Chi dovrebbe occuparsi di sinodalitá in
parrocchia?
La Conferenza episcopale italiana sotto la
presidenza di Matteo Zuppi ha riorganizzato recentemente il lavoro sulla
sinodalitá nel quadro del processo sinodale che riguarda specificamente le
Chiese in Italia. È il programma "Cantieri di Betania". Si
vorrebbe che dalle Diocesi venissero le narrazioni di esperienze di sinodalitá
già attuate con esiti positivi. Quindi ora è più chiaro che non dobbiamo solo
attendere, per fare sinodalitá, che vengano istruzioni dall'alto. Possiamo
cominciare da subito e, anzi, è proprio così che si può dare un contributo più
utile,
Nella nostra parrocchia abbiamo
fatto alcuni incontri, la scorsa primavera, secondo il precedente programma, in
cui poche decine di persone si sono espresse sui temi indicati dalla Diocesi.
Di sinodalitá però non abbiamo parlato, anche perché è mancata una formazione
specifica, con notizie storiche, informazioni sulla teologia che c’è dietro e
proposte pratiche di come fare. Poi, paradossalmente, ci è stato raccomandato
di non dialogare, ogni persona doveva dire la propria e si chiudeva lì.
Ma il dialogo è il cuore della sinodalità!
Dal
punto di vista storico, si può cominciare da questo: la sinodalità popolare,
come oggi il Papa la vorrebbe, non è
mai stata praticata nella storia della nostra Chiesa, da quando cominciò a
manifestarsi tale, con un embrione di governo ecclesiastico. La sinodalità fu,
molto a lungo, un metodo per attuare forme di collegialità tra gerarchi ecclesiastici
e civili, con l’ausilio di teologi, su questioni disciplinari e di enunciati teologici
che dovevano essere condivisi pena l’esclusione. Poi, più o meno dal Cinquecento,
divenne strumento di governo di autocrazie gerarchiche e solo dopo il Concilio
Vaticano 2° venne ripresa l’idea di collegialità limitata ai vescovi. Il popolo,
inteso come la gran massa delle persone di fede distinto da clero e religiosi,
ne rimaneva fuori. Forme di collegialità popolare si diffusero invece, sempre dal Cinquecento,
nelle Chiese protestanti storiche e ancora vi sono praticate. Tra i protestanti,
da qualche decennio, vanno diffondendosi anche denominazioni (il termine più generico
con cui si indicano le aggregazioni religiose organizzate, che comprendono anche
le Chiese propriamente dette) cristiane strutturate intorno ad autocrazie
carismatiche, a predicatori indipendenti, e anche lì, in genere, non c’è sinodalità o ve n’è nella misura in
cui la gente riesce a contenere l’esuberanza delle personalità carismatiche.
Sappiamo poco di come si organizzavano le persone raggiunte dalla
predicazione itinerante del Maestro e dei suoi apostoli e discepoli, dopo che
se n’erano andati da un’altra parte, ma
in fondo anche dei primi gruppi che c’erano in giro dopo la Resurrezione, a
parte quello che risulta dagli Atti degli apostoli, dalle lettere attribuite a
Paolo di Tarso e nelle altre attribuite a fonti diverse comprese nel Nuovo
Testamento. Si legge di anziani, di presbiteri, che fungevano da
capi delle comunità, ma probabilmente, a
quello che si legge in quegli scritti,
la situazione rimase piuttosto effervescente, in mancanza di una struttura
giuridicamente definita, che iniziò a manifestarsi solo più tardi intorno al
ministero dei vescovi, che con relativa rapidità si affermò come monocratico. Come
tale lo si esalta negli scritti di Ignazio di Antiochia vissuto tra gli anni
Trenta del Primo secolo e i primi anni del secolo successivo e che viene
attestato come vescovo di Antiochia, in Siria, nella seconda metà del Primo
secolo.
Mancando una tradizione di sinodalità popolare risalente all’antichità significa che questa
non è la via giusta per noi? No. Significa che da allora la società è molto
cambiata. Le nostre Chiese si sono storicamente evolute seguendo quei
cambiamenti. Nulla di ciò che c’è adesso c’era, tale e quale, alle origini.
Indubbiamente l’idea di sinodalità popolare, cioè che coinvolga
tutte le persone di fede, a prescindere
dalla loro condizione ecclesiale, dalla loro cultura e dal loro orientamento
sessuale ecc., deve molto alla pratica contemporanea della democrazia popolare,
vale a dire alla portata di tutti i cittadini, che si affermò in Europa e altroce
nel corso del Novecento come sistema di principi e procedure per consentire la possibilità
più ampia possibile di influire sul governo della società. La cosa spaventa la
gerarchia cattolica, tutta animata da un clero solo maschile e dunque
fortemente discriminatoria. Una piccola minoranza che signoreggia le moltitudini.
Non ci sono, allo stato, procedure legittime mediante le quali le persone di
fede possano realmente influire sulla nostra Chiesa. Al massimo sono ascoltate.
Di fatto ci sono riuscite in altri
modi e, anzi, da decenni su questioni importanti la Chiesa va a rimorchio delle
persone laiche e su altre, che in particolare riguardano l’etica personale e
famigliare, l’autorità della gerarchia è in concreto scarsa.
Bisogna
chiarire: le cose fondamentali nella nostra società, in Italia, sono già decise
democraticamente, e questo basta. Questo è ciò che viene definito laicità delle istituzioni pubbliche, principio cardine
della nostra Costituzione repubblicana, che, ad esempio, contrasta nettamente
con una politica basata sul motto Dio-Patria-Famiglia. Il problema della
sinodalità popolare non è quello di
chi comanda, ma di rimuovere una condizione umiliante delle persone laiche
e di consentir loro di partecipare
realmente e meglio alla diffusione in società dei principi evangelici. In
mancanza di questo la Chiesa svanirà, come già sta svanendo, ad esempio, in Francia.
In questo quadro è necessario istituire procedure alla base, non al vertice, perché
in quest’ultimo già ci sono. E’ l’idea di papa Francesco: indurre un moto di
riforma dalla base, invece che dal vertice, come si fece negli anni Sessanta
con il Concilio Vaticano 2°, e i risultati tutto sommato non sono ritenuti
soddisfacenti.
Da
dove partire?
Dalla
considerazione che, per la nostra fisiologia, possiamo avere relazioni
profonde, quelle che mio zio Achille chiamava di mondo vitale e che danno
senso alla vita, solo in piccoli
gruppi, più o meno di un trentina di persone, più o meno quelle che si è riusciti a radunare
con un certa costanza di frequentazione negli incontri sinodali in parrocchia
della scorsa primavera.
Tuttavia questa animazione sinodale deve
essere organizzata in modo che possa potenzialmente anche raggiungere almeno quel
migliaio di persone che alla parrocchia fanno riferimento per la pratica della loro
vita di fede (quelle che vi fanno riferimento solo come generico orizzonte
religioso, ma non vengono quasi mai in chiesa, possono essere stimate in circa ottomila). Questo
richiede di pensare procedure che prevedano che si lavori in piccoli gruppi, creati
per affinità, età, obiettivi, ma che esista una rete per cui si abbia il senso di collaborare a un
lavoro più vasto.
Il
diritto canonico già conosce un organismo che può promuovere un movimento
simile: è il Consiglio pastorale parrocchiale che, obbligatorio nella
Diocesi di Roma, da anni, per ciò che ne so non si riunisce più, perché, quando
si riuniva ancora, era travagliato da acerrimi contrasti tra fondamentalisti
e conciliari, una lotta che va avanti dagli anni ’80 e che non è mai veramente
cessata, ma solo sopita. I primi, sostanzialmente, sognano il ritorno alla Chiesa
com’era sotto Pio 12°, fino alla fine degli anni Cinquanta; gli altri
vorrebbero proseguire l’attuazione del disegno riformatore del Concilio
Vaticano 2°. I primi furono molto avvantaggiati dal favore del papa Giovanni
Paolo 2°; gli altri lo sarebbero ora, nel regno di papa Francesco, del partito
conciliare, ma sono rimasti troppo
pochi e anziani. Non riuscendo a ottenere che nel Consiglio pastorale
parrocchiale si andasse d’accordo sui fondamentali, e disperando di riuscirci,
lo si è sostanzialmente sostituito con l’Equipe pastorale, un organismo
di esperti tutti nominati dal parroco, la cui istituzione venne incoraggiata
anni fa dalla Diocesi, ma non come alternativa al Consiglio.
Per prima
cosa, direi che si potrebbe cominciare con il decidere chi ha diritto di partecipare al Consiglio
pastorale parrocchiale, cercando di bilanciare con figure di mediazione scelte
dal parroco l’influsso dei movimenti, ma senza che questi ultimi ne
siano sovrastati. E poi organizzando elezioni per nominare membri scelte dalla
gente. Il Consiglio ha potere di auto-organizzazione e può deliberare le
procedure elettorali e anche i principi generali e le procedure per lavorare
insieme. Per quello che ho detto sui nostri fisiologici limiti cognitivi, il
totale dei membri del Consiglio non dovrebbe superare una trentina. Pensate che
una organizzazione immensa come quella della Cina popolare è diretta da un
collegio di venticinque persone e da un esecutivo di sette. La sinodalità
parrocchiale dovrebbe iniziare da lì, da un Consiglio pastorale parrocchiale ristrutturato.
Inutile inventarsi qualcosa di diverso, quando quello che serve c’è già.
E’ poi
fondamentale che di ogni cosa si informi la parrocchia. La gente che si affaccia
in Chiesa deve sapere che accade e chi è responsabile di che cosa. E’
necessario quindi pensare un organo informativo. E poi sarebbe importante
istituire un sistema di assemblee periodiche per raccogliere il pensiero della
gente e per approfondire le informazioni sul programma che si sta seguedo, sul
modello di quello che s’è fatto in primavera, ma avendo cura di radunare
persone che, per età, interessi, cultura, abbiano una qualche affinità. Questa
dell’informazione sistematica è un aspetto cruciale di ogni organizzazione che
si voglia vastamente partecipata, perché si partecipa a ciò di cui si sa qualcosa
e in cui si pensa, in base a ciò che si sa, di poter influire. Chiamare le persone
solo a sentire un relatore che espone generalità su qualche argomento serve
solo a disperderle. Le poche che si riuscirà ad avere non ritorneranno.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli