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  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

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Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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lunedì 31 ottobre 2022

Perché la pace come valore cristiano?

 

Perché la pace come valore cristiano?

 

  La questione del “Perché la pace come valore cristiano?” riguarda tutte le persone di fede ed è uno dei temi centrali della dottrina sociale, la quale  è parte del più vasto pensiero sociale cristiano.

 Ha risvolti teologici molto sofisticati, ma, ad un primo livello di riflessione, può essere accessibile a tutti.

  La Bibbia è un insieme di testi ritenuti normativi per la nostra fede. Contiene anche della teologia, soprattutto nelle lettere attribuite a Paolo di Tarso e nelle altre inserite nel Nuovo Testamento. In prevalenza è fatta di narrazioni di storie, in parte affidabili dal punto di vista storiografico e in parte puramente letterarie. Una sezione molto importante è fatta di canti liturgici, i salmi. Nelle narrazioni bibliche ci sono diversi modi di considerare la pace. In generale quelle che si presentano come racconti di eventi realmente accaduti parlano di figure, capi politici, condottieri, molto poco pacifici. Nel mondo antico  praticare la guerra non era considerato disonorevole, tutt’altro. Nel contesto biblico l’importante era combattere dalla parte giusta, quella del Dio di Israele.  Il Maestro non smentì questo modo di pensare, anche se personalmente non fu un violento, né un condottiero: esortava alla conversione, nel senso di tornare al Dio di Israele, e fu un taumaturgo per accreditare il suo insegnamento. Disse di essere un mite, ma non contrastò la mitologia guerriera costruita sulle grande figure bibliche, ad esempio Mosè. Mosé, Giosué, Davide e altri ci vengono raccontati come feroci guerrieri, e nel quadro biblico lo erano per obbedienza al Dio di Israele.

 Il racconto biblico della conquista di Gerico può rendere l’idea di ciò a cui mi riferisco:

 

Giosuè conquista Gerico

Le porte di Gerico erano sbarrate e barricate per paura degli Israeliti. Dalla città non usciva più nessuno ed era impossibile entrarvi. Il Signore disse a Giosuè: «Io darò in tuo potere Gerico, il suo re e i suoi soldati. Ti metterai in marcia con tutti i tuoi uomini. Farete un giro completo attorno alla città, ogni giorno, per sei giorni di seguito. Sette sacerdoti prenderanno ognuno una tromba fatta di corno di ariete e cammineranno davanti all’arca. Il settimo giorno girerete attorno alla città per sette volte, e i sacerdoti suoneranno la tromba. 5Appena si sentirà il lungo segnale delle trombe, tutto il popolo lancerà il grido di guerra e le mura della città crolleranno. Così ogni vostro soldato troverà la strada aperta davanti a sé».

 Giosuè, figlio di Nun, convocò i sacerdoti e ordinò: «Sollevate l’arca dell’alleanza! Sette di voi prendano le loro trombe e passino davanti all’arca del Signore». 7Poi ordinò al popolo: «Mettetevi in marcia e fate il giro attorno alla città. Un gruppo di soldati passi in testa, davanti all’arca del Signore».

 Appena Giosuè finì di dare gli ordini al popolo i sette sacerdoti con le sette trombe di corno si mossero per primi e cominciarono a suonare. L’arca dell’alleanza del Signore li seguì. Un gruppo di soldati passò in testa, davanti ai sacerdoti che suonavano le trombe. Gli altri soldati si disposero dietro a tutti. Il corteo procedeva al suono delle trombe.

 Giosuè aveva ordinato al popolo di avanzare senza gridare e senza parlare, in assoluto silenzio. Avrebbero lanciato il grido di guerra soltanto più tardi, a un ordine preciso di Giosuè. L’arca fece un primo giro completo attorno alla città. Poi gli Israeliti tornarono all’accampamento dove passarono la notte.

  L’indomani Giosuè si alzò di buon mattino. I sacerdoti presero l’arca del Signore. I sette sacerdoti con le sette trombe marciavano anche questa volta davanti all’arca del Signore e suonavano. Davanti a loro marciava un gruppo di soldati; poi c’era l’arca del Signore, seguita da tutti gli altri. Il corteo procedeva al suono delle trombe. 14Anche quel secondo giorno fecero un giro completo attorno alla città e poi tornarono all’accampamento. E così fecero per sei giorni.

Il settimo giorno si alzarono all’alba e girarono attorno alla città sette volte, nello stesso ordine dei giorni precedenti. Solo che quel giorno i giri furono sette. Al settimo giro i sacerdoti suonarono le trombe e Giosuè disse al popolo: «Ora lanciate il grido di guerra, perché il Signore ha dato la città in vostro potere! Essa è destinata allo sterminio: tutto quel che si trova dentro la città va distrutto perché appartiene al Signore. Nessuno sarà risparmiato, eccetto la prostituta Raab e quelli che sono nella sua casa, perché ha aiutato le nostre spie. Ma state bene attenti: tutto deve andare distrutto; non dovete prendere niente per voi, altrimenti renderete maledetto il nostro accampamento e attirerete rovina su di esso. Tutto l’oro e l’argento, gli oggetti di bronzo e di ferro appartengono al Signore e dovranno far parte del suo tesoro».

  Appena i sacerdoti suonarono le trombe, il popolo lanciò il grido di guerra. Al segnale delle trombe e al tremendo urlo del popolo le mura di Gerico crollarono su se stesse. I soldati trovarono la strada aperta davanti a loro. Entrarono nella città e la conquistarono. Essi applicarono la legge dello sterminio: uccisero uomini e donne, giovani e vecchi; ammazzarono anche i buoi, i montoni e gli asini.

 

[dal libro di Giosué, capitolo 6, versetti da 1 a 21 – Gios 6, 1-21 – versione in italiano TILC Traduzione interconfessionale in lingua corrente]

 

  «Essi applicarono la legge dello sterminio: uccisero uomini e donne, giovani e vecchi; ammazzarono anche i buoi, i montoni e gli asini». Oggi non consideriamo più questo un esempio da seguire e tantomeno un comando divino. Ma in passato non fu così. In questa prospettiva la pace consegue alla vittoria in una guerra giusta. A questo punto si possono fondere la armi in aratri e  falci.

 

Alla fine il monte dove sorge il tempio del Signore

sarà il più alto di tutti e dominerà i colli.

Tutti i popoli si raduneranno ai suoi piedi e diranno:

«Saliamo sul monte del Signore,

andiamo al tempio del Dio d’Israele.

Egli c’insegnerà quel che dobbiamo fare;

noi impareremo come comportarci».

Gli insegnamenti del Signore

vengono da Gerusalemme;

da Sion proviene la sua parola.

Egli sarà il giudice delle genti, e l’arbitro dei popoli.

Trasformeranno le loro spade in aratri e le lance in falci.

Le nazioni non saranno più in lotta tra loro

e cesseranno di prepararsi alla guerra.

Ora, Israeliti, seguiamo il Signore.

Egli è la nostra luce.

 [Dal libro del profeta Isaia, capitolo 2°, versetti da 2 a 5 – Is 2, 1-5 – versione in italiano TILC Traduzione interconfessionale in lingua corrente]

 

  Il Maestro, tuttavia,  non ammazzò nessuno né ordinò mai di ammazzare nessuno. Salvò dalla lapidazione la donna accusata d’adulterio [si legga il Vangelo secondo Giovanni, capitolo 8, versetti da 1 a 11  - Gv 8,1-11]. E’ un modo diverso di affrontare la questione della violenza.  Però egli  non condannò lo sterminio praticato dai grandi condottieri biblici, né le guerre di conquista degli israeliti narrate nella Bibbia, né la pena della lapidazione per l’adulterio della donna.

  Nei Vangeli non si ritrova un insegnamento esplicito sulla pratica della guerra, in particolare per precisare a che condizioni possa essere giusta, nel senso di conforme ai comandi divini, e se si possa disobbedire ad una chiamata alle armi o al comando di un capo militare. La teologia che si trova nel Nuovo Testamento ci parla però di una paternità divina universale, a cui consegue una fratellanza universale. In quest’ottica la pace diventa un valore religioso, come espressione di agàpe. E’ appunto questa la via seguita sempre dal pacififismo cristiano, che, ad un certo punto, si manifesta anche nel Magistero pontificio. Va detto che i Papi, in particolare come capi politici, in particolare come sovrani nel loro stato nel Centro Italia, non furono in genere né pacifici né pacifisti. Cominciarono a diventarlo a seguito di quella guerra totale, cioè con coinvolgimento di tutta la popolazione non solo dei soldati, che chiamiamo Prima Guerra Mondale (1914-1918), scoppiata in Europa ma estesasi alle colonie europee nel mondo.

  Pensare alla pace universale come un valore cristiano portò a temperare le conseguenze della dottrina etica sulla guerra giusta, che cerca di definire a che condizioni un cristiano posso combattere in guerre e dichiararla. Storicamente gli stati cristiani si sono duramente combattuti, ma quella dottrina vietava ai fedeli di rifiutare obbedienza all’ordine di guerra, in quanto riteneva che solo il legittimo governo potesse decidere quando una guerra fosse giusta. A queste condizioni ci si poteva massacrare tra cristiani e confidare nel paradiso, di stare facendo la cosa giusta, in particolare rischiando la vita per amor di patria. E’ ciò che accade oggi anche nella guerra che si combatte in Ucraina tra cristiani.

  L’argomento principale che viene svolto sulla pace come valore cristiano è così sintetizzato nella Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo La gioia e la speranza  - Gaudium et spes, deliberata dal Concilio Vaticano 2° (1962-1965)

La pace terrena, che nasce dall'amore del prossimo, è essa stessa immagine ed effetto della pace di Cristo che promana dal Padre. Il Figlio incarnato infatti, principe della pace, per mezzo della sua croce ha riconciliato tutti gli uomini con Dio; ristabilendo l'unità di tutti in un solo popolo e in un solo corpo, ha ucciso nella sua carne  l'odio e, nella gloria della sua risurrezione, ha diffuso lo Spirito di amore nel cuore degli uomini.

Pertanto tutti i cristiani sono chiamati con insistenza a praticare la verità nell'amore (Ef 4,15) e ad unirsi a tutti gli uomini sinceramente amanti della pace per implorarla dal cielo e per attuarla.

 Ma, se una guerra scoppia, come può fare la persona cristiana a fermarla? Questo è il problema che ci assilla di questi tempi.

  Uno dei modi praticati è quella di cercare di vincerla, neutralizzando la controparte. E’ questa la via seguita dalla NATO nella guerra in Ucraina.

  La via insegnata dalla pratica della nonviolenza, insegnata dall’indiano Ghandi e da noi da Aldo Capitini (che iniziò la Marcia per la pace Perugia-Assisi), è di disobbedire all’ordine di guerra dato dai governi. ll Magistero non insegna questa via. Ma correnti del pensiero cristiano lo raccomandano.

  Gli ultimi anni della vita di Lorenzo Milani, grande anima, furono travagliati dalla polemica sulla questione dell’obiezione di coscienza, vale a dire sul rifiuto di rispondere alla chiamata alle armi, che all’epoca, in cui vigeva il servizio militare obbligatorio maschile, era un delitto, non essendo ammessa dall’ordinamento. Lorenzo Milani entrò in polemica con i cappellani militari italiani, vale a dire con i preti inquadrati nelle formazioni militari per prestare assistenza religiosa ai soldati. Avevano definito codardi gli obiettori di coscienza. Ho letto che lo fece anche Montini da Papa.

  E’ importante capire questo: la guerra è una forma di violenza collettiva che deve essere nettamente distinta da quella tra persone o tra fazioni sociali. La differenza è notevole. Nel secondo caso si conserva la facoltà di decidere se usare o non la violenza. Nel primo caso si deve obbedire ad un ordine del proprio governo e non si ha quella facoltà:  si deve partecipare al massacro, a meno, dove è previsto, di esercitare il diritto all’obiezione di coscienza, ma, anche in questo caso, si deve comunque partecipare allo sforzo bellico, anche se non prestando servizio in armi.  Gli insegnamenti evangelici si riferiscono, per quel che ricordo ma correggetemi se sbaglio,  alla violenza tra persone e tra fazioni: non trattano espressamente della guerra in senso proprio, vale a dire di quella ordinata dagli stati.

 Queste la coordinate del problema.

 Sarebbe importante rifletterci sopra insieme. Di solito, invece, si scelgono soluzioni più sbrigative. Non si può dare per scontato che il Maestro, non avendo praticato la violenza né ordinato di praticarla, ed essendosi dichiarato mite, abbia anche inteso vietare la guerra, in particolare perché non prese questa posizione sui tremendi racconti di violenza bellica contenuti nelle Scritture.

  In genere, i pacifisti cristiani mi pare che si muovano nel filone ghandiano, che è piuttosto recente, valutata la  sua vetustà secondo il metro bimillenario della nostra storia religiosa. Questo è un bel problema per una religione come la nostra in cui si dà tanta importanza all’antichità di una tradizione per definirne l’autorità.

