Note per un tirocinio di democrazia
di Mario Ardigò
(2019/2020)
0. Introduzione
0.1 La democrazia richiede un tirocinio perché è essenzialmente prassi, vale a dire azione, e, in particolare, un modo di entrare in relazione con la
società nella quale si è immersi. E’ tirocinio di democrazia, non solo tirocinio democratico, perché non è solo il tirocinio che deve essere
organizzato su basi democratiche, quindi con una collaborazione partecipe di
tutti coloro che si esercitano per sperimentare e trovare, ma si tratta di
mettere in scena una comunità decidente che conosce, valuta, sceglie, progetta
e attua in modo democratico. E’ tirocinio
perché la democrazia è una costruzione sociale su basi culturali e le sue basi
e risorse mutano con il trascorrere dei tempi e il cambiare delle società: va
quindi sempre riscoperta e inscenata in modi nuovi, non è mai data una volta per tutte. Tirocinio
significa, imparare a mettere in pratica:
in democrazia si è sempre tirocinanti, appunto per il costante mutare delle
condizioni sociali alle quali viene applicata. Lo distinguo dalla pura e
semplice conoscenza, in particolare
da quella letteraria, che si acquisisce sui libri, anche se, effettivamente, facendo pratica si impara e, in particolare, si acquisiscono
ulteriori informazioni sulla società con la quale ci si relaziona mettendo in
pratica la democrazia. In democrazia, chi non ne ha fatto tirocinio non la
conosce veramente e quindi, non conoscendola a sufficienza, non ne può nemmeno
parlare in modo affidabile e tantomeno insegnarla. Questa è la ragione per la
quale nelle nostre comunità di fede non si fa formazione democratica. I maestri
istituiti, preti e religiosi, ai tempi nostri non ne hanno fatto sufficiente
tirocinio, o addirittura non ne hanno
fatto per nulla (non è sempre andata così, la democrazia italiana ha avuto tra
i suoi protagonisti preti e religiosi e, addirittura, il partito che ha
egemonizzato la politica italiana per cinquant’anni ebbe tra i suoi fondatori
un prete, e parlo di Luigi Sturzo). Ma perché si dovrebbe fare formazione
democratica in una comunità religiosa? “La
Chiesa non è una democrazia”, si sente talvolta ancora proclamare
sbrigativamente. Ed effettivamente la nostra organizzazione ecclesiastica è
prevalentemente non democratica, risale ad un sistema autocratico progettato e
attuato dall’Undicesimo secolo e riformato nel Sedicesimo, ulteriormente
riformato come burocrazia del clero accentrata sul Papato romano dal
Diciannovesimo e, infine, permeato da incipienti conati democratici dalla metà
del Ventesimo. Di questi ultimi è stata precorritrice la nostra Azione Cattolica:
istituita nel 1906 in esecuzione di una deliberazione papale dell’anno
precedente per essere una forza di pressione politica di massa contro il nuovo regno unitario italiano
egemonizzato dal liberalismo, con limitatissima autonomia dal Papato romano,
essa divenne una delle principali agenzie italiane di assimilazione e
diffusione di massa dei principi democratici. Dal 1941, su richiesta del Papato
romano, in essa si progettò una nuova democrazia di popolo, piena di valori con radici cristiane tradotti in regole pubbliche, che poi fu attuata a
partire dal 1944, durante la guerra di Resistenza italiana contro la
manifestazione terminale del fascismo mussoliniano e contro le armate tedesche
che occupavano parte dell’Italia sotto la guida del nazismo hitleriano.
Ecco una prima ragione che deve giustificare
una formazione democratica in ambito religioso: le democrazie popolari
contemporanee, in particolare quella italiana, sono piene di valori nei quali possono riconoscersi anche valori cristiani e, in questo senso radici nella nostra fede. La nostra Chiesa, in
particolare dopo il 1931, con l’enciclica Il
Quantennale - Quadragesimo anno del papa Achille Ratti - Pio 11° nei
quarant’anni dalla prima enciclica della dottrina sociale moderna, la Le Novità - Rerum Novarum del papa Vincenzo
Gioacchino Pecci - Leone 13° (1891), e
in modo molto più deciso e chiaro con il Concilio Vaticano (1962-1965), ha
spinto i laici all’impegno nel governo delle società, quindi nella politica,
campo principale dello svolgimento dei processi democratici, e questo per
affermarvi e sostenervi quei valori. Poiché l’Italia è attualmente una democrazia
di popolo questo richiede di sapere di democrazia e, anche, di saperla fare. Non basta quindi
presentarsi in una qualsiasi assemblea democratica per proclamare quei valori,
occorre saperli mediare, in
particolare inculturare, in modo da
convincerne, nel dialogo democratico, anche gli altri che alla democrazia
partecipano, in modo che le decisione sulle questioni concrete in esame ne
siano permeate.
Da dove
cominciare? Di solito, si inizia da un manuale. Ma non ve ne sono per un
tirocinio di democrazia. In particolare nella nostra Chiesa. I libri che sono
stati scritti per divulgare la democrazia di solito la presentano come un
sistema di regole e non chiariscono bene
la questione dei valori e, soprattutto, che regole e valori sono prodotto
sociale, fanno parte della cultura di una società, e che, dunque, non si tratta
solo di applicare, come quando si imparano le regole del codice
della strada, ma è richiesto anche di assimilare e condividere i valori di
riferimento, che però, badate bene, proprio perché prodotto culturale, non sono
come tali eterni, sono
necessariamente mutevoli, secondo l’evoluzione delle società di riferimento, come lo studio della storia fatto senza
paraocchi ideologici chiaramente dimostra. Si tratta, in fin dei conti, di
qualcosa che potremmo descrivere come una vera e propria conversione alla democrazia, la pratica democratica
richiede e comporta un profondo mutamento interiore, come sempre accade quando
sono in questione valori. Questa
conversione è attualmente in corso nella nostra Chiesa, che storicamente è
stata tra i più accesi nemici delle democrazie come si sono evolute dalla fine
del Settecento, arrivando nel migliore dei casi a una posizione di indifferenza. Per dirne una: il prete
Romolo Murri (1870-1944), che fu tra i primi a teorizzare una democrazia cristiana, quindi una
democrazia di popolo piena di valori con origine nella nostra fede, fu scomunicato
nel 1909 regnando il papa Giuseppe
Melchiorre Sarto - Pio 10°. La scomunica fu revocata nel 1943, l’anno prima
della sua morte, regnando il papa
Eugenio Pacelli - Pio 12°, il quale dal
1941 aveva dato avvio a processi di ideazione di democrazia politica in Italia,
in particolare attivando l’Azione Cattolica.
Questo lavoro di formazione alla democrazia è
tanto più necessario perché nell’Europa contemporanea le democrazia di popolo
manifestano importanti segni di crisi, in particolare perché, al nuovo
manifestarsi di forze esplicitamente anti-democratiche, non viene espressa una
sufficiente resistenza di massa sulla base di una assimilazione e condivisione
dei valori della democrazia. Si prende atto di non aver
lavorato a sufficienza in questo campo.
In religione si comincia anche ad avere consapevolezza che le insufficienze
della nostra Chiesa nell’affrontare i processi democratici sono state concausa
di quella crisi e che, tenendo conto delle sofferenze umane che sarebbero
coinvolte in un’eclissi delle conquiste sociali consentite dalle democrazia, si
tratta di tragedia e fallimento. Di seguito trascrivo il testo
in un intervento molto significativo svolto il 29 settembre 2019 dal
card.Walter Kasper alla scuola di
politica organizzata a Camaldoli dalla rivista Il Regno e dalla comunità
monastica camaldolese.
Nella nostra parrocchia vi sono diversi
gruppi di giovani in formazione. La formazione alla democrazia mediante
specifici tirocini dovrebbe iniziare dai più piccoli, ma queste note sono dedicate gli studenti delle scuole superiori
e agli adulti che abbiano frequentato le scuole superiori: sono loro che
dovrebbero poi farsi formatori degli altri, a partire dai compagni, figli,
nipoti e, per quelli che sono coinvolti nella catechesi dei più piccoli, anche verso
questi ultimi. Le mie note vorrebbero essere quel manuale per un tirocinio di democrazia che manca. Le ho iniziate nell’ottobre 2019,
in un epoca di grandi cambiamenti per me, che mi lasciano qualche ora in più
per leggere e scrivere: il progetto è
aperto, seguirà il corso delle mie letture e l’osservazione degli eventi
storici che vivremo insieme, vedremo dove porterà, spero che possa contribuire
alla resistenza e nuova affermazione delle democrazie piene di valori, in
particolare nella nostra Italia. Cercherò di mantenere uno stile colloquiale,
per rendere queste note utilizzabili
nel corso di riunioni di approfondimento comunitario, non appesantendole con
citazioni di letteratura, secondo l’uso dei trattati scientifici.
Il mio limite
è nella formazione prevalentemente giuridica e pratica. Per tutto il
resto, in particolare sugli argomenti teologici, storici, economici, sociologici e
antropologici sono solo un ignorante
colto e ciò che scrivo va quindi sottoposto ad attenta verifica sulla base di
altre fonti, in particolare del parere degli esperti del campo specialistico di
riferimento. Anche questa è pratica democratica: la sfida è quella di cercare di capire,
collaborando, dialogando, anche oltre il proprio campo specifico di propria
competenza con l’aiuto dei competenti del ramo. Il governo delle complesse
società del nostro tempo, quindi la politica,
è fatto appunto di questo. Scrisse la filosofa Hanna Arendt (1906-1975)
Nessuno senza compagni può comprendere
adeguatamente nella sua piena realtà tutto ciò che è obiettivo, in quanto gli
si mostra e gli si rivela sempre in un’unica prospettiva, conforme e intrinseca
alla sua posizione nel mondo. Se si vuole vedere ed esperire il mondo così come
è realmente si può farlo solo considerando una cosa che è comune a molti, che
sta tra loro, che li separa e unisce, che si mostra a ognuno in modo diverso, e
dunque diventa comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e
confrontano le loro opinioni e prospettive. Solo nella libertà di dialogare il
mondo appare quello di cui si parla, nella sua obiettività visibile da ogni
lato”.
[da: Hannah Arendt, Che cos’è la politica, Einaudi, 2006]
0.2
Estratto dell’intervento del card.
Walter Kasper [presidente emerito del Pontificio
consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani] alla Scuola di formazione e cultura
politica organizzata dalla rivista Il Regno e
dalla Comunità di Camaldoli presso il monastero di Camaldoli, nel
casentinese, pubblicato il 29-9-19 da Avvenire.
Le difficoltà della Chiesa di riconoscersi nelle
democrazie moderne hanno prodotto un Occidente secolarizzato. Ma la crisi
democratica può trovare una soluzione attraverso la missione della Chiesa
Dopo il crollo del muro di Berlino e della Cortina
di ferro lo sguardo si è aperto ben oltre l’Europa, e si è sviluppato il sogno
di un mondo unito. Si è sviluppata una "globalizzazione", cioè una
rete internazionale mondiale a livello economico, finanziario, dei mezzi di
comunicazione, della tecnologia e del turismo. Ma questo nuovo universalismo è
rimasto a livello materiale, funzionale, economico, tecnico; è mancato un
universalismo più profondo, spirituale e solidale. Così la vittoria
della libertà è divenuta una vittoria della mentalità dello sviluppo
economico e del capitalismo talvolta feroce e aggressivo nell’emisfero
Sud, che ha portato come reazione a movimenti di antiglobalizzazione, anch’essi
talvolta violenti.
La globalizzazione è una realtà complessa e
ambigua. Da un lato porta nuovi vantaggi economici e di comunicazione, ma
dall’altro la nuova libertà ha creato anche nuove interdipendenze politiche ed
economiche complesse, che la gente “normale” fatica a cogliere. Poiché ora le
decisioni si prendono a livelli internazionali lontani dal normale cittadino,
l’uomo medio non si sente più a casa in un modo globalizzato, dove tutto cambia
in modo sempre più accelerato. Ma è soprattutto nel movimento migratorio,
oggi un segno dei tempi universale, che si mostra il lato negativo
dell’universalismo globalizzato. La gente vi ravvede il pericolo di una
perdita della propria patria e dell’identità ereditata dalla propria storia e
cultura. Vede nei migranti una crisi dell’Europa come l’hanno
conosciuta finora.
Tale situazione crea lo spazio per un populismo
che dà risposte facili a domande estremamente difficili e complesse. Questo
populismo non è un’ideologia coerente, ma è frutto della paura e della
strumentalizzazione della paura. Le sue risposte spesso sono verità parziali,
se non vere e proprie fake news.
Per tutelarsi da questo mondo nuovo, molti si
ritirano o desiderano farlo nel mondo passato e così conservare la propria
identità. Ma un’identità chiusa ed esclusiva, avversa a tutto ciò che è
straniero, un’identità identitaria e xenofoba che conduca a un nuovo
nazionalismo e sovranismo, nel mondo globalizzato non solo è illusoria, ma
anche pericolosissima per la pace. L’uomo è per sua natura un essere
sociale. Pertanto un’identità racchiusa è un’identità debole e malata.
Un’identità forte è un’identità aperta, un’identità in scambio, che si lascia
arricchire nell’incontro con altre identità.
Per la Bibbia tutta l’umanità è una grande unità, è
il genere umano, una grande famiglia,
una fratellanza. Il cristianesimo dunque non è mai un’identità chiusa in se
stessa, ma un’identità universalmente aperta verso gli altri e per gli altri,
soprattutto per i poveri e bisognosi e per profughi e perseguitati da altri
Paesi e culture. Pertanto bisogna essere consapevoli che l’antiglobalizzazione
e l’antieuropeismo sono solo un movimento antiuniversale, e in questo senso un
movimento antimoderno e antilluminista, ma che si presenta con la maschera
conservatrice del cristianesimo.
L’antiglobalizzazione, che si propone come tutela e
difesa del cristianesimo, è in realtà un cristianesimo divenuto
ideologia. Il vero cristianesimo non costruisce muri, ma ponti.
Questa identità è stata ed è la grandezza d’Europa,
che in tutta la sua storia non è mai stata una realtà unitaria e identitaria:
dal suo inizio e in tutta la sua storia l’Europa è stata un crocevia, uno
spazio e un processo d’incontri e di mutua penetrazione di culture diverse (nel
passato le culture ebraica, greca, romana, celtica, germanica, slava, normanna,
senza dimenticare la cultura araba musulmana e dell’illuminismo moderno). L’Europa
non è mai stata monoetnica; l’impero medioevale non fu sicuramente una
realtà pluralista nel senso moderno, tuttavia costituì un’unità composta da
popoli, principati e regni diversi, città imperiali e monasteri indipendenti.
Lo stato nazionale e soprattutto il nazionalismo
sono nati solo in tempi relativamente recenti nel Sette e Ottocento, e poi nel
Novecento nei sistemi fascisti e nazionalsocialisti sono divenuti la rovina
dell’Europa e ci hanno portato alla catastrofe della Seconda guerra mondiale e
alla Shoah.
Certo, dopo tutte queste crisi e disastri non
possiamo ricostruire l’unità spirituale medioevale. Oggi in modo nuovo siamo di
fronte alla necessità di mantenere e arricchire l’identità dell’Europa
attraverso un incontro tra le diverse civiltà non europee, che non diventi uno
«scontro di civiltà» (S. Huntington).
La nostra sfida è conservare e rinnovare i valori
fondamentali che hanno fatto grande l’Europa e realizzare questi valori nella
nuova situazione della globalizzazione, con lo stesso coraggio che hanno
mostrato i nostri antenati. Certo
è un compito molto complesso, nel quale non si può accontentare tutti, ma a cui
bisogna invitare la grande maggioranza della gente di buona volontà; un compito
la cui realizzazione richiede l’arte politica, una politica che è l’arte del
possibile (O. von Bismarck). (Purtroppo, talvolta anche l’arte di fare
l’impossibile). C’è il famoso detto di Wolfgang Böckenförde, stimato giurista e
già presidente della Corte costituzionale tedesca: «Lo stato liberale
secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di
garantire». Non li può estorcere, se non vuole abdicare al suo carattere di
stato libero, che rispetta la libertà e riconosce la libertà religiosa. In tal
senso lo stato democratico non è uno stato neutro riguardo ai valori
fondamentali, che esso presuppone e di cui vive.
Così la democrazia presuppone che la stragrande
maggioranza della popolazione riconosca i valori costitutivi della democrazia,
cioè la dignità della persona a prescindere dalla cultura, dalla religione,
dalla provenienza, dalla nazionalità, dal sesso e dal colore della pelle;
riconosca la libertà di coscienza e di parola, la libertà dell’altro, la
giustizia non solo commutativa ma anche sociale, la tolleranza, soprattutto la
tolleranza religiosa e per altre visioni del mondo. Il riconoscimento
maggioritario di tali valori è il sine qua non della
democrazia.
Questi valori fondamentali sono valori che
risalgono alla tradizione cristiana e alla sua sintesi con i valori
fondamentali della cultura grecoromana. In ultima analisi questi valori sono
fondati nella creazione dell’uomo a immagine di Dio (Gen 1,27).
Già dopo la svolta di Costantino nel monachesimo in
reazione contro una concezione imperiale della Chiesa si trovano forme
democratiche (per esempio nella forma della partecipazione della comunità alle
decisioni dell’abate, dell’elezione dei superiori a tempo ecc.). I teologi
dell’Università di Salamanca all’inizio del Seicento (quasi duecento anni prima
della Rivoluzione francese!) furono i primi a sviluppare sulla base della
teologia di Tommaso d’Aquino il diritto dei popoli (Völkerrecht) e il
fondamento dei diritti dell’uomo, anche degli indigeni nelle colonie, un’idea
che la Rivoluzione francese ha risolutamente negato. I monaci e i teologi erano
più avanti!
Ma la tragedia della storia moderna è che la
Chiesa in Europa (anche le Chiese luterane) per lungo tempo non è stata in
grado di riconoscere i suoi propri valori e idee nella democrazia moderna. A
lungo ha sollevato critiche sui diritti umani e la democrazia. Così i moderni
diritti dell’uomo sono stati sviluppati contro la Chiesa in un modo
secolarizzato. Solo e molto tardi il Concilio Vaticano II, dopo lunghe
controversie, è stato in grado di riconoscere i diritti dell’uomo e il diritto
alla libertà religiosa. A causa di questo fallimento, la Chiesa e le Chiese
luterane sono divenute corresponsabili della secolarizzazione della civiltà
europea moderna.
D’altra parte a causa della secolarizzazione i
diritti dell’uomo, e insieme a essi il fondamento della democrazia, sono stati
staccati dalle loro radici cristiane, e staccati dalle radici - come ogni
pianta - si sono indeboliti, e ora sono in crisi. Tale indebolimento e
crisi hanno aperto la porta ai populisti e alla loro propaganda
antidemocratica, antimoderna e anticristiana.
Durante gran parte dell’Ottocento e nella prima
parte del Novecento, l’argomento sostenuto dalla Chiesa era che l’autorità
dello stato è derivata da Dio. E questo escludeva il riconoscimento della
democrazia, in cui tutta l’autorità deriva dal popolo. Oggi questa
argomentazione è superata. Già papa Pio XII, nel suo messaggio per il Natale
1942, riconosceva che la democrazia come struttura statale era un sistema
oggigiorno adeguato.
Il Concilio Vaticano II si è espresso definitivamente
in questo senso. Secondo il Concilio l’autorità secolare dello Stato deriva da
Dio, ma l’ordinamento concreto dello Stato, che sia democratico o monarchico,
va affidato alla decisione del popolo. Pertanto il Concilio non esprime alcuna
opzione in favore né della monarchia, né della democrazia o di un altro
ordinamento dello Stato. Il criterio del riconoscimento non pertiene alla
struttura, ma se in qualsiasi struttura democratica siano rispettati i diritti
umani fondamentali, soprattutto il diritto fondamentale della libertà religiosa
e la giustizia sociale. Teonomia [=l’etica di origine divina - nota mia] del
mondo e dello stato da un lato e autonomia della libertà umana e politica
d’altra non sono contrastanti, ma vanno insieme. Di più, la teonomia non solo
non esclude i diritti dell’uomo, ma li garantisce e li difende.
In conclusione, poiché la democrazia vive
di valori, che originariamente sono valori cristiani, la crisi d’Europa è molto
più di una crisi istituzionale strutturale: è crisi dei valori
costitutivi per l’Europa e per la sua democrazia per effetto della
secolarizzazione, anche a causa della Chiesa. O l’Europa scoprirà di nuovo le
sue radici cristiane, o l’Europa e la sua cultura non saranno più l’Europa e la
cultura dell’Europa come le abbiamo conosciute finora. Il futuro della
democrazia dipende molto dalla formazione delle nuove generazioni, ma dipende
soprattutto dalla presenza pastorale e dalla missione della Chiesa.