Imparare a decidere insieme
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Da: “Imparare a decidere insieme”, di Michele
Visentin [docente universitario di pedagogia], in Riccardo Battocchio e Livio
Tonello (a cura di), Sinodalità, Edizione Il Messaggero Padova / Facoltà
teologica del Triveneto, 2020
[…]
occorre partire dall’esperienza di una situazione problematica che “costringa”
a fare esperienza del processo decisionale. Le persone non impareranno mai a
decidere se non possono decidere o se pensano di non poter di fatto decidere. I
nostri obiettivi, da questo punto di vista confliggono, a volte, con le nostre pratiche quotidiane:
desideriamo comunità adulte, mature, capaci di discernimento e pensiero critico
dimenticando che si impara a decidere facendo l’esperienza della decisione. E’
evidente che mettere le persone nella condizione di poter decidere significa
correre il rischio che la decisione presa non corrisponda alla migliore
soluzione possibile; anziché utilizzare situazioni di questo tipo per
giustificare un ritorno a modalità decisionali più verticistiche e
apparentemente meno rischiose, è possibile provare a ridurre il rischio di una
sinodalità bella ma poco efficace mettendo a disposizione delle persone le
informazioni necessarie, immaginando ambiti decisionali
non strategici e controllati per allenare le persone alla decisione, creare le
condizioni perché le decisioni siano prese nel posto più vicino a quello al
quale devono essere attuate. Una comunità può, quindi, imparare a decidere e lo
può fare esponendosi all’esperienza della decisione.
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Governo di una società è quando una persona o un
gruppo di persone, legittimate ad assumere decisioni collettive secondo
l’ordinamento di quella collettività
costituita in società, lo fanno e le altre persone, partecipi di quella
società, devono, secondo quel medesimo ordinamento, conformarsi a quelle
decisioni. Nel caso che a decidere sia una sola persona, il suo potere si dice monocratico.
Nel caso che debbano decidere più persone insieme, si dice collegiale.
In entrambi i casi, però, si può distinguere un potere che elabora e formula la
decisione, ma anche un potere delle persone che devono recepirla, che possono
farlo o non farlo. La fase attuativa, come rilevano gli studiosi del
ramo, è parte del processo decisionale. Nelle scienze del diritto
pubblico si parla di effettività delle decisioni, per intendere il grado
del loro recepimento sociale. Essa è considerata addirittura condizione di
esistenza di un ordinamento giuridico, anche di quegli ordinamenti che definiamo
politici, come gli stati, perché sono costituiti con fini generali per il
governo della popolazione stanziata su un certo territorio.
Un problema di governo sorge quando una collettività sociale, quindi
non episodica, come può essere il gruppo dei passeggeri di un autobus durante
il tragitto del veicolo, raggiunge dimensioni che non consentono più di
intendersi faccia a faccia. Il numero critico è di circa una trentina di
persone: è anche il limite reale della collegialità. Organi di governo
composti da più persone tenderanno così ad essere divisi in sottogruppi. Ad
esempio, il nuovo governo italiano, che giurerà oggi al Quirinale, è composto
di 25 persone. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è composto di 15
persone. L’Ufficio politico del Partito Comunista Cinese, il massimo organo di
governo della Repubblica popolare cinese, è attualmente composto di 25 membri,
ma ordinariamente il potere supremo è accentrato nei 7 membri del suo Comitato
permanente, di cui esponente preminente è il Segretario generale del
partito, che è anche presidente della Repubblica.
Nei gruppi delle dimensioni di una trentina
di persone non sorge un problema di governo, perché, in quell’ambito, ci si può
intendere faccia a faccia. Questo consente di dialogare sulle questioni. Questa procedura è molto
importante, perché ricca di elementi emotivi, e la nostra, come scoperto dalle
scienze cognitive, è una mente emotiva. Definiamo una collettività di quelle
dimensioni come un piccolo gruppo. Le dinamiche dei piccoli gruppi
divergono marcatamente da quelle delle collettività maggiori e sono molto
importanti perché tutti gli
organismi di governo sono piccoli gruppi o articolazioni di piccoli gruppi. E’
lì, in particolare, che si impara
decidere insieme.
Abbiamo visto che c’è un potere anche della
parte della collettività che, pur non formulando le decisioni, deve decidere se attuarle o non. E s’è detto che questo potere è molto
importante perché ne dipende l’effettività di un ordinamento. Però, in questo caso, il
potere non è realmente espressione di una volontà collettiva, ma,
appunto, un effetto di moti
sociali, nei quali, però, ciascuno decide per sé o, al più, secondo il suo
piccolo gruppo di riferimento. L’effetto è poi sintetizzato mediante una
procedura e viene considerato come volontà collettiva, di un gruppo molto più
grande di quelli in cui viviamo confinati, la volontà di un popolo, anche
questo un concetto immaginario per rendere l’idea di un vasto corpo sociale
come di una persona sola o come un piccolo gruppo. Nella realtà non ci sono popoli, ma
solo popolazioni stanziate su certe aree geografiche. Queste popolazioni sono considerate popoli
solo quando sono soggette ad un certo governo, e qui il popolo è allora inteso
come la popolazione obbligata a obbedire alle decisioni di quel governo, o
quando sono il punto di riferimento di procedure per sintetizzare la volontà
collettiva, e allora popolo è
quello che decide. Nel primo caso, l’effetto
dell’obbedienza che viene prestata
alle decisioni governative viene considerato come se fosse volontà
collettiva, di quel popolo immaginato come una sola persona. E’ questa, di
solito, l’immagine biblica di popolo e anche quella, di conseguenza,
adottata dalla nostra teologia.
In definitiva l’area delle decisioni
collettive reali è limitata ai
piccoli gruppi. Imparando a decidere insieme in questi ambienti sociali si
impara anche l’arte del governo, che è, sempre, praticata per piccoli
gruppi, o cerchie.
Anche se siamo viventi sociali, al pari degli
altri primati, decidere insieme non ci viene naturale, è un prodotto culturale
avanzato. Ci viene invece naturale prendere il potere con la violenza, battendo
fisicamente gli altri pretendenti e assoggettando gli altri membri del gruppo.
La natura infatti è assoggettata
alla violenza: essa è la sua legge. Ad un certo punto abbiamo conquistato l’arte
di decidere insieme, fondamentalmente perché questo ci dà un vantaggio
competitivo. Nelle dinamiche sociali i due metodi ancora coesistono. Di solito
le decisioni sociali vengono prodotte in piccoli gruppi che poi si impongono
con la violenza sulle collettività sociali in cui sono immersi. Attraverso la
cultura giuridica si cerca di contenere questa violenza in modo che non abbia
effetti distruttivi, ma, ad esempio, i rapporti internazionali sono in gran
parte ancora dominati dalla violenza. Ogni gruppo si determina a transazioni
per creare ordinamenti che consentano decisioni collettive mediante procedure e
non mediante violenza quando si arriva a una situazione di stallo, per cui
nessuno riesce a prevalere e la collaborazione si presenta più utile del
continuare a combattere. Altrimenti cerca sempre di prevalere con la
violenza. Una delle forme più usate di violenza è quando, conquistata una posizione
di potere, la si usa esercita per imporre alle altre persone e agli altri
gruppi decisioni senza tener conto delle loro vite e dei loro orientamenti. Se
lo si fa ritenendo di avere un diritto proprio per farlo, questo è definito potere
autocratico. Sono di questo tipo, in genere, le posizioni di potere
istituite nella nostra organizzazione ecclesiastica, in particolare nell’episcopato,
del quale il ministero papale è una sottospecie particolare e caratteristica (il
papa è tale in quanto vescovo di Roma).
Nel pensare a una Chiesa sinodale e a
una riforma per organizzarla, probabilmente
papa Francesco ha avuto in mente anche le questioni di governo ecclesiale, che in alcuni casi è collegiale ma
mai, in genere, veramente sinodale, ma lavorare per questo
obiettivo strategico richiede di procedere per tappe a cominciare dalle realtà
di prossimità, in particolare dove si può cominciare ad educarsi a decidere insieme.
L’esperienza ha dimostrato infatti che riforme progettate dall’alto, vale
a dire mediante deliberazioni degli organismi di governo maggiori non
funzionano, non riescono ad essere attuate, per la resistenza dell’organizzazione.
E’ un fenomeno che viene osservato dalle scienze dell’organizzazione anche
fuori dell’ambito ecclesiastico, ad esempio nelle organizzazioni aziendali. Dunque
papa Francesco ha ordinato che si cominci proprio dal basso e, naturalmente,
come era da attendersi, questa che doveva essere la prima fase dei processi sinodali
avviati nell’autunno dello scorso anno, è stata quasi completamente saltata.
Doveva essere una occasione per cominciare a fare tirocinio del decidere insieme
in piccoli gruppi, coordinandoli poi tra loro, in un’embrionale organizzazione
sinodale. Ma, addirittura, la Conferenza Episcopale Italiana ha vietato di discutere nei gruppi di ascolto sinodale:
ognuno doveva limitarsi a dire la propria e poi bisognava pregare insieme. Questo
perché, come ha osservato Visentin nel brano che ho sopra trascritto, «mettere
le persone nella condizione di poter decidere significa correre il rischio che
la decisione presa non corrisponda alla migliore soluzione possibile». Ma,
così, non si imparerà mai a decidere insieme, e quindi a fare Chiesa
sinodale, perché, come egli ha anche osservato «si impara a decidere facendo
l’esperienza della decisione». Quindi la riforma, che non si può riuscire a
indurre dall’alto, rimarrà bloccata anche in basso.
Trovo molto interessante il suggerimento che
Visentin dà di immaginare « ambiti decisionali non strategici e controllati per
allenare le persone alla decisione» creando così «le condizioni perché le
decisioni siano prese nel posto più vicino a quello al quale devono essere
attuate». Così facendo «una comunità può, quindi, imparare a decidere e
lo può fare esponendosi all’esperienza della decisione».
Perché, certo, il rischio di decisioni
collettive incaute c’è. Non si può passare improvvisamente dalla situazione attuale
in cui le persone di fede non investite dell’Ordine sacro non decidono nulla
di nulla, ad un’altra in cui siano onerate di decidere tutto. D’altronde,
quest’ultima situazione non è consentita dall’ordinamento giuridico ecclesiastico
vigente, strettamente connesso con quello civile, ad esempio nelle questioni
sulle proprietà ecclesiastiche e nella celebrazione dei matrimoni cosiddetti concordatari, con efficacia simultanea
ecclesiastica e civile. E certamente non sarebbe una buona idea, tenendo conto
della tremenda storia della nostra Chiesa, impegnarsi in progetti di decisione
sui principi. Ma vi sono molti altri campi in cui ci si può addestrare a
decidere insieme. Ad esempio, decidere gli orari delle messe o
programmare attività sociali di supporto a quelle catechistiche, ad esempio dei
viaggi collettivi di formazione e preghiera, o programmare le attività nel
giorno della festa di San Clemente romano, al quale la parrocchia è intitolata.
Adesso di queste cose decide solo il parroco, come fa il titolare di un (piccola)
azienda individuale.
La situazione in termini di effettività è questa: formalmente il parroco governa sulla popolazione del territorio della sua
parrocchia, che conta circa quindicimila abitanti, dei quali circa ottomila possono
immaginarsi collegati all’immaginario religioso cattolico. Di fatto la chiesa
parrocchiale è frequentata regolarmente da circa un migliaio di persone, ma solo
più o meno duecento frequentano regolarmente anche le altre attività e poche
decine le animano. Il livello di effettività del potere del parroco, e della
parrocchia come istituzione sociale, è assai basso. I preti si sfiancano nelle
loro funzioni, faticano moltissimo perché tutto è accentrato su di loro,
sacramenti, catechismi, carità, amministrazione di immobili e patrimonio, ma la
parrocchia conta poco socialmente e, nella gran parte delle giornate, è quasi
vuota. La situazione potrebbe cambiare radicalmente sviluppando la sinodalità
ecclesiale. Bisogna dire che, però i preti, giovani e anziani, non vi sono
stati formati, anzi sono stati formati a diffidarne, non sanno proprio come
fare. Dovrebbero chiedere aiuto, probabilmente immaginano anche di averlo
fatto, ma, in realtà, presi dalle loro frenetiche attività quotidiane, perché
anche per loro il giorno è fatto di ventiquattro ore, hanno tralasciato questo
campo, e nemmeno vi credono, perché non sanno come fare, non ne hanno mai visto
dei frutti e, in più, secondo la tremenda nostra storia ecclesiale, sono
ossessionati dal possibile manifestarsi di eresie. Del resto i reazionari,
i cosiddetti tradizionalisti, nel solco di una nostra efferata deprecabile
tradizione ecclesiale, sono sempre lì a sussurrarglielo nelle orecchie.
In realtà l’ordinamento ecclesiastico ha
istituito un organismo, obbligatorio nella Diocesi di Roma, che potrebbe essere
il nucleo promotore di una sinodalità dal basso: il Consiglio pastorale
parrocchiale. Dovrebbe essere costituito come un piccolo gruppo di una
trentina di persone, in cui decidere faccia a faccia, sinodalmente. Potrebbe
promuovere altri gruppi di analoga sinodalità in altri settori di impegno, non
strategici secondo l’idea di Visentin, in cui cominciare a fare tirocinio del
decidere sinodale. Ma nella nostra parrocchia è caduto in desuetudine, non ha
più effettività. Quando si riuniva si dimostrò incapace di vera
sinodalità: per quanto mi è stato riferito, un sottogruppo cercava di prevalere
con la forza del numero, secondo la legge sociale che ho sopra ricordato. L’autorità
del parroco avrebbe dovuto rendere inefficace quella strategia, così da rendere
conveniente anche per quel gruppo la sinodalità, ma di fronte ai problemi si è preferito invece
tagliare corto e sostituire sostanzialmente quell’organismo con l’equipe
pastorale, che dovrebbe svolgere compiti molto diversi. E’ da lì che si
potrebbe, e si dovrebbe (visto che il Consiglio è obbligatorio), ricominciare. Anche il potere
della Diocesi ha scarsa effettività.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli