Tradizione
La religiosità
come elemento culturale si apprende e quindi ci deve essere qualcuno che insegna.
In Italia, in cui la popolazione è ancora impregnata di religiosità cristiana,
l’apprendimento non è solo esplicito, come quello che si fa a scuola, ma
avviene per immersione sociale, innanzi tutto in famiglia, ma poi anche fuori.
La famiglia, nonostante quello che a volte si dice, non è però l’ambiente
originario della tradizione, ma la recepisce dalla società intorno. A volte la
trasmissione di una tradizione è presentata come un contagio, altre volte come
il dilagare di un incendio. Il veicolo sono le relazioni personali di
affidamento. Quindi definire ciò che viene trasmesso come una fede rende bene l’idea.
Va detto che l’apprendimento esplicito, strutturato,
delle tradizioni culturali riguarda una minima parte di ciò che sappiamo di
come ci si deve comportare in società. La
massima parte viene per immersione o per contatto. Questo è ciò che
avviene in genere anche per gli altri viventi sociali.
Quando, negli anni Settanta, si ristrutturò la
catechesi, che in precedenza tendeva ad essere più che altro esplicita, si
tenne conto di questo, del fatto che la comunità in cui si era immersi svolgeva
una funzione docente. Naturalmente questa modalità di tradizione diviene
meno efficiente nei tempi di transizione culturale, come quello che stiamo
vivendo. Di questo, all’epoca del rinnovamento delle catechesi, si aveva
consapevolezza, ma non del tutto, non mi pare che ci si rendesse conto della profondità
e pervasività del fenomeno. Si pensava, anzi, che mantenere coese le comunità
di fedeli costituisse una valida forma di resistenza al cambiamento,
convinzione che l’esperienza ha manifestato come del tutto infondata.
In religione qualche volta si presenta la
tradizione come una sorta di oggetto prezioso che passa immutato di generazione
in generazione come avviene nei processi ereditari, in cui le cose passano,
appunto, da una generazione a quella successiva, per cui, in definitiva,
datagli una spolveratina, brilla come prima. In realtà, ciò che passa di
generazione in generazione sono degli elementi culturali che non rimangono immutati
in questo processo. Esso consiste in dinamiche sociali di tradizione, che si vivono nelle
relazioni tra generazioni, ma non solo, perché vi influiscono anche gli apporti
che vengono dal rimescolamento sociale, che è stato caratteristico delle
società umane in ogni tempo ma particolarmente ai tempi nostri, per cui le culture
si spostano e non solo seguendo le migrazioni, ma anche per imitazione provocata
semplicemente dal fatto di essere conosciute in ambienti sociali diversi da
quelli di origine. L’espansione dei cristianesimi delle origini beneficiò
proprio di quest'ultima modalità di trasmissione, per cui nel giro di tre secoli
circa, si diffusero al di fuori dell’antico giudaismo, trasfigurandosi
abbastanza nella cultura che iniziò a veicolarli, l’ellenismo. A volte sento
superficialmente una certa insofferenza per la cultura greca che da allora
contengono, per cui si sogna di poterli depurare da essa per riscoprire
qualcosa che, in quanto più vicino ai tempi del Maestro, sarebbe anche più puro,
in particolare nel sistema di pensiero giudaizzante che rivelerebbero, ma mi
sembra fatica inutile. Senza i greci, non ci sarebbe il cristianesimo
come oggi lo conosciamo e vorremmo tramandare.
Ma che
succede se le relazioni intergenerazionali non veicolano più bene le tradizioni
e quindi le nuove generazioni non vengono messe in grado di darvi un loro apporto,
e questa è appunto la forza che poi consente loro di trasmetterle ai posteri?
Accade che le tradizioni svaniscono. Più frequentemente si trasformano venendo
inglobate in nuovi contesti culturali. Ma certamente, specialmente riguardo
alle tradizioni primitive, ne conosciamo di estinte. Non sono tali, va detto,
quelle dell’antico politeismo mediterraneo pre-cristiano. Vivono tuttora inglobate
nei cristianesimi, in moltissimi elementi, a cominciare dall’architettura
religiosa. Il sacerdozio cattolico ne conserva degli elementi, anche se venne
strutturato ispirandosi a quello giudaico. Ricordo ad esempio che viene
considerato un appellativo dei papi quello di “pontefici”, e questi ultimi erano un collegio sacerdotale,
anzi il più importante, dell’antica civiltà romana e, in epoca classica, l’imperatore
assunte il titolo di “pontefice massimo”, che ora designa il Papa.
Nel
momento in cui, mi pare dagli anni scorsi anni Novanta, in parrocchia si decise
di non proporre più l’Azione Cattolica ai più giovani come via di formazione
sociale e religiosa, si determinò una gravissima frattura intergenerazionale,
con la conseguenza dello svanire di una tradizione associativa che si riteneva
ormai obsoleta, perché non sufficientemente connotata da elementi culturali comunitari.
L’Azione Cattolica puntava molto sulla mediazione culturale che significa fondamentalmente capire come far
vivere nella società contemporanea le tradizioni religiose dal passato,
cercando di individuare ed esplicitare nel presente i loro elementi
caratteristici, pensando di ritrovarceli in quanto perenni caratteristiche
antropologiche, ad esempio la compassione e la misericordia, tanto importanti
nello sviluppo del vangelo. E considerava come veicolo culturale la parola, vale a dire il discorso
esplicito, altrimenti detto dialogo, la parola che mette in relazione.
Chi non condivideva questa linea, pensava invece che inscenando l’amicizia cristiana,
in particolare al modo di una famiglia, e presentandola così com’era in società,
allora le altre persone se ne sarebbero innamorate e avrebbero iniziato ad
imitarla, aggregandosi, ciò che invece non è avvenuto. In particolare per il
carattere troppo segregato, chiuso, di quelle comunità esemplari, che si davano
una rigida disciplina sotto guide molto esigenti, un po’ al modo di certe esperienza
monastiche, ma senza l’egualitarismo che storicamente le aveva caratterizzate.
Viviamo in un mondo in rapida transizione culturale in cui ognuno vuole dare un
proprio apporto alla vita sociale e, innanzi tutto, vorrebbe cercare di capire meglio
il mondo in cui vive e gli altri, per cercare un migliore benessere, fiducioso
di poterlo conseguire. Questo spiega anche la viva diffidenza verso ogni proposta
associativa che comporti dei vincoli stabili, e questo ad ogni livello, ad esempio
anche nell’assumere un impegno continuativo per un servizio durante la messa
domenicale.
In una società che cambia velocemente lo strumento
della mediazione culturale è indispensabile per sorreggere le tradizioni
religiose, ma anch’esso va appreso, perché, in genere, le comunità di fede non
lo veicolano, o comunque non lo veicolano più.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli