Una proposta per un lavoro sulla parrocchia
Come MEIC siamo abituati ad essere consulenti dei vescovi e fatalmente questo ci spinge ad assumerne la mentalità e il gergo. A volte, addirittura, ci sentiamo sminuiti quando ci viene proposto di occuparci dell’altra gente, che tendiamo a inquadrare nella categoria Popolo di Dio senza stare a sottilizzare più di tanto: del resto è così che ragiona in genere la teologia dogmatica che sussurra alla gerarchia. Per essa ci sono le Potenze divine, la gerarchia, il singolo Uomo e i dilemmi etici che travagliano gerarchia e Uomo n
Quando, all’università e in FUCI, cominciai a familiarizzarmi con il gergo della teologia, le sofisticate costruzioni concettuali di quella disciplina iniziarono ad affascinarmi, al pari di quelle del diritto, dalle quali le prime furono potentemente plasmate a partire dall’inizio del Secondo millennio, quando divennero entrambe discipline universitarie. Ma, mentre il diritto comprende la pratica della giurisprudenza che significa ascoltare la gente mentre narra dei suoi problemi (il fatto) e provare a risolverglieli (lo ius, vale a dire la giustizia del caso concreto), per cui il giurista nella sua professione rivolge l’invito “dammi il fatto, e ti spiegherò la via giusta” – da mihi facfum, tibi dabo ius”, nella teologia, in particolare in quella dogmatica, questo lavoro in genere manca. Alle teologie sembra che interessi poco la gente così com’è, ragionano sull’Uomo, un androide che non è tra noi ma solo nella mente dei teologi. Mi pare che ragioni in questo modo addirittura l’antropologia teologica, che non si occupa, credo, di gente, come fa l’antropologia profana, ma dell’Uomo, così come si pensa debba essere secondo la dogmatica. Fatto sta che, mentre mi sono fatto con soddisfazione pratico del diritto, leguleio come definì sprezzantemente ciò che volevo diventare Gianni Baget Bozzo in un luglio di tanti anni fa nei miei 17 anni, mi sono stufato molto presto di accostare le teologie. Esse tuttavia sono ancora la lingua del potere ecclesiastico e a nessuno che non le articoli la gerarchia dà ascolto. Ci voleva un Papa non teologo come Francesco per cercare di cambiare le cose.
Infatti ha ordinato di cominciare a ragionare del cambiamento, chiamandolo esplicitamente riforma, con l’ascolto della gente. Naturalmente, l’ascolto non c’è stato. I vescovi italiani, nel dare le linee guida procedurali l’hanno vietato, vietando di discutere. Se non si può discutere, allora non si manifesta la gente, ma solo gli individui. In realtà ho potuto constatare che nel clero veramente pochi credono in questa via e preferiscono attendere ordini dall’alto, come si è stati formati a fare, nel duro clima autocratico e assolutistico che ha caratterizzato l’ordinamento ecclesiastico da metà Ottocento, solo scalfito dalle norme in merito deliberate durante il Concilio Vaticano 2º.
Oltre alla resistenza passiva di clero e religiosi, il progetto di Francesco subisce anche l’ostilità esplicita dei teologi di professione, che continuano a disprezzare tutto ciò che anima il dibattito culturale al di fuori della loro disciplina e tollerano i contributi provenienti da altre scienze solo se accettano di non occuparsi di governo ecclesiale.
Ricordo che di Giuseppe Dossetti, grande anima, non potendo dirne null’altro di male, dopo la sua morte si disse, da parte di un vescovo, che non era un teologo, intendendo dire che non era competente in materia di riforma ecclesiale. E certamente Dossetti, giurista di professione ma acculturato al gergo teologico in quanto specialista di diritto canonico, non solo non volle essere un teologo, ma addirittura sconsigliava di usare il gergo della teologia nelle faccende sociali ma anche di usare la teologia per l’arricchimento della propria spiritualità (era addirittura dannoso sosteneva). E tuttavia, indubbiamente, anche lui quel gergo talvolta lo utilizzava, perché si era fatto prete, e non poteva essere accettato dal resto del clero se non in questo modo; ma quelle pagine sono state per me le meno coinvolgenti.
Passando a noi.
Ci interessa fare qualcosa nel processo sinodale che, sia pure azzoppato, è comunque in corso, con ultima fase procastinata a fine 2024, e costituisce un evento sicuramente epocale, di portata pari o superiore a quella del Concilio Vaticano 2º, se non altro perché, almeno nella visione del Papa, dovrebbe consentire la partecipazione reale e pienamente legittimata di tutte le popolazioni di fede, le genti?
Vogliamo occuparcene, non facendo il verso alla teologia, quindi riferendoci all’androide Uomo, ma alla gente così com’è stratificata nelle varie età della vita, nelle varie relazioni amicali e a sfondo sessuale, nei vari mestieri con cui partecipa all’economia collettiva, nelle varie ideologie secondo le quali cerca di interpretare ciò che accade intorno a sé e di darsi programmi d’azione, insomma nella sua pluralistica varietà? Proponendo azioni concrete, non suggestive variazioni concettuali?
Propongo di iniziare a lavorare sulla riforma delle parrocchie, non solo perché esse costituiscono ancora una rete viva e vitale, il principale riferimento di prossimità per le persone, l’immagine concreta della Chiesa quando se ne sente la vera necessità, per un consiglio spirituale, per i sacramenti, per pregare insieme, ma anche perché, in genere, rimangono realtà pluralistiche, vissute da gente di diversi orientamenti, diverse età, diverse culture, diverse posizioni sociali, riflettendo così più realisticamente la società intorno, meglio di quanto avviene nelle esperienze di movimento, in cui si tende ad aggregare persone simili, o di quelle di ambiente, che hanno caratteristiche analoghe.
Bisognerebbe adottare una o più parrocchie, superarne la inveterata diffidenza per tutto ciò che si muove oltre i rispettivi confini, capire ciò che sono, entrare in relazione, senza pregiudizi, con i gruppi che le animano e il presbiterio e immaginare processi di cambiamento, intesi come procedure e specifiche culture. Senza pensare una riforma complessiva, perché questo tipo di riforma da una parte è di più difficile attuazione, per le resistenze che inevitabilmente si incontrano, da un’altra parte finisce per creare eccessive tensioni tra le persone, e infine ostacola quel processo di messa a punto, sulla base dell’esperienza fatta, che è essenziale per il miglior esito del processo. La duttilità, il far tesoro dell’esperienza pratica, non rimanendo legati agli schemi pensati prima di iniziare a fare, è cruciale per il lavoro dei riformatori. Di questo sono poco pratici i teologi, che tendono piuttosto a dedurre, invece di indurre. È stato osservato che l’essere stati pensate da teologi non ha fatto tanto bene alle riforme protestanti. Ma si potrebbe osservare lo stesso anche a proposito delle nostre controriforme.
Che ne dite?
Ci si potrebbe organizzare sopra uno dei nostri incontri in Zoom?
Mario Ardigó – MEIC Lazio \ Azione Cattolica in San Clemente papa- Roma, Monte Sacro, Valli