INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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martedì 31 ottobre 2023

Sinodalità della gente

Sinodalità della gente

 

  È ancora poca la gente coinvolta nei processi sinodali sulla sinodalità iniziati nell’ottobre del 2021 e per la maggior parte è costituita da persone del clero. Ecco che allora risaltano temi come il celibato dei preti o il diaconato alle donne, che non interessano, e non interesseranno mai, i più.

   Altra cosa è strutturare formalmente  diverse  forme di ministerialità, che significa lavorare nella formazione religiosa, nella liturgia e nel presiedere e  animare  le comunità ecclesiali, come già accade in genere, ma con scarsi riconoscimenti, si lavora un po’ come truppe di complemento. Di solito sembra che ci si fidi solo del clero e delle persone appartenenti ad ordini religiosi. Questo anche perché non è organizzata su larga scala un’attività sistematica  di formazione e quindi l’altra gente appare poco preparata.

  Ma non si tratta solo di questo.

  Di fatto, almeno in Europa occidentale, la gente da diversi decenni già valuta e decide sulle questioni che la riguardano. Ma in questo perlopiù si agisce in base alla propria coscienza, senza discuterne con altre persone, ad eccezione, talvolta, delle proprie cerchie familiari e amicali. È qui che bisognerebbe  lavorare per innovare. Prendendo atto che non si ritornerà alla situazione di prima.

  Non è una cosa semplice. Innanzi tutto perché bisogna cercare di tenere insieme oltre un miliardo di persone di fede in tutto il mondo. È questo il nodo centrale della sinodalità.

  Sappiamo che la fede, come è vissuta nella cattolicità, non è solo fatto privato. Non è che la vita comunitaria possa esserci o non esserci: nasciamo alla fede in una comunità, che all’inizio è quella familiare. Cresciamo e approfondiamo la fede sempre in una comunità. Non possiamo fare tutto da soli, sulla base delle nostre intuizioni, e nemmeno solo affidandoci ai libri (che comunque sono opera di altre persone, in genere in dialogo con molte altre, anche  attraverso i secoli e le tante culture della Terra).

  La sinodalità è realizzata quando si riesce a vivere insieme la fede da persone amiche, concordando cose da fare e obiettivi, soccorrendosi all’occorrenza, senza cercare di prevaricare,  correggendosi in ciò che non va. È necessario stabilire in questo convenzioni e consuetudini appropriate, formalizzando, dove occorra, delle procedure. Occorre di tutto ciò fare tirocinio e questo da noi spesso manca. Ci siamo abituati in tutto a far conto prevalentemente su clero, religiose e religiosi. Non ci sentiamo veramente responsabili di ciò che si fa, anche perché spesso siamo tenuti all’oscuro di problemi e decisioni.

  Nella fede pensiamo che tutto sia pervaso dall’azione dello Spirito, ma nulla accade senza di noi. «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi…»[At 15,28] si fece premettere alle decisioni prese nella prima assemblea sinodale che si ricordi.

Non basta l’invocazione allo Spirito perché tutto si aggiusti.

  Il sistema delle relazioni umane è come un tessuto la cui trama va sapientemente intrecciata e, dove occorre, rammendata. Farlo è un’importante conquista culturale che va appresa di generazione in generazione e tramandata.

  Non tutte le persone vivono la fede allo stesso modo. Le differenze sono regionali (in Europa occidentale non va come in Estremo Oriente), ma anche sui miti. Alcuni immaginano un neo-passato e cercano di inscenarlo, sostenendo di essere tornati alle origini. Altri infarciscono la loro vita con fantasticherie a sfondo religioso, anche di tipo magico, e vi rimangono molto legati. Senza quella realtà “aumentata” pare loro di non trovarsi nella dimensione della religione. Ci sono anche persone che appaiono fuori di testa, non possiamo negarlo.

  Varia anche il coinvolgimento personale nella  vita di fede. Può essere tutto o una parte marginale della propria esistenza, buona più che altro per celebrare le tappe della vita.

  La sinodalità si impara praticandola e, in questo senso, è un lavoro artigianale.

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

   

domenica 29 ottobre 2023

Primo tirocinio di conversazione spirituale nel nostro gruppo parrocchiale di Azione Cattolica

 

1° Tirocinio di conversazione spirituale nel nostro gruppo parrocchiale di Azione Cattolica




(Dallo Strumento di lavoro per la Prima Sessione della 16° Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi sulla sinodalità)


  Ieri sera, nella riunione del nostro gruppo parrocchiale di Azione Cattolica, abbiamo fatto il primo tirocinio di conversazione spirituale su un tema d’attualità sul quale è necessario orientarsi in coscienza: la guerra tra il movimento irredentista palestinese  Hamas, che ha una forza militare nel territorio autonomo di Gaza, e lo Stato di Israele, iniziata con l’invasione stragista di Hamas  del 7 ottobre scorso in zone israeliane limitrofe ai confini di quel territorio palestinese. Quest’ultima è stata un’efferata azione militare stragista condotta con metodi terroristici in gran parte contro civili inermi, brutalizzati con incredibile ferocia, palesemente diretta a suscitare una violentissima reazione israeliana, che infatti vi è stata ed è tuttora in corso, che determinasse poi gli alleati internazionali di Hamas ad entrare in guerra con lo Stato di Israele. La guerra infatti,  nella Palestina contemporanea, sembra a molta gente di laggiù l’unica soluzione ai problemi di convivenza tra israeliani e palestinesi.

   L’Italia è ancora organizzata come uno stato democratico, in cui l’opinione pubblica conta.

  I governi Italiani hanno sempre preso posizione in occasione dei conflitti combattuti nel Vicino Oriente. L’Italia è stata cobelligerante nelle due “Guerre del Golfo”, combattute contro l’Iraq  dal 1990 al 1991 e nel 2003. Partecipa alla forza militare delle Nazioni Unite nel Sud del Libano, sul confine con lo Stato di Israele, e a programmi di aiuto in favore delle popolazioni palestinesi. Mantiene cordiali rapporti di amicizia con lo Stato d’ Israele. Seguendo le determinazioni delle Nazioni Unite e la posizione dell’Unione Europea non riconosce Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele, pur riconoscendo l’aspirazione di Israeliani e palestinesi ad avere la propria capitale a Gerusalemme. Il nostro Governo ha condannato duramente l’attacco terroristico di Hamas  del 7 ottobre, ma sta adoperandosi per un cessate il fuoco nel territorio di Gaza, in considerazione delle tremende sofferenze subite dalle popolazioni che vi sono insediate.

  In occasione della prima Guerra del Golfo, le imponenti manifestazioni pacifiste inscenate in Italia, come anche in tutta l’Europa occidentale, contribuirono certamente a limitare la portata del nostro impegno  militare nella guerra.

 Le guerre hanno anche una rilevanza specificamente sul piano dell’etica religiosa e dunque occorre cercare di darsi un orientamento su di esse. Che fare?

  Quel tema di attualità è stato lo spunto per provare a praticare il metodo della conversazione spirituale  raccomandato per le assemblee che si tengono nei cammini sinodali per il Sinodo dei vescovi sulla sinodalità, che prevede processi di ascolto  del Popolo di Dio, vale a dire noi: la prima Sessione della sua Assemblea generale ordinaria si è chiusa ieri a Roma, Città del Vaticano, con la votazione sul documento finale, che espone il programma organizzativo del prossimo anno, fino alla seconda Sessione che si terrà nell’ottobre del 2024.

  All’inizio sono stato piuttosto scettico su quel metodo, ma poi, riflettendoci meglio e soprattutto considerando i risultati della sua messa in pratica, mi sono ricreduto. Vale la pena di adottarlo per vedere come va. Ha diversi pregi. Il primo  è di consentire a tutte le persone di un’assemblea di esprimersi. Poi tiene conto del contesto liturgico in cui è opportuno che sia inquadrata un’assemblea ecclesiale, del resto sulla base di una tradizione molto antica. Infine ci si propone di raggiungere sui risultati il  maggior consenso possibile, in modo che tutte le persone si sentano rappresentate, cercando di lenire le contrapposizioni frontali. E questo è conforme allo spirito dell’agàpe evangelica.

  Qui sopra trovate lo schema del metodo della conversazione spirituale che ho tratto dallo Strumento di lavoro della Sessione dell’Assemblea sinodale che si è svolta in questo mese.

  Chi ha partecipato alla riunione di ieri ha avuto tra le mani lo schema del metodo della conversazione spirituale  con sole poche ore di anticipo, via email e WA, e poi, in un documento cartaceo, all’inizio dell’incontro. Non ci eravamo molto preparati. Ho introdotto io per pochi minuti. Ho visto che tutti poi si sono sforzati di collegarsi a quello che avevano detto gli altri. Ma non siamo riusciti ancor a praticare la divisione del lavoro in due fasi, inframezzate da uno spazio di silenzio e preghiera: il primo in cui ogni persona parla per pochi minuti e l’altro in cui si parla ancora cercando di sottolineare quello che nei discorsi altrui ha più colpito. Non abbiamo avuto il tempo di dialogare per fare sintesi e, d’altronde, non ci proponevamo ancora di elaborare una relazione finale.

 Qualche volta ci si è accavallati nel parlare e si è ripresa la parola subito dopo aver parlato, perché non si è resistito alla tentazione di replicare subito a qualcosa che si era ascoltato.

  Una cosa positiva che ho  notato è che non si è entrati in polemica. Il lavoro è stato costruttivo e arricchente.

 Si è parlato di nonviolenza, della necessità di pregare, della necessità di confrontarsi sul tema della guerra cercando di ricostruire gli specifici insegnamenti cristiani, delle iniziative dell’Azione Cattolica in Palestina, in particolare a Betlemme. Si è ricordato che il nostro parroco, che svolge anche una funzione molto importante nell’Opera Romana Pellegrinaggi,  è un profondo conoscitore di quella regione ora in guerra.

 Sarebbe utile riprendere programmaticamente il tirocinio sul metodo della conversazione spirituale, in modo che ci venga spontaneo praticarlo. Si adatta molto bene al nostro contesto di un gruppo non molto numeroso, in cui le relazioni faccia a faccia predominano e in cui ci si conosce e ci si stima.

  All’inizio dell’incontro ci ha parlato un po’ di sé il sacerdote che ci seguirà, don Miguel. Ha trentun’anni.  Viene a noi dall’Arcidiocesi di Bogotà, in Colombia, e dalla Diocesi di Engativá, nella quale è stato Vicario.
                                       
(Stemma della Diocesi di Engativà)
  Dal Web ho saputo che la Diocesi venne costituita nel 2003 e che ha praticato ampiamente la sinodalità.
 Dalla Colombia, precisamente dall’Assemblea del Consiglio Episcopale Latinoamericano svoltasi a Medellin (Dipartimento di Antioquia, a circa km 400 a Nord Ovest di Bogotà) nel 1968, con la presenza del papa Paolo 6° che l’aprì, iniziò il processo di riorganizzazione in senso sinodale dal quale ci vengono papa Francesco e l’attuale cammino sinodale di tutta la nostra Chiesa.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli 


venerdì 27 ottobre 2023

Fuga

 

Fuga

 

Da “la Repubblica”, 27-10-23,  pag.42

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, “La preghiera e l’azione”.

 

  E’ bello vedere moltitudini che si raccolgono per chiedere la pace, che guardano oltre ai termini dei conflitti, che vogliono la fine delle sofferenze, ma bisogna valutare  se guardare oltre  non significa appiattire le differenze e fare tutti uguali: in ogni conflitto non ci sono tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra, ma certamente vi sono quelli più buoni e quelli più cattivi. La preghiera può diventare un alibi per scaricarsi la coscienza, per stabilire un’equidistanza inopportuna, per cancellare le valutazioni  morali.

  Quando dopo l’uscita dall’Egitto gli ebrei si trovarono davanti al mare con l’esercito egiziano che premeva alle spalle per riportare i fuggitivi in schiavitù, Mosé si mise a pregare. E dal Cielo gli risposero: “cosa stai a gridare, parla ai figli di Israele, che partano” (Esodo, 14,15 (*)). C’è il momento della preghiera e quello dell’azione.

 

(*)

10Quando ormai il faraone fu vicino, gli Israeliti alzarono gli occhi e si accorsero che gli Egiziani li stavano inseguendo. Allora gli Israeliti ebbero molta paura e invocarono con grida l’aiuto del Signore. 11Dissero a Mosè:

— Forse non c’erano tombe a sufficienza in Egitto per condurci a morire nel deserto? Perché ci hai portati fuori dell’Egitto? 12Quando eravamo ancora là, ti dicemmo di lasciarci in pace. Potevamo anche continuare a servire gli Egiziani! Era meglio per noi essere schiavi che morire nel deserto!

13Mosè rispose:

— Non temete! Abbiate coraggio e vedrete quello che oggi il Signore farà per salvarvi. Questi Egiziani non li rivedrete mai più! 14Il Signore stesso combatterà al vostro posto. Voi dovrete stare tranquilli!

15Il Signore disse a Mosè: «Perché mi chiami in aiuto? Ordina piuttosto agli Israeliti di riprendere il cammino! 16Prendi in mano il bastone e stendilo sul mare. Così aprirai un passaggio nel mare perché gli Israeliti possano camminarvi all’asciutto. 17Ecco, io rendo ostinato il cuore degli Egiziani, perché li inseguano dentro il mare. Io dimostrerò la mia gloria sconfiggendo il faraone e tutto il suo esercito, i suoi carri da guerra e i suoi cavalieri. 18Quando avrò distrutto carri e cavalieri del faraone, gli Egiziani sapranno che io sono il Signore!».

19L’angelo di Dio che precedeva gli Israeliti passò dietro al loro accampamento. Anche la nube che era davanti a loro passò dietro 20e si collocò tra l’accampamento degli Egiziani e quello di Israele. Durante la notte gli uni non poterono avvicinarsi agli altri, perché la nube era oscura da una parte, mentre faceva luce dall’altra.

21Allora Mosè stese il braccio sul mare. Per tutta la notte il Signore fece soffiare da oriente un vento così forte che spostò l’acqua del mare e lo rese asciutto. Le acque si divisero 22e gli Israeliti entrarono nel mare all’asciutto: a destra e a sinistra l’acqua era per loro come un muro. 23Gli Egiziani li inseguirono: tutti i cavalli del faraone, i carri da guerra e i cavalieri entrarono nel mare dietro a loro.

24Sul far del mattino il Signore dalla colonna di fuoco e di nubi gettò lo sguardo sul campo degli Egiziani e lo mise in subbuglio. 25Frenò le ruote dei loro carri, e ne rese difficile la guida. Allora gli Egiziani dissero: «Fuggiamo lontano dagli Israeliti perché il Signore combatte con loro contro di noi!».

26Il Signore disse a Mosè: «Stendi di nuovo il braccio sul mare: le acque ritornino sui carri da guerra e sui cavalieri egiziani!».

27Mosè obbedì. Sul far del mattino il mare tornò al suo livello normale. Gli Egiziani in fuga gli si diressero contro. Il Signore li travolse così nel mare. 28Le acque ritornarono e sommersero tutti i carri e i cavalieri dell’esercito del faraone che avevano inseguito Israele nel mare: neppure uno si salvò! 29Invece gli Israeliti avevano camminato all’asciutto in mezzo al mare, mentre le acque a destra e a sinistra erano per loro come un muro.

30Così quel giorno il Signore salvò Israele dalla minaccia degli Egiziani. Gli Israeliti videro i cadaveri degli Egiziani sulla riva del mare 31e riconobbero la potenza con cui il Signore era intervenuto contro l’Egitto. Per questo il popolo fu preso da timore per quello che il Signore aveva fatto ed ebbe fiducia in lui e nel suo servo Mosè.

[Esodo, 14, 10-31– versione TILC  Traduzione  interconfessionale in lingua corrente]

 

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  Oggi, 27 ottobre 2023,  nella Basilica di San Pietro si è celebrata una liturgia nella Giornata di digiuno, preghiera e penitenza indetta da papa Francesco per la pace in Terra Santa e negli altri luoghi del mondo straziati da guerre e violenze, per la risoluzione di tutti i conflitti che insanguinano il mondo, dalla guerra in Ucraina a quella in Terra Santa, senza dimenticare i tanti altri “pezzi” di quella che, complessivamente, può essere considerata un’altra guerra mondiale in corso, invocando di allontanare  dal cuore degli esseri umani ciò che può mettere in pericolo la pace per confermali nella verità, nella giustizia, nell’amore per sorelle e fratelli.

   Quella che noi ancora ci ostiniamo a chiamare Terra Santa è la Palestina di oggi, divisa politicamente, ma anche in modo molto più profondo e radicato da barriere di odio efferato, tra lo Stato di Israele e due entità nazionali di etnia e cultura arabe, con prevalenza della cultura a sfondo religioso islamica ma con presenza, molto antica, anche di quella cristiana. Solo Israele è uno stato. Nelle entità arabe sono consentite forme limitate di autogoverno. In una di quelle entità, che governa aree dove nell’antichità sorgeva una delle principali città dei Filistei, Gaza, si è radicato un movimento fondamentalista armato che si propone la distruzione dello Stato di Israele, il quale attualmente ha ancora il controllo di quelle  entità arabe, in particolare di quella stanziata in Cisgiordania, ampiamente colonizzata da popolazioni di cultura ebraica. Sabato 7 ottobre scorso gruppi armati di quel movimento fondamentalista dai territori intorno a Gaza  hanno invaso alcune aree dello Stato di Israele limitrofe, occupando e distruggendo due comandi militari, massacrando in modo orrendo un gran numero di civili e catturando ostaggi. Le vittime ammontano a circa millecinquecento. Contemporaneamente sono stati lanciati migliaia di missili balistici verso lo Stato di Israele, che sebbene imprecisi hanno provocato danni e vittime. L’esercito israeliano nel giro di due giorni ha ucciso o catturato gli invasori e ora sta invadendo il territorio dell’entità araba di Gaza, che viene continuamente e duramente bombardato. Ha ordinato l’evacuazione dell’intera città di Gaza, verso la parte sud del territorio autonomo, ma anche quest’ultima viene bombardata. Le persone morte si stimano finora in oltre settemila. Mancano energia elettrica, acqua potabile, cibo. Gli ospedali stanno collassando. Circa due  milioni di persone sono in fuga e  si trovano in queste condizioni disastrose, ma senza possibilità di sottrarsi alla guerra, perché tutti i varchi di frontiera, controllati dallo Stato di Israele e dall’Egitto, sono chiusi.

 La suggestione di collegare la storia di oggi con gli antichi miti biblici è forte. Ma le popolazioni che soffrono oggi la guerra in quella regione non sono i popoli biblici. La sistemazione politica della zona è molto recente, risale al 1948. Gli arabi palestinesi si rifanno alla storia medievale che vide il Regno di Gerusalemme, costituito per tre secoli in quella regione dagli invasori europei, sconfitto e abolito (1291) e gli europei respinti. Ma la popolazione ebraica dello Stato di Israele, per quanto comprenda un gran numero di immigrati europei, non  è più europea. L’edificazione dello Stato di Israele è stata molto di più della creazione di un nuovo ordinamento politico: è stata vissuta come la costruzione di una nuova nazione, compresa l’organizzazione di una neolingua, basata su quella talmudica, a partire dall’epoca a cavallo tra Ottocento e Novecento.

  Gli europei, in essi compresi quelli che colonizzarono il Nord America, sono però pesantemente coinvolti nel conflitto sotto diversi profili. Gli Stati Uniti d’America sono co-belligeranti e hanno fatto affluire verso la Palestina un potente apparato navale. Il Papato romano continua a rivendicare una sorta di sovranità sui santuari di quella regione, che chiama Terra Santa, dove l’Ordine dei Frati minori francescani ha costituito una propria Custodia,  e il nome indica la funzione assegnata a questa struttura.

  La preghiera non basta, insegna Di Segni su basi bibliche.

  L’episodio della strage degli egiziani nel Mar Rosso mi colpì molto da bambino, quando lo vidi rappresentato nel grandioso film I Dieci Comandamenti, diretto nel 1956 dal regista Cecil Blount DeMille, al quale assistetti una domenica pomeriggio proprio nella nostra  parrocchia, nel teatro, dove all’epoca si faceva il cinema per i bambini del catechismo.

  La Bibbia è piena di violenza, anche estrema,  in particolare di storie di guerre, nelle parti che ricevemmo dall’antico ebraismo. Si raccontano anche di grandi battaglie combattute dagli antichi israeliti nel corso della conquista e occupazione di quella che chiamavano Canaan e che ora chiamiamo Palestina, seguendo la denominazione data a quella regione nel Secondo secolo dall’Impero romano che l’aveva occupata, dopo altre stragi orrende.

  Ma, nell’episodio biblico del passaggio del Mar Rosso da parte degli israelilti e della sommersione degli inseguitori egiziani, non si narra di una battaglia, ma di una fuga. Ad un certo punto, fattisi vicini gli egiziani, gli israeliti invocarono l’aiuto dal Cielo. C’era chi sostenne che sarebbe stato meglio arrendersi e tornare sotto il loro dominio. Ma dall’alto venne esortazione  a riprendere la marcia, quindi la fuga.

 Anni fa ascoltai in radio la predicazione del pastore Luca Baratto sul tema della fuga. I problemi non vanno fuggiti, ma affrontati, diceva, ma aggiungeva che certe volte la fuga è l’unico modo di salvarsi. La parola fuga non sempre è negativa, continuava.  Raccontava di una conversazione dello scrittore Tolkien con un amico: si erano chiesti chi trovasse più pericolosa la fuga. I carcerieri, si risposero concordi. Pier Martire Vermigli (1499-1562), ha ricordato Baratto,  vissuto in un tempo in cui la possibilità di finire sul rogo a motivo della propria religione era molto concreta, scrisse addirittura un saggio sul diritto alla fuga in tempo di persecuzione. La fuga, in certe condizioni, non è un peccato di codardia, ma una specifica vocazione cristiana, non diversa da quella che Dio ha indicato ad Abramo: “Esci dalla tua terra e va”.

  La teologia biblica ha trasformato quella mitica fuga attraverso il Mar Rosso nella via per fare di un popolo una nazione. Rimase, mi pare, il maggior mito fondativo, passato poi anche come tale nella cultura religiosa dei cristianesimi. Per questi ultimi il mito è stato però rinnovato come via per la sconfitta della morte. La meta  non è più una terra e non si tratta più di costruire una nazione, ma di qualcosa di molto più radicale. Le persone cristiane non hanno più terre sante, ma un destino santo.  

 Naturalmente sappiamo bene che anche le popolazioni cristianizzate espressero una violenza intensissima, addirittura genocida, assoggettarono popoli interi privandoli delle loro terre e facendone degli schiavi. Ne fecero le spese le stesse popolazioni ebraiche, in particolare quelle di cultura europea. Ma questo non corrisponde alla loro mitologia religiosa. A rifletterci bene è vissuto come peccato. La costruzione dello Stato di Israele ha assunto il significato, dopo la fine della Seconda Guerra mondiale e la sconfitta dei persecutori nazisti e fascisti, anche di una fuga. Si volle costruire una nazione dove le persone ebree potesse vivere al sicuro, nella loro cultura. Purtroppo ora lo Stato di Israele mi pare essere diventato uno dei posti meno sicuri nel mondo in cui si possa vivere da ebrei. Ma per la sua popolazione non c’è più, mi pare, un posto dove fuggire. Così è anche, credo, per gli arabi palestinesi. E ogni massacro sembra preparare quello successivo. La via dello sterminio, quella seguita dagli inseguitori egiziani nel mito biblico

 

Il nemico si vantava e diceva:

“Li inseguirò, li raggiungerò,

li attaccherò, li sterminerò,

ci sarà bottino per tutti;

alzerò la spada, mi impadronirò di loro!”.

[Esodo 15,19 – Inno di Mosè – versione TILC  Traduzione  interconfessionale in lingua corrente]

non conduce a nulla di buono.

  Nella cultura cristiana la preghiera è strettamente connessa all’azione, secondo il principio benedettino Prega e fatica, Ora et labora. Possiamo senz’altro far nostra, quindi, l’esortazione del rabbino Di Segni.

  C’è chi tra noi preferirebbe però rimanere dove e come si è. Ma c’è anche chi ricorda che il nostro spirito è un po’ sempre quello del viandante. “Canta e cammina” predicava Agostino di Ippona, “senza fermarti. Qui, nella speranza, canta l’alleluia della strada. Lassù, nel possesso, canteremo l’alleluia della patria”.

  E vediamo che nel mondo di oggi c’è chi massacra e chi fugge dai massacri. Chi massacra, naturalmente, cerca di trovare buone ragioni per continuare a farlo e le trova nella cattiveria altrui. L’animo cristiano compiange però chi fugge e cerca di dargli protezione, rifugio, soccorso, nello spirito della parabola del Samaritano misericordioso, e così facendo può iniziare a convertirsi dalla violenza in cui è caduto. Questo corrisponde a un comando del nostro Maestro. Noi italiani iniziammo a staccarci dal fascismo massacratore quando scoprimmo la virtù del dar rifugio a chi fugge.

  Il  nostro fare  non sia dunque il porre mano alle armi, ma soccorrere chi fugge. Non più terre sante e nazioni e stati e simili come assoluti, ma solo persone umane, le uniche alle quali non può essere negato il diritto di esistere.

  Finisco citando una bella poesia sulla fuga, come fece il pastore Baratto in quella predicazione di cui dicevo.

 

CASA 

 

Di Warsan Shire

 (traduzione di Paola Splendore)

 

Nessuno lascia la casa a meno che
la casa non sia la bocca di uno squalo

scappi al confine solo
quando vedi tutti gli altri scappare
i tuoi vicini corrono più veloci di te
il fiato insanguinato in gola
il ragazzo con cui sei andata a scuola
che ti baciava follemente dietro la fabbrica di lattine
tiene in mano una pistola più grande del suo corpo
lasci la casa solo
quando la casa non ti lascia più stare

Nessuno lascia la casa a meno che la casa non ti cacci
fuoco sotto i piedi
sangue caldo in pancia

qualcosa che non avresti mai pensato di fare
finché la falce non ti ha segnato il collo
di minacce
e anche allora continui a mormorare l’inno nazionale
sotto il respiro/a mezza bocca
solo quando hai strappato il passaporto nei bagni di un aeroporto
singhiozzando a ogni boccone di carta
ti sei resa conto che non saresti più tornata.

devi capire
che nessuno mette i figli su una barca
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra
nessuno si brucia i palmi
sotto i treni
sotto le carrozze
nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion
nutrendosi di carta di giornale a meno che le miglia percorse
non siano più di un semplice viaggio

nessuno striscia sotto i reticolati
nessuno vuole essere picchiato
compatito
nessuno sceglie campi di rifugiati
o perquisizioni a nudo che ti lasciano
il corpo dolorante

né la prigione
perché la prigione è più sicura
di una città che brucia
e un secondino
nella notte
è meglio di un camion pieno
di uomini che assomigliano a tuo padre

nessuno ce la può fare
nessuno può sopportarlo
nessuna pelle può essere tanto resistente

II

andatevene a casa neri
rifugiati
sporchi immigrati
richiedenti asilo
che prosciugano il nostro paese
negri con le mani tese
e odori sconosciuti
selvaggi
hanno distrutto il loro paese e ora vogliono
distruggere il nostro

come fate a scrollarvi di dosso
le parole
gli sguardi malevoli

forse perché il colpo è meno forte
di un arto strappato
o le parole sono meno dure
di quattordici uomini
tra le cosce
perché gli insulti sono più facili
da mandare giù
delle macerie
delle ossa
del corpo di tuo figlio
fatto a pezzi.

voglio tornare a casa,
ma casa mia è la bocca di uno squalo
casa mia è la canna di un fucile
e nessuno lascerebbe la casa
a meno che non sia la casa a spingerti verso il mare
a meno che non sia la casa a dirti
di affrettare il passo
lasciarti dietro i vestiti
strisciare nel deserto
attraversare gli oceani

annega
salvati
fai la fame
chiedi l’elemosina
dimentica l’orgoglio
è più importante che tu sopravviva

nessuno se ne va via da casa finché la casa è una voce soffocante
che gli mormora all’orecchio
vattene
scappa lontano adesso
non so più quello che sono
so solo che qualsiasi altro posto
è più sicuro di qua.

 

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

Legami

Legami

 

   Viviamo immersi in relazioni sociali che ci condizionano, tanto che ne dipende anche la nostra salute fisica, come è stato osservato in sede clinica. Ogni relazione sociale ha una forza e un’estensione, che variano a seconda delle persone, delle loro età e necessità  e dei contesti. Le nostre relazioni sociali sono connotate da affettività e diritto, ma in misura diversa. L’affettività è massima in quelle più strette: si è visto che ci legano con solo una trentina di altre persone. In quell’ambito ve ne sono alcune, tra  familiari, che possono avere anche la massima forza giuridica. Man mano che ci si allontana da questo contesto, forza, estensione, affettività e diritto calano rapidamente. Siamo alla vigilia di una tremenda guerra nel Vicino Oriente e un’altra non meno efferata è in corso molto più vicino a noi, ma sono fatti che non riescono a coinvolgerci emotivamente più di tanto. Perché dovrebbe essere diverso in religione? E infatti non lo è. Ma questo mette a disagio chi ha avuto riconosciute funzione di comando in quell’ambito e chi professionalmente si occupa di ragionarci sopra per stabilire chi è dentro e chi è fuori. Qui si vuole immaginare che le relazioni religiose abbiano sempre la massima forza, estensione e affettività perché così dev’essere per diritto.

  C’è sempre quindi in religione una certa discrasia tra come si è e come si immagina che si debba essere. Le esperienze religiose più intense si fanno nelle età in cui, per natura e consuetudini sociali, si dovrebbe essere impegnati nella riproduzione, anche se ce la si vieta, come accade per clero, religiose e religiosi. Sono sempre legate ad un atteggiamento di speranza e, insieme, ad una proiezione più in là nel futuro, condizione tipica della genitorialitá naturale. Da più giovani prevale la forza sociale del conformismo, e così manca la proiezione verso il futuro perché si tende a vivere giorno per giorno, da più anziani il timore per la fine e quindi scema la speranza.

  Nella forza ed estensione delle relazioni sociali, e anche di quelle religiose, conta molto l’utilità sociale, che può consistere nelle opportunità di integrazione o in un ritorno economico. Nell’Europa occidentale contemporanea l’utilità sociale della nostra religione è bassa, anche perché le strutture ecclesiali sono obsolete, frustranti per i più, e comportano pretese insostenibili proprio per chi è nelle età della vita in cui la religiosità tende ad essere più intensa.

  Si vorrebbe che si debba essere legati, in religione, ad una struttura universale di relazioni sociali molto accentrata e caratterizzata dalla massima forza, estensione e affettività, e si considera peccaminoso cercare di sottrarvisi. È una sorta di impero religioso delle anime, che stride con le dinamiche naturali delle relazioni sociali. Di fatto le cose vanno diversamente, e vanno  come accade in tutti gli altri ambiti sociali. Da qui poi chi si accosta ai nostri ambienti ecclesiali ne ricava spesso una certa sensazione di essere disapprovato. Si è sempre spinti, anche liturgicamente, a pentirsi di qualcosa, ma non lo si prende tanto sul serio. Ci si batte il petto e si continua come prima,  come fanno tutte e tutti. In sostanza è cosa che è vissuta come rito.

  La questione seria della religione, anche della nostra, non sta però in tutto ciò, ma nella consapevolezza del proprio posto nel mondo e della propria responsabilità etica nel corso degli eventi sociali. È un problema di coscienza sociale: sorge nell’interiorità e tende a permeare tutte le nostre relazioni sociali. La pratica della religiosità, in particolare la meditazione a sfondo biblico, tende a svilupparla.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

  

   

giovedì 26 ottobre 2023

Di generazione in generazione

 Di generazione in generazione

 

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Da: 

https://www.avvenire.it/agora/pagine/gianfranco-ravasi-lectio-eternita-settimana-della-bellezza

 

Proponiamo alcuni passi della lectio magistralis “All’etterno dal tempo” 

(«ïo, che al divino da l’umano,
a l’etterno dal tempo era venuto,
e di Fiorenza in popol giusto e sano,»

 Paradiso, 31, 38) che il cardinale Gianfranco Ravasi ha tenuto in apertura della Settimana della Bellezza nel Duomo di Grosseto, sabato 21 ottobre 2023 alle ore 16.30

 

[…]

Una caratteristica capitale della religione biblica e quindi del cristianesimo e dell’ebraismo è il loro legame proprio con la storia e, quindi, con la temporalità. Dio non rimane relegato nei cieli luminosi dell’infinito e dell’eterno, ma decide di incamminarsi per le strade polverose della storia umana e dello spazio terreno. Emblematica è la celebre frase che è incastonata in quel capolavoro teologico e letterario che è l’inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni: ho Lógos sárx eghéneto [il Verbo si fece carne, nota mia], il Verbo, la Parola divina che era «in principio», che era «presso Dio», anzi che era Dio, si intreccia intimamente con la sárx, cioè con la «carne», la fragilità, il limite temporale e spaziale dell’umanità. Non siamo, quindi, di fronte a una visione solo storicistica per cui tutto si esaurirà nel tempo.

La storia, invece, per la Bibbia è la sede delle epifanie divine: non per nulla il cosiddetto “Credo storico” di Israele è tutto ritmato non su definizioni astratte e “teo-logiche” di Dio ma sulle sue azioni sperimentabili nelle vicende del popolo ebraico: la chiamata dei Patriarchi, la liberazione nell’esodo dalla schiavitù faraonica, il dono della terra promessa (si leggano, ad esempio, il Salmo 136 o Giosuè 24). Come ha intuito Marc Chagall nei suoi famosi dipinti, si può incrociare Dio appena svoltato l’angolo della casa, all’interno del modesto villaggio ebraico; gli angeli entrano ed escono dai comignoli delle case e nell’amore di una coppia si intravedono i simbolismi celebrati dal Cantico dei cantici.

[…]

**************

   Una volta, quando fui fanciullo,  Prima comunione e Cresima si facevano a pochi giorni l’una dall’altra all’età della quarta elementare. A me toccò nel 1966, nella nostra parrocchia, quand’era parroco don Vincenzo Pezzella. Il catechismo di allora mi lasciò tra le mani un libretto di dottrina a domande e risposte e dovetti imparare queste ultime a memoria senza capirci granché. Anche nella catechetica si divenne poi gradualmente consapevoli che a quell’età non si ha capacità di pensiero astratto, ed era invece appunto quello che veniva somministrato con quel testo. La catechesi fu poi profondamente rinnovata negli anni Settanta e di questo potei giovarmi al tempo dell’Università, nel gruppo della FUCI, gli universitari cattolici, che frequentai dall’inizio del ’79. Usammo il primo nuovo Catechismo dei giovani, proposto all’epoca in via sperimentale. Lì conobbi mia moglie: per grazia di Dio, come si suol dire, ci è stato consentito di condividere la vita fino ad oggi.

  Alle medie cominciai a pormi domande sulla religione. A quel tempo ero scout nel Riparto (come all’epoca si chiamava) del Gruppo della parrocchia degli Angeli Custodi, a piazza Sempione. Con gli scout andavo a messa la domenica, ma non si faceva formazione religiosa. Rimediarono mia mamma e le mie nonne. Mio padre, educato tra i Cappuccini di Modena e poi, anche lui, nella FUCI, mi dava l’esempio di una religiosità molto radicata, ma di poche parole. Quando fui negli anni del liceo, subentrò mio zio Achille, professore di sociologia a Bologna, mio padrino di Cresima. Un impegno, quello, a cui fu fedele fino all’ultimo. Fu un formatore eccezionale, ma lavorava su quello che già in famiglia avevo ricevuto.

  Quello che mi creava problema era che la Rivelazione, e quindi la dottrina, fossero ormai definite per sempre. Ma come poteva essere? Non sarebbe stato anche un po’ noioso?

  Capii gradualmente che la nostra religione non stava solo nelle definizioni.

  Il nostro pensiero religioso si confronta costantemente con la storia, quindi con i cambiamenti che avvengono in società di generazione in generazione. La riflessione biblica, in particolare, ci consente di entrare in relazione vitale con le generazioni che ci hanno preceduto e di porre le basi per analoga relazione con quelle future. L’interrogativo di tutte ha riguardato, riguarda e riguarderà il senso della nostra vita, come singole persone e nelle società in cui si è immersə. Meditarci sopra con la mediazione degli scritti biblici non è come farlo usando qualsiasi altro testo: la differenza sta nella serietà e venerazione con cui ci si immerge nei primi. 

  Cominciando a praticare la religiosità biblica si capisce presto che la questione va molto oltre il rasserenamento interiore, ancor’oggi praticato ampiamente seguendo tradizioni sviluppate a partire dal lontano Oriente. E non si gioca solo sui miti, come nella gran parte degli altri culti del passato.

  La riflessione storica è ampiamente coinvolta nella nostra religiosità e in questo le generazioni vengono poste in contatto vitale. È un’avventura straordinaria che arricchisce le persone che se ne lasciano coinvolgere. La teologia dogmatica, quella che utilizziamo per decidere chi è dentro e chi è fuori, la riduce spesso a diverbi su definizioni, da risolvere in base alla razionalità, ma è molto di più, e in particolare molto di più di un esercizio di logica. Per averlo sostenuto pubblicamente mio zio Achille fu duramente emarginato negli ultimi anni della sua vita. Ma ecco che Gianfranco Ravasi, uomo di eccezionale cultura e di grande spessore spirituale, ci torna sopra, nel brano che ho sopra trascritto.

  Uno degli aspetti della nostra vita più difficili da assimilare è il succedersi delle generazioni, perché ciò implica confrontarsi con la propria, inevitabile, fine, ma anche con il costante cambiamento sociale. Cambiano le persone e quindi cambiano anche le società da loro espresse.  Nessuna persona è mai uguale ad un’altra e questo vale anche tra genitori, figlie e figli e nipoti, di generazione in generazione. Il senso della vita va sempre riscoperto e attualizzato.

  L’umanità, sotto questo aspetto, è unica nella biologia planetaria. Gli altri viventi, anche quelli più vicini a noi come i Primati, non manifestano propriamente una storia paragonabile alla nostra. Vivono e vivono anche in società, ma non intessono relazioni sociali tra generazioni. Vivono momento per momento, come raccomandano le antiche pratiche di tranquillizzazione interiore che ancora sono diffuse, con o senza miti religiosi.

  Insomma, nella nostra religione non c’è da fare i conti solo con la storia cosiddetta sacra, perché ampiamente connotata dalla mitologia. L’altra storia, quella detta profana, ha un senso religioso che deve essere scoperto di generazione in generazione, e anche varia di generazione in generazione - ogni generazione vi apporta qualcosa di nuovo: la nostra è una religione in cui si pensa che ogni cosa sia fatta nuova -, si arricchisce dell’esperienza delle persone nuove che si aggiungono a quelle di prima. Prendere dimestichezza con questo aspetto, centrale nella nostra religiosità, dovrebbe essere oggetto anche della formazione religiosa, a partire da quegli anni delicati e fondamentali nei quali si passa dalla fanciullezza all’adolescenza, e poi anche dopo, in tutte le età della vita. Vi è implicata la nostra responsabilità personale. Si fatica, certo, non ci si limita ad andare a rimorchio, ma è tutto molto avvincente, come spesso la religione invece non appare.

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

 

  

  

 

mercoledì 25 ottobre 2023

Preghiera

 

Preghiera


    La vita religiosa è connotata dalla preghiera, tanto che, nell’organizzare la nuova sinodalità secondo la quale si vorrebbe riorganizzare il nostro modo di essere e fare Chiesa, ci si vuole ancorare alla liturgia, che è preghiera  pubblica.

   La preghiera ha forma di invocazione, ma, fin dall’antichità, la sua pratica ha a che fare con l’interiorità ed è appunto questo che coinvolge nel profondo. Lo si scoprì, molto prima della comparsa dei cristianesimi, nel lontano Oriente e da laggiù, per vie non completamente note, arrivò fino a  noi, in particolare attraverso le esperienze dei primi nostri monachesimi. E negli ambienti monastici venne prevalentemente confinata fino al Cinquecento. Fino ad allora la maggior parte della gente praticava la preghiera vocale e pregare consisteva nel recitare formule, da soli o nel corso di liturgie collettive. Nella preghiera interiore si cerca invece di concentrarsi sul proprio organismo, a cominciare dal respiro e dal battito del cuore, interrompendo o comunque influendo sul corso della generazione dei pensieri. Le formule, in questa pratica, servono a concentrarsi sul proprio corpo, evitando che la mente sia presa da altro. Questo genera un senso di pace interiore e ha benefici effetti sull’organismo, osservati clinicamente. Se ne può sapere di più leggendo di Emiliano Lambiase e Tonino Cantelmi, Psicologia della compassione. Accogliere e affrontare le difficoltà della vita, San Paolo Edizioni 2020.

  Nella preghiera vocale serve solo imparare a memoria delle formule o saperle leggere su testi di preghiera. Alla preghiera interiore si deve invece essere introdotti da un maestro. La prima cosa che si insegna è come fare silenzio in sé stessi: non significa solo tacere, ma, appunto, interrompere il flusso della generazione dei pensieri. E’ importante anche assumere una posizione fisica che favorisca ciò che viene definito spirito della preghiera. E’ ciò che accade, ad esempio, nelle pratiche di adorazione liturgica proposte alla gente.

  Certamente si si domanderà in che modo c’entri il soprannaturale in tutto questo.

   Bisogna dire che la pratica della meditazione interiore, della quale la preghiera interiore è un tipo particolare, funziona anche senza riferimenti religiosi al divino: lo si è visto nella pratica della mindfulness, che ormai è una disciplina clinica diffusamente sperimentata e ampiamente utiizzata nella cura dei pazienti e che serve a far affrontare ai malati situazioni connotati da forte stress senza il ricorso a farmaci. La disciplina si è sviluppata ragionando sulle tecniche di tranquillizzazione interiore praticate nel buddismo e nello Yoga indiano, depurandole delle valenze religiose. Se ne parla diffusamente nel libro di John Kabat-zinn, Vivere momento per momento. Sconfiggere il dolore, l’ansia e la malattia con la mindfulness, Corbaccio 2021, anche in e-book e Kindle.

  Tuttavia nella concezione cristiana il soprannaturale è profondamente legato alla corporeità: da qui anche la dottrina dell’Incarnazione. Il corpo è considerato come un tempio  dello spirito e questo ci è senz’altro confermato dalle scienze che studiano la nostra psicologia. Così non si dà vera pace nello spirito senza prima realizzarla nel corpo. E questo è possibile anche nelle situazioni estreme, anche in mezzo al dolore del corpo. Il corpo, dal quale la mente è prodotta, è biologicamente strutturato anche per resistere in quelle difficili condizioni personali.

  Le persone religiose sperimentano ispirazioni, nella loro vita interiore. Difficile distinguere ciò che deriva dalle emozioni, generate dalla fisiologia, da ciò che arriva dall’alto, quindi dal soprannaturale. La neurologia ci dice che l’immagine del mondo come lo percepiamo viene generata dalla nostra mente, per cui gli stati mentali vi influiscono molto, come tutti  noi possiamo facilmente sperimentare. La nostra tradizione religiosa, fondata sulle Scritture, ci dice che l’interiorità è il luogo dell'incontro tra noi e il soprannaturale. Questo arricchisce  molto l’esperienza interiore.

  Pregare nell’interiorità, dunque, non solo fa sentire meglio, ma è molto bello: questo ci fa migliori. Farlo insieme ad altri migliora il nostro modo di stare insieme, ci rende meno disposti all’aggressione, alla violenza, all’intolleranza. Inserire momenti di meditazione liturgica nelle assemblee sinodali, come si è fatto organizzando quelle che abbiamo tenuto, anche in parrocchia, nel quadro dei cammini sinodali sulla sinodalità, è stata sicuramente una scelta felice.

  Ma fin dall’antichità  i nostri monachesimi hanno insegnato che la preghiera interiore non basta: deve essere accompagnata da un impegno nel mondo. Ora et labora, prega e fatica, l’esortazione al monaco che si trova nella regola dei Benedettini risalente all’alto Medioevo, significa appunto questo. Legare la ricchezza interiore alla vita del  mondo per cambiarlo: questa la grande sfida dei cristianesimi. A lungo però questo aspetto è stato trascurato nella formazione religiosa dei più, concentrandosi sulle prospettive dell’oltretomba. E vi è chi critica il corso attuale della nostra religiosità ecclesiale sostenendo che ci si dovrebbe tornare a  concentrare solo su quello. Probabilmente ci deve entrare l’uno e l’altro. Se prendiamo come riferimento l’esempio del Maestro, vediamo che non fu certamente solo un contemplativo e che la spiritualità che propose significava anche solidarietà, misericordia, compassione e conforto, era quindi una spiritualità fattiva. Certamente aveva anche una prospettiva nell’aldilà. Ma senza lasciare nell’al di qua le come stanno.

  La sinodalità come la si sta riorganizzando significa anche produrre cambiamenti. La Chiesa sinodale è una struttura sociale che ammette il cambiamento e lo asseconda cordialmente, componendo i conflitti che potrebbero derivarne. I cambiamenti caratterizzano costantemente la vita dell’umanità e questo rientra nella nostra natura di organismi. L’evoluzione delle culture segue quella dell’umanità che le sostiene. Ciò che non evolve diventa inutile e viene abbandonato. Accade anche nelle esperienze religiose. E’ un processo del quale nessuna singola persona può pensare di vedere la fine: infatti la supera. E’ qui che una ricca interiorità con una prospettiva soprannaturale aiuta a orientarsi e conforta.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

lunedì 23 ottobre 2023

L’umano e il religioso

L’umano e il religioso

 

  Ciò che è umano comprende anche aspetti terrificanti. Questo perché tutti noi si è parte della natura e la natura è anche terrificante. Può raggiungere un (sempre precario) equilibrio e complessivamente quello in cui siamo emersi si basa sul principio che tutti mangino tutti. Da un lato ci dicono che la natura ci parli del Creatore, d’altra parte speriamo che non sia stata voluta proprio così com’è, appunto per quei suoi lati terrificanti, e pensiamo che così com’è sia decaduta e che anch’essa attenda la redenzione. Quindi ci proponiamo di rispettare i nostri aspetti naturali, ma d’altra parte anche di elevarci sopra di essi, e questa sembra una contraddizione, eppure riflette ciò che siamo: gente che emerge da una natura con aspetti terrificanti e che tuttavia non può mai affrancarsene del tutto. Siamo organismi ben più profondamente di quanto ci piace immaginare. Anche la nostra mente, e quindi la nostra psicologia, è un prodotto fisiologico: l’esperienza ce lo conferma, anche se ci conforta pensare che la nostra identità psichica non dipenda solo dal nostro corpo. “Penso, dunque sono” fu argomentato in passato dalla filosofia, la realtà però, come descritta dalle scienze biologiche è che siamo, e dunque pensiamo, e il pensiero non consiste in un algoritmo, quindi in una struttura di calcolo, ma è potentemente influenzato dalla fisiologia: di questo, ad esempio, sono fatti i sogni, che rivestono un ruolo molto rilevante in religione.

  La religione, dal punto di vista antropologico, è un prodotto culturale, quindi scaturisce da sistemi di relazioni sociali consentite dal pensiero, che a sua volta si manifesta in base alla nostra fisiologia, e quindi alla natura che è in noi. Possiamo stupirci che anche la religione, come tutto l’umano, possa avere, e anzi abbia storicamente avuto,  volti terrificanti? Ad esempio, gli eventi terrificanti che stanno sconvolgendo la Palestina (come storicamente è ciclicamente avvenuto sin dall’antichità) hanno sicuramente risvolti religiosi, in particolare nella mitologia che ne costituisce lo sfondo.

  Che le religioni siano in genere potenze di pace non mi è evidente. Di fatto hanno sempre sorretto anche costumi sociali estremamente violenti e si sono combattute aspramente tra loro. Però da circa settant’anni in Occidente si è  cercato di cambiare. Sono  sviluppi molto recenti che si devono ancora consolidare. Eppure si tratta di progressi notevoli. Una riorganizzazione in senso sinodale delle nostre Chiese potrebbe favorirne il consolidamento e lo sviluppo. Infatti la sinodalità come oggi la  si vorrebbe comporta il superamento del tentativo di avere la meglio usando violenza. Si tratta di proseguire l’emersione da una natura che è violenta e ciò richiede un progresso culturale, un progetto d’azione, ma è cosa che prima di tutto occorre sentire emotivamente. La formazione religiosa dovrebbe comprendere anche un tirocinio di questo.

   La Bibbia, quindi il complesso dei documenti che prendiamo come principale riferimento per la vita religiosa, contiene scritti di violenza intensissima. In ciò riflette il nostro umano. Anche tra i cristiani sono state prodotte forme religiose violente, e ciò su base biblica. Tuttavia in genere ai tempi nostri si cerca di mitigarle o addirittura di superarle, almeno in Occidente. Sotto questo aspetto i nostri cristianesimi sono più  virtuosi del passato, se consideriamo la virtù legata al vangelo del mite Maestro di Galilea.

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, 

Valli

  

domenica 22 ottobre 2023

Sinodalità

Sinodalità

 

   In questi giorni, e fino al 29 ottobre prossimo, si tiene a Roma – Città del Vaticano la Prima sessione dell’Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi sulla sinodalità, a cui partecipa anche altra gente oltre i vescovi, circa settanta persone che fanno altro nella vita. La Seconda sessione si terrà nell’ottobre del prossimo anno.

   Gli specialisti avvertono che occuparsi della sinodalità è diverso dal farlo a proposito dei Sinodi celebrati nel passato, che ebbero numerose forme storiche, tutte in qualche modo riconducibili a espressione di sinodalità ma molto diverse tra loro. 

  Scrive Giuseppe Ruggieri in Chiesa sinodale, Laterza 2017, disponibile anche in e-book e Kindle:

 

 In ogni caso resta molto probabile che non solo nella chiesa attuale postconciliare, ma già nel 2° secolo le singole chiese si siano dati degli strumenti sinodali per la creazione del consenso. Fare del sinodo della chiesa locale un fenomeno essenzialmente differente da quello dei sinodi ecumenici, generali e provinciali, è indebito. E indebito è teologicamente ogni discorso sulla sinodalità della chiesa che parta da un presupposto discutibile.

  Ritengo che Corecco [Eugenio Corecco, vescovo e teologo svizzero – 1931-1995 – cfr Sinodalità e comunione, EDB 2023, che raccoglie vari scritti di Corecco sulla sinodalità – nota mia] al quale va attribuito il grande merito di aver collegato, da canonista [=studioso di diritto canonico, il diritto della Chiesa cattolica], la sinodalità alla comunione della Chiesa, abbia fatto un passo sbagliato ancorando la sinodalità in senso proprio solo alla comunione tra le chiese, e quindi tra i vescovi.

  Vale quindi una prima conclusione: il discorso sulla sinodalità della chiesa non può essere ancorato ad uno soltanto dei «generi sinodali» registrati nella storia della chiesa, ma deve trovare qualcosa di comune in essi. Questo non significa il rifiuto della peculiarità di ogni evento sinodale, all’interno dello stesso genere: i sinodi provinciali dei primi secoli non sono equiparabili a quelli dell’età medievale e tanto meno a quelli dell’età moderna o alle conferenze episcopali attuali. Ma nemmeno i concili ecumenici sono stati tutti gli stessi. La differenza tra i concili ecumenici dell’antichità e quelli del secondo millennio, propri della chiesa cattolica, è abissale. E anche all’interno della chiesa cattolica non possono essere omologati concili come i primi quattro Lateranensi e quelli di Costanza e di Basilea-Firenze o al Tridentino, al Vaticano 1° e tanto meno al Vaticano 2°. […] E infine tra un concilio antimontanista (ammesso che sia stato di una sola chiesa locale) del 2° secolo, un sinodo diocesano della chiesa carolingia e un sinodo diocesano attuale sono più numerose le differenze che i punti comuni. Ma esistono punti comuni?

[pagg 221-224]

 

  Ma che ci proponiamo  cercando di riorganizzare la nostra vita collettiva di fede in senso sinodale?

   La maggior parte delle persone  mi paiono abituate a svolgere un ruolo prevalentemente passivo in chiesa, ma anche nella Chiesa. Lì comanda il clero. E’ fuori che esprimono il loro essere cristiane. Ma il clero non comanda anche là fuori? Non più. E’ questa la grande novità  degli ultimi decenni, qualcosa che in Italia non si era sperimentato da oltre milleseicento anni. Ed è proprio per questo che si è tornati a parlare di sinodalità non come strumento di governo, ma come modo di essere fare Chiesa.

   C’è chi guarda sconsolato ai nostri tempi, perché non si è più gregge come si fu fino a un recente passato. Ma sotto la gran parte degli aspetti si è tanto migliori.

  La storia delle nostre Chiese è lordata da una violenza indicibile. Nella formazione religiosa di solito ci si sorvola sopra o, al più, si propugnano tesi giustificazioniste. Questa violenza si è espressa anche nel corso degli eventi sinodali, nonostante il preteso aleggiare spirituale.

  Nel corso di un concilio ecumenico molto importante, quello che si tenne a Costanza (in Germania) tra il 1415 e il 1418 per risolvere il problema creato dalla compresenza di ben tre Papi (tra i quali un Giovanni 23° eletto a Pisa), convocato dal Re dei Romani  e re d’Ungheria ecc. Sigismondo (l’Imperatore germanico), al rettore dell’Università di Praga Jan Hus fu intimato di ritrattare certe sue idee sulla Chiesa, e, al suo rifiuto, fu condannato a morte e immediatamente assassinato sul rogo nel corso di una efferata e (per noi) scioccante  liturgia sacra. Quel concilio approvò un decreto denominato Haec Sancta [Synodus] (Questo Santo Sinodo)dalle sue prime parole, con cui fu decisa la superiorità del Concilio ecumenico sul papa: un modo di interpretare la sinodalità nelle questioni di governo ecclesiastico. Questo consentì di deporre i tre Papi che erano stati eletti contemporaneamente e di eleggerne un altro, con più vasto consenso, e, in particolare, con quello dell’imperatore germanico. Questo orientamento conciliarista (nel senso che riteneva la preminenza del Concilio sul Papa) durò però solo qualche decennio. 

  In sostanza, ai nostri tempi cerchiamo di organizzare la sinodalità secondo quello che già di fatto si pratica, ma che è formalmente ignorato nell’organizzazione ecclesiastica. Questo è stato il senso della consultazione popolare che  ha aperto i cammini sinodali. In questo lavoro, però, è necessario vagliare criticamente gli esempi storici in cui si è manifestata la sinodalità e che si prendono come riferimento. Temo che gran parte di quello che si fece nella storia non ci sarà utile, se non come modello da non seguire. 

  Un nodo tematico molto rilevante, sul quale riflettere, è quale sia precisamente il ruolo della gente nei processi sinodali. Gran parte dei sinodi del passato, centrati sul governo ecclesiastico, ritenevano di esercitare poteri non in base a una decisione collettiva della base o a un incarico da un’autorità ecclesiastica superiore, ma per virtù soprannaturale. Quando si dice che il Sinodo come è praticato attualmente nella Chiesa cattolica non è un Parlamento, è a questo che ci si riferisce. Infatti al Parlamento si è eletti dalla base. Si dovrebbe agire sotto l’influsso dello Spirito (è questo è un dato comune nella sinodalità come finora è stata praticata) e questo comporterebbe l’unanimità, il decidere come una sola persona, come lo Spirito è una Persona, ma anche come i Tre fanno unità. La Trinità è appunto proposta come modello per la sinodalità. Se non si raggiunge l’unanimità non sarebbe veramente percepibile l’azione dello Spirito. Però in tutte le forme di Sinodo praticate finora, tranne quelle organizzate semplicemente per diffondere gli ordini di un’autorità ecclesiastica superiore, si è votato, e diverse fasi di voto sono previste anche dal regolamento dell’Assemblea sinodale che è in corso in questi giorni. Lo si fece anche durante le sessioni del Concilio Vaticano 2°: alla fine il consenso fu molto vasto su tutti i documenti, ma vi furono dei dissenzienti che votarono contro. L’unanimità effettiva non è nelle possibilità umane, nemmeno sotto l’azione dello Spirito.

  Che fare con i dissenzienti? Certo oggi non sarebbe più accettato il trattamento riservato a Hus.

 Oggi, in una Chiesa certamente non sinodale, i dissenzienti sono semplicemente emarginati e silenziati. Anche nel recente passato. Lo furono anime nobili e di grande valore, Lorenzo Milani, ad esempio.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli