Note
per un tirocinio di democrazia 14
Notes
for a Internship in democracy 14
Note:
After the text in Italian, I enclose its English translation, done with the
help of Google Translate. Where I found it, I inserted the official text in
English of the documents of the Holy See. In the case of the original version
of the passage from the Catechism of the Catholic Church published in 1992 that
I mentioned, I did not find it in English and I did the translation into
English, with the help of Google Translate.
Nell’attuale versione del Catechismo della Chiesa cattolica [fonte: <http://www.vatican.va/archive/ITA0014/__P7Y.HTM>],
che non è solo un sussidio per la
formazione religiosa, ma si è voluto come legge del pensiero (tanto è vero che l’11
ottobre 1992 fu promulgato oltre
che approvato), per distinguere
l’ortodossia dalla devianza e dall’eresia, si legge, sul tema della pena di
morte, uno degli strumenti utilizzati dalla politica, e anche nel regno che il
Papato romano ebbe nell’Italia centrale fino alla sua soppressione nel 1870:
2266 Corrisponde ad un'esigenza
di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il
diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell'uomo e delle regole
fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il
diritto ed il dovere ha il diritto ed il dovere di infliggere pene
proporzionate alla gravità del delitto. La pena ha innanzi tutto lo scopo di
riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente
accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre
che a difendere l'ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira
ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla
correzione del colpevole.
2267 L'insegnamento
tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento
dell'identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di
morte, quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente
dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere dall'aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana.
Oggi, infatti, a seguito delle
possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine
rendendo inoffensivo colui che l'ha commesso, senza togliergli definitivamente
la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del
reo “sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” [Evangelium
vitae, n. 56].
Questo testo venne promulgato con
la lettera apostolica E’ motivo di grande
gioia - Laetamur magnopere, diffusa
il 15 agosto 1997 dal papa Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°, dopo un lavoro di
revisione iniziato precocemente, l’anno successivo a quello della prima
approvazione e pubblicazione del Catechismo,
come spiegato nello stesso provvedimento del 1997:
«Questa edizione è stata preparata da una Commissione
Interdicasteriale, che ho costituito a tale scopo nel 1993. Presieduta dal
Card. Joseph Ratzinger, tale Commissione ha lavorato assiduamente, per
adempiere al mandato ricevuto. Essa ha dedicato particolare attenzione
all'esame delle numerose proposte di modifica ai contenuti del testo, che
durante questi anni sono pervenute dalle varie parti del mondo e dalle diverse
componenti del mondo ecclesiale.»
Era accaduto infatti che, dopo la pubblicazione di una prima versione del Catechismo nel 1992, nel mondo
cattolico si era insorti contro la deliberazione di ammettere la pena di morte
secondo l’estensione concepita dalla dottrina tradizionale, risalente a periodi
bui e molto cruenti della vita sociale delle nostre comunità di fede, e
ripudiata dalle concezioni contemporanee correnti in alcune delle democrazie più
avanzate, come quelle coinvolte nel processo di unificazione europea, in particolare dalle loro dottrine giuridiche.
In Italia, ad esempio, la pena di morte, già ammessa solo nei casi previsti
dalle leggi militari di guerra, è stata soppressa con legge costituzionale n.1
del 2 ottobre 2007. Nella Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata nel 2007 e divenuta legge europea il
1 dicembre 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, si legge perentoriamente, senza distinzioni di
casi:
Articolo 2
Diritto
alla vita
1. Ogni
persona ha diritto alla vita.
2. Nessuno
può essere condannato alla pena di morte, né giustiziato.
Nella versione del Catechismo
edita nel 1992 dalla Libreria Editrice Vaticana sulla base del testo approvato
e promulgato quell’anno, i paragrafi avevano infatti un diverso contenuto:
2266 Difendere il bene comune
della società esige che si ponga l’aggressore in stato di non nuocere. A questo
titolo, l’insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto fondato il
diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infiggere pene
proporzionate alla gravita del delitto, senza escludere, in casi di estrema
gravità, la pena di morte. Per analoghi motivi, i detentori dell’autorità hanno
il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità civile
affidata alle loro responsabilità.
La pena
ha come primo scopo di riparare al disordine introdotto dalla colpa. Quando è
volontariamente accettata dal colpevole, la pena ha valore di espiazione.
Inoltre, la pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la sicurezza
delle persone. Infine, la pena ha valore medicinale: nella misura del
possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole.
2267 Se i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere le vite umane dall’aggressore e per proteggere
l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone,
l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana.
Tra l’una e l’altra versione ci fu l’enciclica Il
Vangelo della vita - Evangelium vitae, diffusa il 25 marzo 1995 dal papa
Wojtyla, di solito ricordata prevalentemente sulla questione dell’interruzione
volontaria della gravidanza sulla quale contiene deliberazioni solenni e volute
come ultimative, ma che contiene brani
molto importanti che riguardano appunto la pena di morte:
56. In questo orizzonte si colloca anche il problema della pena di morte, su cui si registra, nella Chiesa come nella società civile,
una crescente tendenza che ne chiede un'applicazione assai limitata ed anzi una
totale abolizione. Il problema va inquadrato nell'ottica di una giustizia
penale che sia sempre più conforme alla dignità dell'uomo e pertanto, in ultima
analisi, al disegno di Dio sull'uomo e sulla società. In effetti, la pena che
la società infligge «ha come primo scopo di riparare al disordine introdotto
dalla colpa». La pubblica autorità deve farsi vindice della violazione dei
diritti personali e sociali mediante l'imposizione al reo di una adeguata
espiazione del crimine, quale condizione per essere riammesso all'esercizio
della propria libertà. In tal modo l'autorità ottiene anche lo scopo di
difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone, non senza offrire
allo stesso reo uno stimolo e un aiuto a correggersi e redimersi.
È chiaro che, proprio per
conseguire tutte queste finalità, la misura e la qualità della
pena devono essere attentamente valutate e decise, e non devono
giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi di
assoluta necessità, quando cioè la difesa della società non fosse possibile
altrimenti. Oggi, però, a seguito dell'organizzazione sempre più adeguata
dell'istituzione penale, questi casi sono ormai molto rari, se non addirittura
praticamente inesistenti.
In ogni caso resta valido
il principio indicato dal nuovo Catechismo della Chiesa
Cattolica, secondo cui «se i mezzi incruenti sono sufficienti per
difendere le vite umane dall'aggressore e per proteggere l'ordine pubblico e la
sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi
sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più
conformi alla dignità della persona umana».
57. Se così grande attenzione va posta al rispetto di ogni vita,
persino di quella del reo e dell'ingiusto aggressore, il comandamento «non
uccidere» ha valore assoluto quando si riferisce alla persona
innocente. E ciò tanto più se si tratta di un essere umano debole e
indifeso, che solo nella forza assoluta del comandamento di Dio trova la sua
radicale difesa rispetto all'arbitrio e alla prepotenza altrui.
nei quali troviamo concezioni in materia di
politica della pena di morte più restrittive rispetto alla versione del Catechismo del 1992, ma rispetto alle quali il testo del Catechismo approvato nel 1997 appare come un’ulteriore
evoluzione limitativa del ricorso alla pena di morte, e comunque ancora lontana
dalle concezioni delle democrazie evolute contemporanee che tendono ad
escluderla del tutto. Dello
sviluppo culturale su quel tema si fu consapevoli nella redazione dell’enciclica
Il
Vangelo della vita:
27. […] Tra i segni di speranza va pure
annoverata la crescita, in molti strati dell'opinione pubblica, di una nuova sensibilità sempre
più contraria alla guerra come strumento di soluzione dei conflitti tra i popoli e
sempre più orientata alla ricerca di strumenti efficaci ma «non violenti» per
bloccare l'aggressore armato. Nel medesimo orizzonte si pone altresì la sempre più diffusa avversione
dell'opinione pubblica alla pena di morte anche solo come strumento di «legittima difesa»
sociale, in considerazione delle possibilità di cui dispone una moderna società
di reprimere efficacemente il crimine in modi che, mentre rendono inoffensivo
colui che l'ha commesso, non gli tolgono definitivamente la possibilità di
redimersi.
Va anche rilevato che l’aver inserito il tema della pena di morte
nella sezione del Catechismo che riguarda la legittima difesa è frutto di concezioni piuttosto arretrate,
centrate sull’esigenza di porre i colpevoli di delitti in condizione di non nuocere, mentre nelle concezioni
giuridiche delle democrazie contemporanee si assegna alla pena una funzione di
reintegrazione sociale, che richiede un cambiamento nel colpevole ma anche
nella società che l’incrimina e condanna, motivo per il quale, appunto, si
tende a ripudiare la pena di morte. La pena, in quest’ottica, dovrebbe essere
molto più che sofferenza ed espiazione.
Allo stato, nel campo del
rispetto della vita, l’Unione Europea ha una legge che è molto più
avanzata di quella contenuta nel Catechismo,
che, ritiene assoluto solo il rispetto della vita dell’innocente, ma non di
quella del colpevole, ritenendo rari, anzi
praticamente inesistenti, ma, in
definitiva, non del tutto inesistenti, i casi nei quali
è necessaria e legittima la soppressione
del reo (del colpevole).
Che cosa impedì al Papato
di andare oltre? Il peso della tradizione, certo, dalla quale un Papa
accreditato come tradizionalista su molti aspetti, sebbene riformatore in molti
altri, esitò ad distaccarsi del tutto; poi anche il peso della tremenda storia
del Papato romano, che, nell’esercizio del potere politico nel suo regno
italiano e nell’influenza, notevole, che ebbe sugli europei nel secondo
Millennio, praticò, ordinò e autorizzo l’esecuzione della pena di morte, anche
in modi atroci come il rogo di persone vive e per crimini di libertà di
pensiero, ma, probabilmente, anche il peso della politica degli anni ’90, che
vedeva Papato e Stati Uniti d’America su una linea concordante nell’azione riguardante
le regioni dell’Europa orientale che stavano uscendo dal comunismo di tipo
leninista/stalinista, e in alcuni degli Stati federati negli Stati Uniti
d’America la pena di morta era e ancora è ammessa e praticata; e certamente non
erano abolizionisti i Presidenti federali repubblicani che, negli anni ’80 e
inizio degli anni ‘90 erano stati protagonisti nell’epoca della veloce
disgregazione di quei regimi socialisti, in particolare di quello polacco in
cui tanta rilevanza ebbe la figura del papa Wojtyla. Tra il 1993 e il 1997 la
situazione statunitense, e quindi quella internazionale che all'epoca più di ora era influenzata da quella statunitense, era però mutata, con la presidenza del democratico Bill
Clinton.
Papa Wojtyla non è stato
né sarà l’unico capo religioso ad affrontare la difficile opera di mediazione
dei valori nella pratica del governo delle società, e la questione impegna
chiunque voglia essere attivo in politica, quindi, nelle democrazie avanzate di
popolo, tutti coloro che vi hanno voce in politica a vario livello, non solo
quindi chi ha il diritto di voto e può candidarsi alle elezioni, ma anche i
ragazzi considerati minorenni e gli stranieri che abitano stabilmente in una
collettività politica. Un Papa è sovrano assoluto solo sulla carta, nella legge
della Chiesa cattolica, per il resto ci appare, si dichiara, ed in effetti è
molto condizionato dalle culture a cui principalmente fa riferimento e dalle
interazioni con altri poteri politici. Lo siamo tutti noi quando vogliamo in
qualche modo fare politica e anche solo ragionare di politica.
In materia di tutela della
vita, i principi religiosi sono stati sintetizzati molto chiaramente nell’enciclica
Il Vangelo della vita che ho prima citato:
39. La vita dell'uomo
proviene da Dio, è suo dono, sua immagine e impronta, partecipazione del suo
soffio vitale. Di questa vita, pertanto, Dio è l'unico
signore: l'uomo non può disporne. Dio stesso lo ribadisce a Noè dopo
il diluvio: «Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di suo
fratello» (Gn 9, 5). E il testo biblico si preoccupa di
sottolineare come la sacralità della vita abbia il suo fondamento in Dio e
nella sua azione creatrice: «Perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l'uomo» (Gn 9,
6).
La vita e la morte dell'uomo sono, dunque, nelle mani di Dio, in suo
potere: «Egli ha in mano l'anima di ogni vivente e il soffio d'ogni carne
umana», esclama Giobbe (12, 10). «Il Signore fa morire e fa vivere, scendere
agli inferi e risalire» (1 Sam 2, 6). Egli solo può dire: «Sono io
che do la morte e faccio vivere» (Dt 32, 39).
Ma questo potere Dio non lo esercita come arbitrio minaccioso, bensì
come cura e sollecitudine amorosa nei riguardi delle sue
creature. Se è vero che la vita dell'uomo è nelle mani di Dio, non è
men vero che queste sono mani amorevoli come quelle di una madre che accoglie,
nutre e si prende cura del suo bambino: «Io sono tranquillo e sereno come bimbo
svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia» (Sal 131/130,
2; cf. Is 49, 15; 66, 12-13; Os 11, 4). Così
nelle vicende dei popoli e nella sorte degli individui Israele non vede il
frutto di una pura casualità o di un destino cieco, ma l'esito di un disegno
d'amore con il quale Dio raccoglie tutte le potenzialità di vita e contrasta le
forze di morte, che nascono dal peccato: «Dio non ha creato la morte e non gode
per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza» (Sap 1,
13-14).
40. Dalla sacralità della vita
scaturisce la sua inviolabilità, inscritta fin dalle origini nel cuore
dell'uomo, nella sua coscienza. La domanda «Che hai fatto?» (Gn 4,
10), con cui Dio si rivolge a Caino dopo che questi ha ucciso il fratello
Abele, traduce l'esperienza di ogni uomo: nel profondo della sua coscienza,
egli viene sempre richiamato alla inviolabilità della vita — della sua vita e
di quella degli altri —, come realtà che non gli appartiene, perché proprietà e
dono di Dio Creatore e Padre.
Il comandamento relativo
all'inviolabilità della vita umana risuona al centro delle «dieci
parole» nell'Alleanza del Sinai (cf. Es 34, 28). Esso
proibisce, anzitutto, l'omicidio: «Non uccidere» (Es 20, 13); «Non
far morire l'innocente e il giusto» (Es 23, 7); ma proibisce anche
— come viene esplicitato nell'ulteriore legislazione di Israele — ogni lesione
inflitta all'altro (cf. Es 21, 12-27). Certo, bisogna
riconoscere che nell'Antico Testamento questa sensibilità per il valore della
vita, pur già così marcata, non raggiunge ancora la finezza del Discorso della
Montagna, come emerge da alcuni aspetti della legislazione allora vigente, che
prevedeva pene corporali non lievi e persino la pena di morte. Ma il messaggio
complessivo, che spetterà al Nuovo Testamento di portare alla perfezione, è un
forte appello al rispetto dell'inviolabilità della vita fisica e dell'integrità
personale, ed ha il suo vertice nel comandamento positivo che obbliga a farsi
carico del prossimo come di se stessi: «Amerai il tuo prossimo come te stesso»
(Lv 19, 18).
41. Il comandamento del «non
uccidere», incluso e approfondito in quello positivo dell'amore del prossimo,
viene ribadito in tutta la sua validità dal Signore Gesù. Al
giovane ricco che gli chiede: «Maestro, che cosa devo fare di buono per
ottenere la vita eterna?», risponde: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i
comandamenti» (Mt 19, 16.17). E cita, come primo, il «non uccidere»
(v. 18). Nel Discorso della Montagna, Gesù esige dai discepoli una giustizia
superiore a quella degli scribi e dei farisei anche nel campo del
rispetto della vita: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi
avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il
proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio» (Mt 5, 21-22).
Con la sua parola e i suoi gesti
Gesù esplicita ulteriormente le esigenze positive del comandamento circa
l'inviolabilità della vita. Esse erano già presenti nell'Antico Testamento,
dove la legislazione si preoccupava di garantire e salvaguardare le situazioni
di vita debole e minacciata: il forestiero, la vedova, l'orfano, il malato, il
povero in genere, la stessa vita prima della nascita (cf. Es 21,
22; 22, 20-26). Con Gesù queste esigenze positive acquistano vigore e slancio
nuovi e si manifestano in tutta la loro ampiezza e profondità: vanno dal
prendersi cura della vita del fratello (familiare,
appartenente allo stesso popolo, straniero che abita nella terra di Israele),
al farsi carico dell'estraneo, fino all'amare il nemico.
L'estraneo non è più tale per chi deve farsi prossimo di
chiunque è nel bisogno fino ad assumersi la responsabilità della sua vita, come
insegna in modo eloquente e incisivo la parabola del buon samaritano (cf. Lc 10,
25-37). Anche il nemico cessa di essere tale per chi è tenuto ad amarlo
(cf. Mt 5, 38-48; Lc 6, 27-35) e a «fargli
del bene» (cf. Lc 6, 27.33.35), venendo incontro alle
necessità della sua vita con prontezza e senso di gratuità (cf. Lc 6,
34-35). Vertice di questo amore è la preghiera per il nemico, mediante la quale
ci si pone in sintonia con l'amore provvidente di Dio: «Ma io vi dico: amate i
vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre
vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e
fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5, 44-45;
cf. Lc 6, 28.35).
Così il comandamento di Dio a salvaguardia della vita dell'uomo ha il
suo aspetto più profondo nell'esigenza di venerazione e di amore nei
confronti di ogni persona e della sua vita. È questo l'insegnamento che
l'apostolo Paolo, facendo eco alla parola di Gesù (cf. Mt 19,
17-18), rivolge ai cristiani di Roma: «Il precetto: Non commettere adulterio,
non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si
riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L'amore
non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore» (Rm 13,
9-10).
Possiamo quindi concludere che l’inviolabilità della vita umana è anche un comando religioso della fede cristiana, ma
certamente esso è stato inteso anche fra i cristiani in vario modo nei due
millenni della loro storia, e, in particolare, quando hanno avuto l’opportunità
di occuparsi del governo degli stati, e il modo in cui in politica lo intendono nell’epoca in cui viviamo è diametralmente
opposto a quello in cui lo si è
inteso tra il Quarto secolo e la metà del secolo scorso, per un tempo
lunghissimo, che, come ricordato nella prima versione del Catechismo in tema di pena di more, costituisce una tradizione.
Il problema è di grande attualità, ora che, inaspettatamente, tra gli
europei cristianizzati si vanno diffondendo orientamenti politici piuttosto
disinvolti su politiche cruente e letali verso altri popoli e, addirittura, all’interno
delle comunità di riferimento, che certamente, confliggendo con l’inviolabilità
della vita proclamata dalla fede, costituiscono peccato, peccato grave,
mortale, e, in quanto peccato politico, espressione di quelle che il papa Wojtyla
definì strutture di peccato (avendo
prevalentemente presenti le organizzazioni sociali e politiche dei regimi
comunisti di tipo leninista/stalinista). Riporto in merito alcuni brani della
sua enciclica La sollecitudine
sociale [della Chiesa] - Sollicitudo rei socialis, del 1987, alle
soglie di mutamenti epocali in Europa, che possono essere considerati un vero e
proprio capitolo di un trattato sulla politica, ma anche di un catechismo
religioso su di essa.
V - Una lettura teologica dei problemi moderni
35. Alla luce dello stesso
essenziale carattere morale proprio dello sviluppo, sono da considerare anche
gli ostacoli che ad esso si oppongono. Se durante gli anni trascorsi dalla
pubblicazione dell'Enciclica paolina lo sviluppo non c'è stato-o c'è stato in
misura scarsa, irregolare, se non addirittura contraddittoria-, le ragioni non
possono essere di natura soltanto economica. Come si e già accennato, vi
intervengono anche moventi politici. Le decisioni propulsive o frenanti lo
sviluppo dei popoli, infatti, non sono che fattori di carattere politico. Per
superare i meccanismi perversi, sopra ricordati, e sostituirli con nuovi, più
giusti e conformi al bene comune dell'umanità, è necessaria un'efficace volontà
politica. Purtroppo, dopo aver analizzato la situazione, occorre concludere che
essa è stata insufficiente.
In un documento pastorale, come il presente, un'analisi limitata
esclusivamente alle cause economiche e politiche del sottosviluppo (e, fatti i
debiti riferimenti, anche del cosiddetto supersviluppo) sarebbe incompleta. É
necessario, perciò, individuare le cause di ordine morale che, sul piano del
comportamento degli uomini considerati persone responsabili, interferiscono per
frenare il corso dello sviluppo e ne impediscono il pieno raggiungimento.
Parimenti, quando siano disponibili risorse scientifiche e tecniche, che con le
necessarie e concrete decisioni di ordine politico debbono contribuire
finalmente a incamminare i popoli verso un vero sviluppo, il superamento dei
maggiori ostacoli avverrà soltanto in forza di determinazioni essenzialmente
morali, le quali, per i credenti, specie se cristiani, s'ispireranno ai
principi della fede con l'aiuto della grazia divina.
36. É da rilevare, pertanto, che un
mondo diviso in blocchi, sostenuti da ideologie rigide, dove, invece
dell'interdipendenza e della solidarietà, dominano differenti forme di imperialismo,
non può che essere un mondo sottomesso a «strutture di peccato». La somma dei
fattori negativi, che agiscono in senso contrario a una vera coscienza del bene
comune universale e all'esigenza di favorirlo, dà l'impressione di creare, in
persone e istituzioni, un ostacolo difficile da superare. 64 Se
la situazione di oggi è da attribuire a difficoltà di diversa indole, non è
fuori luogo parlare di «strutture di peccato», le quali-come ho affermato
nell'Esortazione Apostolica Reconciliatio et paenitentia
[Riconciliazione e penitenza] -si radicano nel peccato personale e, quindi, son
sempre collegate ad atti concreti delle persone, che le introducono, le
consolidano e le rendono difficili da rimuovere. E così esse si
rafforzano, si diffondono e diventano sorgente di altri peccati, condizionando
la condotta degli uomini.
«Peccato» e «strutture di peccato» sono categorie che non sono spesso
applicate alla situazione del mondo contemporaneo. Non si arriva, però,
facilmente alla comprensione profonda della realtà quale si presenta ai nostri
occhi, senza dare un nome alla radice dei mali che ci affliggono. Si può
parlare certo di «egoismo» e di «corta veduta»; si può fare riferimento a
«calcoli politici sbagliati», a «decisioni economiche imprudenti». E in
ciascuna di tali valutazioni si nota un'eco di natura etico-morale. La
condizione dell'uomo è tale da rendere difficile un'analisi più profonda delle
azioni e delle omissioni delle persone senza implicare, in una maniera o
nell'altra, giudizi o riferimenti di ordine etico. Questa valutazione è di per
sé positiva, specie se diventa coerente fino in fondo e se si basa sulla fede
in Dio e sulla sua legge, che ordina il bene e proibisce il male.
In ciò consiste la differenza tra il tipo di analisi socio-politica e il
riferimento formale al «peccato» e alle «strutture di peccato». Secondo
quest'ultima visione si inseriscono la volontà di Dio tre volte Santo, il suo
progetto sugli uomini, la sua giustizia e la sua misericordia. Il Dio ricco in
misericordia, redentore dell'uomo, Signore e datore della vita, esige dagli uomini
atteggiamenti precisi che si esprimano anche in azioni o omissioni nei riguardi
del prossimo. Si ha qui un riferimento alla «seconda tavola» dei dieci
Comandamenti (Es 20,12); (Dt 5,16): con l'inosservanza
di questi si offende Dio e si danneggia il prossimo, introducendo nel mondo
condizionamenti e ostacoli, che vanno molto più in là delle azioni e del breve
arco della vita di un individuo. S'interferisce anche nel processo dello
sviluppo dei popoli, il cui ritardo o la cui lentezza deve essere giudicata anche
sotto tale luce.
37. A questa analisi generale di
ordine religioso si possono aggiungere alcune considerazioni particolari, per
notare che tra le azioni e gli atteggiamenti opposti alla volontà di Dio e al
bene del prossimo e le «strutture» che essi inducono, i più caratteristici
sembrano oggi soprattutto due: da una parte, la brama esclusiva del profitto e
dall'altra, la sete del potere col proposito di imporre agli altri la propria
volontà. A ciascuno di questi atteggiamenti si può aggiungere, per caratterizzarli
meglio, l'espressione: «a qualsiasi prezzo». In altre parole, siamo di fronte
all'assolutizzazione di atteggiamenti umani con tutte le possibili conseguenze.
Anche se di per sé sono separabili, sicché l'uno potrebbe stare senza l'altro,
entrambi gli atteggiamenti si ritrovano-nel panorama aperto davanti ai nostri
occhi-indissolubilmente uniti, sia che predomini l'uno o l'altro. Ovviamente, a
cader vittime di questo duplice atteggiamento di peccato non sono solo gli
individui. possono essere anche le Nazioni e i blocchi. E ciò favorisce di più
l'introduzione delle «strutture di peccato», di cui ho parlato. Se certe forme
di «imperialismo» moderno si considerassero alla luce di questi criteri morali,
si scoprirebbe che sotto certe decisioni, apparentemente ispirate solo
dall'economia o dalla politica si nascondono vere forme di idolatria: del
denaro, dell'ideologia, della classe, della tecnologia. Ho voluto introdurre
questo tipo di analisi soprattutto per indicare quale sia la vera natura del male
a cui ci si trova di fronte nella questione dello «sviluppo dei popoli»: si
tratta di un male morale, frutto di molti peccati, che portano a «strutture di
peccato». Diagnosticare così il male significa identificare esattamente, a
livello della condotta umana, il cammino da seguire per superarlo.
38. É un cammino lungo e complesso
e, per di più, tenuto sotto costante minaccia sia per l'intrinseca fragilità
dei propositi e delle realizzazioni umane, sia per la mutabilità delle
circostanze esterne tanto imprevedibili. Bisogna, tuttavia, avere il coraggio
d'intraprenderlo e, dove sono stati fatti alcuni passi o percorsa una parte del
tragitto, andare fino in fondo. Nel quadro di tali riflessioni, la decisione di
mettersi sulla strada o di continuare la marcia comporta, innanzitutto, un
valore morale che gli uomini e le donne credenti riconoscono come richiesto
dalla volontà di Dio, unico vero fondamento di un'etica assolutamente
vincolante.
É da auspicare che anche gli uomini e donne privi di una fede esplicita
siano convinti che gli ostacoli frapposti al pieno sviluppo non sono soltanto
di ordine economico, ma dipendono da atteggiamenti più profondi configurabili,
per l'essere umano, in valori assoluti. Perciò, è sperabile che quanti, in una
misura o l'altra, sono responsabili di una «vita più umana» verso i propri
simili, ispirati o no da una fede religiosa, si rendano pienamente conto
dell'urgente necessità di un cambiamento degli atteggiamenti spirituali, che
definiscono I rapporti di ogni uomo con se stesso, col prossimo, con le
comunità umane, anche le più lontane, e con la natura. in virtù di valori
superiori, come il bene comune, o, per riprendere la felice espressione
dell'Enciclica Populorum Progressio, il pieno sviluppo «di
tutto l'uomo e di tutti gli uomini».
Per i cristiani, come per tutti coloro che riconoscono il preciso
significato teologico della parola «peccato», il cambiamento di condotta o di
mentalità o del modo di essere si chiama, con linguaggio biblico, «conversione»
(Mc 1,15); (Lc 13,3); (Is 30,15). Questa
conversione indica specificamente relazione a Dio, alla colpa commessa, alle
sue conseguenze e, pertanto, al prossimo, individuo o comunità. È Dio, nelle
«cui mani sono i cuori dei potenti», e quelli di tutti, che può,
secondo la sua stessa promessa, trasformare ad opera del suo Spirito i «cuori
di pietra» in «cuori di carne» (Ez 36,26). Nel cammino della
desiderata conversione verso il superamento degli ostacoli morali per lo
sviluppo, si può già segnalare, come valore positivo e morale, la crescente
consapevolezza dell'interdipendenza tra gli uomini e le Nazioni. Il fatto che
uomini e donne, in varie parti del mondo, sentano come proprie le ingiustizie e
le violazioni dei diritti umani commesse in Paesi lontani, che forse non
visiteranno mai, è un segno ulteriore di una realtà trasformata in coscienza,
acquistando così connotazione morale.
Si tratta, innanzitutto, dell'interdipendenza, sentita come sistema
determinante di relazioni nel mondo contemporaneo, nelle sue componenti
economica, culturale, politica e religiosa, e assunta come categoria morale.
Quando l'interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come
atteggiamento morale e sociale, come «virtù»», è la solidarietà. Questa,
dunque, non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento
per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la
determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per
il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di
tutti. Tale determinazione è fondata sulla salda convinzione che le cause che
frenano il pieno sviluppo siano quella brama del profitto e quella sete del
potere, di cui si è parlato. Questi atteggiamenti e «strutture di peccato» si
vincono solo-presupposto l'aiuto della grazia divina-con un atteggiamento
diametralmente opposto: l'impegno per il bene del prossimo con la
disponibilità, in senso evangelico, a «perdersi» a favore dell'altro invece di
sfruttarlo e a «servirlo» invece di opprimerlo per il proprio tornaconto (Mt 10,40);
(Mt 20,25); (Mc 10,42); (Lc 22, 25).
39. L'esercizio della solidarietà
all'interno di ogni società è valido, quando i suoi componenti si riconoscono
tra di loro come persone. Coloro che contano di più, disponendo di una porzione
più grande di beni e di servizi comuni, si sentano responsabili dei più deboli
e siano disposti a condividere quanto possiedono. I più deboli, da parte loro,
nella stessa linea di solidarietà, non adottino un atteggiamento puramente
passivo o distruttivo del tessuto sociale, ma, pur rivendicando i loro
legittimi diritti, facciano quanto loro spetta per il bene di tutti. I gruppi
intermedi, a loro volta, non insistano egoisticamente nel loro particolare
interesse, ma rispettino gli interessi degli altri. Segni positivi nel mondo
contemporaneo sono la crescente coscienza di solidarietà dei poveri tra di
loro, i loro interventi di appoggio reciproco, le manifestazioni pubbliche
nella scena sociale, senza far ricorso alla violenza, ma prospettando i propri
bisogni e i propri diritti di fronte all'inefficienza o alla corruzione dei
pubblici poteri. In virtù del suo impegno evangelico, la Chiesa si sente
chiamata a restare accanto alle folle povere, a discernere la giustizia delle
loro richieste, a contribuire a soddisfarle, senza perdere di vista il bene dei
gruppi nel quadro del bene comune. Lo stesso criterio si applica, per analogia,
nelle relazioni internazionali. L'interdipendenza deve trasformarsi in
solidarietà, fondata sul principio che i beni della creazione sono destinati a
tutti: ciò che l'industria umana produce con la lavorazione delle materie
prime, col contributo del lavoro, deve servire egualmente al bene di tutti.
Superando gli imperialismi di ogni tipo e i propositi di conservare la
propria egemonia, le Nazioni più forti e più dotate debbono sentirsi moralmente
responsabili delle altre, affinché sia instaurato un vero sistema
internazionale, che si regga sul fondamento dell'eguaglianza di tutti i popoli
e sul necessario rispetto delle loro legittime differenze. I Paesi
economicamente più deboli, o rimasti al limite della sopravvivenza, con
l'assistenza degli altri popoli e della comunità internazionale, debbono essere
messi in grado di dare anch'essi un contributo al bene comune con i loro tesori
di umanità e di cultura, che altrimenti andrebbero perduti per sempre. La
solidarietà ci aiuta a vedere l'«altro»-persona, popolo o Nazione-non come uno
strumento qualsiasi, per sfruttarne a basso costo la capacità di lavoro e la
resistenza fisica, abbandonandolo poi quando non serve più ma come un nostro
«simile», un «aiuto» (Gen 2,18), da rendere partecipe, al pari di
noi, del banchetto della vita, a cui tutti gli uomini sono egualmente invitati
da Dio. Di qui l'importanza di risvegliare la coscienza religiosa degli uomini
e dei popoli. Sono così esclusi lo sfruttamento, l'oppressione, l'annientamento
degli altri. Questi fatti, nella presente divisione del mondo in blocchi
contrapposti, vanno a confluire nel pericolo di guerra e nell'eccessiva
preoccupazione per la propria sicurezza a spese non di rado dell'autonomia,
della libera decisione della stessa integrità territoriale delle Nazioni più
deboli, che son comprese nelle cosiddette «zone d'influenza» o nelle «cinture
di sicurezza». Le «strutture di peccato» e i peccati, che in esse sfociano, si
oppongono con altrettanta radicalità alla pace e allo sviluppo, perché lo
sviluppo, secondo la nota espressione dell'Enciclica paolina, è «il nuovo nome
della pace».
In tal modo la solidarietà da noi proposta è via alla pace e insieme
allo sviluppo. Infatti, la pace del mondo è inconcepibile se non si giunge, da
parte dei responsabili, a riconoscere che l'interdipendenza esige di per sé il
superamento della politica dei blocchi, la rinuncia a ogni forma di
imperialismo economico, militare o politico, e la trasformazione della
reciproca diffidenza in collaborazione. Questo è, appunto, l'atto proprio della
solidarietà tra individui e Nazioni. Il motto del pontificato del mio venerato
predecessore Pio XII era Opus iustitiae pax, la pace
come frutto della giustizia. Oggi si potrebbe dire, con la stessa esattezza e
la stessa forza di ispirazione biblica (Is 32,17); (Gc 3,18). Opus solidaritatis pax, la
pace come frutto della solidarietà. Il traguardo della pace, tanto desiderata
da tutti, sarà certamente raggiunto con l'attuazione della giustizia sociale e
internazionale, ma anche con la pratica delle virtù che favoriscono la
convivenza e ci insegnano a vivere uniti, per costruirne uniti, dando e
ricevendo, una società nuova e un mondo migliore.
40. La solidarietà è indubbiamente
una virtù cristiana. Già nella precedente esposizione era possibile intravedere
numerosi punti di contatto tra essa e la carità, che è il segno distintivo dei
discepoli di Cristo (Gv 13,35). Alla luce della fede, la
solidarietà tende a superare se stessa, a rivestire le dimensioni
specificamente cristiane della gratuità totale, del perdono e della
riconciliazione. Allora il prossimo non è soltanto un essere umano con i suoi
diritti e la sua fondamentale eguaglianza davanti a tutti, ma diviene la viva
immagine di Dio Padre, riscattata dal sangue di Gesù Cristo e posta sotto
l'azione permanente dello Spirito Santo. Egli, pertanto, deve essere amato,
anche se nemico, con lo stesso amore con cui lo ama il Signore, e per lui
bisogna essere disposti al sacrificio, anche supremo: «Dare la vita per i
propri fratelli» (1 Gv 3,16). Allora la coscienza della
paternità comune di Dio, della fratellanza di tutti gli uomini in Cristo,
«figli nel Figlio», della presenza e dell'azione vivificante dello Spirito
Santo, conferirà al nostro sguardo sul mondo come un nuovo criterio per
interpretarlo. Al di là dei vincoli umani e naturali, già così forti e stretti,
si prospetta alla luce della fede un nuovo modello di unità del genere umano,
al quale deve ispirarsi, in ultima istanza, la solidarietà. Questo supremo
modello di unità, riflesso della vita intima di Dio, uno in tre Persone, è ciò
che noi cristiani designiamo con la parola «comunione». Tale comunione,
specificamente cristiana, gelosamente custodita, estesa e arricchita, con
l'aiuto del Signore, è l'anima della vocazione della Chiesa ad essere «sacramento»,
nel senso già indicato. La solidarietà, perciò, deve contribuire all'attuazione
di questo disegno divino tanto sul piano individuale, quanto su quello della
società nazionale e internazionale. I «meccanismi perversi» e le «strutture di
peccato», di cui abbiamo parlato, potranno essere vinte solo mediante
l'esercizio della solidarietà umana e cristiana, a cui la Chiesa invita e che
promuove instancabilmente. Solo così tante energie positive potranno pienamente
sprigionarsi a vantaggio dello sviluppo e della pace. Molti Santi canonizzati
dalla Chiesa offrono mirabili testimonianze di tale solidarietà e possono
servire di esempio nelle difficili circostanze presenti. Fra tutti desidero
ricordare san Pietro Claver, col suo servizio agli schiavi di Cartagena de
Indias, e san Massimiliano Maria Kolbe, con l'offerta della sua vita in favore
di un prigioniero a lui sconosciuto nel campo di concentramento di
Auschwitz-Oswiecim.
Serve a poco proclamare dei valori, anche in religione, se non si è poi capaci
di un’azione sociale per farli vivere nel proprio tempo, quindi di un’azione
prettamente politica, ma essa, nei
suoi progetti e metodi, deve fare i conti con le società come sono realmente,
in particolare con le loro dinamiche violente e quelle sociali, politiche ed
economiche, e quindi anche con la possibilità che si renda necessario lottare per l’affermazione di quei valori, con il
rischio che il metodo della lotta porti ad attuare le stesse strategie violente,
cruente, alle quali si vorrebbe porre rimedio. Ecco che, allora, nel secolo
scorso, si sono affermati anche metodi di lotta non violenta, che hanno portato
risultati politici eclatanti, insperati, come ad esempio nella Polonia dalla
quale il papa Wojtyla ci venne, e, ancor prima, nell’India travagliata dal
dominio politico coloniale britannico, dove si dispiegò con successo l’azione
politica rivoluzionaria e tendenzialmente non violenta promossa da Mohandas Karamchand Gandhi, detto Mahatma (grande anima
in sanscrito, l’antica lingua indiana - 1869/1948). L’abbandono dei costumi di
violenza politica caratterizzò l’intero processo di disgregazione dei regimi
comunisti dell’Europa orientale, del tutto inaspettatamente tenendo conto dei
precedenti storici anche recenti e del fatto che essi erano travagliati da
sistemi di inquisizione politica paragonabili, per estensione, penetrazione ed
efferatezza, a quelli molto più a lungo
organizzati dal Papato romano. Questo dimostrò quanto profondo fosse il
mutamento di cultura politica che aveva coinvolto tutti gli europei, dai due
lati degli schieramenti politici in cui essi si erano divisi. Questa conquista
culturale è appunto a rischio ai nostri tempi.
Mario Ardigò - Azione
Cattolica in san Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
**********************
Notes
for a Internship in democracy 14
In the current version of the Catechism of the Catholic Church [source:
<http://www.vatican.va/archive/ITA0014/__P7Y.HTM>], which is not only a
subsidy for religious formation, but has been chosen as a law of thought (so
much so that October 11, 1992 was promulgated as well as approved), to
distinguish orthodoxy from deviance and heresy, we read, on the subject of the
death penalty, one of the tools used by politics, and also in the kingdom that
the Roman Papacy had in central Italy until its suppression in 1870:
Capital Punishment
2266 The State's effort
to contain the spread of behaviors injurious to human rights and the
fundamental rules of civil coexistence corresponds to the requirement of
watching over the common good. Legitimate public authority has the right and
duty to inflict penalties commensurate with the gravity of the crime. the
primary scope of the penalty is to redress the disorder caused by the offense.
When his punishment is voluntarily accepted by the offender, it takes on the value
of expiation. Moreover, punishment, in addition to preserving public order and
the safety of persons, has a medicinal scope: as far as possible it should
contribute to the correction of the offender.
2267 The traditional
teaching of the Church does not exclude, presupposing full ascertainment of the
identity and responsibility of the offender, recourse to the death penalty,
when this is the only practicable way to defend the lives of human beings
effectively against the aggressor.
"If, instead, bloodless means are
sufficient to defend against the aggressor and to protect the safety of
persons, public authority should limit itself to such means, because they
better correspond to the concrete conditions of the common good and are more in
conformity to the dignity of the human person.
"Today, in fact, given the means at the State's disposal to effectively
repress crime by rendering inoffensive the one who has committed it, without depriving
him definitively of the possibility of redeeming himself, cases of absolute
necessity for suppression of the offender 'today ... are very rare, if not
practically non-existent.'[John Paul II, Evangelium vitae 56.]
[official text in
English published by the Holy See]
This
text was promulgated with the apostolic letter It is a cause of great joy -
Laetamur magnopere, released August 15, 1997 by Pope Karol Wojtyla - John Paul
2, after a revision work started early, the year following that of the first
approval and publication of the Catechism, as explained in the same provision
of 1997:
This
edition was prepared by an Interdicasterial Commission which I appointed for
this purpose in 1993. Presided over by Cardinal Joseph Ratzinger, this
Commission worked diligently to fulfill the mandate it received. It devoted
particular attention to a study of the many suggested changes to the contents
of the text, which in these years had come from around the world and from
various parts of the ecclesial community.
[official text in
English published by the Holy See]
In
fact it happened that, after the 1992 publication of a first version of the
Catechism, in the Catholic world there had been an uprising against the
decision to admit the death penalty according to the extension conceived by the
traditional doctrine, dating back to dark and very bloody periods of life
social of our faith communities, and repudiated by contemporary contemporary
conceptions in some of the most advanced democracies, such as those involved in
the process of European unification, in particular by their legal doctrines. In
Italy, for example, the death penalty, already admitted only in the cases
foreseen by the military laws of war, was suppressed with constitutional law
n.1 of October 2, 2007. In the Charter of fundamental rights of the European
Union, approved in 2007 and became European law on December 1, 2009, with the
entry into force of the Lisbon Treaty, it reads peremptorily, without
distinction of cases:
Article
2
Right
to life
1.
Every person has the right to life.
2.
No one can be sentenced to death or executed.
In
the version of the Catechism published in 1992 by the Libreria Editrice
Vaticana [=Vatican publishing] based on
the text approved and promulgated that year, the paragraphs had indeed a
different content:
2266
To defend the common good of society demands that the aggressor be placed in a
state of no harm. For this reason, the traditional teaching of the Church has
recognized the right and duty of the legitimate public authority to inflict
punishment proportionate to the gravity of the crime, without excluding, in
cases of extreme gravity, the death penalty. For similar reasons, the holders
of the authority have the right to use weapons to repel the aggressors of the
civil community entrusted to their responsibilities.
The
first aim of the punishment is to repair the disorder introduced by guilt. When
voluntarily accepted by the guilty party, the penalty has the value of
expiation. Furthermore, the penalty is to defend public order and the safety of
people. Finally, the penalty has medicinal value: as far as possible, it must
contribute to the correction of the culprit.
2267
If the bloodless means are sufficient to defend human lives from the aggressor
and to protect public order and the safety of people, authority will be limited
to these means, since they are better suited to the concrete conditions of the
common good and are more in conformity with the dignity of the human person.
[text
translated from the Italian language with the help of Google Translate. I don’t the official version in English
]
Between
the one and the other version there was the encyclical The Gospel of life - Evangelium vitae, released on March 25, 1995
by Pope Wojtyla, usually remembered mainly on the question of the voluntary
interruption of pregnancy on which it contains solemn and deliberate
deliberations as ultimative, but which contains very important passages
concerning precisely the death penalty:
56. This is the context in which to place the problem of the death
penalty. On this matter there is a growing tendency, both in the Church and in
civil society, to demand that it be applied in a very limited way or even that
it be abolished completely. The problem must be viewed in the context of a
system of penal justice ever more in line with human dignity and thus, in the
end, with God's plan for man and society. The primary purpose of the punishment
which society inflicts is "to redress the disorder caused by the
offence".46 Public
authority must redress the violation of personal and social rights by imposing
on the offender an adequate punishment for the crime, as a condition for the
offender to regain the exercise of his or her freedom. In this way authority
also fulfils the purpose of defending public order and ensuring people's
safety, while at the same time offering the offender an incentive and help to
change his or her behaviour and be rehabilitated.
It is clear that, for these
purposes to be achieved, the nature and extent of the punishment must be
carefully evaluated and decided upon, and ought not go to the extreme of
executing the offender except in cases of absolute necessity: in other words,
when it would not be possible otherwise to defend society. Today however, as a
result of steady improvements in the organization of the penal system, such
cases are very rare, if not practically non-existent.
In any event, the principle set forth in the new Catechism of the
Catholic Church remains valid: "If bloodless means are sufficient to
defend human lives against an aggressor and to protect public order and the
safety of persons, public authority must limit itself to such means, because
they better correspond to the concrete conditions of the common good and are
more in conformity to the dignity of the human person".
57. If such great care must be
taken to respect every life, even that of criminals and unjust aggressors, the
commandment "You shall not kill" has absolute value when it refers to
the innocent person. And all the more so in the case of weak and defenceless
human beings, who find their ultimate defence against the arrogance and caprice
of others only in the absolute binding force of God's commandment.
[official text in
English published by the Holy See]
in which we find more restrictive
conceptions of the death penalty policy than the 1992 Catechism version, but
with respect to which the text of the Catechism approved in 1997 appears as a
further limiting evolution of the use of the death penalty, and in any case
still far from the concepts of modern evolved democracies that tend to exclude
it altogether. From
the cultural development on that theme one was aware in the drafting of the
encyclical The Gospel of life:
27. […] Among the signs of hope we should also
count the spread, at many levels of public opinion, of a new sensitivity ever
more opposed to war as an instrument for the resolution of conflicts between
peoples, and increasingly oriented to finding effective but
"non-violent" means to counter the armed aggressor. In the same
perspective there is evidence of a growing public opposition to the death
penalty, even when such a penalty is seen as a kind of "legitimate
defence" on the part of society. Modern society in fact has the means of
effectively suppressing crime by rendering criminals harmless without
definitively denying them the chance to reform.
[official text in
English published by the Holy See]
It should also be noted that the inclusion of
the theme of the death penalty in the section of the Catechism which concerns
legitimate defense is the result of rather backward conceptions, centered on
the need to place the perpetrators of crimes in a position not to harm, while in
legal concepts of contemporary democracies a function of social reintegration
is assigned to punishment, which requires a change in the guilty but also in
the society that incriminates and condemns him, which is why, in fact, there is
a tendency to repudiate the death penalty. The penalty, in this perspective,
should be much more than suffering
and expiation.
At present, in the field of respect for life,
the European Union has a law which is much more advanced than that contained in
the Catechism, which considers absolute respect for the life of the innocent,
but not that of the guilty, considering it to be rare , indeed practically non-existent, but,
ultimately, not entirely non-existent,
the cases in which the suppression of the offender (of the guilty) is necessary
and legitimate.
What prevented the Papacy from going further?
The weight of tradition, of course, from which a Pope accredited as a
traditionalist on many aspects, although reformed in many others, hesitated to
detach himself completely; then also the weight of the tremendous history of
the Roman Papacy, which, in the exercise of political power in its Italian
kingdom and in the considerable influence it had on the Europeans in the second
millennium, practiced, ordered and authorized the execution of the death
penalty , even in atrocious ways such as the burning of living people and for
crimes of freedom of thought, but, probably, also the weight of the politics of
the 90s, which saw Papato and the United States of America on a concordant line
in the action concerning the regions of eastern Europe that were emerging from
Leninist / Stalinist communism, and in some of the federated states in the
United States of America the death penalty was and still is admitted and
practiced; and certainly the Federal Republican Presidents were not
abolitionists who, in the 1980s and the beginning of the 1990s, had been
protagonists in the era of the rapid disintegration of those socialist regimes,
in particular the Polish one in which the figure of Pope Wojtyla was so
important . Between 1993 and 1997 the US situation, and therefore the
international one at the time more than now influenced by the US, had however
changed, with the presidency of the Democrat Bill Clinton.
Pope Wojtyla was neither nor will he be the only
religious leader to face the difficult task of mediating values in the practice
of corporate governance, and the question commits anyone who wants to be active
in politics, therefore, in the advanced democracies of the people, all those
who they have a voice in politics at various levels, not only therefore those
who have the right to vote and can stand for election, but also children
considered minors and foreigners who live permanently in a political community.
A Pope is absolute sovereign only on paper, in the law of the Catholic Church,
for the rest it appears to us, he declares himself, and in fact he is very
conditioned by the cultures to which he mainly refers and by interactions with
other political powers. We are all of us when we want to somehow do politics
and even think about politics.
With regard to the protection of life,
religious principles have been summarized very clearly in the encyclical The
Gospel of life which I mentioned before:
39. Man's life comes from God; it is his gift, his image and
imprint, a sharing in his breath of life. God therefore is the sole Lord of
this life: man cannot do with it as he wills. God himself makes this clear to
Noah after the Flood: "For your own lifeblood, too, I will demand an
accounting ... and from man in regard to his fellow man I will demand an
accounting for human life" (Gen 9:5). The biblical text is concerned to
emphasize how the sacredness of life has its foundation in God and in his
creative activity: "For God made man in his own image" (Gen 9:6).
Human life and death are thus in
the hands of God, in his power: "In his hand is the life of every living
thing and the breath of all mankind", exclaims Job (12:10). "The Lord
brings to death and brings to life; he brings down to Sheol and raises up"
(1 Sam 2:6). He alone can say: "It is I who bring both death and
life" (Dt 32:39).
But God does not exercise this power in an arbitrary and threatening
way, but rather as part of his care and loving concern for his creatures. If it
is true that human life is in the hands of God, it is no less true that these
are loving hands, like those of a mother who accepts, nurtures and takes care
of her child: "I have calmed and quieted my soul, like a child quieted at
its mother's breast; like a child that is quieted is my soul" (Ps 131:2; cf.
Is 49:15; 66:12-13; Hos 11:4). Thus Israel does not see in the history of
peoples and in the destiny of individuals the outcome of mere chance or of
blind fate, but rather the results of a loving plan by which God brings
together all the possibilities of life and opposes the powers of death arising
from sin: "God did not make death, and he does not delight in the death of
the living. For he created all things that they might exist" (Wis
1:13-14).
40. The sacredness of life gives
rise to its inviolability, written from the beginning in man's heart, in his
conscience. The question: "What have you done?" (Gen 4:10), which God
addresses to Cain after he has killed his brother Abel, interprets the
experience of every person: in the depths of his conscience, man is always
reminded of the inviolability of life-his own life and that of others-as
something which does not belong to him, because it is the property and gift of
God the Creator and Father.
The commandment regarding the inviolability of human life reverberates
at the heart of the "ten words" in the covenant of Sinai (cf. Ex
34:28). In the first place that commandment prohibits murder: "You shall
not kill" (Ex 20:13); "do not slay the innocent and righteous"
(Ex 23:7). But, as is brought out in Israel's later legislation, it also
prohibits all personal injury inflicted on another (cf. Ex 21:12-27). Of course
we must recognize that in the Old Testament this sense of the value of life,
though already quite marked, does not yet reach the refinement found in the
Sermon on the Mount. This is apparent in some aspects of the current penal
legislation, which provided for severe forms of corporal punishment and even
the death penalty. But the overall message, which the New Testament will bring
to perfection, is a forceful appeal for respect for the inviolability of
physical life and the integrity of the person. It culminates in the positive
commandment which obliges us to be responsible for our neighbour as for
ourselves: "You shall love your neighbour as yourself" (Lev
19:18).
41. The commandment "You shall
not kill", included and more fully expressed in the positive command of
love for one's neighbour, is reaffirmed in all its force by the Lord Jesus. To
the rich young man who asks him: "Teacher, what good deed must I do, to
have eternal life?", Jesus replies: "If you would enter life, keep
the commandments" (Mt 19:16,17). And he quotes, as the first of these:
"You shall not kill" (Mt 19:18). In the Sermon on the Mount, Jesus
demands from his disciples a righteousness which surpasses that of the Scribes
and Pharisees, also with regard to respect for life: "You have heard that
it was said to the men of old, ?You shall not kill; and whoever kills shall be
liable to judgment'. But I say to you that every one who is angry with his
brother shall be liable to judgment" (Mt 5:21-22).
By his words and actions Jesus further unveils the positive requirements
of the commandment regarding the inviolability of life. These requirements were
already present in the Old Testament, where legislation dealt with protecting
and defending life when it was weak and threatened: in the case of foreigners,
widows, orphans, the sick and the poor in general, including children in the
womb (cf. Ex 21:22; 22:20-26). With Jesus these positive requirements assume
new force and urgency, and are revealed in all their breadth and depth: they
range from caring for the life of one's brother (whether a blood brother,
someone belonging to the same people, or a foreigner living in the land of
Israel) to showing concern for the stranger, even to the point of loving one's
enemy.
A stranger is no longer a stranger for the person who mustbecome a
neighbour to someone in need, to the point of accepting responsibility for his
life, as the parable of the Good Samaritan shows so clearly (cf. Lk 10:25-37).
Even an enemy ceases to be an enemy for the person who is obliged to love him
(cf. Mt 5:38-48; Lk 6:27-35), to "do good" to him (cf. Lk 6:27, 33,
35) and to respond to his immediate needs promptly and with no expectation of
repayment (cf. Lk 6:34-35). The height of this love is to pray for one's enemy.
By so doing we achieve harmony with the providential love of God: "But I
say to you, love your enemies and pray for those who persecute you, so that you
may be children of your Father who is in heaven; for he makes his sun rise on
the evil and on the good and sends rain on the just and on the unjust" (Mt
5:44-45; cf. Lk 6:28, 35).
Thus the deepest element of God's commandment to protect human life is
the requirement to show reverence and love for every person and the life of
every person. This is the teaching which the Apostle Paul, echoing the words of
Jesus, address- es to the Christians in Rome: "The commandments, ?You
shall not commit adultery, You shall not kill, You shall not steal, You shall
not covet', and any other commandment, are summed up in this sentence, ?You
shall love your neighbour as yourself'. Love does no wrong to a neighbour;
therefore love is the fulfilling of the law" (Rom 13:9-10).
[official text in
English published by the Holy See]
We can therefore conclude that the
inviolability of human life is also a religious command of the Christian faith,
but certainly it was understood also among Christians in various ways in the
two millennia of their history, and, in particular, when they had the
opportunity to deal with the government of states, and the way in which they
understand it in politics in the age in which we live is diametrically opposed
to that in which it was understood between the fourth century and the middle of
the last century, for a very long time, which , as mentioned in the first
version of the Catechism on the subject of the penalty of more, constitutes a
tradition.
The problem
is of great actuality, now that, unexpectedly, among the Christianized
Europeans, rather loose political orientations are spreading about bloody and
lethal policies towards other peoples and, even within the reference
communities, which certainly, conflicting with the inviolability of life
proclaimed by faith, constitute sin, grave sin, mortal, and, as a political sin,
an expression of what Pope Wojtyla called structures
of sin (having mainly social and political organizations of the Leninist /
Stalinist type of communist regimes present) ). I report on some passages of
his encyclical The social solicitude [of
the Church] - Sollicitudo rei socialis, of 1987, on the threshold of
epochal changes in Europe, which can be considered a real chapter of a treatise
on politics, but also of a religious catechism on it.
39. The exercise of solidarity within each society is valid when
its members recognize one another as persons. Those who are more influential,
because they have a greater share of goods and common services, should feel
responsible for the weaker and be ready to share with them all they possess.
Those who are weaker, for their part, in the same spirit of solidarity, should
not adopt a purely passive attitude or one that is destructive of the social
fabric, but, while claiming their legitimate rights, should do what they can
for the good of all. The intermediate groups, in their turn, should not
selfishly insist on their particular interests, but respect the interests of
others.
Positive signs in the contemporary world are the growing awareness of
the solidarity of the poor among themselves, their efforts to support one
another, and their public demonstrations on the social scene which, without
recourse to violence, present their own needs and rights in the face of the
inefficiency or corruption of the public authorities. By virtue of her own
evangelical duty the Church feels called to take her stand beside the poor, to
discern the justice of their requests, and to help satisfy them, without losing
sight of the good of groups in the context of the common good.
The same criterion is applied by analogy in international relationships.
Interdependence must be transformed into solidarity, based upon the principle
that the goods of creation are meant for all. That which human industry
produces through the processing of raw materials, with the contribution of
work, must serve equally for the good of all.
Surmounting every type of imperialism and determination to preserve their
own hegemony, the stronger and richer nations must have a sense of moral
responsibility for the other nations, so that a real international system may
be established which will rest on the foundation of the equality of all peoples
and on the necessary respect for their legitimate differences. The economically
weaker countries, or those still at subsistence level, must be enabled, with
the assistance of other peoples and of the international community, to make a
contribution of their own to the common good with their treasures of humanity
and culture, which otherwise would be lost for ever.
Solidarity helps us to see the "other"-whether a person,
people or nation-not just as some kind of instrument, with a work capacity and
physical strength to be exploited at low cost and then discarded when no longer
useful, but as our "neighbor," a "helper" (cf. Gen
2:18-20), to be made a sharer, on a par with ourselves, in the banquet of life
to which all are equally invited by God. Hence the importance of reawakening the
religious awareness of individuals and peoples. Thus the exploitation,
oppression and annihilation of others are excluded. These facts, in the present
division of the world into opposing blocs, combine to produce the danger of war
and an excessive preoccupation with personal security, often to the detriment
of the autonomy, freedom of decision, and even the territorial integrity of the
weaker nations situated within the so-called "areas of influence" or
"safety belts."
The "structures of sin" and the sins which they produce are
likewise radically opposed to peace and development, for development, in the
familiar expression Pope Paul's Encyclical, is "the new name for
peace."
In this way, the solidarity which we propose is the path to peace and at
the same time to development. For world peace is inconceivable unless the
world's leaders come to recognize that interdependence in itself demands the
abandonment of the politics of blocs, the sacrifice of all forms of economic,
military or political imperialism, and the transformation of mutual distrust
into collaboration. This is precisely the act proper to solidarity among
individuals and nations.
The motto of the pontificate of my esteemed predecessor Pius XII was
Opus iustitiae pax, peace as the fruit of justice. Today one could say, with
the same exactness and the same power of biblical inspiration (cf. Is 32:17; Jas
3:18): Opus solidaritatis pax, peace as the fruit of solidarity.
The goal of peace, so desired by everyone, will certainly be achieved
through the putting into effect of social and international justice, but also
through the practice of the virtues which favor togetherness, and which teach
us to live in unity, so as to build in unity, by giving and receiving, a new
society and a better world.
40. Solidarity is undoubtedly a
Christian virtue. In what has been said so far it has been possible to identify
many points of contact between solidarity and charity, which is the
distinguishing mark of Christ's disciples (cf. Jn 13:35). In the light of
faith, solidarity seeks to go beyond itself, to take on the specifically
Christian dimension of total gratuity, forgiveness and reconciliation. One's
neighbor is then not only a human being with his or her own rights and a
fundamental equality with everyone else, but becomes the living image of God
the Father, redeemed by the blood of Jesus Christ and placed under the
permanent action of the Holy Spirit. One's neighbor must therefore be loved,
even if an enemy, with the same love with which the Lord loves him or her; and
for that person's sake one must be ready for sacrifice, even the ultimate one:
to lay down one's life for the brethren (cf. 1 Jn 3:16).
At that point, awareness of the common fatherhood of God, of the
brotherhood of all in Christ - "children in the Son" - and of the
presence and life-giving action of the Holy Spirit will bring to our vision of
the world a new criterion for interpreting it. Beyond human and natural bonds,
already so close and strong, there is discerned in the light of faith a new
model of the unity of the human race, which must ultimately inspire our
solidarity. This supreme model of unity, which is a reflection of the intimate
life of God, one God in three Persons, is what we Christians mean by the word
"communion." This specifically Christian communion, jealously
preserved, extended and enriched with the Lord's help, is the soul of the Church's
vocation to be a "sacrament," in the sense already indicated.
Solidarity therefore must play its part in the realization of this
divine plan, both on the level of individuals and on the level of national and
international society. The "evil mechanisms" and "structures of
sin" of which we have spoken can be overcome only through the exercise of
the human and Christian solidarity to which the Church calls us and which she
tirelessly promotes. Only in this way can such positive energies be fully
released for the benefit of development and peace. Many of the Church's
canonized saints offer a wonderful witness of such solidarity and can serve as
examples in the present difficult circumstances. Among them I wish to recall
St. Peter Claver and his service to the slaves at Cartagena de Indias, and St.
Maximilian Maria Kolbe who offered his life in place of a prisoner unknown to
him in the concentration camp at Auschwitz.
It
serves little purpose to proclaim values, even in religion, if we are not then
capable of a social action to make them live in their own time, therefore of a
purely political action, but it, in its projects and methods, must come to
terms with societies as they really are, in particular with their violent
dynamics and social, political and economic ones, and therefore also with the
possibility that it is necessary to fight for the affirmation of those values,
with the risk that the method of struggle leads to to implement the same
violent, bloody strategies to which we would like to remedy. Here, then, in the
last century, methods of non-violent struggle have also emerged, which have led
to striking, unexpected political results, such as in Poland from which Pope
Wojtyla came to us, and, even before, in troubled India from the British colonial
political dominion, where the revolutionary and basically non-violent political
action promoted by Mohandas Karamchand Gandhi, called Mahatma (great soul in
Sanskrit, the ancient Indian language - 1869/1948) unfolded successfully. The
abandonment of the customs of political violence characterized the entire
process of disintegration of the communist regimes of Eastern Europe,
completely unexpectedly taking into account recent historical precedents and
the fact that they were troubled by systems of political inquisition
comparable, by extension, penetration and brutality, to those much longer
organized by the Roman Papacy. This showed how profound was the change in
political culture that had involved all Europeans, from the two sides of the
political camps in which they had divided. This cultural achievement is
precisely at risk in our times.
Mario
Ardigò - Catholic Action in St. Clement Pope - Rome, Monte Sacro/ Sacred Mountain
neighborhood, Valleys