  La questione riguarda anche la nostra ideologia nazionale, che si fonda sull’idea di Risorgimento  come movimento per l’unificazione nazionale: nella linea politica di Giuseppe Mazzini. infatti tutte le risorgimentali guerra d’indipendenza furono guerre d’aggressione condotte contro governi legittimi, con particolare ferocia quella promosse da Giuseppe Garibaldi. I garibaldini che lo avevano seguito dal Sud America erano appunto molto temuti per la violenza sanguinaia dei loro assalti all’arma bianca.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

 

 

 

 

 

 

domenica 30 ottobre 2022

La religione e il problema della pace

 

La religione e il problema della pace

 

  Nel Meic – Lazio nei giorni scorsi abbiamo discusso dell’adesione alla manifestazione pacifista del 5 novembre prossimo, indetta da Europe for peace.  Il Meic nazionale non ha aderito.

  Sono emersi due orientamenti diversi. Uno ritiene che l’obiettivo della pace discenda dal vangelo e che, scoppiato un conflitto tra stati, se si vuole essere credenti coerenti, non si debba distinguere chi abbia ragione e chi no, ma cominciare con il chiedere il cessate il fuoco e un armistizio, perché inizino trattative per un trattato di pace. Un altro  ritiene che la pace debba essere condizionata a verità e giustizia, per cui in una condizione di guerra guerreggiata si debba andare in soccorso di chi è aggredito, ad esempio fornendogli armamenti per difendersi.  Nel marzo 1999 un orientamento simile portò la NATO a intervenire nel conflitto tra la Serbia e la secessionista provincia del Kosovo (repubblica indipendente dal 2008), bombardando la Serbia senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Nelle guerre balcaniche degli anni ’90 papa Giovanni Paolo 2° sostenne il dovere di un intervento umanitario per disarmare l’aggressore. Di recente papa Francesco, dopo aver duramente condannato la guerra, ha dichiarato lecito fornire ad uno stato aggredito le armi per difendersi, però facendo in questo modo guerra.

  La prima linea non suggerisce la resa, ma la lotta nonviolenta, insegnata e praticata dall’indiano Mohāndās Karamchand Gāndhī, detto Mahatma, vale a dire grande anima (1869-1948). Per quella via fu ottenuta la liberazione dal subcontinente indiano dal duro giogo del colonialismo britannico (1948). La filosofia e dottrina politica di Ghandi proponevano la collaborazione tra le religioni per conseguire la liberazione dell’India. In India le maggiori erano l’induismo, l’islam, lo sikhismo e vari critianesimi. Ghandi aveva studiato legge in Gran Bretagna e lì conosciuto il cristianesimo, ma anche riscoperto l’induismo.

  L’idea che la pace sia radicata nella giustizia ha origini bibliche. In quest’ottica essa viene presentata come un dono divino fatto al popolo che segue la Legge di santità. Questo modo di pensare non comporta però un ripudio della guerra, che tuttavia qua e là compare, come in certi brani del libro di Isaia

 

Alla fine il monte dove sorge il tempio del Signore

sarà il più alto di tutti e dominerà i colli.

Tutti i popoli si raduneranno ai suoi piedi e diranno:

«Saliamo sul monte del Signore,

andiamo al tempio del Dio d’Israele.

Egli c’insegnerà quel che dobbiamo fare;

noi impareremo come comportarci».

Gli insegnamenti del Signore

vengono da Gerusalemme;

da Sion proviene la sua parola.

Egli sarà il giudice delle genti, e l’arbitro dei popoli.

Trasformeranno le loro spade in aratri e le lance in falci.

Le nazioni non saranno più in lotta tra loro

e cesseranno di prepararsi alla guerra.

Ora, Israeliti, seguiamo il Signore.

Egli è la nostra luce.

 

[Dal libro del profeta Isaia, capitolo 2°, versetti da 2 a 5 – Is 2, 1-5 – versione in italiano TILC Traduzione interconfessionale in lingua corrente]

 

  Seguire il vangelo comporta il ripudio  assoluto della guerra?

  A volta sembra ovvio, ma non lo è.

  Di fatto i cristiani storicamente non sono stati né pacifici né pacifisti, tutt’altro, e a lungo non ci si è visto nulla di male.

  Da questo punto di vista di solito si ricordano le Crociate  medievali, indette dai Papi (!) per riconquistare la cosiddetta Terra Santa, caduta nelle mani di una monarchia islamica. Ma il fatto storico più sconvolgente, in tema di violenza cristiana, non è stato quello, quanto la conquista genocida delle Americhe, condotta, in particolare nell’America che ad un certo punto si è cominciata a definire Latina, anche a dichiarati fini di evangelizzazione. I superstiti nativi vennero costretti a convertirsi a un cristianesimo, che nell’America Latina fu il cattolicesimo. Si procedette in questo modo anche nella conquista dell’Africa e dell’Oceania, mentre in Asia le cose andarono in modo diverso, per l’accanita resistenza culturale delle precedenti religioni.

 Ma parlando di vangelo ci riferiamo specificamente all’insegnamento del Maestro.

  Non sono un teologo, avverto, ma per tutta una vita ho avuto la Bibbia accanto a me. E la storia mi appassiona.

 Di solito si ricorda, ad esempio, la beatitudine  attribuita agli operatori di pace.  

  Tuttavia nei Vangeli non troviamo una esplicita condanna della guerra. Quest’ultima va distinta dalla violenza tra persone e gruppi limitati, anche tribali. Si può parlare di guerra quando un ordinamento politico che di fatto riesce a dominare una popolazione la ordina e la gente è obbligata ad ubbidire e ad arruolarsi.

 Le situazioni in cui nei Vangeli si condanna la violenza sono però riferite ad ambiti diversi, interpersonali o tra gruppi limitati, in cui le persone possono ancora decidere se usare la violenza o non, il che non è nella guerra in senso proprio.

 Nell’episodio della guarigione del servo del centurione, un ufficiale dell’esercito romano occupante la Giudea, non vi è alcuna condanna del servizio militare in sé.

  In occasione del suo arresto ai Getsemani al Maestro viene attribuito un detto verosimilmente già proverbiale:

 

Quelli che erano venuti insieme a Giuda si fecero avanti, presero Gesù e lo arrestarono.

 Allora uno di quelli che erano con Gesù tirò fuori una spada e colpì il servo del sommo sacerdote, staccandogli un orecchio.

 Ma Gesù gli disse: «Rimetti la spada al suo posto! Perché tutti quelli che usano la spada moriranno colpiti dalla spada.  Che cosa credi? Non sai che io potrei chiedere aiuto al Padre mio e subito mi manderebbe più di dodici migliaia di angeli? Ma in questo caso non si compirebbero le parole della Bibbia. Essa dice che deve accadere così».

Poi Gesù disse alla folla: «Siete venuti a prendermi con spade e bastoni, come se fossi un delinquente! Tutti i giorni stavo seduto nel Tempio a insegnare, e non mi avete mai arrestato. 

 

[Dal Vangelo secondo Matteo, capitolo 26, versetti da 50 a 55 – Mt 26, 50-55 – versione in italiano TILC]

 

   Tuttavia il contesto non è bellico, ma di un tumulto tra i seguaci del Maestro e la gente mandata dalle autorità religiose giudaiche per arrestarlo.

  Nei Vangeli, per quel che ricordo, ma correggetemi se sbaglio, non vi è alcuna situazione in cui si pone il problema se rispondere o non ad una chiamata alle armi.

 Di fatto un pacifismo assoluto di stampo cristiano si è ciclicamente sviluppato in correnti minoritarie. Le teologie prevalenti sono state, e ancora sono, quelle centrate sull’idea di guerra giusta.  Tuttavia una guerra, anche se dichiarata giusta per uno degli stati combattenti, rimane pur sempre una guerra e la guerra si fa massacrando e distruggendo, aggredendo anche se non si  è stati i primi a farlo. Dalla metà del secolo scorso, dopo il primo impiego della bomba nucleare da parte degli Stati Uniti d’America e l’accumulo di un enorme arsensale nucleare da parte loro e dell’Unione Sovietica, e ora della Federazione russa che gli succedette, si è presa consapevolezza che una guerra totale,  come le due combattute nel Novecento, porterebbe alla distruzione totale dell’umanità. In queste condizioni, in teologia si comincia a dubitare che vi siano guerre giuste. Però la teologia della guerra giusta  che è una parte della teologia morale rimane pur sempre dottrina corrente del Magistero.

  Di fatto, dopo la fine della guerra statunitense in Vietnam (1955-1975), combattuta contro la Repubblica Democratica del Vietnam (costituita nella parte settentrionale del Vietnam), la Repubblica popolare di Cina e l’Unione Sovietica, non si sono più combattute guerre totali, ma solo guerre dette a bassa intensità, sicuramente sanguinose e stragiste, ma senza che si punti allo sterminio totale, ad esempio con bombardamenti a tappeto di città.

  La manifestazione per la pace del 5 novembre origina dalla guerra tra NATO, Unione Europea,  Repubblica Ucraina e Federazione russa scoppiata lo scorso 24 febbraio, seguendo un conflitto in corso dall’inizio del decennio scorso, che ha conosciuto un’altra fase bellica nel 2014.  E’ in questione l’egemonia sul Mar Nero. Si tratta di un mare interno che fino al 1991 era controllato da Unione Sovietica, che ne possedeva le coste settentrionali e orientali e la Turchia, inserita nella NATO, che ne controllava le coste meridionali. In Crimea, sul Mar Nero, l’Unione sovietica aveva e ora la Federazione russa ha un importante complesso di basi navali intorno a Sebastopoli. Nel ’56 la Crimea fu ceduta alla Repubblica Ucraina dalla Repubblica federativa russa: entrambe facevano parte dell’Unione sovietica. Nel 1991, con l’indipendenza Ucraina rimase a quest’ultima e fu convenuto che le basi russe rimanessero in affitto. La politica statunitense ha cercato di ottenerne la dismissione a favore dell’Ucraina  e l’arretramento dei russi. Lo strumento doveva essere l’adesione dell’Ucraina alla NATO, come anche della Georgia. Con la guerra in corso, i russi, con perdite altissime, hanno ripreso il controllo delle coste occidentali del  Mare d’Azov, tentando di consolidare la loro posizione in Crimea. Attualmente, però, sembra che stiano avendo la peggio. Questo è stato dovuto all’appoggio della Nato, con forniture militari di alta tecnologie e soprattutto con le informazioni fornite agli ucraini tramite l’apparato spionistico satellitare.

  Se si mette la cosa in termini di aggressione, all’inizio sono stati i russi ad aggredire,  ma ora sono prevalentemente gli ucraini. Certamente i russi il 24 febbraio hanno invaso l’Ucraina, allo scopo di rovesciare il governo filostatunitense, al modo in cui l’Unione Sovietica aveva manovrato per reprimere tendenze filo-occidentali in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968. Ma le cose non sono andate come allora. Metà degli ucraini erano di cultura russa, ma non hanno appoggiato l’invasione russa. L’armata ucraina dopo la guerra del 2014 era stata sostanzialmente integrata nella NATO e fornita di armamenti potenti e di addestramento militare, all’evidente scopo di fronteggiare una invasione simile.

   La guerra contro la Federazione russa non può essere vinta, perché combattuta contro una potenza nucleare. Di questo gli Occidentali sono consapevoli, nonostante le dichiarazioni bellicose degli Ucraini. Il conflitto origina per ottenere un trattato con una nuova spartizione dell’egemonia in quella zona, che però entrambe le parti vogliono ottenere dalla posizione a loro più favorevole. In questa condizione, è etico, dal punto di vista evangelico, continuare a fornire armi all’Ucraina?

  Se la cosa non interessasse questioni di egemonia tra super-potenze, la lotta si sarebbe anche potuta fare in modo nonviolento, evitando le distruzioni che ogni guerra, seppure a bassa intensità, comporta, ma ora invece no, proprio perché è in questione non il benessere degli ucraini, ma l’egemonia sulla regione non da parte loro ma di NATO e Federazione russa.

  La teologia cristiana che vede nella pace anche un obiettivo politico da non rimandare alla fine della storia (nel senso del libro di Isaia) si basa sull’idea biblica di fraternità universale per il fatto che c’è un unico Padre divino. Storicamente, però, questa consapevolezza non ha impedito ai cristiani di massacrarsi e di massacrare. La guerra in Ucraina si combatte tra armate cristiane, con la presenza largamente minoritarie di milizie islamizzate, arrivate in soccorso delle armate russe dalla Cecenia. Il patriarca cirillo di Mosca, dalla cui autorità gli ortodossi si erano sfilati alcuni anni fa, ha esortato i suoi fedeli ad accorrere in guerra, assicurandoli che, se verranno uccisi, conseguiranno il paradiso. Così posta la questione, dal suo punto di vista questa è un vera e propria Crociata, ma contro altri cristiani.

  Che fare dunque?

  Si sostiene da alcuni, e in particolare dal gioverno ucraino, che la pace arriverà solo con la vittoria sui russi. Altri dicono che la pace arriverà quando i governi la ordineranno, perché non troveranno più convenienza a combatterla. Manifestare contro i governi che hanno ordinato la guerra può essere visto, allora, come un modo per premere sui governi in modo che non trovino più convenienza nella guerra. Ai tempi della Guerra del Vietnam funzionò in Occidente.  Naturalmente si deve cominciare con il manifestare contro il proprio  governo, perché se lo si fa solo contro il governo nemico si  è solo cobelligeranti. E’ ciò che fecero i resistenti cattolici tra il ’43 e il ’44, combattendo il fascismo mussoliniano della cosiddetta Repubblica sociale italiana, dai cui reduci venne fondata, nel dopoguerra, il neofascista Movimento sociale italiano.

  Sarebbe interessante discuterne con esperti sul fronte della teologia morale e della scienza della politica.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

venerdì 28 ottobre 2022

Vivere il pluralismo

Vivere il pluralismo

 

  Considerare la sinodalità come un problema di governo porta a depotenziarla.

  Il governo è quando si incarica un gruppo di prendere decisioni per tutti o, comunque, si accetta che lo faccia. Nel secondo caso si ha una autocrazia. Il nostro governo ecclesiastico è tale.

 Va detto che una collettività che superi le dimensioni di una trentina di persone, quelle che consentono di decidere insieme faccia a faccia, non può evolvere in società se non legittimando un governo. È ciò che accade, ad esempio, quando gli utenti della metropolitana (collettività sociale ma non ancora società), a fronte di gravi e prolungati disservizi si organizzano in comitato ed eleggono uno o più portavoce, dandosi anche una denominazione. Allora si manifestano come società, dandosi una forma embrionale di governo.

  Il livello di partecipazione è molto diverso nel gruppo di governo, che è sempre ciò che definiamo piccolo gruppo, vale a dire quello in cui si riesce a intrattenere relazioni faccia a faccia, e nelle altre persone consociate. Alla fine queste ultime tendono a rimanere solo informate, ma senza influire veramente nell’espressione del governo, se non quando esso decida di mettersi in gioco in una procedura elettorale o di consultazione referendaria di quella che ormai è diventata la base, o il basso. E questo, nello svilupparsi dell’organizzazione sociale, tende a diventare sempre meno frequente. Quelle procedure, allora, vengono inscenate più che altro quando emergono più fazioni che pretendono l’accesso al governo e si conviene di regolare la questione pacificamente. Ma si può anche decidere che l’accesso alle organizzazioni di governo avvenga solo o prevalentemente per cooptazione, che è quando un gruppo di governo decide di elevare qualche altra persona alla sua dignità. È questo il caso, in genere, del governo ecclesiale. A volte ci sono combinazioni tra vari tipi di procedura. Ad esempio, di fatto si diventa papa solo se si è cooptati nel collegio dei cardinali, che poi elegge il papa, ed è per questo che recentemente un arcivescovo metropolita ha recriminato pubblicamente per non essere stato creato cardinale a differenza di un vescovo a lui sottoposto. Questo anche se papa può essere eletto ogni uomo battezzato, anche se regole canoniche recenti lo vogliono vescovo. Nei secoli passati, da quando si costituì un clero (che alle origini non esisteva) e prese a differenziarsi dal resto del popolo (i laici), furono eletti papa anche dei laici, che però erano già potenti di proprio.

  Ma la sinodalità come oggi si propone di attuare riguarda principalmente le relazioni faccia a faccia, non il governo ecclesiastico, anche se si spera che le sue manifestazioni e procedure finiscano con il tempo per esserne influenzate.

  Il problema principale nel vedere la nuova sinodalità nella prospettiva del governo risiede nel fatto che il governo delle nostre Chiese e  della loro organizzazione  centrale, la cosiddetta Santa sede, è autocratica e assolutistica, e questo senza dare a ciò un significato valoriale o disvaloriale. Si tratta di constatare l’esistente per come appare. È un’organizzazione poco partecipata dal basso, anche se il basso conta molto di più di un tempo, ma informalmente, per vie di fatto.

  Una organizzazione assolutistica si sente minacciata dalle pretese di pluralismo che vengono dal basso. E la sinodalità come oggi viene proposta si basa proprio sull’accettazione del pluralismo, del quale si rende l’idea con l’immagine del poliedro, non necessariamente regolare, vale a dire con una certa simmetria. Si pensa ad una unità che non si basi sull’uniformità ma sull’amicizia, prendendo atto della complessità sociale ma non rinunciando a manifestare una socialità agapica, vale a dire solidale, benevolente e misericordiosa.

 Si vorrebbe rendere il governo ecclesiale meno letale per quella sinodalità imponendogli di ascoltarla, ma naturalmente questo di fatto non è ancora accaduto e, anzi, nella fase di ascolto dei processi sinodali in corso in Italia, la gerarchia ha addirittura vietato di discutere. E invece quella sinodalità dovrebbe cominciare proprio dal poter discutere.

  Un tirocinio di nuova sinodalità dovrebbe cominciare dall’individuare un obiettivo o un campo di impegno alla portata di un gruppo in cui sono consentite relazioni faccia a faccia, per poi discutere e decidere il da farsi. Nella fase della discussione occorre valutare le proprie prospettive, perché, come osserva Michele Visentin nell’articolo che ho citato nei giorni scorsi, spesso sono troppo limitate od obsolete. Fatto questo c’è però da fare rete con altre esperienze simili, altrimenti si resta reclusi in un’esperienza troppo limitata, che non consente l’ulteriore ampliamento di prospettive. Una religione di questo tipo può essere definita aperta, per distinguerla da quella confinata negli ambiti ristretti del faccia a faccia o in cui discutere è vietato. Una nuova organizzazione di questo tipo potenzia la partecipazione, mantenendo però quell’emotività che si indica come senso della vita.

 Spesso, poi, il nostro ritrovarsi insieme è più che altro finalizzato a una sorta di benessere spirituale prevalentemente personale, secondo un’emotività superficiale che lascia il tempo che trova. Allora si sta insieme ma è a se stessi che principalmente  si tiene, per provare una certa emotività. Ed è come quando si è tristi e si beve un goccino per tirarsi su. Si vive l’incantamento del momento. Ma è come con gli stupefacenti, si va incontro ad assuefazione per cui ci vogliono dosi sempre maggiori di effetto spirituale, altrimenti si lascia. La religiosità delle esperienze miracolanti si basa su questo.

  E se non si riesce a costruire reti per integrare il pluralismo che si è manifestato? Può accadere. Difficilmente, ad esempio, io potrei fare reti con gli appassionati delle messe in latino secondo il rito che c’era prima delle riforme attuate dopo il Concilio Vaticano 2º. Il potere ecclesiastico la prende male. Vorrebbe che tutti accettassero di fare e recitare la religiosità come da copione. Come durante la messa. In realtà, se si crede fino in fondo alla nuova sinodalità, bisognerebbe riuscire a non farne un dramma, provando e riprovando una via di intesa ma anche accettando che per il momento non ci sia, e amen. L’importante è non provare ad annientarsi reciprocamente secondo gli inveterati nostri costumi ecclesiali, risalenti purtroppo alle origini, e continuare a parlarsi, anche questa una via che caratterizzò le nostre comunità sin dalle origini.

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

  

  

mercoledì 26 ottobre 2022

Prospettive del gruppo di AC

                                         
                 Prospettive del gruppo di AC

  La riorganizzazione delle attività del gruppo in due martedì e due sabati al mese, le riunioni del martedì dedicate alle persone più anziane, le quali hanno fatto richiesta di riprendere gli incontri in quel giorno della settimana, richiede di pensare a un progetto specifico per le attività del sabato, da dedicare a chi ancora lavora fuori casa nel resto della settimana, quindi a persone più giovani.
  Va detto che il gruppo andrà incontro alla consunzione se non si riuscirà ad attrarre un numero significativo di aderenti più giovani. Di questo non mi pare che vi sia ancora sufficiente consapevolezza in quelli più anziani.
  Il poter disporre di un collegamento in videoconferenza, strumento del quale abbiamo fatto molta e positiva esperienza nel periodo emergenziale per l'epidemia di Covid 19 ci dà un'opportunità in più. 
  Potremo infatti, non solo partecipare da remoto, ma anche avere tra noi degli esperti, senza costringerli a spostarsi  fisicamente, il che per persone molto impegnate è di solito un problema.
  Penso che si potrebbe pensare di organizzare il lavoro secondo due filoni. 
  Il primo un lavoro su sinodalitá e riforma sinodale della Chiesa, approfondendo di più ciò che abbiamo imparato a conoscere negli incontri tenuti dalla scorsa primavera. Si dovrebbe passare da una semplice informazione su questi temi ad uno studio vero e proprio, facendo riferimento a testi da considerare come linee guida, e sopratutto ad un tirocinio sinodale, cercando di proporre alla parrocchia delle iniziative per cominciare a fare concreta esperienza di sinodalitá.
  L'altro lavoro potrebbe farsi organizzando un vero e proprio gruppo di lettura, secondo un'esperienza che negli ultimi anni si è molto diffusa in Italia: si sceglie un libro, lo si legge a casa, ma anche se ne leggono alcune pagine insieme e poi ci si discute sopra. Negli incontri, una o due persone, scelte tra coloro che hanno proposto quel testo, fanno da relatori e da moderatori della discussione. Questo è un modo di fare esperienza collettiva di sinodalitá. Questa attività potrebbe farsi integralmente in videoconferenza.
  Per questo tipo di attività che ho proposto sarebbe indicato un assistente ecclesiastico che  nel suo corso di studi o nella sua attività pastorale abbia avuto modo di approfondire le relative tematiche appassionandosene, in particolare per la sinodalitá. 
 Un'ultima osservazione: contrariamente a quanto mi pare sperino alcuni aderenti, non sarà possibile, per ragioni che mi sono evidenti, ritornare a ciò che c'era "prima", a come si faceva "prima". L'alternativa sarebbe purtroppo la fine del gruppo. Non ci ha vinto il Covid 19, ci potrebbe vincere il conservatorismo. 
  Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
  

martedì 25 ottobre 2022

Sinodalità intesa come il tener conto delle altre persone

 

Sinodalità intesa  come il tener conto delle altre persone

 

  La sinodalità, come oggi viene proposta, può essere intesa non come una riforma della Chiesa, ma come un modo nuovo per fare Chiesa.

 Una riforma riguarda il governo  di un’entità collettiva. Le regole del governo del nostro apparato ecclesiastico sono certamente obsolete, inutilmente pompose, danno spazio a un ceto di gerarchi in larga parte autoreferenziali, ma, soprattutto, mancano di effettività. Valgono veramente solo tra clero e religiosi, che sono rimasti praticamente i soli, salvo poche eccezioni tra studiosi e cultori della materia, a intenderle bene. L’altra gente vi si è progressivamente affrancata e parte le osserva ancora per convinzione, e parte no, anche qui con convinzione. E’ un dato di fatto evidente e anche sostanzialmente ammesso dal Magistero ecclesiastico, là dove, ad esempio, sostiene che la Chiesa si è come rimpicciolita e che però è fatta di persone con convinzioni più salde, e questo è  un dato che contrasta con le ricerche demoscopiche sul tema. Altre volte, quando si tratta di battere cassa presso le pubbliche istituzioni, si sostiene invece che i cattolici in Italia sono ancora maggioranza, e allora si comprende nel loro numero anche chi ha un’osservanza per così dire selettiva. Ma ci importa veramente di travagliarci per una riforma del governo ecclesiale, che prima o poi svanirà da sé, come accade a tutti i poteri collettivi che si illudono di resistere al flusso dei cambiamenti indotti dalla storia? E’ accaduto tante volte alle nostra Chiese…  Dal punto di vista sociologico non è mai esistita la Chiesa eterna ed uguale sempre a sé stessa descritta dai teologi. Sotto quell’aspetto la vita delle nostre Chiese è stata sempre  caratterizzata da molteplici cicli di morte e rinascita  e anche di lunga coesistenza di socialità religiose morenti ed altre nascenti o in fase di sviluppo, con i relativi miti.

 Ad esempio, un parroco, gerarca di prossimità, impiega molta parte del suo tempo in funzioni che sono assimilabili a quelle di un amministratore di condominio. Nei condomini si tratta di rogne che, appunto, si gettano su un professionista, l’amministratore condominiale, che ogni tanto ne riferisce. Il parroco in genere non riferisce nulla, ma ci importerebbe veramente saperne di più?

  Sulle questioni importanti, in particolare sull’etica di impronta religiosa, i parrocchiani decidono già da sé, e hanno imparato a farlo senza porsi tanti problemi. Ma decidono senza tener conto delle altre persone, e questo è un problema serio.

  Del resto la formazione alla spiritualità corrente è centrata sulla singola persona, su una sorta di suo benessere  di stampo religioso. Consiste in un  complesso di pratiche di pietà, fatte di liturgie, paraliturgie e meditazione personali che mira a sentirsi a posto con la coscienza. Cose conseguibili anche con pratiche simili, ma prive di connotati religiosi. Si sollecita l’emotività spicciola, il che lascia il tempo che trova.

  Tutto mi sembra tarato sulla vita di una signora anziana. Ci possiamo sorprendere se le persone più giovani non ci stanno e quindi se ne rimangono lontane?

   Il problema è quello di fare Chiesa  in modo da tener conto anche delle altre persone, di più persone possibile: una modalità altamente relazionale,  non individualistica. Questo costa fatica, in particolare quella di adattarsi ad altre mentalità. In genere, come osserva Michele Visentin nel contributo “Imparare a decidere insieme”,  in Riccardo Battocchio e Livio Tonello (a cura di), Sinodalità, Edizione Il Messaggero Padova / Facoltà teologica del Triveneto, 2020, ognuno pensa di poter far meglio di tutte le altre persone messe insieme.

 

Alla base c’è un bisogno di sicurezza molto forte, e anche una certa sfiducia nelle capacità degli altri, dei collaboratori, che potrebbe derivare da un’ipervalutazione dell’immagine di sé (per cui «è giusto che voi decidiate e facciate, ma se potessi farlo io, lo farei meglio», oppure «decidete voi, che perché  giusto, ma poi se è necessario…». Molto spesso chi ha una visione monoculare tende a percepire il cambiamento come una minaccia alla propria persona, e come un giudizio negativo che le si dà, anche di ordine morale. Accade così che nelle discussioni si senta sempre criticato, quando invece si sta parlando di tutt’altro. In questi casi è difficile giungere a decisioni serenamente, a causa di questo processo di personalizzazione per cui occorre sempre rassicurare che nessuno ce l’ha con lui o con lei, che non si voleva esprimere un giudizio sulla persona ma sui fatti. Immaginiamo cosa accade quando si richiede maggior qualità del flusso di informazioni: «Sono sempre stato benevolente e aperto nei confronti di tutti,   è ingiusto quello che dite… e poi, sembra che comunicare adesso significhi mettere tutti al corrente di tutto, e siamo sicuro che farete buon uso delle informazioni?». Un’ultima annotazione:: vi sono alcuni individui che tendenzialmente sono più portati ad avere una visione mono-oculare rispetto ad altri: sono i pilastri delle organizzazioni che garantiscono stabilità e continuità ai sistemi. Questa visione è però anche presente in coloro che svolgono ruoli di grande impatto sul piano operativo. Di solito è chi ha il potere di far coincidere il “dire”, o lo scrivere, con la realizzazione di ciò che è scritto o detto.

 

  Senza questa abilità relazionale non si creano i mondi vitali religiosi  che costruiscono il senso della vita  su base religiosa. E’ la virtù dei tessitori sociali.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli.

domenica 23 ottobre 2022

Reti religiose

 

Reti religiose


     Tempo fa scrissi ad un amico confidandogli che mi sarebbe piaciuto collaborare in parrocchia ad un lavoro sulla sinodalità, in particolare per cercare di ripristinare il Consiglio pastorale parrocchiale. Lui mi rispose che si era fatto una bella risata. Certo, mi dissi, aveva ragione: è irrealistico, nella nostra Chiesa così com’è ora, pensare che una persona che si è appassionata alla sinodalità, leggendone anche un po’ e cercando di esserne informato, possa collaborare a un lavoro in parrocchia sulla sinodalità, a meno che non accetti di attenersi strettamente alle direttive puntuali che vengono in merito dalla gerarchia. E non è sicuramente il mio caso. Rispetto la cosiddetta gerarchia nelle funzioni sacre che svolge, ma non voglio esserle sottomesso negli affari sociali, compresi quelli ecclesiastici. Non voglio per vari motivi che non sto a ripercorrere puntualmente. Per la mia professione debbo  essere indipendente anche da essa quale potere sociale, ma in particolare, per ragioni prettamente religiose, ritengo di doverlo essere nei confronti di una autocrazia quale purtroppo è ancora la nostra gerarchia ecclesiastica. Ma poi anche  sono convinto di dover mantenere una certa distanza critica nello stesso interesse della Chiesa della quale sono parte viva: ne dipende la possibilità di poter essere utile nel processo di riforma sinodale  avviato nell’autunno dello scorso anno da papa Francesco e che finora si è risolto più che altro in un lavorio burocratico.

  Nelle parrocchie, in genere, si può collaborare solo nel senso di dare una mano ai preti in ciò che ritengono di loro esclusiva competenza, e quindi in posizione subordinata. Questo è appunto il metodo che sta portando la nostra Chiesa a svanire, come già sostanzialmente è accaduto in Francia. La riforma sinodale vorrebbe rimediarvi ma è duramente osteggiata da clero e religiosi, che, di fatto e al di là delle buone intenzioni dichiarate, e del resto sono stati educati a fare professione formale di obbedienza e oggi è loro ordinata la sinodalità,  non accettano minimamente di fare spazio.

  Negli anni ’70, all’epoca di una vivacità ecclesiale che oggi chi non c’era  fatica a immaginare, alcuni reagirono a quegli ostacoli costituendo comunità di base  all’esterno della nostra parrocchia, sull’esperienza latinoamericana. Era il momento in cui ci si interessava molto ad essa ed anche il papa Paolo 6° ci scrisse sopra nell’esortazione apostolica postsinodale Annunziare il Vangelo (l’impegno di) – Evangelii Nuntiandi del 1975, al paragrafo 58, in cui formulò alcune raccomandazioni su quel tipo di aggregazione, descritta come generata «dal bisogno di vivere ancora più intensamente la vita della Chiesa; oppure dal desiderio e dalla ricerca di una dimensione più umana», ovvero da quello di «riunire per l'ascolto e la meditazione della Parola, per i Sacramenti e il vincolo dell'Agape, gruppi che l'età, la cultura, lo stato civile o la situazione sociale rendono omogenei, coppie, giovani, professionisti, eccetera; persone che la vita trova già riunite nella lotta per la giustizia, per l'aiuto fraterno ai poveri, per la promozione umana»:

 

[…]saranno un luogo di evangelizzazione, a beneficio delle comunità più vaste, specialmente delle Chiese particolari, e saranno una speranza per la Chiesa universale, come abbiamo detto al termine del menzionato Sinodo, nella misura in cui:
- cercano il loro alimento nella Parola di Dio e non si lasciano imprigionare dalla polarizzazione politica o dalle ideologie di moda, pronte sempre a sfruttare il loro immenso potenziale umano;

- evitano la tentazione sempre minacciosa della contestazione sistematica e dello spirito ipercritico, col pretesto di autenticità e di spirito di collaborazione;

- restano fermamente attaccate alla Chiesa particolare, nella quale si inseriscono, e alla Chiesa universale, evitando così il pericolo - purtroppo reale! - di isolarsi in se stesse, di credersi poi l'unica autentica Chiesa di Cristo, e quindi di anatematizzare le altre comunità ecclesiali;


- conservano una sincera comunione con i Pastori che il Signore dà alla sua Chiesa e col Magistero, che lo Spirito del Cristo ha loro affidato;
- non si considerano giammai come l'unico destinatario o l'unico artefice di evangelizzazione - anche l'unico depositario del Vangelo!

-; ma, consapevoli che la Chiesa è molto più vasta e diversificata, accettano che questa Chiesa si incarni anche in modi diversi da quelli, che avvengono in esse;

- crescono ogni giorno in consapevolezza, zelo, impegno, ed irradiazione missionari;

- si mostrano in tutto universalistiche e non mai settarie.

  Alle suddette condizioni, certamente esigenti ma esaltanti, le comunità ecclesiali di base corrisponderanno alla loro fondamentale vocazione: ascoltatrici del Vangelo, che è ad esse annunziato, e destinatarie privilegiate dell'evangelizzazione, diverranno senza indugio annunciatrici del Vangelo.

 

  Negli anni ’90, da noi il parroco dell’epoca lavorò per riportarle all’interno dell’organizzazione parrocchiale, ma, una volta riuscita l’operazione, esse persero forza e si sciolsero. L’ambiente parrocchiale fu loro letale.

 La riforma sinodale di papa Francesco, pensata sull’esempio di quella latinoamericana del quale il Papa fu protagonista, vorrebbe, appunto, fare spazio ad aggregazioni simili anche dentro le parrocchie, senza che trovino più ostacolo nell’architettura istituzionale ecclesiastica.

  Il principale carattere di una comunità di quel genere è l’autonomia  del suo lavoro rispetto a clero e religiosi, pur in quella che viene definita comunione e che non è da intendersi come sottomissione, perché autonomia  e sottomissione  sono incompatibili. Oggi questa autonomia è vietata, in genere (dico così perché la Chiesa italiana non è assolutamente uniforme, ma veramente poliedrica), negli ambienti parrocchiali. Questo rende impossibile la sinodalità come immaginata dal Papa. Comunione è mantenersi in relazione, secondo il principio virtuoso “Non solo da noi, ma non senza di noi”, che deve valere per tutti.

  Costruire la sinodalità, anche a livello parrocchiale, significa edificare reti tra esperienze religione autonome ma in relazione secondo quel principio, secondo il quale nessuno accetta di fare a meno di nessun altro. E’ un principio che può definirsi anche come quello di non esclusione. Pensandolo un po’ più in grande significa anche non accettare di far a meno della gente del quartiere in cui la parrocchia è immersa, cosa che nel gergo religioso potrebbe essere anche definita missionarietà, ma che è meglio pensare come a una offerta inclusiva di amicizia, per non dare l’idea che si cerchino relazioni per indottrinare, che indurrebbe le altre persone a mandarci a quel paese.

  L’antropologia e la psicologia ci avvertono che siamo capaci di un numero molto limitato di relazioni interpersonali profonde. La nostra cerchia più intima è di circa cinque persone, quella del nostro mondo vitale, l’ambiente dal quale ricaviamo il senso della nostra vita è di circa trenta persone.

  Una soluzione per il rafforzamento della religiosità che si è tentata nella nostra parrocchia, da un gruppo fondamentalista che fu a lungo visto con favore e posta a base di un tentativo (fallito) di rigenerazione religiosa parrocchiale, è stata quella di caratterizzare fortemente in senso religioso quella cerchia di mondo vitale, confinandovi tutte  le relazioni interpersonali significative. Rimane poco o nulla per il resto. Questo comporta che questi ambienti sigillati religiosamente sono pensati come impermeabili al mondo esterno, visto come l’origine della dissoluzione della religiosità. E che chi è all’interno guardi solo verso l’interno, con un conseguente effetto di integralismo. Ciò va contro una delle raccomandazioni contenute nella Annunciare il Vangelo:  di non “isolarsi in se stesse, credersi poi l'unica autentica Chiesa di Cristo, e quindi anatematizzare le altre comunità ecclesiali”. Di fatto questo modo di organizzarsi decostruisce la parrocchia, interrompendo gli altri legami sociali. Ma si esercita anche una potente pressione sulle relazioni di famiglia, di solito considerate naturali, perché si formano e crescono anche a prescindere dalle culture sociali, comprese quelle religiose. Si possono produrre  così “rotture multiple delle precedenti relazioni siano esse familiari, amicali, sociali, lavorative, economiche, ecclesiali” [dalle linee guida  dell’ufficio della Conferenza episcopale di Francia per la Pastorale, nuove credenze e derive settarie per riconoscere derive settarie - fonte: Venerdì di Repubblica 21-10-22]. Di fatto nei due cicli di incontri che abbiamo avuto in parrocchia sulla coesione parrocchiale, nella scorsa primavera e nella Quaresima 2016, alcune persone dichiararono di non avere tempo per sviluppare altre forme di socialità al di fuori della loro comunità/piccolo gruppo di impegno religioso.

  Non escludere  significa però capacità di mantenere relazioni. Quest’ultima è indispensabile per costruire quella rete di relazioni  che dovrebbe caratterizzare la sinodalità. Nessuna persona può fare a meno di un ambiente di mondo vitale, perché altrimenti perderebbe il senso della sua esistenza ed anche della sua fede. Ma, al contempo, non deve esservi reclusa, confinata. Bisogna sviluppare la capacità di mantenere tempo e forze per ulteriori relazioni sociali: essa si impara  facendo sinodalità, perché non viene naturale. I primati, infatti, sono per natura  confinati in piccoli gruppi, è lo sviluppo culturale che ha consentito ai primati umani di evadere costruendo relazioni più in grande.

  Così la sinodalità parrocchiale richiede una collaborazione da farsi in piccoli gruppi di lavoro, senza i quali non c’è reale autonomia né reale co-decisione, ma tuttavia di intensità relazionale tale da non precludere la partecipazione ad altri gruppi, o comunque il potervi entrare sistematicamente in relazione. E’ così che si può iniziare a tessere la rete.

  In questo lavoro di tessitori  alcuni saranno più portati, per indole e precedenti esperienze personali. Il tessitore  è altrettanto importante del pastore,  di chi si prende cura delle altre persone nel loro interesse e per il loro bene.  Il genitore può essere considerato il modello del pastore. In religione abbiamo idealizzato  il modello del tessitore nella figura teologica dello Spirito Santo.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli