Popoli e popolo – 8
Si arriva in una città e ci si trova immersi nella sua popolazione, gente che va, gente che viene. Osserviamo come lo fa e che dice, se ne capiamo la lingua. Possiamo anche trarne delle conclusioni sui suoi costumi e concezioni, quindi sulla sua cultura. E’ solo a questo punto che possiamo cercare di individuare il popolo: per riuscirci dobbiamo capire chi e come comanda al vertice e chi accetta di essere comandato e perché. Il perché è narrato dal suo mito. Questo è il lavoro degli antropologi.
Naturalmente in una popolazione non c’è solo il popolo ma anche un sistema di società. Una società è un sistema di relazioni con carattere normativo: ciascuna società poi esprime un suo popolo, il cui assetto dipende anche qui dal sistema di governo e dal relativo mito di legittimazione. Le società si relazionano tra loro in vari modi e, nel mondo contemporaneo, il loro intreccio si è fatto estremamente complesso, anche a causa dell’esplosione demografica. C’è molta più gente ora intorno al bacino del Mediterraneo di quanta c’è ne fosse duemila anni fa, ai tempi in cui cominciarono ad evolvere le prime comunità che vivevano la religione richiamandosi agli insegnamenti del Maestro che avevano iniziato ad essere tramandati. L’intreccio delle società di una popolazione è studiato dalla sociologia.
Per il lavoro della sociologia è molto importante capire i sistemi di governo e per questo ci si occupa anche di come vengono costruiti normativamente i popoli delle società che si studiano, ma anche di come funzionano, e innanzi tutto della misura in cui funzionano, i sistemi normativi che definiscono i popoli, che cosa si pensano che i popoli siano, chi ci entra e come, che obblighi e diritti comporta l’entrarci e che cosa l’esserne esclusi. Anche per l’antropologia occuparsi del popolo è importante, ma più per capire come è vissuto dalle persone l’esserne considerati parte, o l’esserne esclusi.
Antropologia e sociologia sono discipline scientifiche che si fondano sull’osservazione sistematica e metodica dei fenomeni di cui si occupano.
La teologia ragiona molto diversamente e lo fa in modo simile a come ragionano le scienze giuridiche. La differenza è che in queste ultime ha moltissima importanza l’esperienza delle relazioni sociali, dalle quali emerge l’esigenza di normazione, quindi poi le norme giuridiche sulle quali si esercitano i giuristi.
Il problema fondamentale della teologia è di capire i confini della verità, intesa come sistema di definizioni che deve essere accettato per essere ammessi nel popolo di coloro che vivono religiosamente, per esserne riconosciuti parte. L’osservazione conta poco. Contano invece le esigenze dei suoi committenti, che sono le gerarchie ecclesiastiche. Quindi poi l’idea di popolo della teologia è molto cambiata storicamente, in modo corrispondente all’esercizio del governo ecclesiastico, che nei secoli passati fu strettamente intrecciato con quello esercitato dai poteri civili. Innanzi tutto perché le caratteristiche date ai loro popoli in larga parte coincidevano. Così il rispettivo governo richiedeva di organizzare una specie di condominio. Il liberalismo, il movimento culturale e politico sviluppatosi dall’Ottocento in Europa, intendeva spezzarlo e per questo è stato duramente avversato dalla nostra gerarchia ecclesiastica, e ancor oggi lo è.
L’idea fondamentale del liberalismo è che la singola persona umana non debba essere totalmente in dominio altrui, in particolare dei poteri politici. Su di essa si fonda il sistema dei diritti umani fondamentali e l’altra idea della dignità della singola persona umana. Da qui poi la costruzione delle democrazie avanzate contemporanee, che sono un sistema normativo di limiti ad ogni potere, pubblico o privato, che viene definito dello stato di diritto.
Quanto alla questione dei poteri pubblici, l’dea fondamentale della nostra gerarchia ecclesiastica, che come ho scritto è la principale committente delle nostre teologie, è che essa non deve cadere in dominio di nessun altro potere e per nessun motivo. Questo principio è espresso nell’art. 7 della nostra Costituzione, che solo superficialmente può sembrare richiamare quello liberale del “libera Chiesa in libero Stato”:
Articolo 7
Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi.
Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
La differenza, cruciale, la fa l’attribuzione della sovranità anche alla Chiesa. Sovranità significa non riconoscere al di sopra di sé alcun altro potere. Nel diritto della nostra Chiesa non è applicato veramente il sistema dello stato di diritto, in quanto il vertice supremo è sottratto a qualsiasi limite giuridico.
[Dal Codice di diritto canonico vigente]
Canone 332 –
§comma 1. Il Romano Pontefice ottiene la potestà piena e suprema sulla Chiesa con l'elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale. Di conseguenza l'eletto al sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene tale potestà dal momento dell'accettazione. Che se l'eletto fosse privo del carattere episcopale, sia immediatamente ordinato Vescovo.
§2. Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti.
Can. 333 –
§1. Il Romano Pontefice, in forza del suo ufficio, ha potestà non solo sulla Chiesa universale, ma ottiene anche il primato della potestà ordinaria su tutte le Chiese particolari e i loro raggruppamenti; con tale primato viene contemporaneamente rafforzata e garantita la potestà propria, ordinaria e immediata che i Vescovi hanno sulle Chiese particolari affidate alla loro cura.
§2. Il Romano Pontefice, nell'adempimento dell'ufficio di supremo Pastore della Chiesa, è sempre congiunto nella comunione con gli altri Vescovi e anzi con tutta la Chiesa; tuttavia egli ha il diritto di determinare, secondo le necessità della Chiesa, il modo, sia personale sia collegiale, di esercitare tale ufficio.
§3. Contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice non si dà appello né ricorso.
Ho letto che la bozza dell’art.7 venne preparata a tu per tu dal politico democristiano Giorgio La Pira, membro dell’Assemblea Costituente italiana, che operò dal giugno 1946 a dicembre 1948 per redigere e approvare la nuova Costituzione repubblicana italiana, e da Giovanni Battista Montini, all’epoca del suo servizio nella Segreteria di Stato vaticana. Vi si trova il termine Stato in una accezione per la quale nel testo della Costituzione si usa in genere Repubblica, il che lo pone in tensione con il resto della nostra legge fondamentale.
La pretesa di esclusività e assolutezza del potere ecclesiastico si basa sul mito [in senso antropologico] dell’essere stato voluto e costituito come tale per ordine celeste. Per questo se ne cerca di ricavare il fondamento nelle nostre Scritture, e questo è uno dei compiti fondamentali attribuiti alla teologia.
L’organizzazione democratica si fonda sul diverso mito della sua derivazione dal popolo. Tuttavia per corrispondervi sono strutturate le procedure elettorali, che costituiscono uno dei principali limiti del potere politico a vari livelli. Di fatto, come insegna la sociologia, i poteri pubblici derivano sempre, oltre che da certe procedure, da transazioni tra i gruppi dominanti, che signoreggiano anche il diritto pubblico, vale a dire le norme che stabiliscono chi comanda. Questo è una regola generale, che vale anche per i poteri ecclesiastici, che utilizzano il diverso mito di fondazione nel soprannaturale.
La differenza tra i due miti è che, secondo il mito del popolo quest’ultimo può essere consultato, mentre il Cielo no, anche se poi ciascuna persona, nel suo animo, può immaginare di aver ricevuto una risposta.
In realtà, come si fa dire al protagonista del film di Ingmar Bergman Settimo sigillo, del 1957: “La fede è un grido nella notte, e nessuno risponde”.
Il fatto che, all’inizio dei processi sinodali avviati dal Papa nell’ottobre del 2021, ci siano delle fasi di consultazione del Popolo di Dio significa che principi e procedure democratiche sono state cautamente introdotte nella pratica ecclesiastica, anche se non vi corrisponde ancora una teologia appropriata.
Il principale problema è quello di definire i contorni del popolo in questo nuovo assetto istituzionale.
I teologi osservano che dal 1985 l’idea di popolo era come stata rimossa dalla teologia cattolica, dopo essere stata centrale durante il Concilio Vaticano 2º, svoltosi a Roma tra il 1962 e il 1965. Se ne è ricominciato a discutere per rispondere al magistero di Papa Francesco.
L’idea di un solo popolo su tutta la Terra corrisponde a quella di un solo potere supremo universale, universale e uno perché esercitato per conto dell’Uno e Trino. Un potere smisurato, in teoria e sulla carta, almeno nelle sue pretese.
Nella realtà troviamo diverse società politiche presenti al mondo, ciascuna con una sua immagine di popolo nella quale confluiscono un insieme di principi e idealità caratterizzati anche da specifici elementi culturali delle rispettive popolazioni. Non è semplice ridurre le tensioni tra l’idea religiosa di popolo, organizzata dalla teologia, e quelle correnti nelle varie società del mondo. Il problema è complicato dal fatto che, di questi tempi di transizione anche per la nostra Chiesa, sono compresenti varie teologie del popolo.
Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli