La storia come maestra di fede
L’editrice Claudiana l’anno scorso ha pubblicato di Marinella Perroni e Brunetto Salvarani Guardare alla teologia del futuro – Dalle spalle dei nostri giganti (disponibile anche in e-book). Alcune studiose e alcuni studiosi di cose delle Chiese sono stati chiamati a parlare ciascuno di una persona morta nei primi vent’anni di questo secolo e che considerano una loro maestra, un gigante. Il primo pezzo è di Alberto Melloni, che guida la bolognese Fondazione per le scienze religiose Giovanni 23º, l’istituto fondato da Giuseppe Dossetti e diretto a lungo dallo storico Giuseppe Alberigo. Melloni ha scritto proprio di Alberigo. Quindi, innanzi a tutti, uno storico e non un teologo.
L’idea di capire la fede studiando la storia appare rivoluzionaria, tenendo conto di come di solito è organizzata la formazione religiosa a tutti i livelli. In particolare, in questo modo, si intende più realisticamente ciò che in religione si indica come tradizione, alla quale tra i cattolici in particolare si dà molta importanza.
La tradizione è costituita dagli elementi culturali che sono passati di generazione in generazione, fino ai tempi nostri. La cultura è costituita da costumi, riti e concezioni. Il suo passaggio tra le generazioni può essere descritto in una narrazione storica che ha come fonti principali gli autori di teologia, i formulari dei riti e le deliberazioni delle autorità religiose. Un elemento culturale religioso entra nella tradizione quando giunge da molto lontano nel tempo e si è molto diffuso nelle società che ha attraversato. Se tutti e da sempre hanno fatto o pensato in un certo modo, vorrà pur dire qualcosa, si ritiene.
Nell’antichità romana, che in realtà nella nostra era divenne greco-romana, si venerava la tradizione degli avi, che venivano considerati un esempio di vita da imitare e chiamati padri. Ci fu un tempo, però, in cui le nostre comunità delle origini non avevano ancora una propria tradizione, ma condividevano quella giudaica. Verso la fine del Primo secolo iniziarono a distaccarsene e fu molto traumatico. Tra chi voleva seguire le tradizioni dei padri giudaici e chi voleva intendere la fede secondo il sistema concettuale diffuso in ambiente ellenistico, in cui si parlava e ragionava in greco, prevalsero i secondi: il corpo di scritti che chiamiamo Nuovo Testamento ci giunse in greco. L’autorevolezza di ciò che iniziò ad essere tramandato fu vista nel suo provenire dal Maestro mediante gli apostoli che egli aveva mandato per il mondo ad insegnare ciò che aveva comandato e a battezzare. Solo dopo qualche secolo, intorno al Quinto della nostra era, si ragionò di tradizione in modo più simile ai romani, vale a dire quando i maestri divennero gli avi per le generazioni successive.
Dall’antichità abbiamo ricevuto un corpo molto esteso di scritti di autori religiosi, redatti in greco e in latino, che riteniamo normativo per la nostra fede: quegli autori li chiamiamo Padri della Chiesa, e sono tra i principali punti di riferimento degli studi teologici. Nell’Ottocento il francese Jacques-Paul Migne curò una edizione critica di quei testi: 261 volumi con quelli degli autori che avevano scritto in latino e 161 con i testi in greco. Solo pochi studiosi ne riescono a raggiungere una conoscenza sufficiente, ma poi ci si specializza in certi settori. Tutta l’altra gente viene a conoscenza di una minima sintesi dei problemi che in quei documenti, ritenuti normativi per la nostra fede, vennero trattati solo mediante la predicazione di preti, vescovi e papi.
La massima e più estesa fonte divulgativa di quella immensa letteratura per la gente comune è ora costituita dai documenti del Concilio Vaticano 2º, svoltosi a Roma, in varie sessioni, tra il 1962 e il 1965. Anche il Catechismo della Chiesa cattolica, deliberato dal papa Giovanni Paolo 2º nel 1992, ne contiene numerosi riferimenti.
A ciò si aggiunge un altro corpo molto esteso di documenti deliberati da concili, sinodi e papi e il corpo dei formulari liturgici.
Dal Duecento, con la trasformazione della teologia in disciplina universitaria, i teologi, assimilando il modo di ragionare dei giuristi su quell’esteso complesso documentario di tradizioni interpretative del diritto che era il Corpo del diritto civile, fatto elaborare e pubblicare nel Sesto secolo a Bisanzio dall’imperatore romano Giustiniano 1º, originario della Macedonia, ma di cultura e lingua latina, cominciarono a utilizzare gli scritti di quei Padri, le deliberazioni di sinodi, concili, patriarchi e papi come testi normativi, per formulare definizioni che dicessero come si dovesse pensare, vivere e governare da cristiani. I problemi del governo divennero però preponderanti e la stessa ricerca teologica ne fu fortemente condizionata, nel senso che erano le autorità religiose a fissarne i confini e gli scopi. Da questo modo di pensare si cominciò ad uscire, tra i cattolici, più o meno dagli scorsi anni Cinquanta, con l’affermarsi anche nella nostra confessione del metodo storico-critico nell’analisi dei testi antichi. Secondo esso, il testo va compreso inserendolo nella storia e nella cultura di riferimento. Così si capisce l’influsso dei tempi sui modi di pensare e anche sugli enunciati della fede.
Nell’approccio di tipo giuridico ai testi ritenuti come manifestazione della tradizione religiosa si cerca, lavorando sui concetti, di dare coerenza al tutto, ricavando un sistema. Quando ci riferiamo alle Scritture come alla Parola di Dio è essenzialmente questo che intendiamo. Il metodo storico critico fa risaltare invece le differenze, che dipendono dal contesto antropologico, culturale e sociologico di riferimento.
La tradizione a volte viene presentata come un fiume che scorre lungo i tempi. Usando il metodo storico critico ci appare però come il bacino di un lungo fiume che, lungo il suo sviluppo, comprende un corpo recettore, che esiguo alle origini si ingrossa man mano che scende verso il mare, e numerosi affluenti la cui acqua, dopo l’immissione nel corpo principale, diventa indistinguibile dall’altra, mescolandosi.
Spesso si ritiene che il nostro problema principale sia stato quello di tenerci fedeli alle origini. In realtà è stato molto importante anche quello di assimilare le novità dei tempi nella fede delle origini. Essa ne è stata fortemente influenzata. Questo spiega perché se ne è scritto, e se ne continua a scrivere, tanto.
Cerchiamo orientamenti in chi ci ha preceduto, ma lì non c’è tutto quello che serve. Anche i cosiddetti Padri furono degli innovatori, e se fossero stati semplici ripetitori non sarebbero stati così importanti. Come ricordò Umberto Eco in una conferenza del 2001, intitolata Sulle spalle dei giganti, ora raccolta con altre in un libro con quello stesso titolo pubblicato nel 2017 da La nave di Teseo, disponibile anche in e-book, Tommaso d’Aquino, che nel 1879 fu indicato come sicuro riferimento della tradizione dal papa Leone 13º, nella sua epoca, poiché assimilava elementi della cultura espressa dal filosofo greco Aristotele (vissuto nel Quarto secolo dell’era antica), non venne considerato tale e venne duramente contestato.
Come venirne fuori, per noi che non siamo e non saremo mai teologi? Come capire veramente la tradizione? Una via c’è. Studiare la storia. Facendolo tutto diventa più chiaro. Si capisce il perché di certi modi di pensare la fede e anche di imporla. E si può arrivare ad affrontare più serenamente i nostri problemi di oggi, constatando che storicamente se ne sono superati di ben peggiori.
Mario Ardigó- Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli