Popolo e popoli -9
L’idea di consultazione popolare che è
al centro del moto di riforma ecclesiale avviato circa un anno e mezzo fa da
Papa Francesco presuppone che vi sia un centro decisionale che consulta distinto
da chi è consultato, e che poi le
decisioni valide per tutti, ovunque e fino a nuovo ordine vengano prese solo dal primo. Si consulta perché
si pensa che collettivamente chi è consultato abbia la prodigiosa
capacità di intuire la verità, vale a dire le condizioni alle quali subordinare
l’appartenenza al popolo che conta per la nostra fede, quello che il
Cielo si è scelto o che ha radunato (le due azioni non sono
esattamente la stessa cosa). I dottori, infatti, vale a dire quelli che
sanno argomentare ordinatamente, la pensano nel modo più disparato e non
riescono a mettersi d’accordo. E non sembra esserci altro modo di dirimere le
loro controversie che affidare le decisioni a un centro sovraordinato, che
nelle nostre Chiese è stato storicamente strutturato nei modi più vari.
Tuttavia, nel mutare inevitabile delle società, quei centri decisionali vanno
incontro a crisi di legittimazione, per cui i loro deliberati hanno sempre meno
presa sociale: dagli scorsi anni Cinquanta, ci troviamo appunto in un’epoca con
queste caratteristiche.
La principale obiezione al metodo della
consultazione è questa: perché mai gli incolti dovrebbero riuscire meglio dove
i dottori non ne sono venuti a capo?
Si risponde, però, che, ad essere consultati
saranno anche i dottori, insieme a tutte le altre persone. Facendolo in
questo modo si manifesterebbe il miracolo dell’intuizione della via giusta, che
poi i dottori articolerebbero con ordine nei loro trattati. Perché, alla fine,
la decisione non sarebbe fondata sul parere di questa o quell’altra persona, ma
sull’orientamento di tutte le persone coinvolte nel processo, che non
potrebbero sbagliarsi, perché così è garantito dal Cielo. Di fatto le
perplessità non sono state superate e tra gli specialisti che cercano di
spiegare come funzionerebbe questa cosa si parla di vari livelli decisionali in
cui sarebbero coinvolti tutti, poi alcuni, i dottori, e alla fine
uno, identificato, a seconda del caso, nel papa, nel vescovo, nel
parroco, comunque uno. Alla fine l’ordine su che fare verrebbe da quell’uno.
Siccome il mondo è grande e questa organizzazione richiede l’istituzione di
più monarchi, essi dovrebbero cercare di mettersi d’accordo in assemblee dette sinodi,
e questo è appunto ciò che si è cercato inutilmente di fare fin dal Terzo
secolo, epoca a cui risalgono le prime testimonianze affidabili di procedure
sinodali, in Africa, a Cartagine.
Nel discorrere che si fa di verità e di popolo noto alcune aporie,
vale a dire dei problemi logici fin dall’inizio insolubili, o, altrimenti detto
sotto metafora, serpenti che si mordono la coda.
L’autorità
ecclesiastica dovrebbe essere esercitata secondo verità; la verità la si vorrebbe tratta da Scrittura e Tradizione, ma unica interprete qualificata
di queste ultime è l’autorità ecclesiastica. Analogamente per l’idea di popolo:
L’autorità ecclesiastica la si pensa come esercitata nell’interesse del popolo
in nome si quella verità, ma chi e che cosa è popolo e anche che cosa sia la verità è definito dalla stessa autorità
ecclesiastica, e questo si pensa che
rientri in quella verità. L’autorità ecclesiastica la si pensa come
sorretta dall’azione soprannaturale: che dovrebbe imparare dal popolo? Si pensa che quella stessa virtù soprannaturale porti il popolo, per intuito, ad aderire a quella verità, e se non vi
aderisce non è il vero popolo.
Di fatto, storicamente, e lo studio
della storie delle nostre Chiese è veramente un’esperienza forte, le popolazioni di fede si sono
ciclicamente opposte ai dettati delle loro autorità ecclesiastiche che venivano
deliberati in nome di quella verità, e sono state represse con incredibile ferocia. I secoli nei quali, per
ciò che ne capisco, ciò è avvenuto con più intensità sono stati il Cinquecento
e il Seicento. E’ l’era in cui si è strutturata
la gerarchia ecclesiastica come oggi la conosciamo: la si è voluta
assolutizzare durante il regno del papa Pio 9°, a metà Ottocento. Questo processo
è inquadrato in due Concili, il Concilio di Trento, svoltosi tra il 1545 e il
1563, e l’infausto Concilio Vaticano 1°, iniziato a Roma nel 1869 e sospeso, e
mai più ripreso, nel 1870 per l’invasione
italiana dello Stato della Chiesa, il regno dei Papi nell’Italia centrale, o
almeno, ciò che all’epoca ne restava dopo le guerre risorgimentali.
L’avvento di regimi democratici
in Europa Occidentale, e poi anche altrove, impedisce di esercitare la violenza
brutale dei secoli passati per uniformare i costumi religiosi. Ma l’assetto
teologico dell’autorità ecclesiale è più o meno quello del passato, perché la
riforma che si è cercato di attuare durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965)
è fallita.
Questo comporta che la
convivenza tra le gerarchie ecclesiastiche e le popolazioni che alla nostra
fede fanno riferimento spirituale si fonda su una doppia ipocrisia: i gerarchi
ordinano, sapendo che non verranno obbediti ma facendo finta che invece lo
siano; le popolazioni fanno finta di obbedire, ma poi si regolano secondo la
loro ragione e le loro ragioni. Così come, finora, nei processi sinodali in
corso, in fondo si è fatto finta di consultare e, dall’altra parte, si è fatto finta di essere consultati, perché la
via che sarà seguita non verrà da chi è stato consultato, ma da un accordo tra
gerarchi.
Una vera consultazione dovrebbe,
credo, partire dall’abbandonare l’ipocrisia che ha consentito di andare avanti
come se nulla fosse cambiato, mentre praticamente tutto lo era. Ma, allora, dovrebbe
essere più di una consultazione. Non si sa neanche bene come converrebbe chiamarla.
Nel 2009, papa Benedetto 16°
inquadrò molto bene la questione principale, che riguarda la relazione tra verità e agàpe. Se il discrimine deve essere la verità come oggi viene definita, il processo è senza sbocchi, è il serpente che si mangia la coda. Se invece è l’agàpe, l’intensità ed estensione della pace sociale benevolente e solidale
che si riesce a costruire è diverso, si esce dal circolo vizioso.
Mi sono sempre chiesto perché
il Maestro, di fronte al procuratore romano Pilato che lo stava giudicando, non
gli rispose quando il funzionario della potenza occupante gli chiese che cosa
fosse la verità.
Pilato allora rientrò
nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: "Sei tu il re dei
Giudei?". Gesù rispose: "Dici questo da te, oppure altri ti
hanno parlato di me?". Pilato disse: "Sono forse io Giudeo? La
tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai
fatto?". Rispose Gesù: "Il mio regno non è di questo mondo; se
il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto
perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di
quaggiù". Allora Pilato gli disse: "Dunque tu sei re?".
Rispose Gesù: "Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per
questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è
dalla verità, ascolta la mia voce". Gli dice Pilato: "Che cos'è
la verità?". [Dal Vangelo secondo Giovanni, capitolo 18, versetti 33-38 - Gv
18, 33-38 - versione CEI 2008]
Dal Duecento, da quando la teologia divenne
una disciplina universitaria, la si fa consistere essenzialmente in un
complesso di dottrine. L’agàpe, che, secondo il Maestro era il comandamento
nuovo al quale era finalizzata la sua missione, mi pare essere passata molto
in secondo piano, tenendo conto dell’inconcepibile efferatezza con cui ci si è
massacrati per questioni dottrinali.
Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno
ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi
siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi,
perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici,
perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi. Non
voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e
portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete
al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli
uni gli altri. [dal Vangelo secondo
Giovanni, capitolo 15, versetti 12-17 - Gv
15,12-17- versione CEI 2008]
Nelle popolazioni di fede non si ha che
superficiale consapevolezza della dottrina, praticabile solo da specialisti che
passano anni a studiarci sopra. C’è però l’agàpe? In genere viviamo in
società violente, anche se molto meno che nel passato. Volerci bene al di fuori
delle nostre piccole cerchie di mondo
vitale richiede un grande impegno,
però questo, a differenza della verità - dottrina, è più o meno alla portata di tutte le persone.
Nella pratica sinodale diffusa che ci è stata
proposta, mi pare che proprio questo sia la cosa più importante: imparare a costruire
l’agàpe evangelica tra noi. Così, come è
stato osservato dal Papa, la pratica della sinodalità è già il risultato
atteso.
Mario Ardigò - Azione Cattolica
in San Clemente papa - Monte Sacro Valli