della città.
Che c’entra tutto questo con la nonviolenza?
C’entra perché la radice dei mali che ho descritto è la
medesima da cui scaturisce la mala pianta della violenza sociale, su piccola e
grande scala: il crescente egoismo per cui ognuno guarda solo al proprio
particolare e pensa sia inutile intendersi con gli altri per migliorare le
cose. La violenza, tra le persone, i gruppi e gli stati, serve a farsi
spazio e a rapinare gli altri. Gli altri, in questa
prospettiva, diventano solo degli ostacoli o persone che possiedono cose che
vorremmo sottrarre loro. E, invece, il progresso sociale per cui si può vivere
una vita sicura, decorosa e anche bella, dipende dal nostro rapporto positivo
con la società intorno per cui si possano trovare all’interno di essa degli
alleati. La società contemporanea è stata paragonata a una macchina, a
una macchina sociale. Ma gli esseri umani non sono ingranaggi,
anche se talvolta li si vuole rendere tali, come in certe produzioni
industriali. Ognuno di loro ha quella che le religioni definiscono anima e
che significa che sono più di un meccanismo biologico e
hanno bisogno di dare senso alla proprie esistenza. E questo senso lo si
ritrova solo nel rapporto positivo con gli altri, che significa costruire
una società orientata verso la persona umana. La città solo come macchina
sociale diventa un inferno urbano, come se ne sono creati molti in
Oriente.
Se si reagisce alla violenza con altra
violenza ci sarà solo più violenza e, si dice, occhio per occhio rende
il mondo cieco. Un verità tanto chiara, perché costantemente confermata
dall’esperienza, è ancora difficile da accettare, anche in religione. Quando si
passa dalla teologia in pillole del catechismo dell’infanzia al pensare qualcosa
di più serio e impegnativo sorgono problemi. Non siamo stati abituati, in
religione, a pensare la società: immaginavamo che la verità
sociale ci venisse insegnata dall’alto e fluisse fino a noi attraverso
i nostri preti. Spesso, ancora quando si parla di problemi sociali chiediamo
loro di spiegarci perché questo, perché quello, perché la violenza,
perché il male, e via dicendo, come se il sapere di teologia,
quindi della nostra fede comune, li costituisse tuttologi. Lorenzo
Milani diceva invece che dovremmo essere noi a spiegare loro come va il mondo.
Ma anche quest’idea non mi convince, perché presuppone che i preti vivano fuori del
mondo, e non è così. In realtà la comprensione realistica di come vanno le cose
nel mondo, dei problemi che ci sono, e delle soluzioni possibili, deriva dal
mettere insieme tanti punti di vista particolari, anche quelli dei preti, in
modo che facendo luce su tanti aspetti della realtà, come quando si marcia di
notte in campagna e ognuno fa luce con la sua piccola torcia, si riesca a
capire dove bisogna andare per trasformare il mondo.
Ecco, su un pensiero di Aldo Capitini
che abbiamo letto l’altro giorno c’era scritto che la nonviolenza non
lascia il mondo così com’è, ma lo trasforma in meglio. Penso che la nostra parrocchia
avrà superato molti dei suoi problemi quando potrà dire di aver contribuito a
trasformare il quartiere in cui è immersa. In passato mi è parso che a
lungo se ne sia disinteressata, preferendo dedicarsi alla realizzazione di
quelle che ho chiamato serre umane, a coltivare belle
anime al suo interno, al modo in cui lo si fa con le piante
nelle serre dei giardinieri. E da dove può venire una soluzione ai problemi
sociali del quartiere se non da una realtà come la parrocchia, che che è quasi
l’unica, e comunque credo la maggiore, a disporre di luoghi d’incontro?
La parrocchia può riprendere ad essere (lo è già stata in passato) la potenza
spirituale che può innescare dinamiche sociali virtuose, in grado di cambiare
il mondo dalle nostre parti. Per pensare, ad esempio, una nuova sistemazione
urbanistica del quartiere, che liberi via Val Padana dall’assedio delle
automobili, e per rendere più sicure per tutti le strade del quartiere.
Da impegni sociali virtuosi, catalizzati dalla parrocchia, scaturirebbe, ci si
può giurare, un forte impegno di volontariato, perché in Italia, basta che se
ne dia occasione, esso si sviluppa rigoglioso.
27. Antipapa?
"Nella mia precedente carriera diplomatica ho
aiutato ad abbattere l'Unione sovietica, ora sembra che ci sia un'altra Unione
che ha bisogno di una scossa”. Ted Malloch, proposta dal nuovo presidente
statunitense come ambasciatore U.S.A. presso l’Unione Europea
Se consideriamo il pensiero politico diffuso
dal nuovo presidente statunitense Donald Trump e gli insegnamenti sulla
dottrina sociale contenuti nell’enciclica Laudato
si’ di papa Francesco ci convinciamo a prima vista che sono agli opposti.
Il messaggio di Trump al mondo è più che politico e quello del Papa è più che
spirituale. Entrambi sostengono che il mondo va male e che bisogna fare dei
cambiamenti, ma le soluzioni divergono radicalmente. Per Trump gli Stati Uniti
d’America possono salvarsi anche senza il resto del mondo, per il Papa nessuno
stato, anche molto potente, può salvarsi da solo. Per Trump gli Stati Uniti
d’America, lo stato per ora più potente del mondo, sia dal punto di vista
economico sia da punto di vista militare, ci stanno rimettendo per salvare il
mondo e quindi per salvarsi devono cominciare a pensare di più a loro stessi,
al loro interessa nazionale, per il
Papa questo è ciò che gli stati più potenti del mondo hanno sempre fatto, a
discapito dei meno potenti e ricchi, generando sofferenza sociale a livello
globale. Per Trump occorre una rivoluzione culturale, ed è in questo che il suo
pensiero è più che politico, e può dirsi lo stesso per il Papa, ed è in questo
che il suo insegnamento è più che spirituale. Trump dichiara che gli Stati
Uniti d’America sono disposti a tutto per salvarsi, il Papa indica il metodo
della nonviolenza. La dottrina
sociale indica la strada della grandi istituzioni sovranazionali per promuovere
la pace, Trump vuole scioglierle perché ritiene che ingabbino la potenza
statunitense a discapito dei cittadini americani,
che nella sua visione sono solo quelli del suo stato. E il resto di quelli che
vivono nel continente Americano, compreso Bergoglio, che è nato americano? Trump non ci dice che ne
pensa, salvo che ritiene siano persone che vogliono oltrepassare abusivamente
le barriere che già ci sono tra Messico e Stati Uniti d’America. In sostanza “bad hombres”, gente cattiva, come
sembra abbia detto l’altro ieri parlando con il presidente messicano. Trump
vuole costruire un mondo di accordi bilaterali, tra gli Stati Uniti e, di volta
in volta, un altro stato: pensa così di avere sempre la meglio, per ora, perché
gli Stati Uniti d’America sarebbero il pesce grosso che mangia il pesce
piccolo. Ma fino a quando? Ci sono altri pesci che si stanno ingrossando molto.
Quando se la sentiranno di ragionare come Trump sarà la guerra mondiale.
Il pensiero di Trump ha e avrà ancor più
seguaci in Occidente, anche tra chi non è americano.
Anche in Italia, benché essa sia una nazione piccola e poco influente sullo
scenario mondiale: nei futuri accordi bilaterali
è destinata ad avere la peggio.
Questo perché non si è ancora raggiunto la capacità di pensare europeo, su scala continentale. Parliamo dell’Europa
come nell’Ottocento da noi si parlava dell’Impero d’Austria, come di una
potenza che ci ha invaso, e invece noi
siamo Europa. Sono italiani il presidente del Parlamento europeo, il
ministro degli esteri dell’Unione, il presidente della Banca Centrale Europea e
un gran numero di alti funzionari dell’Unione Europea. Nel Consiglio Europeo,
il nostro governo condivide tutte le decisioni più importanti. In un rapporto
bilaterale con gli Stati Uniti d’America l’Unione Europea tratterebbe da pari,
perché, nell’insieme, è una grande potenza economica e un grande mercato: è uno
dei pesci grossi del mondo e non si lascerebbe tiranneggiare da altri. E’ per
questo che Trump, nelle sue dichiarazioni pubbliche di questi giorni, l’ha
aggredita violentemente, per ora verbalmente (ma egli si è dimostrato uomo
capace di passare rapidamente dalle parole ai fatti, cambiando con pochi tratti
di penna la vita di moltitudini di persone, per ora tra quelle che nelle
società stanno peggio). Vuole mandare da noi come ambasciatore presso l’Unione
Europea uno come Ted Malloch che la paragona all’Unione Sovietica e si propone
di dare una mano a scuoterla. In
realtà gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea condividono ancora una
medesima ideologia democratica, anche se sembra che in certe cose il presidente
Trump se ne stia sbrigativamente discostando. Egli sembra apprezzare l’attuale
capo egemone della Russia, il quale si è formato in tutti i sensi, come uomo,
come soldato, ma anche nell’azione politica, in Unione Sovietica, in
particolare come ufficiale della polizia politica segreta, e che dell’Unione
Sovietica vuole riaffermare certi fasti, mischiandovi anche quelli della Russia
zarista. Negli anni ’70 l’Unione Sovietica stava vincendo la sua battaglia
globale con gli Stati Uniti d’America: a
quell’epoca raggiunse il picco della sua fase espansiva, della sua potenza
economica e della sua capacità d’influenza ideologica. Stava diventando il
pesce più grosso. Tutto poi cambiò, in processi che ancora oggi non sono
chiari, ma che fondamentalmente sono collegati all’azione politica del leader
sovietico Michail Gorbaciov e alle sue intese con il presidente statunitense
Ronald Reagan (1911-2004, presidente statunitense dal 1981 al 1989). Qualcosa
che oggi si ripropone nel caso di Trump e del presidente russo Vladimir Putin
(n.1952), ma con un senso molto diverso.
Qui si tratta di confronto bilaterale tra pesci grossi in fase
espansiva: cose così vanno sempre a finire male. Al fondo dell’azione politica
di Gorbaciov c’era invece l’idea di umanizzare la politica sovietica, risultato
che, in definitiva, egli non riuscì ad ottenere. Negli anni successivi alla sua
caduta, gli Stati Uniti d’America acquisirono sempre più potere nelle cose
russe, in particolare sotto la presidenza di Boris Eltsin (1931-2007,
presidente della Russia dal 1992 al 1999). E’ appunto sotto la presidenza
Eltsin che Putin cominciò ad ottenere incarichi politici sempre più importanti
e da Eltsin fu nominato per la prima volta capo del governo. Egli però si è
manifestato molto diverso da Eltsin, in particolare nella politica verso gli
Stati Uniti d’America. Solo apparentemente nel rapporto Trump-Putin sembra
riproporsi quello Reagan-Gorbaciov: la Russia di Putin e gli Stati Uniti
d’America di Trump sono infatti in rotta di collisione. Il terreno di battaglia
più probabile tra le due grandi potenze, i due pesci grossi, è l’Europa. Ed
è per evitarlo che l’Europa dovrebbe rimanere molto forte e coesa. Ma di questo
non c’è sufficiente consapevolezza tra le forze politiche italiane e,
soprattutto, tra i cittadini, disabituati a pensare in grande e invece
abituati fare i conti solo nelle proprie
case e in base a ciò che vedono nell’arco di cento metri da dove vivono di
solito. Gli africani, gli europei orientali e i rom che vivono tra noi saranno
l’ultimo dei nostri problemi se Russia e Stati Uniti d’America si faranno la
guerra in Europa, e invece i populisti delle nostre parti è proprio su quelli
che attirano l’attenzione degli elettori, sollecitando le nostre paure verso il
diverso, mentre per il mondo ricominciano a soffiare venti di un conflitto
globale. In questo quadro il Papa fa la figura del grillo parlante della storia
di Pinocchio, e rischia di finire
acciaccato contro una parete da gente, noi!,
talvolta ridotta un po’, ormai, sul
piano della capacità di pensiero politico, alla condizione di bambini discoli.
Si legge nell’enciclica Laudato
si:
5°. AMORE CIVILE E
POLITICO
228. La
cura per la natura è parte di uno stile di vita che implica capacità di vivere
insieme e di comunione. Gesù ci ha ricordato che abbiamo Dio come nostro
Padre comune e che questo ci rende fratelli. L’amore fraterno può solo essere
gratuito, non può mai essere un compenso per ciò che un altro realizza, né un
anticipo per quanto speriamo che faccia. Per questo è possibile amare i nemici.
Questa stessa gratuità ci porta ad amare e accettare il vento, il sole o le nubi,
benché non si sottomettano al nostro controllo. Per questo possiamo parlare di
una fraternità universale.
229. Occorre sentire nuovamente che abbiamo
bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e
verso il mondo, che vale la pena di essere buoni e onesti. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci
gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il
momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della
vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri
interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e
impedisce lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente.
230. L’esempio di santa Teresa di Lisieux ci
invita alla pratica della piccola via dell’amore, a non perdere l’opportunità
di una parola gentile, di un sorriso, di qualsiasi piccolo gesto che semini
pace e amicizia. Un’ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti
quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento,
dell’egoismo. Viceversa, il mondo del consumo esasperato è al tempo stesso il
mondo del maltrattamento della vita in ogni sua forma.
231. L’amore, pieno di piccoli gesti di cura
reciproca, è anche civile e politico, e si manifesta in tutte le azioni che
cercano di costruire un mondo migliore. L’amore per la società e l’impegno per
il bene comune sono una forma eminente di carità, che riguarda non solo le
relazioni tra gli individui, ma anche «macro-relazioni, rapporti sociali,
economici, politici». Per questo la Chiesa ha proposto al mondo l’ideale
di una «civiltà dell’amore». L’amore
sociale è la chiave di un autentico sviluppo: «Per rendere la società più
umana, più degna della persona, occorre rivalutare l’amore nella vita sociale –
a livello, politico, economico, culturale - facendone la norma costante e
suprema dell’agire»[dal Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa,
582].In questo quadro, insieme
all’importanza dei piccoli gesti quotidiani, l’amore sociale ci spinge a pensare a grandi strategie che arrestino
efficacemente il degrado ambientale e incoraggino una cultura della cura che impregni
tutta la società. Quando qualcuno riconosce la vocazione di Dio a
intervenire insieme con gli altri in queste dinamiche sociali, deve ricordare
che ciò fa parte della sua spiritualità, che è esercizio della carità, e che in
tal modo matura e si santifica.
232. Non tutti sono chiamati a lavorare in
maniera diretta nella politica, ma in seno alla società fiorisce una
innumerevole varietà di associazioni che intervengono a favore del bene comune,
difendendo l’ambiente naturale e urbano. Per esempio, si preoccupano di un
luogo pubblico (un edificio, una fontana, un monumento abbandonato, un
paesaggio, una piazza), per proteggere, risanare, migliorare o abbellire
qualcosa che è di tutti. Intorno a loro si sviluppano o si recuperano legami e
sorge un nuovo tessuto sociale locale. Così
una comunità si libera dall’indifferenza consumistica. Questo vuol dire anche
coltivare un’identità comune, una storia che si conserva e si trasmette. In
tal modo ci si prende cura del mondo e della qualità della vita dei più poveri,
con un senso di solidarietà che è allo stesso tempo consapevolezza di abitare
una casa comune che Dio ci ha affidato. Queste azioni comunitarie, quando
esprimono un amore che si dona, possono trasformarsi in intense esperienze
spirituali.
A chi
vogliamo dare retta, noi adulti di fede italiani? A Trump o al Papa? I due,
come ho osservato, sono agli opposti: uno è l’ “anti-“ dell’altro. Non si può essere trumpisti in politica e papisti in religione, perché, il messaggio di Trump è
più che politica e quello del Papa è più che spirituale, e sono in rotta di
collisione. Entrambi infatti sollecitano ad un impegno sociale, ma seguendo una
spiritualità dell’egoismo nazionale il
primo, mentre il secondo invitando a quella dell’umanesimo e della
fraternità globali. La prima via conduce alla guerra tra pesci grossi, la
seconda ha di mira la pace come bene essenziale dell’umanità. La prima
vuole mantenere, anche a scapito di
tutto il resto del mondo, la ricchezza nella nazione che per ora è la più ricca
del mondo, la seconda vuole la giustizia tra le nazioni come strategia di pace.
Mentre Trump urla “Solo noi!”, il
Papa dice “Tutti noi”.
28. Il neo-nazionalismo: un problema di corruzione spirituale della
società
[Dal Manifesto di Ventotene, ideato
nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
Immense masse di uomini e di
ricchezze sono già schierate contro le potenze totalitarie. Le forze di
queste potenze hanno raggiunto il loro culmine e non possono oramai che
consumarsi progressivamente. Quelle avverse hanno invece già superato il
momento della massima depressione e sono in ascesa. La guerra degli alleati
risveglia ogni giorno di più la volontà di liberazione anche nei paesi
che avevano soggiaciuto alla violenza ed erano come smarriti per il colpo
ricevuto. E persino risveglia tale volontà nei popoli delle potenze
dell'Asse, i quali si accorgono di essere trascinati in una situazione
disperata solo per soddisfare la brama di dominio dei loro padroni.
Il lento processo, grazie al
quale enormi masse di uomini si lasciavano modellare passivamente dal nuovo
regime, vi si adeguavano e contribuivano così a consolidarlo, è arrestato; si è
invece iniziato il processo contrario. In questa immensa ondata, che
lentamente si solleva, si ritrovano tutte le forze progressiste; e, le
parti più illuminate delle classi lavoratrici che si erano lasciate
distogliere, dal terrore e dalle lusinghe, nella loro aspirazione ad una
superiore forma di vita; gli elementi più consapevoli dei ceti
intellettuali, offesi dalla degradazione cui è sottoposta l'intelligenza; imprenditori,
che sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi dalle bardature
burocratiche, e dalle autarchie nazionali, che impacciano ogni loro
movimento; tutti coloro, infine, che, per un senso innato di
dignità, non sanno piegar la spina dorsale nella umiliazione della servitù.
A tutte queste forze è oggi affidata
la salvezza della nostra civiltà.
[…]
Le forze conservatrici,
cioè i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati nazionali […]
hanno uomini e quadri abili ed adusati al comando, che si batteranno
accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno
presentarsi ben camuffati. Si proclameranno amanti della pace, della
libertà, del benessere generale delle classi più povere. Già nel passato
abbiamo visto come si siano insinuati dentro i movimenti popolari, e li abbiano
paralizzati, deviati convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la
forza più pericolosa con cui si dovrà fare i conti.
Il punto sul quale essi
cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale.
Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai
recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento
patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le
idee degli avversari, dato che per le masse popolari l'unica esperienza
politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l'ambito nazionale, ed è
perciò abbastanza facile convogliare, sia esse che i loro capi più miopi, sul
terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera.
Se raggiungessero questo scopo
avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente
democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari
sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali e
ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo
nella forza delle armi.
[…]
Il problema che in primo luogo va
risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è
la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali
sovrani.
[…]
Gli spiriti sono giù ora molto
meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell'Europa.
La dura esperienza ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere ed ha
fatto maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale.
[…]
E' ormai dimostrata la inutilità,
anzi la dannosità di organismi, tipo della Società delle Nazioni, che
pretendano di garantire un diritto internazionale senza una forza militare
capace di imporre le sue decisioni e rispettando la sovranità assoluta degli
stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non
intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di
darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna
di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri
paesi europei.
Insolubili sono diventati i molteplici
problemi che avvelenano la vita internazionale del continente: tracciati dei confini a popolazione
mista, difesa delle minoranze allogene, sbocco al mare dei paesi situati
nell'interno, questione balcanica, questione irlandese, ecc., che troverebbero
nella Federazione Europea la più semplice soluzione, come l'hanno trovata in
passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte delle
più vaste unità nazionali, quando hanno perso la loro acredine, trasformandosi
in problemi di rapporti fra le diverse provincie.
D'altra parte la fine del senso
di sicurezza nella inattaccabilità della Gran Bretagna, che consigliava agli
inglesi la "splendid isolation", la dissoluzione
dell'esercito e della stessa repubblica francese, al primo serio urto delle
forze tedesche - risultato che è da sperare abbia di molto smorzata la
presunzione sciovinista della superiorità gallica - e specialmente la coscienza
della gravità del pericolo corso di generale asservimento, sono tutte
circostanze che favoriranno la costituzione di un regime federale che ponga
fine all'attuale anarchia. Ed il fatto che l'Inghilterra abbia accettato il
principio dell'indipendenza indiana, e la Francia abbia potenzialmente perduto
col riconoscimento della sconfitta, tutto il suo impero, rendono più agevole
trovare anche una base di accordo per una sistemazione europea dei
problemi coloniali.
***********************************
Gli autori del Manifesto di
Ventotene pensavano di costruire la pace europea istituendo in
Europa uno stato federale simile agli Stati Uniti d’America, con una propria
organizzazione armata in grado di imporre le sue decisioni anche con la forza e
che superasse gli stati nazionali, vale a dire quelli fortemente
caratterizzati sul piano delle culture sociali, quindi con riguardo a
determinati connotati etnici, linguistici, religiosi, economici, militari,
derivanti dalla loro storia. Questo perché la lunga fase di conflitto bellico
sviluppatasi tra il 1914 e il loro tempo (scrivevano ne mezzo dell’ultima epoca
di guerra) appariva originata da conflitti tra stati nazionali,
benché nella Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) avessero preso sempre più
importanza i motivi di divisione ideologica, in particolare tra le società
democratico-liberali con economia capitalista, quelle riorganizzate dai
fascismi europei, il più potente dei quali si era manifestato il nazismo
tedesco, e le società cadute sotto il dominio sovietico, nell’immenso
territorio un tempo dominato dal regime della Russia zarista. Pensavano quindi
di ripetere sul continente il processo politico che aveva portato alla faticosa
costruzione dell’unità nazionale italiana. Il processo di unificazione europea
ha poi presso un’altra via, in particolare seguendo il pensiero del politico
francese Jean Monnet (1988-1979). Chi desidera approfondire può farlo sul
portale WEB della Treccani a questo indirizzo
<http://www.treccani.it/enciclopedia/europeismo_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/>.
I nazionalisti italiani dell’Ottocento
scoprirono che “fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani”,
vale a dire che gli elementi culturali unificantiche avevano
sorretto il movimento politico per l’unità nazionale erano propri di classi
piuttosto ristrette, in particolare di ceti colti, con scarsa rappresentanza
delle masse popolari. Bisognava creare nei popoli italiani i presupposti per il
consolidamento dell’unità nazionale, innanzi tutto elevando il livello di
istruzione popolare, che era molto basso, istituendo un servizio nazionale di
stato per l’istruzione di base, quella elementare. Anche la leva militare
fu utilizzata a questo scopo, anche se coinvolgeva solo i maschi. Il più
potente fattore di coesione culturale delle genti italiane era costituito, all’epoca,
dalla fede religiosa, ma esso poté essere utilizzato politicamente solo molto
più tardi, nel secondo decennio del Novecento, perché l’unità nazionale
si era fatta anche contro il papato, che dominava uno dei piccoli regni in cui
l’Italia era suddivisa e che vennero soppressi nel processo politico di
unificazione. I Papi, quindi, vietarono a lungo ai fedeli cattolici la politica
nazionale e ciò fino al 1913.
Nel processo di unificazione europea
iniziato negli anni ’50 del secolo scorso, si cominciò dal tentativo di indurre
un avvicinamento delle economie e delle società europee, come premessa per una
progressiva cessione di sovranità degli stati nazionali alle
istituzioni europee. Negli ultimi trent’anni questo processo ha coinvolto masse
di giovani in programmi di integrazione scolastica che prevedono che liceali e
universitari possano svolgere parte dei loro studi in altri stati europei.
Questo ha portato i giovani ad essere molto più europeisti dei loro genitori,
formatisi nella cultura dello stato nazionale. Nelle difficoltà attuali
dell’Europa, però, molta gente non pensa alle istituzioni europee come
una risorsa per resistere e superarle, ma come a un impedimento e addirittura
come una loro causa. Nel voto al referendum in Gran Bretagna per l’uscita dall’Unione
Europea è risultato che i più anziani, quelli meno acculturati all'europeismo,
sono stati determinanti. Il processo culturale per l’unificazione europea non
ha quindi ancora raggiunto quel grado che consenta di proteggere le nuove
istituzioni dalla minaccia di dissoluzione. Ai tempi in cui fu scritto
il Manifesto di Ventotene, e ancor più alla caduta dei fascismi
europei, nel 1945, fu chiaro invece che i popoli europei potevano risollevarsi
solo tutti insieme, superando gli egoismi nazionali che li avevano divisi e
condotti a combattersi.
I nazionalismi in cui sta ricadendo
l’Europa sono molto diversi da quelli del passato, che facevano leva, in
particolare in Italia, sulla scarsa istruzione popolare, che rendeva la gente
più facilmente manovrabile. Piuttosto essi appaiono come un’estensione su
grande scala, dalla realtà domestica a quella degli stati e dell’organizzazione
del continente, di egoismi consumistici individuali, per cui si pensa che, possedendo
ciò che bisogna possedere, tutto il resto conti poco e, in particolare il
grado di ingiustizia sociale che c’è in ciò che si è comprato e si possiede. I
vecchi nazionalismi facevano leva sullo spirito di sacrificio della gente,
spingendola anche a dare la vita per il bene della
nazione, intesa in definitiva come la casa dei padri, la patria.
Tutta l’epica nazionalista Ottocentesca è piena di figure esemplari così. Il
nazionalismo di oggi si basa invece sull’idea che non valga assolutamente la
pena di sacrificarsi per nulla al mondo e quindi sulla volontà
di tutelare, non tanto la propria roba, ma la possibilità dicomprare tutto
ciò che si desidera, buttando ciò che non è più di moda possedere. L’idea di
limitarsi in questo per ragioni umanitarie spaventa, perché da cittadini siamo
diventati consumatori, come ha spiegato bene Zygmunt Bauman, e in
questo continuo consumare troviamo ilsenso della vita,
il nostro benessere sociale, la nostra fonte di integrazione con
gli altri. Ecco perché il neo-nazionalismo non ha più bisogno dei miti che
riempivano ad esempio l’ideologia popolare del fascismo mussoliniano, basata su
una reinterpretazione della storia imperiale romana. Il vecchio nazionalismo
era altruistico, benché solo su scala nazionale: per la patria si
era spinti a dare anche la vita, a perdere tutto, come si cantava nella lirica
di Paolo Pola: Chi per la patria muor / vissuto è assai / la
fronda dell’allor/ non langue mai[dal melodramma
di Saverio Mercadante, Caritea, regina di Spagna,
ossia La morte di Don Alfonso re di Portogallo, messo in scena nel 1826;
due atti con libretto curato da Paolo Pola]. Nel neo-nazionalismo
contemporaneo tutti vogliono salvarsi anche a costo di abbandonare gli altri,
in particolare ributtando a mare le genti che arrivano
da altri continenti. Questo mette in questione la fede religiosa? Come si
raggiunge l’integrazione tra fede e vita, ragionando così? E se si
vuole innanzi tutto salvarsi come individui, come ci si
salverà come nazione? E come ci si salverà come individui, se il salvarsi
richiede di agire come nazione e anche in un ambito più vasto? C’è in questione
anche una spiritualità, come è spiegato nell’ultimo capitolo
dell’enciclica Laudato si’. Occorre una specifica formazionealla
cittadinanza europea, che, proprio per gli elementi di spiritualità che
connotano i problemi di oggi, dovrebbe farsi anche in religione, ma in genere
non si fa.
Bauman ha spiegato
che quello che i vecchi nazionalismi ottenevano con la mitologia e la forza,
quelli attuali riescono ad ottenere spontaneamente dalla gente: quest’ultima si
accomoda disciplinatamente alla cassa, senza più necessità di
polizia per tenerla a freno. E lì pensa solo a sé stessa e a ciò che sta
acquistando, al proprio giocattolo nuovo, che presto abbandonerà. Come è
scritto nell’enciclica la nostra società produce molti rifiuti, e anche di tipo
umano, vite abbandonate.
Spinelli e i suoi
amici avevano una certa idea delle classi conservatrici, che
avrebbero tentato di mantenere il dominio anche dopo la caduta dei fascismi
europei. Bisogna dire che esse sono molto mutate, si sono fatte meno visibili,
nascoste dietro uno dei miti di oggi, quello delmercato. Quest’ultimo,
per la sua dimensione anche spirituale e la sua personificazione al modo delle
antiche divinità, è divenuto, nella considerazione di molta gente, un
nuovo dio. Anche di questo si parla nell’enciclica Laudato
si’. Esso ci domina e, spingendoci gli uni contro gli
altri, dividendoci, mantiene il controllo su di noi. E noi,
pensando di fare solo il nostro interesse, lasciandoci dividere dagli altri,
facciamo il suo gioco. Il suo, però, è un vero giogo, e non è
dolce come quello del Maestro. Infatti ci rende schiavi. "Schiavi
di un dio minore", secondo il titolo del bel libro di Arduino e
Lipperini sulle nuove schiavitù che ho citato qualche giorno fa (disponibile
anche in e-book).
29. Economia e comunione
Di solito sono piuttosto parco nel citare e riportare documenti dei
Papi, perché è stata letteratura sovrabbondante che ha un po’ compresso tutto
il resto limitando il dialogo, ma questo
breve pezzo che segue lo devo proprio
trascrivere integralmente per la grande emozione che mi ha procurato e il
sentimento di totale condivisione.
dal sito WEB
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/february/documents/papa-francesco_20170204_focolari.html
DISCORSO DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO "ECONOMIA DI COMUNIONE",
PROMOSSO DAL MOVIMENTO DEI FOCOLARI
Aula Paolo VI
Sabato, 4 febbraio 2017
Cari fratelli e sorelle,
sono
lieto di accogliervi come rappresentanti di un progetto al quale sono da tempo
sinceramente interessato. A ciascuno di voi rivolgo il mio saluto cordiale, e
ringrazio in particolare il coordinatore, Prof. Luigino Bruni, per le sue
cortesi parole. E ringrazio anche per le testimonianze.
Economia e comunione. Due parole che la
cultura attuale tiene ben separate e spesso considera opposte. Due parole che
voi invece avete unito, raccogliendo l’invito che venticinque anni fa vi
rivolse Chiara Lubich, in Brasile, quando, di fronte allo scandalo della
diseguaglianza nella città di San Paolo, chiese agli imprenditori di diventare
agenti di comunione. Invitandovi ad essere creativi, competenti, ma non solo
questo. L’imprenditore da voi è visto
come agente di comunione. Nell’immettere dentro l’economia il germe buono della comunione, avete
iniziato un profondo cambiamento nel modo di vedere e vivere l’impresa.
L’impresa non solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può
edificarla, può promuoverla. Con la vostra vita mostrate che economia e comunione diventano più belle
quando sono una accanto all’altra. Più bella l’economia, certamente, ma più
bella anche la comunione, perché la comunione spirituale dei cuori è ancora più
piena quando diventa comunione di beni, di talenti, di profitti.
Pensando
al vostro impegno, vorrei dirvi oggi tre cose.
La prima
riguarda il denaro. È molto
importante che al centro dell’economia di comunione ci sia la comunione dei
vostri utili. L’economia di comunione è anche comunione dei profitti,
espressione della comunione della vita. Molte volte ho parlato del denaro come idolo. La Bibbia ce lo dice in diversi modi.
Non a caso la prima azione pubblica di
Gesù, nel Vangelo di Giovanni, è la cacciata dei mercanti dal tempio (cfr
2,13-21). Non si può comprendere il
nuovo Regno portato da Gesù se non ci si libera dagli idoli, di cui uno dei più
potenti è il denaro. Come dunque poter essere dei mercanti che Gesù non
scaccia? Il denaro è importante,
soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei
figli. Ma diventa idolo quando diventa
il fine. L’avarizia, che non a caso è un vizio capitale, è peccato di
idolatria perché l’accumulo di denaro per sé diventa il fine del proprio agire.
E’ stato Gesù, proprio Lui, a dare
categoria di “signore” al denaro: “Nessuno può servire due signori, due
padroni”. Sono due: Dio o il denaro, l’anti-Dio, l’idolo. Questo l’ha detto
Gesù. Allo stesso livello di opzione. Pensate a questo.
Quando il capitalismo fa della ricerca del
profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una
forma di culto. La “dea fortuna” è sempre più la nuova divinità di una certa
finanza e di tutto quel sistema dell’azzardo che sta distruggendo milioni di
famiglie del mondo, e che voi giustamente contrastate. Questo culto idolatrico
è un surrogato della vita eterna. I singoli prodotti (le auto, i telefoni…)
invecchiano e si consumano, ma se ho il denaro o il credito posso acquistarne
immediatamente altri, illudendomi di vincere la morte.
Si capisce, allora, il valore etico e
spirituale della vostra scelta di mettere i profitti in comune. Il
modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo,
condividerlo con altri, soprattutto con i poveri, o per far studiare e lavorare
i giovani, vincendo la tentazione idolatrica con la comunione. Quando condividete e donate i vostri
profitti, state facendo un atto di alta spiritualità, dicendo con i fatti al
denaro: tu non sei Dio, tu non sei signore, tu non sei padrone! E non
dimenticare anche quell’alta filosofia e quell’alta teologia che faceva dire
alle nostre nonne: “Il diavolo entra dalle tasche”. Non dimenticare questo!
La
seconda cosa che voglio dirvi riguarda la povertà, un tema centrale
nel vostro movimento.
Oggi si
attuano molteplici iniziative, pubbliche e private, per combattere la
povertà. E tutto ciò, da una parte, è
una crescita in umanità. Nella Bibbia i poveri, gli orfani, le vedove, gli
“scarti” della società di quei tempi, erano aiutati con la decima e la
spigolatura del grano. Ma la gran parte del popolo restava povero, quegli aiuti
non erano sufficienti a sfamare e a curare tutti. Gli “scarti” della società
restavano molti. Oggi abbiamo inventato
altri modi per curare, sfamare, istruire i poveri, e alcuni dei semi della Bibbia
sono fioriti in istituzioni più efficaci di quelle antiche. La ragione delle
tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed
elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti che negano la
legge basilare della vita: il reciproco soccorso.
Ma – e questo non lo si dirà mai abbastanza
– il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi
vorrebbe curare. Il principale problema etico di questo capitalismo è la
creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più
vedere. Una grave forma di povertà
di una civiltà è non riuscire a vedere più i suoi poveri, che prima
vengono scartati e poi nascosti.
Gli
aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto
pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società
dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse
creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare
i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine.
Questa è l’ipocrisia!
L’economia di comunione, se vuole essere
fedele al suo carisma, non deve soltanto curare le vittime, ma costruire un
sistema dove le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci siano
più. Finché l’economia produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona
scartata, la comunione non è ancora realizzata, la festa della fraternità
universale non è piena.
Bisogna allora puntare a cambiare le regole
del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon samaritano del Vangelo
non è sufficiente. Certo, quando l’imprenditore o una qualsiasi persona si
imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e magari, come il buon
samaritano, associare anche il mercato (l’albergatore) alla sua azione di
fraternità. So che voi cercate di farlo da 25 anni. Ma occorre agire soprattutto prima che l’uomo si
imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che producono
briganti e vittime. Un imprenditore che è solo buon samaritano fa metà del suo
dovere: cura le vittime di oggi, ma non riduce quelle di domani. Per la
comunione occorre imitare il Padre misericordioso della parabola del figlio
prodigo e attendere a casa i figli, i lavoratori e collaboratori che hanno
sbagliato, e lì abbracciarli e fare festa con e per loro – e non farsi bloccare
dalla meritocrazia invocata dal figlio maggiore e da tanti, che in nome del
merito negano la misericordia. Un imprenditore di comunione è chiamato a
fare di tutto perché anche quelli che sbagliano e lasciano la sua casa, possano
sperare in un lavoro e in un reddito dignitoso, e non ritrovarsi a mangiare con
i porci. Nessun figlio, nessun uomo,
neanche il più ribelle, merita le ghiande.
Infine,
la terza cosa riguarda il futuro. Questi 25 anni della vostra storia dicono
che la comunione e l’impresa possono
stare e crescere insieme. Un’esperienza che per ora è limitata
ad un piccolo numero di imprese, piccolissimo se confrontato al grande capitale
del mondo. Ma i cambiamenti nell’ordine dello spirito e quindi della vita non
sono legati ai grandi numeri. Il piccolo gregge, la lampada, una moneta, un
agnello, una perla, il sale, il lievito: sono queste le immagini del Regno che
incontriamo nei Vangeli. E i profeti ci
hanno annunciato la nuova epoca di salvezza indicandoci il segno di un bambino,
l’Emmanuele, e parlandoci di un “resto” fedele, un piccolo gruppo.
Non occorre essere in molti per cambiare la
nostra vita: basta che il sale e il lievito non si snaturino. Il grande lavoro
da svolgere è cercare di non perdere il “principio attivo” che li anima: il
sale non fa il suo mestiere crescendo in quantità, anzi, troppo
sale rende la pasta salata, ma salvando la sua “anima”, cioè la sua qualità.
Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di
salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di
potere, dimenticando i poveri. Salviamo la nostra economia, restando
semplicemente sale e lievito: un lavoro difficile, perché tutto decade con il
passare del tempo. Come fare per non
perdere il principio attivo, l’ “enzima” della comunione?
Quando
non c’erano i frigoriferi, per conservare il lievito madre del
pane si donava alla vicina un po’ della propria pasta lievitata, e quando
dovevano fare di nuovo il pane ricevevano un pugno di pasta lievitata da quella
donna o da un’altra che lo aveva ricevuto a sua volta. È la reciprocità. La comunione non è solo divisione ma
anche moltiplicazione dei beni, creazione di nuovo pane, di
nuovi beni, di nuovo Bene con la maiuscola. Il principio vivo del Vangelo resta
attivo solo se lo doniamo, perché è amore, e l’amore è attivo quando amiamo,
non quando scriviamo romanzi o quando guardiamo telenovele. Se invece lo
teniamo gelosamente tutto e solo per noi, ammuffisce e muore. E il Vangelo può
ammuffirsi. L’economia di comunione avrà futuro se la donerete a tutti e non
resterà solo dentro la vostra “casa”. Donatela a tutti, e prima ai poveri e
ai giovani, che sono quelli che più ne hanno bisogno e sanno far fruttificare
il dono ricevuto! Per avere vita in abbondanza occorre imparare a donare: non
solo i profitti delle imprese, ma voi stessi. Il primo dono dell’imprenditore è
la propria persona: il vostro denaro, seppure importante, è troppo poco. Il
denaro non salva se non è accompagnato dal dono della persona. L’economia di oggi, i poveri, i giovani
hanno bisogno prima di tutto della vostra anima, della vostra fraternità
rispettosa e umile, della vostra voglia di vivere e solo dopo del vostro
denaro.
Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È
semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone
che ricevono quelle “briciole”. Invece, anche solo cinque pani e due pesci
possono sfamare le folle se sono la condivisione di tutta la nostra vita. Nella
logica del Vangelo, se non si dona tutto non si dona mai abbastanza.
Queste
cose voi le fate già. Ma potete
condividere di più i profitti per combattere l’idolatria, cambiare le strutture
per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti; donare di più il
vostro lievito per lievitare il pane di molti. Il “no” ad un’economia che
uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere, perché condivide, include
i poveri, usa i profitti per creare comunione.
Vi auguro di continuare sulla vostra strada, con
coraggio, umiltà e gioia. «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7).
Dio ama i vostri profitti e talenti donati con gioia. Lo fate già; potete farlo
ancora di più.
Vi auguro di continuare ad essere seme, sale e
lievito di un’altra economia: l’economia del Regno, dove i ricchi sanno
condividere le loro ricchezze, e i poveri sono chiamati beati. Grazie.
30. Pace, perdono e indole personale
Dal Messaggio per la 50° Giornata
mondiale della pace di papa Francesco
La radice domestica di una politica nonviolenta
5. Se l’origine da cui scaturisce la violenza
è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentiero della
nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente di
quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo nell’Esortazione
apostolica Amoris laetitia [= La
gioia dell’amore], a conclusione di due anni di riflessione da parte della
Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo
attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a
comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove
gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza,
ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia
e il perdono. Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga
nel mondo e si irradia in tutta la società. D’altronde, un’etica di
fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può
basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla
responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un
appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle
armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca
assicurata non possono fondare questo tipo di etica Con uguale urgenza supplico
che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini.
************************************************
In una riunione del gruppo parrocchiale
di AC ci siamo interrogati sulle radici personali e familiari della vita pacificata.
Preferiamo essere amati o temuti? Ci
conosciamo veramente, o siamo troppo indulgenti con noi stessi nel riconoscere
caratteristiche della nostra indole come l’aggressività, l’intransigenza, la
durezza, che portano inevitabilmente a situazioni di conflitto. Abbiamo letto
un brano della Regola di Benedetto da Norcia (480-547),
nella quale si consiglia ai capi di comunità di cercare di farsi amare più che
temere, e un brano tratto dal Principe di Niccolò Machiavelli
(1469-1527) in cui si dà l’indicazione opposta, perché il capo che faccia conto
sull’amore dei suoi sottoposti viene in genere tradito nelle avversità, mentre
il timore dura per sempre e rende coese le società. Infine con l’aiuto di don
Giorgio abbiamo meditato sul brano evangelico con la parabola detta del Servo
malvagio (Mt 18, 21-35), in cui a un servo viene condonato un debito
rilevantissimo, ma poi rifiuta di condonare a sua volta a un suo debitore un
debito molto più piccolo, facendolo gettare in prigione, subendo lo sdegno del
suo padrone. Siamo capaci di perdonare, di condonare agli
altri i debiti che pensiamo abbiano contratto verso di noi? Il parroco, che è
da poco tornato da un viaggio in Uganda per incontrare alcuni missionari che là
operano, ci ha raccontato dei duri conflitti tribali che travagliano quella
parte dell’Africa e che non si riesce a sopire: la soluzione, attuata in altre
parti dell’Africa, potrebbe basarsi sul perdono, al modo in cui lo si è fatto
in Italia alla caduta del fascismo. Vendetta chiama vendetta e di vendetta in
vendetta si distrugge il contesto civile, come ancora osserviamo in alcune zone
del nostro Meridione. Abbiamo infine richiamato alla memoria il passo del
recente Messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace di
papa Francesco, in cui si esorta a “percorrere il sentiero della nonviolenza
in primo luogo all’interno della famiglia”. Infatti, ha scritto il Papa, “l’origine
da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini”.
In quel messaggio il Papa indica la
necessità di una politica nonviolenta a partire dalla
realtà domestica. Quest’ultima non sempre è pacificata e
fonte di gioia. Vive tensioni che possono sfociare in violenza, come le
cronache ci raccontano sempre più spesso. Per certi versi i mali sociali si
riflettono sulle realtà familiari, le quali a loro volta ne sono anche sono
espressione e origine. Parlare di pace è facile e bello, praticare la
pace è molto più difficile. E, quando si vive in famiglia, sono appunto
le pratiche quotidiane di vita che possono fare soffrire
e che, dunque, bisognerebbe cambiare. Nella famiglia si può educare alla pace
o, al contrario, alla violenza e alla sopraffazione. E’ lì che si può
cominciare a sperimentare la sopraffazione tra esseri umani, ad esempio tra
maschi e femmine, tra genitori e figli e tra fratelli. Le tradizioni etniche,
religiose e politiche della società in cui la famiglia è immersa la possono
condizionare pesantemente anche in senso negativo. In religione, in
particolare, è in genere ancora piuttosto critica la questione del ruolo delle
donne nella famiglia, sia nel rapporto coniugale sia in quello filiale. E’ in
famiglia che si forma la nostra indole, certe nostre caratteristiche che
tendono a permanere nel corso di tutta la vita, e la psicologia ce ne dà la
spiegazione. Ma non dobbiamo sottovalutare la capacità di cambiamento che una
persona può avere nel corso della propria vita, solo che riesca a prendere
coscienza della radice del male che c’è in lei e nella società intorno ed avere
gli amici giusti. Di solito i problemi sociali non derivano solo e in primo
luogo dall’indole degli individui, ma dall’organizzazione sociale che una
civiltà ha prodotto e che è alla base della produzione e distribuzione delle
risorse e di ciò che la gente desidera per sé per raggiungere la felicità, come
anche delle regole della vita delle famiglie. E’ qui che la pace diventa un
problema politico. Se non si riesce a compiere il passaggio dal particolare,
dall'individuo e dalla sua famiglia alla società intorno, non si passa mai alla
dimensione politica e anche le soluzioni ai mali sociali sfuggono. Spesso però
in religione si è indicata una via della pace attraverso il perdono che si
esprimeva nella rinuncia alla lotta, per cui la religione è apparsa, è non di
rado lo è effettivamente diventata, uno dei modi con cui le classi dominanti
tiranneggiavano quello sottoposte. L’ingenua ideologia corporativa delle
origini della dottrina sociale in sostanza consisteva proprio in questo: non
era capace di apprezzare il potenziale di liberazione attraverso coscienza
collettiva e lotta sociale espresso da certe politiche, ad esempio quelle nonviolente che
furono proprie di Mohandas Gandhi in India e di Martin Luther King negli Stati
Uniti d’America.
“Dall’interno della famiglia la gioia
dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società”, si legge
nel Messaggio del Papa: questa, in realtà, più che una
constatazione di ciò che veramente accade, è un auspicio e un’esortazione. E’
però tanto difficile passare dalla dimensione domestica a quella sociale, fino
a comprendere tutto il mondo. Il mondo fa paura e allora non di rado veniamo
consigliati a rinchiuderci nelle realtà familiari, appagandocene. E’, in fondo,
una via neo-tribale ad una religione difensiva, di
protezione contro i mali del mondo, la comunità di fede come neo-tribù di
famiglie. Difficile però far sopravvivere un mondo di sette miliardi di persone
con organizzazioni neo-tribali: in questo modo, in realtà, ritirandosi
sostanzialmente dalla politica, si lascia il campo alle forze che, a livello
globale, diffondono un’organizzazione ingiusta e predatoria delle società,
creando tanta sofferenza e, in particolare, privando progressivamente, nel nome
della libertà, le organizzazioni pubbliche dei poteri e risorse che loro
competono per realizzare il bene comune, in particolare l’equità sociale.
L’ideologia globale proclama la legge della giungla, quella del forte che
mangia il debole e rifiuta ogni limite posto dalle collettività a fini di
giustizia sociale: preferisce rapporti bilaterali, tra un forte e
un debole, e in questo modo finisce come deve finire. Così una persona può
cercare di essere buona e di farsi amare, e anche di costruire una famiglia
basata su questi principi, ma se poi non si occupa di politica,
quindi di ciò che c’è appena oltre la porta di casa, non fa tutto il suo
dovere, anche in senso religioso. E’ docile, non usa la
violenza, ma questo diventa in fondo una manifestazione di resa al male, di arrendevolezza. Capire
la società per influirvi consapevolmente è però più difficile che capire la
propria famiglia, fondata su rapporti elementari. Anche perché la società si è
fatta molto più complessa di una volta: siamo tanti di più di prima al mondo. E
non bastano i testi sacri per orientarsi. Dunque una formazione religiosa fatta
solo di questi ultimi, di qualche istruzione liturgica e di famiglia è
insufficiente. Fin da molto piccoli, fin dalle società di bambini, ci si
confronta con il male sociale, ma se non si ha avuta, in famiglia o a scuola o
in religione, una formazione specifica non si riesce ad affrontarlo. Lavorarci
su richiede di creare un’organizzazione, fin da molto giovani. Una realtà
sociale come la parrocchia dispone delle strutture giuste per attuarla. E’ una
grande responsabilità. Come partire, o ripartire, nei casi in cui si è
interrotta una tradizione, una memoria. Certe cose vanno riscoperte e riprese.
Innanzi tutto occorre creare occasioni di incontro in parrocchia molto più
prolungate delle usuali liturgie ed esercizi spirituali. Un ragazzo dovrebbe
abituarsi a venire a studiare da noi, insieme agli altri: così la religione
inizierebbe ad apparirgli utile per la vita. Ci vorrebbe un ambiente adatto,
con molti libri, connessione wi-fi e strumenti multimediali. E
un’organizzazione di volontariato per custodirlo e curarlo. Poi un programma di
riflessione, basato su certi libri di testo, e gente che spieghi come si lavora
insieme in queste cose, delle quali i più non hanno più esperienza, in modo che
il tempo insieme non sia tempo perso o solo impiegato per lo studio personale.
E' infatti dal confronto tra tanti punti di vista che
scaturisce un'immagine affidabile della realtà intorno.
Serve
materiale, soprattutto servono libri, che ora sono divenuti più accessibili in
formato digitale. Se non se ne ha a sufficienza o non se ne ha del tutto, come
fare a capire la società?
Ricordo
che la sala della Rettoria di S. Ivo alla Sapienza, a corso Rinascimento,
nell’antica sede dell’Università Sapienza, dove si riunivano i soci del
movimento romano dei Laureati cattolici che tanta parte ebbero nella
ricostruzione politica ed economica dell’Italia dopo la caduta del fascismo,
era appunto un luogo di incontro con un tavolo e tante sedie e, intorno, tanti
libri. Lì si attuò il passaggio virtuoso, il tirocinio innanzi tutto, dalla
religione individuale e domestica alla politica animata dai valori di fede,
attraverso la costruzione di una sapienza collettiva. Era un posto all'interno
dell'Università, proprio lì dove gli universitari e i loro docenti passavano
gran parte del giorno: al centro della società non in suo angolino appartato.