Reti religiose
Tempo
fa scrissi ad un amico confidandogli che mi sarebbe piaciuto collaborare in
parrocchia ad un lavoro sulla sinodalità, in particolare per cercare di
ripristinare il Consiglio pastorale parrocchiale. Lui mi rispose che si era
fatto una bella risata. Certo, mi dissi, aveva ragione: è irrealistico, nella nostra
Chiesa così com’è ora, pensare che una persona che si è appassionata alla
sinodalità, leggendone anche un po’ e cercando di esserne informato, possa
collaborare a un lavoro in parrocchia sulla sinodalità, a meno che non accetti
di attenersi strettamente alle direttive puntuali che vengono in merito dalla
gerarchia. E non è sicuramente il mio caso. Rispetto la cosiddetta gerarchia
nelle funzioni sacre che svolge, ma non voglio esserle sottomesso negli affari
sociali, compresi quelli ecclesiastici. Non voglio per vari motivi che non sto
a ripercorrere puntualmente. Per la mia professione debbo essere indipendente anche da essa quale potere
sociale, ma in particolare, per ragioni prettamente religiose, ritengo di
doverlo essere nei confronti di una autocrazia quale purtroppo è ancora la
nostra gerarchia ecclesiastica. Ma poi anche sono convinto di dover mantenere una
certa distanza critica nello stesso interesse della Chiesa della quale sono
parte viva: ne dipende la possibilità di poter essere utile nel processo di riforma
sinodale avviato nell’autunno dello
scorso anno da papa Francesco e che finora si è risolto più che altro in un
lavorio burocratico.
Nelle parrocchie, in genere, si può
collaborare solo nel senso di dare una mano ai preti in ciò che
ritengono di loro esclusiva competenza, e quindi in posizione subordinata.
Questo è appunto il metodo che sta portando la nostra Chiesa a svanire,
come già sostanzialmente è accaduto in Francia. La riforma sinodale vorrebbe
rimediarvi ma è duramente osteggiata da clero e religiosi, che, di fatto e al
di là delle buone intenzioni dichiarate, e del resto sono stati educati a fare
professione formale di obbedienza e oggi è loro ordinata la sinodalità, non accettano minimamente di fare spazio.
Negli anni ’70, all’epoca di una vivacità ecclesiale
che oggi chi non c’era fatica a
immaginare, alcuni reagirono a quegli ostacoli costituendo comunità di base all’esterno della nostra parrocchia, sull’esperienza
latinoamericana. Era il momento in cui ci si interessava molto ad essa ed anche
il papa Paolo 6° ci scrisse sopra nell’esortazione apostolica postsinodale Annunziare
il Vangelo (l’impegno di) – Evangelii Nuntiandi del 1975, al
paragrafo 58, in cui formulò alcune raccomandazioni su quel tipo di aggregazione,
descritta come generata «dal
bisogno di vivere ancora più intensamente la vita della Chiesa; oppure dal
desiderio e dalla ricerca di una dimensione più umana», ovvero da quello di «riunire
per l'ascolto e la meditazione della Parola, per i Sacramenti e il vincolo
dell'Agape, gruppi che l'età, la cultura, lo stato civile o la situazione
sociale rendono omogenei, coppie, giovani, professionisti, eccetera; persone
che la vita trova già riunite nella lotta per la giustizia, per l'aiuto
fraterno ai poveri, per la promozione umana»:
[…]saranno un
luogo di evangelizzazione, a beneficio delle comunità più vaste, specialmente
delle Chiese particolari, e saranno una speranza per la Chiesa universale, come
abbiamo detto al termine del menzionato Sinodo, nella misura in cui:
- cercano il loro alimento nella Parola di Dio e non si lasciano imprigionare
dalla polarizzazione politica o dalle ideologie di moda, pronte sempre a
sfruttare il loro immenso potenziale umano;
- evitano
la tentazione sempre minacciosa della contestazione sistematica e dello spirito
ipercritico, col pretesto di autenticità e di spirito di collaborazione;
- restano
fermamente attaccate alla Chiesa particolare, nella quale si inseriscono, e
alla Chiesa universale, evitando così il pericolo - purtroppo reale! - di
isolarsi in se stesse, di credersi poi l'unica autentica Chiesa di Cristo, e
quindi di anatematizzare le altre comunità ecclesiali;
- conservano una sincera comunione con i Pastori che il Signore dà alla sua
Chiesa e col Magistero, che lo Spirito del Cristo ha loro affidato;
- non si considerano giammai come l'unico destinatario o l'unico artefice di
evangelizzazione - anche l'unico depositario del Vangelo!
-; ma,
consapevoli che la Chiesa è molto più vasta e diversificata, accettano che
questa Chiesa si incarni anche in modi diversi da quelli, che avvengono in
esse;
- crescono
ogni giorno in consapevolezza, zelo, impegno, ed irradiazione missionari;
- si
mostrano in tutto universalistiche e non mai settarie.
Alle suddette condizioni, certamente esigenti ma esaltanti, le comunità
ecclesiali di base corrisponderanno alla loro fondamentale vocazione:
ascoltatrici del Vangelo, che è ad esse annunziato, e destinatarie privilegiate
dell'evangelizzazione, diverranno senza indugio annunciatrici del Vangelo.
Negli anni ’90, da noi il parroco dell’epoca
lavorò per riportarle all’interno dell’organizzazione parrocchiale, ma, una
volta riuscita l’operazione, esse persero forza e si sciolsero. L’ambiente
parrocchiale fu loro letale.
La riforma sinodale di papa Francesco, pensata
sull’esempio di quella latinoamericana del quale il Papa fu protagonista,
vorrebbe, appunto, fare spazio ad aggregazioni simili anche dentro le
parrocchie, senza che trovino più ostacolo nell’architettura istituzionale
ecclesiastica.
Il principale carattere di una comunità di
quel genere è l’autonomia del suo lavoro rispetto a clero e religiosi, pur in quella che viene definita comunione
e che non è da intendersi come sottomissione, perché autonomia e sottomissione sono incompatibili. Oggi questa autonomia è
vietata, in genere (dico così perché la Chiesa italiana non è assolutamente
uniforme, ma veramente poliedrica), negli ambienti parrocchiali. Questo rende
impossibile la sinodalità come immaginata dal Papa. Comunione è mantenersi
in relazione, secondo il principio virtuoso “Non solo da noi, ma non senza
di noi”, che deve valere per tutti.
Costruire la sinodalità, anche a livello
parrocchiale, significa edificare reti tra esperienze religione autonome
ma in relazione secondo quel principio, secondo il quale nessuno accetta di
fare a meno di nessun altro. E’ un principio che può definirsi anche come
quello di non esclusione. Pensandolo un po’ più in grande significa
anche non accettare di far a meno della gente del quartiere in cui la
parrocchia è immersa, cosa che nel gergo religioso potrebbe essere anche
definita missionarietà, ma che è meglio pensare come a una offerta inclusiva
di amicizia, per non dare l’idea che si cerchino relazioni per
indottrinare, che indurrebbe le altre persone a mandarci a quel paese.
L’antropologia e la psicologia ci avvertono
che siamo capaci di un numero molto limitato di relazioni interpersonali profonde.
La nostra cerchia più intima è di circa cinque persone, quella del nostro mondo
vitale, l’ambiente dal quale ricaviamo il senso della nostra vita è
di circa trenta persone.
Una soluzione per il rafforzamento della religiosità che si è
tentata nella nostra parrocchia, da un gruppo fondamentalista che fu a lungo visto con favore e posta a base di un tentativo (fallito) di rigenerazione religiosa
parrocchiale, è stata quella di caratterizzare fortemente in senso religioso
quella cerchia di mondo vitale, confinandovi tutte le relazioni interpersonali significative. Rimane
poco o nulla per il resto. Questo comporta che questi ambienti sigillati
religiosamente sono pensati come impermeabili al mondo esterno, visto come l’origine
della dissoluzione della religiosità. E che chi è all’interno guardi solo verso
l’interno, con un conseguente effetto di integralismo. Ciò va contro una
delle raccomandazioni contenute nella Annunciare il Vangelo: di non “isolarsi in se stesse, credersi
poi l'unica autentica Chiesa di Cristo, e quindi anatematizzare le altre
comunità ecclesiali”. Di fatto questo modo di organizzarsi decostruisce la
parrocchia, interrompendo gli altri legami sociali. Ma si esercita anche una
potente pressione sulle relazioni di famiglia, di solito considerate naturali,
perché si formano e crescono anche a prescindere dalle culture sociali, comprese
quelle religiose. Si possono produrre così “rotture multiple delle precedenti
relazioni siano esse familiari, amicali, sociali, lavorative, economiche, ecclesiali”
[dalle linee guida dell’ufficio della Conferenza episcopale di Francia per la Pastorale, nuove credenze e derive settarie per riconoscere derive
settarie - fonte: Venerdì di Repubblica 21-10-22]. Di fatto nei due cicli di incontri che abbiamo avuto in parrocchia sulla
coesione parrocchiale, nella scorsa primavera e nella Quaresima 2016, alcune
persone dichiararono di non avere tempo per sviluppare altre forme di
socialità al di fuori della loro comunità/piccolo gruppo di impegno religioso.
Non escludere significa però capacità di mantenere relazioni.
Quest’ultima è indispensabile per costruire quella rete di relazioni che dovrebbe caratterizzare la sinodalità.
Nessuna persona può fare a meno di un ambiente di mondo vitale, perché
altrimenti perderebbe il senso della sua esistenza ed anche della sua
fede. Ma, al contempo, non deve esservi reclusa, confinata. Bisogna
sviluppare la capacità di mantenere tempo e forze per ulteriori relazioni
sociali: essa si impara facendo
sinodalità, perché non viene naturale. I primati, infatti, sono per
natura confinati in piccoli gruppi,
è lo sviluppo culturale che ha consentito ai primati umani di evadere
costruendo relazioni più in grande.
Così la sinodalità parrocchiale richiede una
collaborazione da farsi in piccoli gruppi di lavoro, senza i quali non c’è reale
autonomia né reale co-decisione, ma tuttavia di intensità relazionale tale da
non precludere la partecipazione ad altri gruppi, o comunque il potervi entrare
sistematicamente in relazione. E’ così che si può iniziare a tessere la rete.
In questo lavoro di tessitori alcuni saranno più portati, per indole e
precedenti esperienze personali. Il tessitore è altrettanto importante del pastore, di chi si prende cura delle altre persone nel
loro interesse e per il loro bene. Il
genitore può essere considerato il modello del pastore. In religione
abbiamo idealizzato il modello del
tessitore nella figura teologica dello Spirito Santo.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli