OGGI, FESTA DELLA PARROCCHIA. SONO PROGRAMMATI VARI EVENTI
La statua di San Clemente romano in tenuta (anacronistica) da papa, richiamata vicino all'altare dalla sua abituale postazione tra i confessionali. |
La festa della parrocchia
Organizziamo la festa della parrocchia oggi, domenica
20 novembre, a ridosso della memoria liturgica del santo da cui prende il nome,
Clemente romano, del quale si narra che fu vescovo di Roma per alcuni anni
verso la fine del Primo secolo, all’epoca in cui stava cominciando a
strutturarsi un vero e proprio clero nella comunità cristiana della città. Gli è
attribuita una lunga Lettera alla comunità cristiana di Corinto, scritta
in greco, che documenta aspre discordie tra i fedeli di quella città e una
certa insofferenza verso i suoi capi, gli anziani, detti con termine greco presbiteri,
da cui ci venne la nostra parola prete. La potete leggere sul Web qui:
https://digilander.libero.it/undicesimaora2/padri/Clemente%20di%20Roma_LETT.pdf
Una biografia affidabile e molto estesa del santo si può leggere nell’Enciclopedia dei Papi on line della Treccani:
In un’udienza in Vaticano, Aula Paolo 6°, del
7 marzo 2007, l’allora papa Benedetto 16°
sintetizzò molto efficacemente la teologia che sul pensiero di Clemente romano,
in particolare su quella Lettera, fu costruita. Potete leggere quel discorso sul Web a questa
pagina:
https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070307.html
Cari fratelli e sorelle,
abbiamo meditato nei mesi scorsi sulle figure
dei singoli Apostoli e sui primi testimoni della fede cristiana, che gli
scritti neo-testamentari menzionano. Adesso dedichiamo la nostra attenzione ai
santi Padri dei primi secoli cristiani. E così possiamo vedere come comincia il
cammino della Chiesa nella storia.
San Clemente, Vescovo di Roma negli ultimi
anni del primo secolo, è il terzo successore di Pietro, dopo Lino e Anacleto.
Riguardo alla sua vita, la testimonianza più importante è quella di sant’Ireneo,
Vescovo di Lione fino al 202. Egli attesta che Clemente «aveva visto gli
Apostoli», «si era incontrato con loro», e «aveva ancora nelle orecchie la loro
predicazione, e davanti agli occhi la loro tradizione» (Contro le
eresie 3,3,3). Testimonianze tardive, fra il quarto e il sesto secolo,
attribuiscono a Clemente il titolo di martire.
L’autorità e il prestigio di questo Vescovo
di Roma erano tali, che a lui furono attribuiti diversi scritti, ma l’unica sua
opera sicura è la Lettera ai Corinti. Eusebio di Cesarea, il
grande «archivista» delle origini cristiane, la presenta in questi termini: «E’
tramandata una lettera di Clemente riconosciuta autentica, grande e mirabile.
Fu scritta da lui, da parte della Chiesa di Roma, alla Chiesa di Corinto ...
Sappiamo che da molto tempo, e ancora ai nostri giorni, essa è letta
pubblicamente durante la riunione dei fedeli» (Storia Eccl. 3,16).
A questa lettera era attribuito un carattere quasi canonico. All’inizio di
questo testo – scritto in greco – Clemente si rammarica che «le improvvise
avversità, capitate una dopo l’altra» (1,1), gli abbiano impedito un intervento
più tempestivo. Queste «avversità» sono da identificarsi con la persecuzione di
Domiziano: perciò la data di composizione della lettera deve risalire a un
tempo immediatamente successivo alla morte dell’imperatore e alla fine della
persecuzione, vale a dire subito dopo il 96.
L’intervento di Clemente era sollecitato dai
gravi problemi in cui versava la Chiesa di Corinto: i presbiteri della
comunità, infatti, erano stati deposti da alcuni giovani contestatori. La
penosa vicenda è ricordata, ancora una volta, da sant’Ireneo, che scrive:
«Sotto Clemente, essendo sorto un contrasto non piccolo tra i fratelli di
Corinto, la Chiesa di Roma inviò ai Corinti una lettera importantissima per
riconciliarli nella pace, rinnovare la loro fede e annunciare la tradizione,
che da poco tempo essa aveva ricevuto dagli Apostoli» (Contro le
eresie 3,3,3). Potremmo quindi dire che questa lettera costituisce un
primo esercizio del Primato romano dopo la morte di san Pietro. La lettera di
Clemente riprende temi cari a san Paolo, che aveva scritto due grandi lettere
ai Corinti, e in particolare la dialettica teologica, perennemente attuale,
tra indicativo della salvezza e imperativo dell’impegno
morale. Prima di tutto c’è il lieto annuncio della grazia che salva. Il Signore
ci previene e ci dona il perdono, ci dona il suo amore, la grazia di essere
cristiani, suoi fratelli e sorelle. E’ un annuncio che riempie di gioia la
nostra vita e dà sicurezza al nostro agire: il Signore ci previene sempre con
la sua bontà, e la bontà del Signore è sempre più grande di tutti i nostri
peccati. Occorre però che ci impegniamo in maniera coerente con il dono
ricevuto e rispondiamo all’annuncio della salvezza con un cammino generoso e
coraggioso di conversione. Rispetto al modello paolino, la novità è che
Clemente fa seguire alla parte dottrinale e alla parte pratica, che erano
costitutive di tutte le lettere paoline, una «grande preghiera», che praticamente
conclude la lettera.
L’occasione immediata della lettera schiude
al Vescovo di Roma la possibilità di un ampio intervento sull’identità della
Chiesa e sulla sua missione. Se a Corinto ci sono stati degli abusi, osserva
Clemente, il motivo va ricercato nell’affievolimento della carità e di altre
virtù cristiane indispensabili. Per questo egli richiama i fedeli all’umiltà e
all'amore fraterno, due virtù veramente costitutive dell’essere nella Chiesa:
«Siamo una porzione santa», ammonisce, «compiamo dunque tutto quello che la
santità esige» (30,1). In particolare, il Vescovo di Roma ricorda che il
Signore stesso «ha stabilito dove e da chi vuole che i servizi liturgici siano
compiuti, affinché ogni cosa, fatta santamente e con il suo beneplacito, riesca
bene accetta alla sua volontà ... Al sommo sacerdote infatti sono state
affidate funzioni liturgiche a lui proprie, ai sacerdoti è stato preordinato il
posto loro proprio, ai leviti spettano dei servizi propri. L’uomo laico è
legato agli ordinamenti laici» (40,1-5: si noti che qui, in questa lettera
della fine del I secolo, per la prima volta nella letteratura cristiana,
compare il termine greco laikós, che significa «membro del laós»,
cioè «del popolo di Dio»).
In questo modo, riferendosi alla liturgia
dell’antico Israele, Clemente svela il suo ideale di Chiesa. Essa è radunata
dall’«unico Spirito di grazia effuso su di noi», che spira nelle diverse membra
del Corpo di Cristo, nel quale tutti, uniti senza alcuna separazione, sono
«membra gli uni degli altri» (46,6-7). La netta distinzione tra il «laico» e la
gerarchia non significa per nulla una contrapposizione, ma soltanto questa
connessione organica di un corpo, di un organismo, con le diverse funzioni. La
Chiesa infatti non è luogo di confusione e di anarchia, dove uno può fare
quello che vuole in ogni momento: ciascuno in questo organismo, con una
struttura articolata, esercita il suo ministero secondo la vocazione ricevuta.
Riguardo ai capi delle comunità, Clemente esplicita chiaramente la dottrina della
successione apostolica. Le norme che la regolano derivano in ultima analisi da
Dio stesso. Il Padre ha inviato Gesù Cristo, il quale a sua volta ha mandato
gli Apostoli. Essi poi hanno mandato i primi capi delle comunità, e hanno
stabilito che ad essi succedessero altri uomini degni. Tutto dunque procede
«ordinatamente dalla volontà di Dio» (42). Con queste parole, con queste frasi,
san Clemente sottolinea che la Chiesa ha una struttura sacramentale e non una
struttura politica. L’agire di Dio che viene incontro a noi nella liturgia
precede le nostre decisioni e le nostre idee. La Chiesa è soprattutto dono di
Dio e non creatura nostra, e perciò questa struttura sacramentale non
garantisce solo il comune ordinamento, ma anche questa precedenza del dono di Dio,
del quale abbiamo tutti bisogno.
Al termine, la «grande preghiera» conferisce
un respiro cosmico alle argomentazioni precedenti. Clemente loda e ringrazia
Dio per la sua meravigliosa provvidenza d’amore, che ha creato il mondo e
continua a salvarlo e a santificarlo. Particolare rilievo assume l’invocazione
per i governanti. Dopo i testi del Nuovo Testamento, essa rappresenta la più
antica preghiera per le istituzioni politiche. Così, all’indomani della
persecuzione, i cristiani, ben sapendo che sarebbero continuate le
persecuzioni, non cessano di pregare per quelle stesse autorità che li avevano
condannati ingiustamente. Il motivo è anzitutto di ordine cristologico: bisogna
pregare per i persecutori, come fece Gesù sulla croce. Ma questa preghiera
contiene anche un insegnamento che guida, lungo i secoli, l’atteggiamento dei
cristiani dinanzi alla politica e allo Stato. Pregando per le autorità,
Clemente riconosce la legittimità delle istituzioni politiche nell’ordine
stabilito da Dio; nello stesso tempo, egli manifesta la preoccupazione che le
autorità siano docili a Dio e «esercitino il potere, che Dio ha dato loro,
nella pace e nella mansuetudine con pietà» (61,2). Cesare non è tutto. Emerge
un’altra sovranità, la cui origine ed essenza non sono di questo mondo, ma «di
lassù»: è quella della Verità, che vanta anche nei confronti dello Stato il
diritto di essere ascoltata.
Così la lettera di Clemente affronta numerosi
temi di perenne attualità. Essa è tanto più significativa, in quanto
rappresenta, fin dal primo secolo, la sollecitudine della Chiesa di Roma, che
presiede nella carità a tutte le altre Chiese. Con lo stesso Spirito facciamo
nostre le invocazioni della «grande preghiera», là dove il Vescovo di Roma si
fa voce del mondo intero: «Sì, o Signore, fa’ risplendere su di noi il tuo
volto nel bene della pace; proteggici con la tua mano potente ... Noi ti
rendiamo grazie, attraverso il Sommo Sacerdote e guida delle anime nostre, Gesù
Cristo, per mezzo del quale a te la gloria e la lode, adesso, e di generazione
in generazione, e nei secoli dei secoli. Amen» (60-61).
Da un lato
il riferimento al pensiero di Clemente romano viene utilizzato per accreditare
la legittimità del primato papale proiettandolo ai tempi del ministero a Roma
del santo, dall’altro per giustificare, con l’autorevolezza dell’antichità
della relativa tradizione, la netta separazione tra persone laiche e gerarchia:
si tratta di due temi che travagliano le Chiese dei tempi nostri e sono coinvolti
nei processi sinodali che faticosamente, in qualche modo, sono stati inscenati
in questi mesi, per ordine di papa Francesco.
Il magistero di Clemente romano sulla discordia
ci può essere ancora utile. La nostra parrocchia, come l’antica comunità cristiana
di Corinto, è travagliata infatti da aspre contrapposizioni. Il problema, però,
non è causato da giovani contestatori, non è generazionale. Questo
distingue i problemi di oggi da quelli che, ad esempio, c’erano negli scorsi anni
Sessanta e Settanta. Come cinquant’anni fa, però, il problema è come vivere la fede
ai tempi d’oggi e la viva insofferenza per chi adotta costumi diversi. I più,
comunque, non se ne danno eccessivo pensiero e semplicemente vengono in chiesa
più saltuariamente e non si fanno
coinvolgere più di tanto. Non bisogna concludere, tuttavia, che sia veramente
in questione la fede. Certo, allontanandosi perdono la consuetudine con
liturgie e preghiere personali e dimenticano. La nostra mente funziona
così: la funzione della memoria è selettiva. Che cosa rimane quando svanisce
anche il ricordo del Padre Nostro?
Clemente romano inquadra il problema dei
cristiani di Corinto nella categoria della sedizione. Raccomanda quindi
di sottomettersi nuovamente agli anziani, ai presbiteri, che erano stati esautorati.
Ma questa via non va bene ai tempi nostri, perché nemmeno il clero sa bene che
fare. Anche l’idea della pace come frutto dell’accettare l’armonia delle leggi
stabilite dall’ordine superno, al
modo della natura
20, 1. I cieli
che si muovono secondo l'ordine di Lui gli ubbidiscono nell'armonia. 2. Il
giorno e la notte compiono il corso da Lui stabilito e non si intralciano a
vicenda. 3. Il sole e la luna e i cori delle stelle secondo la Sua direzione
girano in armonia senza deviazione per le orbite ad essi assegnate. 4. La terra,
feconda per Sua volontà, produce abbondante nutrimento per gli uomini, per le
fiere e per tutti gli animali che vivono su di essa, senza riluttanza e senza
cambiare nulla dei Suoi ordinamenti. 5. Le cose misteriose degli abissi e i
giudizi inesplicabili degli inferi sono retti dagli stessi ordinamenti. 6. La
massa del mare immenso che nella sua creazione si raccolse nei suoi antri, non
supera i limiti posti, ma come fu ad esso ordinato, così agisce. 7. Disse
infatti: "Fin qui tu verrai, e i tuoi flutti si infrangeranno in te
stesso". 8. L'oceano senza fine per gli uomini e i mondi, che sono oltre,
sono retti dalle stesse leggi del Signore. 9. Le stagioni di primavera,
d'estate, d'autunno e d'inverno si susseguono in armonia una dopo l'altra. 10.
I venti nell'incalzarsi compiono nel proprio tempo il loro servizio senza
intralcio; le sorgenti perenni create per il rinfrancamento e la salute, senza
mai cessare, offrono da bere per la vita degli uomini. Anche gli animali più
piccoli si riuniscono nella pace e nella concordia. 11. Il creatore e signore
dell'universo dispose che tutte queste cose fossero nella pace e nella
concordia, benefico verso tutto e particolarmente verso di noi che ricorriamo
alla sua pietà per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo. 12. A Lui la gloria e
maestà nei secoli dei secoli. Amen.
per quanto poetica e coinvolgente non va più bene nel mondo di
oggi in cui abbiamo compreso l’ordine piuttosto caotico e violento della
natura, per cui essa certamente non può più essere presa come modello della pace
sociale a cui in genere si tende. Quest’ultima è una grande conquista culturale
rispetto ai tempi antichi: la pace viene considerata un’opportunità di benessere più vantaggiosa
della guerra, anche per noi europei che dalle guerre di rapina ci siamo per
secoli avvantaggiati (in ciò consistette il nostro colonialismo). Naturalmente
c’è anche chi la pensa come ai tempi antichi e vediamo tradotto in fatti questo
orientamento nell’attuale guerra in Ucraina che in gran parte coinvolge genti
cristiane.
Quello che sarebbe necessario per superare la
diffidenza che ci divide c’è e si chiama sinodalità, ma non quella inscenata
dagli antichi vescovi per far pace tra loro (o anatemizzarsi a vicenda nel caso non
ci fossero riusciti), ma una nuova, in cui la sua novità è quella di coinvolgere
tendenzialmente tutte le persone di fede. Ma come possono gli incolti, e la
maggior parte siamo tali a differenza di chi sa di teologia, riuscire dove i
sapienti non arrivano? In realtà è proprio dai sapienti che sono venuti i
maggiori problemi. Tuttavia non bisogna neppure disprezzare la sapienza, ma
dare importanza ad una certa pazienza nei rapporti con le altre persone resistendo
all’istinto immediato a scendere a vie di fatto, come si dice. Ad un certo
punto della Lettera, Clemente romano raccomanda di non indispettirsi:
56, 1. Per quelli che si
trovano in qualche peccato intercediamo anche noi, perché siano loro concesse
la mansuetudine e l'umiltà e cedano non a noi ma alla volontà di Dio. Così sarà
fruttuoso e perfetto presso Dio e presso i santi il ricordo con la pietà. 2.
Accettiamo il rimprovero per il quale nessuno deve indispettirsi, o carissimi.
La correzione che ci facciamo a vicenda è buona e assai vantaggiosa; ci unisce
alla volontà di Dio.
Trovo
che questa sia una buona via nell’incontrarci per trovare nuovi modi di
convivenza pacifica tra noi.
Oggi, per la festa della parrocchia, ci sarà
l’occasione di incontrarci anche al di fuori delle nostre piccole cerchie abituali
in cui di solito viviamo confinati la nostra vita di fede. Potremo anche cercare
di conoscerci meglio, superando i reciproci pregiudizi. Questo riesce
più facile in eventi che complessivamente manifestano un lieto convito.
Mario Ardigò – Azione
Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli