Sinodalità e burocrazia ecclesiastica
Nei
primi paragrafi del documento del 2017 della Commissione Teologica Internazionale
“La sinodalità nella vita e nella
missione della Chiesa” [https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_20180302_sinodalita_it.html]
si chiarisce il principale problema per l’attuazione del progetto di riforma
sinodale del modo di fare Chiesa
avviato da papa Francesco.
Progressivamente il sinodo è divenuto, nella Chiesa
cattolica, una articolazione burocratica
che doveva servire più che altro a
concertare e a trasmettere le disposizioni dell’autorità ecclesiastica a preti
e religiosi.
Nella Chiesa
cattolica la distinzione nell’uso delle parole “concilio” e “sinodo” è recente. Nel Vaticano II sono
sinonime nel designare l’assise conciliare. Una precisazione è
introdotta nel Codex Iuris Canonici della Chiesa
latina (1983), dove si distingue tra Concilio particolare (plenario o
provinciale) e Concilio ecumenico, da un lato, Sinodo dei
Vescovi e Sinodo diocesano, dall’altro. [Dal documento citato]
Questo sviluppo si può datare dal Cinquecento.
Nell’Ottocento il Papato assunse l’attuale struttura organizzativa
assolutistica. Il Concilio Vaticano 2°
cercò di passarci sopra, tornando alle origini, quando “concilio” e “sinodo”
erano sinonimi, ma il diritto, anche con il nuovo Codice di diritto canonico
del 1983 che venne promulgato con l’intento dichiarato di adeguare le norme ai
principi conciliari, riportò tutti all’ordine,
mantenendo la distinzione tra i due tipi di organismi che si era venuta
manifestando.
Insomma, ancor più di quelli che ancora si era continuato a chiamare
Concilii, i Sinodi era cosa per addetti ai lavori. La gente di
fede ne rimaneva esclusa.
Le esperienze di apertura che, sulla base dei
principi deliberati nel Concilio Vaticano 2°, si sono fatte dagli anni Settanta per
consentire anche alle persone laiche di avere voce nei sinodi diocesani, profittando
dal potere di organizzazione attribuito al vescovo, non vengono ritenute
soddisfacenti: hanno prodotto molta documentazione, ma pochi fatti concreti, e,
secondo le norme di diritto canonico, il vescovo vi rimane unico legislatore,
per cui, in definitiva, l’ultima parola è la sua e non è tenuto a rispettare in
alcun modo la volontà collettiva emersa nel sinodo da lui organizzato.
Il fatto che la nostra Chiesa, nelle sue molte
articolazioni territoriali, sia una grande proprietaria immobiliare e gestisca
ingenti patrimoni finanziari ha reso più difficili le cose. In parte, questa
situazione deriva dal fatto che essa è una grande organizzazione, che coinvolge
nel mondo oltre un miliardo di persone, anche se coloro che potrebbero essere
interessati a una partecipazione sinodale sono probabilmente molti di meno. Di
fatto una buona parte degli immobili di proprietà ecclesiastica sono poco
abitati e parte delle altre ricchezze non sono pertinenti alle opere di
religione o lo sono molto alla lontana. Comunque tutto questo c’è e va
amministrato, dunque sono necessarie norme che chiariscano chi può fare che
cosa e che impediscano che con colpi di mano gruppi di spregiudicati se ne
approprino arbitrariamente.
Su scala minore è un problema che riguarda la
parrocchia, che possiede un complesso immobiliare di un certo valore, al centro
del nostro quartiere.
Il diritto è geneticamente costruito per
conservare e, naturalmente, ostacola il cambiamento. Di solito cambia quando in
una società i moti di rinnovamento sono già andati molto avanti e allora si cercano
nuovi equilibri.
Questo spiega perché sarà molto difficile che
la sinodalità, come
“dimensione costitutiva” della Chiesa, per cui quest’ultima
verrebbe vissuta come “Chiesa sinodale”, possa essere attuata con
una riforma generale dell’organizzazione ecclesiastica, perché chi possiede di solito è restio a cedere e chi possiede di
più lo è maggiormente, per cui probabilmente si produrrebbero resistenze invincibili,
tanto che finora, nonostante gli spunti forniti dal Concilio Vaticano 2°, non
siamo ancora neanche agli albori della sinodalità.
Più produttivo è iniziare a sperimentare la
sinodalità in ambito più limitato e nelle relazioni specificamente religiose,
lasciando da parte le questioni di gestione patrimoniale.
Ad esempio si potrebbe cominciare ad essere
sinodali nel decidere dove piazzare le statue dei santi nella Chiesa parrocchiale,
nel decidere l’orario delle messe, nel programmare l’utilizzo dei locali parrocchiali
tra le varie iniziative in corso o la formazione permanente dei catechisti.
Quest’ultima, per quanto ne so, non si fa nella nostra parrocchia, per cui le
persone volenterose che si prestano a collaborare vengono mandate allo sbaraglio.
Insegnare
è un’arte difficile, che non viene naturale, e certamente non viene, in
genere, ai preti, che, per ciò che ho sperimentato, non sono buoni insegnanti,
non avendone avuti probabilmente loro stessi ai tempi in cui imparavano.
Purtroppo, come al tempo in cui mia madre, da
catechista volontaria che era, cominciò a frequentare catechetica nella vicina Università
salesiana, la competenza nel ramo viene vista con sospetto, tanto che lei fu
sbrigativamente allontanata da quel ministero, per cui aveva voluto prepararsi
meglio. Non si voleva che cambiasse nulla della esausta catechesi che si
praticava all’epoca.
Fu una decisione del parroco dell’epoca, don Vincenzo
Pezzella, e mia madre vi ci si sottomise con molta sofferenza, ma senza recriminare.
Si dedicò da allora alla spiritualità mariana. Io all’epoca non diedi
importanza alla cosa, perché non frequentavo più la parrocchia, ma poi, quando
fui in grado di capire bene l’ingiustizia e soprattutto la sconsideratezza
della cosa, me ne risentii molto e rimasi sempre piuttosto insofferente verso ogni
grado della gerarchia ecclesiastica, che per quanto posso evito, ad ogni livello.
Forse una struttura sinodale di prossimità
avrebbe potuto evitare che la parrocchia fosse privata proprio di una persona
che, studiando in una università ecclesiastica (mia madre fu tra le prime tre
donne laiche ad essere ammesse nell’Università dei salesiani di Roma), era divenuta
un po’ più competente.
Ma, purtroppo, devo constatare amaramente che
le cose non sono affatto cambiate da allora.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa -
Roma, Monte Sacro, Valli