Sinodalitá come nuova via ordinaria per
fare Chiesa
Sinodi attestati fino al 4° secolo
Gli esperti che in questi
anni hanno pubblicato in Italia opere divulgative sulla sinodalitá avvertono
che la proposta di Papa Francesco in merito ad essa ha questa particolarità: la
presenta come nuova via ordinaria per fare Chiesa (non
per governarla). Nuova perché
nella Chiesa cattolica non è mai stata percorsa.
Nei secoli passati e fino agli scorsi
anni Cinquanta, non si parlava di sinodalità, ma di sinodo e
di collegialità. Questo perché era in questione il governo dell'organizzazione
ecclesiastica e la questione rilevante era se dovesse essere monocratico, con
un singolo uomo a decidere, o, appunto, collegiale, con più
uomini a decidere insieme.
Il
potere ecclesiastico monarchico si affermò nelle nostre Chiese a cavallo tra il
Primo e il Secondo secolo, e l'inizio di questo processo è testimoniato negli
scritti e nel magistero di un antico vescovo siriano di cultura ellenistica,
Ignazio, vescovo di Antiochia, morto martire a Roma nei primi anni del Secondo
secolo.
Sviluppandosi
il sacerdozio cristiano, a partire dall'iniziale figura dei presbiteri,
vale a dire degli anziani, il vescovo divenne il capo anche di un
apparato ecclesiastico, oltre che degli altri fedeli.
Questi antichi vescovi si mantenevano
costantemente in contatto tra loro, qualche volta andando d'accordo e qualche
volta non. Nel primo caso si scambiavano lettere di
comunione, e ne dotavano i propri fedeli che viaggiavano raggiungendo
altre diocesi, nell'altro anatemi, vale a dire maledizioni con
cui, davanti a Dio, si escludeva taluno dalla Chiesa, in particolare il
vescovo che non voleva essere in comunione con loro.
All'epoca,
i principali centri di cultura e prassi religiosa di quei cristianesimi delle
origini furono Antiochia in Siria, Gerusalemme in Palestina, Alessandria in
Egitto, Cartagine in Africa, nell'attuale Tunisia e Roma. Proprio nella regione
di Cartagine sono attestati, a partire dal Terzo secolo, i primi sinodi/concili
organizzati tra vescovi su questioni disciplinari, liturgiche e di dottrina, finalizzati
a trovare un’intesa tra di loro. Si pensa che vi partecipassero anche studiosi ed
esponenti delle comunità religiose, preti e altri.
L’uso di
tenere concertazioni sinodali si estese nei secoli successivi e, dal Quarto
secolo, dal tempo della grande riforma dell’architettura istituzionale dell’impero
romano promossa dall’imperatore Costantino I, e successivamente, queste
assemblee dei vescovi dell’impero, denominate concili, vennero sostanzialmente inserite tra i
pubblici poteri, come anche le assemblee regionali definite sinodi o concili. La sede imperiale venne trasferita nella nuova
città di Costantinopoli, in Tracia, che divenne anche sede di un nuovo patriarcato,
un centro di governo ecclesiastico al quale facevano riferimento i vescovi
della regione. Altri patriarcati rimasero organizzati ad Antiochia, Gerusalemme,
Alessandria d’Egitto, Cartagine e Roma. Le assemblee sinodali valide per
tutto l’impero venivano convocate dall’imperatore e presiedute da lui o da un
suo delegato. Dai concili validi per tutti l’impero celebrati nel primo
millennio, che vennero definiti ecumenici, per significare che furono animati da una rappresentanza significativa
dei vescovi delle regioni sottomesse all’impero romano, (ecumene, che ci
viene dal latino che recepì la parola del greco, anche ora in italiano significa comunità universale)
scaturirono le deliberazioni dei principali dogmi della nostra fede, vale a
dire le affermazioni su di essa che devono essere condivise per poter essere
considerati dentro, altrimenti si è anatema, vale a dire fuori.
Già dal
Quarto secolo la gente comune, al di
fuori di quella che aveva cominciato a delinearsi come un sistema di gerarchie
inquadrate nei pubblici poteri, non aveva più parte nei sinodi/concili (a
lungo non ci fu una differenza sostanziale tra le due denominazioni, cominciò a
farsi dopo il Concilio di Trento, tenuto dal 1545 al 1563, in varie sessioni).
Riprese ad averla nelle Chiese cristiane protestanti, sorte dal Cinquecento,
che si diedero strutture di governo sinodali.
Dal
Cinquecento e fino agli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso, i sinodi
rimasero come assemblee che consentivano ai vescovi di trasmettere i propri
comandi al clero dipendente, ma anche di ascoltarlo, anche se poi decidevano tutto
loro. Dopo il Concilio Vaticano 2° cominciò a parteciparvi altra gente, oltre a
clero e religiosi, ma, a norma del diritto canonico tuttora vigente, le
decisioni sono riservate solo al vescovo, pomposamente definito unico
legislatore.
Negli
ultimi due secoli, nell’Ottocento e nel Novecento, vennero tenuti solo due Concili
riconosciuti come ecumenici: il Concilio Vaticano 1°, nel 1870, e il Concilio
Vaticano 2°, tra il 1962 e il 1965. Il primo ebbe ad oggetto il rafforzamento
dell’autorità del Papa sui vescovi e su
tutte le altre persone di fede, con l’affermazione dogmatica della sua
infallibilità nelle questioni di dottrina ed etica. Il secondo si occupò di
riequilibrare il potere ecclesiastico tra il Papa e i vescovi utilizzando il
principio di collegialità, pur se al Papa venne mantenuto il potere di
superare ogni dissenso collegiale. Si occupò anche di risollevare la posizione
nella Chiesa dei fedeli che non esercitavano ministeri ordinati, quindi
conferiti con il sacramento dell’Ordine sacro, quindi non erano religiosi,
monaci e monache, frati e suore, per introdurli ad una qualche partecipazione alle
cose ecclesiali. Si occupò anche di promuovere la riforma della liturgia, il
cui effetto più importante fu la possibilità di celebrare la messa nelle lingue
nazionali, mentre prima lo si faceva nel latino liturgico, che la gran parte
della gente non intendeva. Quest’ultimo campo di riforma fu quello che
introdusse le novità maggiori. Negli altri i cambiamenti stentarono ad
affermarsi. Ancora oggi ogni potere è attribuito, almeno formalmente, al clero.
Di fatto il popolo ha ora molta più voce.
Dall’idea
di partecipazione popolare alla vita della Chiesa nacque prima la
pratica e poi l’idea di una sinodalità diffusa come rimedio a decisioni ecclesiastiche
sempre meno osservate dalla gente.
Il
clero decide, ma, è stato osservato, la
fase della ricezione popolare è
cruciale per stabilire l’ecclesialità della decisione prese, al di là della loro
legittimazione formale. Molte importanti decisioni della gerarchia
ecclesiastica non hanno trovato il consenso del popolo, che, più o meno dagli
anni Settanta in Italia, ha iniziato a manifestare apertamente il suo dissenso.
In questi campi la gerarchia non ha più il potere effettivo di imporsi.
Il
discorso sulla sinodalità del
governo ecclesiastico è però ancora chiuso e chissà per quanto. Non si è mai
andati oltre la collegialità episcopale. E non si vuole andare oltre.
Tuttavia
ci si è resi conto che il governo non è la cosa più importante nelle Chiese. C’è
la vita collettiva di relazione dei fedeli. E’ qui che la religiosità si esprime
come un mondo vitale, come un ambiente sociale che dà senso alla
vita.
Ora si
va in chiesa e si guarda tutti al prete. E’ lui che ci dice che fare, che dire,
dove andare, quando vederci. Tra noi ci ignoriamo, tranne le piccole cerchie
amicali che ci sono familiari e in cui esprimiamo una religiosità più
intensa. La sinodalità come proposta da papa Francesco vorrebbe
cambiare questa situazione. Anche perché i preti saranno sempre meno e, forse, alla fine, non ce ne saranno
più del tutto. In certi posti, anche in Italia, è già accaduto. E’ giocoforza
quindi coinvolgere maggiormente le persone di fede, non considerandole più solo
gregge, la cui virtù principale è lasciarsi condurre dal pastore. Bisogna che imparino a prendersi
cura delle altre persone di fede, ma
non individualmente, bensì dandosi una specifica organizzazione di vita: questa
è, appunto, la nuova sinodalità. E’ centrata sul fare e non sull’ordinare, come avviene nelle
funzioni di governo. Ciò che si decide insieme non ha veramente bisogno di essere governato.
I teologi
hanno ricordato un antico principio giuridico che troviamo enunciato nella
grande collezione di diritto romano promossa nel 6° secolo dall’imperatore romano
Giustiniano 1°, a Costantinopoli, Il Corpo del diritto civile, che in
Europa rimase fonte vigente del diritto fino alle grandi codificazioni dell’Ottocento,
ed esattamente nella parte denominata Codice (raccolta di leggi
imperiali dal Primo al Sesto secolo): “ciò che riguarda tutti deve essere esaminato
e deciso da tutti”. Riguardava la disciplina delle società, in latino
universitàtes. Passò poi nel
diritto ecclesiastico medievale e lo si ritrova in un’altra raccolta normativa,
le Decretali (raccolta di leggi del Papa), promossa dal papa
Bonifacio 8° (1230-1303). Da quest’ultimo Papa fu richiamato per sostenere il
proprio potere di ingerenza nelle decisioni degli stati che riguardavano gli
affari ecclesiastici. “Mi riguarda” sosteneva, “dunque devo aver
parte nel decidere”.
Ora lo
si propone come base della nuova sinodalità che si vorrebbe indurre. Se una
cosa mi riguarda direttamente, perché non posso avervi alcuna voce? In base a
questo principio, nelle realtà di base, la gente dovrebbe poter esprimersi. E
per farlo deve esserle consentito di partecipare realmente. Ma siccome di
solito non si è mai partecipato, occorre innanzi tutto educare alla partecipazione. Come riuscirci se nessuno
ha veramente idea di come fare, visto che non lo si è mai fatto, e tanto meno i
preti l’hanno, loro che sono stati formati in seminario alla diffidenza verso
la partecipazione popolare e all’obbedienza gerarchica?
Ma che
accadrà se partecipano gli incolti, gli incompetenti?, si osserva timorosi. Questa obiezione potrebbe essere seria se riguardasse
il pasticciare sui dogmi e altre parti della dottrina. Ma nelle realtà di
prossimità, dove ciascuno vive la
propria fede, che sono poi le uniche veramente esistenti, fortunatamente non ci
si deve occupare di questo. Ed è un bene, tenuto conto degli sfracelli
provocati dai competenti nei secoli passati.
Ci si
deve occupare, ad esempio, dell’orario delle messe, che non è come il fissare l’orario
di un ristorante, per cui decide il solo gestore e i clienti vengono quando
egli ha detto che si può. Riguarda il trovarsi insieme per celebrare l’Eucaristica,
la quale, secondo i teologi, è al centro della pratica religiosa e, addirittura,
forma la Chiesa. Ci si può intendere sinodalmente,
parlandosi e confrontandosi, su questo punto? Una decisione presa sinodalmente
sarà, probabilmente, più osservata. Oggi decide tutto il parroco e viene chi
vuole e quando vuole, e nessuno si sente veramente impegnato a venire, non
crede che, se non viene, qualcuno sentirà la sua mancanza: è come andare al
cinema. Il celebrante, durante la messa,
vede gente, probabilmente c’è qualcuno che vede più spesso, addirittura
molto spesso, ma la massa è fluida, si viene per ascoltare il prete, per rispondere come è scritto sul foglietto,
chi si ha vicino non conta, nonostante si faccia la Comunione insieme. Al prete interessa che ci sia gente come al
solito, non che ci sia qualcuno in particolare, tu, io. Ma come potrebbe
tenerne conto? Ci rimangono nella memoria circa centocinquanta persone e non di
più, dice l’antropologo Robin Dunbar. Ecco, qui, la collaborazione di tutte le
altre persone servirebbe. Insomma, concordare
l’orario delle messe sarebbe un buon tirocinio di sinodalità. E se poi non si raggiunge un accordo? Ma è proprio
qui che sta, diciamo, il bello della sinodalità, che non comporta che,
prodigiosamente, pregando, l’unità tra noi si crei al modo in cui c’è l’unità nella Trinità. Qui
i teologi che hanno arzigogolato sulla sinodalità mi pare pretendano
troppo. Noi, infatti, non siamo ancora nella Trinità. Però, ad un certo punto, potremmo
convenire su questo: che anche se non c’è l’unanimità, dopo averci ragionato
sopra, aver pregato, esserci guardati negli occhi, esserci riconosciuti, aver
concluso che ogni persona conta per le altre, cercando di venire incontro alle
esigenze dei più, questa volta si
adotti la proposta che ha incontrato il consenso più ampio, salvo poi vedere
come va e ripensarci. Quest’ultimo è il momento della verifica, che di solito
non si fa e che invece è importante per aggiustare le cose al meglio. E’ così che si procede nelle organizzazioni sociali
più evolute, ad esempio in ambito scientifico.
A prima
vista, fare unità dando tutto il potere ad una persona sola sembra più facile,
perché si salta tutto il faticoso lavoro della concertazione. Ma è primitivo.
Magari ad Ignazio di Antiochia, vissuto tra il Primo e il Secondo secolo,
pareva andar bene, ma l’esperienza ormai
ultramillenaria ha dimostrato di no. Almeno in quelle che ho definito realtà
sociali di prossimità e nel decidere quello che, lì, riguarda tutti.
Ma, a ben vedere, considerando la tremenda storia delle nostra Chiese, anche
più in grande. Però ora si tratta di iniziare da vicino a noi, perché, come ho
detto, più in grande la via è (ancora) chiusa.
L’uno
solo che decide riflette la paleoantropologia
e, addirittura, la zoologia, perché anche tra i nostri cugini primati, in fondo,
si fa così. Andate al giardino zoologico della
nostra città e recatevi al catino degli scimpanzé. In basso potrete
vedere un’area abbastanza vasta con gli scimpanzé in libertà, senza gabbie. Lì,
se ci fate attenzione, vedrete all’opera l’uno che decide.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli