Vivere il pluralismo
Considerare la sinodalità come un problema di governo porta a depotenziarla.
Il governo è quando si incarica un gruppo di prendere decisioni per tutti o, comunque, si accetta che lo faccia. Nel secondo caso si ha una autocrazia. Il nostro governo ecclesiastico è tale.
Va detto che una collettività che superi le dimensioni di una trentina di persone, quelle che consentono di decidere insieme faccia a faccia, non può evolvere in società se non legittimando un governo. È ciò che accade, ad esempio, quando gli utenti della metropolitana (collettività sociale ma non ancora società), a fronte di gravi e prolungati disservizi si organizzano in comitato ed eleggono uno o più portavoce, dandosi anche una denominazione. Allora si manifestano come società, dandosi una forma embrionale di governo.
Il livello di partecipazione è molto diverso nel gruppo di governo, che è sempre ciò che definiamo piccolo gruppo, vale a dire quello in cui si riesce a intrattenere relazioni faccia a faccia, e nelle altre persone consociate. Alla fine queste ultime tendono a rimanere solo informate, ma senza influire veramente nell’espressione del governo, se non quando esso decida di mettersi in gioco in una procedura elettorale o di consultazione referendaria di quella che ormai è diventata la base, o il basso. E questo, nello svilupparsi dell’organizzazione sociale, tende a diventare sempre meno frequente. Quelle procedure, allora, vengono inscenate più che altro quando emergono più fazioni che pretendono l’accesso al governo e si conviene di regolare la questione pacificamente. Ma si può anche decidere che l’accesso alle organizzazioni di governo avvenga solo o prevalentemente per cooptazione, che è quando un gruppo di governo decide di elevare qualche altra persona alla sua dignità. È questo il caso, in genere, del governo ecclesiale. A volte ci sono combinazioni tra vari tipi di procedura. Ad esempio, di fatto si diventa papa solo se si è cooptati nel collegio dei cardinali, che poi elegge il papa, ed è per questo che recentemente un arcivescovo metropolita ha recriminato pubblicamente per non essere stato creato cardinale a differenza di un vescovo a lui sottoposto. Questo anche se papa può essere eletto ogni uomo battezzato, anche se regole canoniche recenti lo vogliono vescovo. Nei secoli passati, da quando si costituì un clero (che alle origini non esisteva) e prese a differenziarsi dal resto del popolo (i laici), furono eletti papa anche dei laici, che però erano già potenti di proprio.
Ma la sinodalità come oggi si propone di attuare riguarda principalmente le relazioni faccia a faccia, non il governo ecclesiastico, anche se si spera che le sue manifestazioni e procedure finiscano con il tempo per esserne influenzate.
Il problema principale nel vedere la nuova sinodalità nella prospettiva del governo risiede nel fatto che il governo delle nostre Chiese e della loro organizzazione centrale, la cosiddetta Santa sede, è autocratica e assolutistica, e questo senza dare a ciò un significato valoriale o disvaloriale. Si tratta di constatare l’esistente per come appare. È un’organizzazione poco partecipata dal basso, anche se il basso conta molto di più di un tempo, ma informalmente, per vie di fatto.
Una organizzazione assolutistica si sente minacciata dalle pretese di pluralismo che vengono dal basso. E la sinodalità come oggi viene proposta si basa proprio sull’accettazione del pluralismo, del quale si rende l’idea con l’immagine del poliedro, non necessariamente regolare, vale a dire con una certa simmetria. Si pensa ad una unità che non si basi sull’uniformità ma sull’amicizia, prendendo atto della complessità sociale ma non rinunciando a manifestare una socialità agapica, vale a dire solidale, benevolente e misericordiosa.
Si vorrebbe rendere il governo ecclesiale meno letale per quella sinodalità imponendogli di ascoltarla, ma naturalmente questo di fatto non è ancora accaduto e, anzi, nella fase di ascolto dei processi sinodali in corso in Italia, la gerarchia ha addirittura vietato di discutere. E invece quella sinodalità dovrebbe cominciare proprio dal poter discutere.
Un tirocinio di nuova sinodalità dovrebbe cominciare dall’individuare un obiettivo o un campo di impegno alla portata di un gruppo in cui sono consentite relazioni faccia a faccia, per poi discutere e decidere il da farsi. Nella fase della discussione occorre valutare le proprie prospettive, perché, come osserva Michele Visentin nell’articolo che ho citato nei giorni scorsi, spesso sono troppo limitate od obsolete. Fatto questo c’è però da fare rete con altre esperienze simili, altrimenti si resta reclusi in un’esperienza troppo limitata, che non consente l’ulteriore ampliamento di prospettive. Una religione di questo tipo può essere definita aperta, per distinguerla da quella confinata negli ambiti ristretti del faccia a faccia o in cui discutere è vietato. Una nuova organizzazione di questo tipo potenzia la partecipazione, mantenendo però quell’emotività che si indica come senso della vita.
Spesso, poi, il nostro ritrovarsi insieme è più che altro finalizzato a una sorta di benessere spirituale prevalentemente personale, secondo un’emotività superficiale che lascia il tempo che trova. Allora si sta insieme ma è a se stessi che principalmente si tiene, per provare una certa emotività. Ed è come quando si è tristi e si beve un goccino per tirarsi su. Si vive l’incantamento del momento. Ma è come con gli stupefacenti, si va incontro ad assuefazione per cui ci vogliono dosi sempre maggiori di effetto spirituale, altrimenti si lascia. La religiosità delle esperienze miracolanti si basa su questo.
E se non si riesce a costruire reti per integrare il pluralismo che si è manifestato? Può accadere. Difficilmente, ad esempio, io potrei fare reti con gli appassionati delle messe in latino secondo il rito che c’era prima delle riforme attuate dopo il Concilio Vaticano 2º. Il potere ecclesiastico la prende male. Vorrebbe che tutti accettassero di fare e recitare la religiosità come da copione. Come durante la messa. In realtà, se si crede fino in fondo alla nuova sinodalità, bisognerebbe riuscire a non farne un dramma, provando e riprovando una via di intesa ma anche accettando che per il momento non ci sia, e amen. L’importante è non provare ad annientarsi reciprocamente secondo gli inveterati nostri costumi ecclesiali, risalenti purtroppo alle origini, e continuare a parlarsi, anche questa una via che caratterizzò le nostre comunità sin dalle origini.
Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli