Problemi di
costruzione sociale - 1
1. I miei circa quaranta interlocutori del nostro gruppo
parrocchiale di Azione Cattolica intuiscono
bene i problemi che abbiamo in
parrocchia nel costruire una società in linea con le idealità della
nostra fede. Se però chiedessi a qualcuno di loro di spiegarli agli altri in modo da poterci ragionare sopra,
probabilmente, così, su due piedi come si suol dire, avrebbe difficoltà a farlo
in modo soddisfacente, e ciascuno finirebbe col parlare di ciò che gli sta più a
cuore, nel senso che pensa gli sarebbe piacevole fare o che lo fa soffrire,
in questo modo facendo luce solo su un aspetto particolare della realtà sociale
in cui è immerso. Per un altro, in diversa situazione personale, potrebbe
essere diverso. A questo punto un animatore, volenterosamente impegnato a far
convergere il gruppo verso un certo obiettivo che corrisponda agli scopi che si
è dato, per i quali è stato costituito, e che in parrocchia hanno sempre in
qualche modo a che fare con la fede, potrebbe ricordare la dottrina sociale con i suoi principi e allora, sondando poi di nuovo il gruppo, scoprirebbe che, sì,
le si è dato un assenso di massima aderendo al gruppo, ma che non è quello il
vero motivo per cui si è aderito e, soprattutto, che ognuno ha il suo. E che,
inoltre, questo quella dottrina non lo mette in conto, per cui dà indicazioni su tante cose, in genere sui grandi obiettivi, ma non sull’essenziale per un'ideologia che voglia essere sociale, vale a dire su come realizzare una società
adeguata ai suoi principi. Innanzi tutto perché della società ha un’immagine
poco realistica. E poi perché teme la realtà
e preferisce immaginarla invece che osservarla e studiarla. Questo è il problema dei
problemi della costruzione sociale
in una comunità di fede, compresa quella che viene considerata la sua prima cellula, vale a dire la famiglia. Quest’ultimo
è un tema assai spinoso e non mi ci avventuro, perché pur avendone, come marito e
padre da lunga data, una certa conoscenza pratica, a differenza, in genere, del
clero che vi dà direttive sopra, non mi sento ancora veramente la stoffa del
martire: in religione infatti le discussioni franche sulla famiglia vanno in
genere a finire male, per la quasi totale incomprensione tra la maggior parte del
clero (celibe) e la maggior parte dei laici sposati.
Quando mia madre, negli anni ’70, si iscrisse al corso di laurea in Scienze dell’educazione presso la vicina università salesiana, che all’epoca
si chiamava Ateneo salesiano e ora Pontificia università salesiana, ebbe
come libro di testo in dinamica di gruppo,
il libro di Gennaro Luce, Dinamica di
gruppo, LMS, 1977, che all’epoca era appena uscito e che ora non è più in
commercio. Da molti anni l’ho tra le
mani, avendolo preso in prestito da mia madre. Gennaro Luce, laureato in
Scienze umane [scienze della condizione umana comprendenti sociologia,
psicologia, pedagogia e altro] in Guatemala, si era specializzato in Scienze dell’educazione
presso l’università salesiana e poi aveva fatto dieci anni di esperienza sul
campo in associazioni giovanili salesiane in Italia e in America. Nel libro
mostra di avere bene compreso l’importanza di una visione realistica dei problemi, e lo stesso deve dirsi dei
professori salesiani di mia madre, ma, ad esempio, non del parroco di mia madre
all’epoca. Mia madre, farmacista, si era iscritta a Scienze dell’educazione non
per un suo desiderio personale di allargare la sua cultura personale, ma per
perfezionarsi come catechista: era infatti nel gruppo delle mamme catechiste, le mamme che, nel
clima effervescente degli anni ’70, il giovane viceparroco era riuscito a
coinvolgere nella catechesi per le Prime Comunioni, e anche per la Cresima che
all’epoca si faceva pochi giorni dopo la Prima Comunione. Naturalmente, quando
mia madre cercò di mettere in pratica
nel suo gruppo di catechismo ciò che aveva imparato dai salesiani, il parroco
su due piedi la esonerò dall’incarico. E le altre catechiste furono tutto
sommato d’accordo, non le diedero alcuna solidarietà. La nuova catechesi di mia
madre le aveva sorprese, le faceva
sentire inadeguate e non avevano alcuna voglia di imparare. Questo fu per mia
madre uno dei dolori più brucianti della sua vita, anche se, disciplinatamente,
accettò senza protestare o recriminare la decisione del parroco e
continuò il suo apostolato tra gli adulti, con un certo successo, tanto
che fino a quando ha potuto, vale a dire fino all’autunno del 2017 seguiva in
tutta Italia circa seicento persone appartenenti a vari gruppi che aveva
contribuito a fondare. A Pasqua e a Natale scriveva loro una lettera circolare,
alla cui stampa e spedizione davo anch’io una mano. Per vent’anni, dopo la
morte di mio padre, visse come collaboratrice laica in un nuovo ordine
religioso dedicato al culto dello Spirito Santo, con la sede principale a
Palestrina. Lì faceva vari lavori, e, in particolare, curava le pubblicazioni
per l’estero. Io sono l’unica persona al mondo, ad eccezione forse dei suoi
confessori, con cui mia madre si è confidata di quel grande dolore di quando le
fu tolto l’incarico di catechista. Perché ne parlo ora? Per mettere in luce
quanta sofferenza si infligge talvolta in religione per la pretesa di non fare
i conti con la realtà. Per la parrocchia, escludere una come mia madre dal
catechismo fu certamente un danno, perché i salesiani erano e sono ottimi
educatori, in particolare dei giovani, e
inoltre all’epoca erano tra i primi a progettare catechesi in linea con
la riforma che dal 1970 si era cominciata ad attuare per allineare la
formazione religiosa di base ai nuovi principi deliberati nel corso del
Concilio Vaticano 2°.Del resto ai ragazzini di allora piaceva molto il modo in
cui mia madre insegnava, con un ampio impiego di audiovisivi, con più estesi
riferimenti biblici resi accessibili a menti infantili e altro. Certo, le
classi di catechismo di mia madre non era le solite di allora, con i ragazzini
muti in ascolto dell’insegnante, come a scuola, e costretti a mandare a memoria
il vecchio catechismo a domande e risposte, non
comprendendo veramente né le une né le altre. Complessivamente si poteva
avere un’impressione di confusione e di indisciplina, che tuttavia, per ciò che
ricordo dei tempi di allora, non erano veramente tali, un po’ come realmente si
osserva ora, ma erano più che altro manifestazioni di partecipazione emotiva a
ciò di cui si stava trattando. Infatti la fede, quando riesce ad elevarsi sopra
la dottrina, che ne costituisce solo una sorta di rampa di lancio, riscalda il cuore.
2. Per dottrina in religione si intendono gli insegnamenti sulla
nostra fede diffusi con l’autorità del
Magistero, vale a dire, tra i cattolici, con quella del Papa e dei vescovi. Questi
ultimi di solito si limitano a dare disposizioni attuative di quelle pontificie,
ma non sempre e non dovunque. Ad esempio, in America Latina dagli anni Sessanta
hanno inaugurato un nuovo pensiero sociale,
un nuovo modo di pensare la Chiesa, che poi è stato in parte recepito dalla
dottrina. Uno degli esempi di questa evoluzione è il magistero di papa
Francesco. Per legge canonica, della nostra Chiesa, il magistero dei vescovi deve comunque essere in linea con quello pontificio
e, quindi, un’esperienza locale, sebbene estesa a livello continentale, come
quello latino-americana ha potuto diventare veramente patrimonio ecclesiale per
tutti solo quando è stata assentita dai Papi e nel limiti in cui lo è stata.
Questi limiti sono diventati molto stringenti nel regno di san Karol Wojtyla -
Giovanni Paolo 2° (1978-2005), dopo esserlo stato meno nel regno di san
Giovanni Battista Montini - Paolo 6° (1963-1978). Quest’ultimo dell’esperienza
latino-americana aveva ampiamente trattato in un documento ancora molto importante
che l’esortazione apostolica Annunziare
il Vangelo [L’impegno di] - Evangelii nuntiandi, del dicembre
1975, che fu determinante nella decisione di mia madre di iscriversi a Scienze
dell’educazione. Lo potete leggere sul Web all’indirizzo:
http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/apost_exhortations/documents/hf_p-vi_exh_19751208_evangelii-nuntiandi.html
Vi leggiamo:
« NEL CUORE DELLE MASSE
57. Come Cristo durante il tempo
della sua predicazione, come i Dodici al mattino della Pentecoste, anche la
Chiesa vede davanti a sé una immensa folla umana che ha bisogno del Vangelo e
vi ha diritto, perché Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino
alla conoscenza della verità»
Conscia del suo dovere di predicare
la salvezza a tutti, sapendo che il messaggio evangelico non è riservato a un
piccolo gruppo di iniziati, di privilegiati o di eletti, ma destinato a tutti,
la Chiesa fa propria l'angoscia di Cristo di fronte alle folle sbandate e
sfinite «come pecore senza pastore» e ripete spesso la sua parola: «Sento
compassione di questa folla». Ma è anche cosciente che, per l'efficacia della
predicazione evangelica, nel cuore delle masse, essa deve indirizzare il suo
messaggio a comunità di fedeli, la cui azione può e deve giungere agli altri.
LE COMUNITÀ ECCLESIALI DI BASE
58. Il recente Sinodo si è molto
occupato di queste piccole comunità o «comunità di base», perché nella Chiesa
d'oggi sono spesso menzionate. Che cosa sono e per quale motivo queste
sarebbero destinatarie speciali di evangelizzazione e, nello stesso tempo,
evangelizzatrici?
Fiorendo un po' dappertutto nella
Chiesa, secondo le differenti testimonianze sentite al Sinodo, esse
differiscono molto fra di loro, in seno alla stessa regione e, più ancora, da
una regione all'altra.
In alcune regioni sorgono e si
sviluppano, salvo eccezioni, all'interno della Chiesa, solidali con la sua
vita, nutrite del suo insegnamento, unite ai suoi pastori. In questo caso,
nascono dal bisogno di vivere ancora più intensamente la vita della Chiesa;
oppure dal desiderio e dalla ricerca di una dimensione più umana, che comunità
ecclesiali più vaste possono difficilmente offrire, soprattutto nelle metropoli
urbane contemporanee che favoriscono la vita di massa e insieme l'anonimato.
Esse possono soltanto prolungare, a modo loro, a livello spirituale e religioso
- culto, approfondimento della fede, carità fraterna, preghiera, comunione con
i Pastori - la piccola comunità sociologica, villaggio o simili.
Oppure esse vogliono riunire per
l'ascolto e la meditazione della Parola, per i Sacramenti e il vincolo
dell'Agape, gruppi che l'età, la cultura, lo stato civile o la situazione
sociale rendono omogenei, coppie, giovani, professionisti, eccetera; persone
che la vita trova già riunite nella lotta per la giustizia, per l'aiuto
fraterno ai poveri, per la promozione umana. Oppure, infine, esse radunano i
cristiani là dove la penuria dei sacerdoti non favorisce la vita normale di una
comunità parrocchiale. Tutto questo è supposto all'interno delle comunità
costituite della Chiesa, soprattutto delle Chiese particolari e delle
parrocchie.
In altre regioni, al contrario,
comunità di base si radunano in uno spirito di critica acerba nei confronti
della Chiesa, che esse stimmatizzano volentieri come «istituzionale» e alla
quale si oppongono come comunità carismatiche, libere da strutture, ispirate soltanto
al Vangelo.
Esse hanno dunque come
caratteristica un evidente atteggiamento di biasimo e di rifiuto nei riguardi
delle espressioni della Chiesa: la sua gerarchia, i suoi segni. Contestano
radicalmente questa Chiesa. In tale linea, la loro ispirazione diviene molto
presto ideologica, ed è raro che non diventino quindi preda di una opzione
politica, di una corrente, quindi di un sistema, anzi di un partito, con tutto
il rischio, che ciò comporta, di esserne strumentalizzate.
La differenza è già notevole: le
comunità che per il loro spirito di contestazione si tagliano fuori dalla
Chiesa, di cui d'altronde danneggiano l'unità, possono sì intitolarsi «comunità
di base», ma è questa una designazione strettamente sociologica. Esse non
potrebbero chiamarsi, senza abuso di linguaggio, comunità ecclesiali di base,
anche se, rimanendo ostili alla Gerarchia, hanno la pretesa di perseverare
nell'unità della Chiesa. Questa qualifica appartiene alle altre, a quelle che
si radunano nella Chiesa per far crescere la Chiesa.
Queste ultime comunità saranno un
luogo di evangelizzazione, a beneficio delle comunità più vaste, specialmente
delle Chiese particolari, e saranno una speranza per la Chiesa universale, come
abbiamo detto al termine del menzionato Sinodo, nella misura in cui:
- cercano il loro alimento nella Parola di Dio e non si lasciano
imprigionare dalla polarizzazione politica o dalle ideologie di moda, pronte
sempre a sfruttare il loro immenso potenziale umano;
- evitano la tentazione sempre minacciosa della contestazione
sistematica e dello spirito ipercritico, col pretesto di autenticità e di
spirito di collaborazione;
- restano fermamente attaccate alla Chiesa particolare, nella quale si
inseriscono, e alla Chiesa universale, evitando così il pericolo - purtroppo
reale! - di isolarsi in se stesse, di credersi poi l'unica autentica Chiesa di
Cristo, e quindi di anatematizzare le altre comunità ecclesiali;
- conservano una sincera comunione con i Pastori che il Signore dà
alla sua Chiesa e col Magistero, che lo Spirito del Cristo ha loro
affidato;
- non si considerano giammai come l'unico destinatario o l'unico artefice di
evangelizzazione - anche l'unico depositario del Vangelo! -; ma, consapevoli
che la Chiesa è molto più vasta e diversificata, accettano che questa Chiesa si
incarni anche in modi diversi da quelli, che avvengono in esse;
- crescono ogni giorno in consapevolezza, zelo, impegno, ed
irradiazione missionari;
- si mostrano in tutto universalistiche e non mai settarie.
Alle suddette condizioni,
certamente esigenti ma esaltanti, le comunità ecclesiali di base
corrisponderanno alla loro fondamentale vocazione: ascoltatrici del Vangelo,
che è ad esse annunziato, e destinatarie privilegiate dell'evangelizzazione,
diverranno senza indugio annunciatrici del Vangelo.»
Le Comunità di base erano il cuore delle nuove esperienze
ecclesiali latino-americane. Nel brano che ho citato si coglie l’eco delle
controversie che suscitarono. Avevano, nell’ambiente di origine, l’America
Latina travagliata dai neo-fascismi in qualche modo appoggiati dalla politica
statunitense come male minore nel grande
gioco di guerra che a livello globale andava conducendo contro i sovietici,
un marcato aspetto politico, anelando anche
ad una liberazione sociale da condizioni
civili ingiuste e questo anche come impegno religioso. Avevano quindi anche
molti e potenti nemici. E il Papato, all’epoca, non intendeva essere coinvolto
in quelle dinamiche politiche, temendo che potessero sfociare nella lotta
armata o che potessero essere fascinate, e in qualche modo contaminate, dall’ideologia
marxista diffusa dai sovietici. E, tuttavia, il papa Montini, a differenza poi
del papa Wojtyla, riconosceva i buoni frutti che potevano ricavarsi da quel
nuovo modo di vivere la Chiesa, arrivando a definirli esaltanti. Nel medesimo
brano si coglie un aspetto molto importante da tenere in considerazione costruendo società, vale a dire l’aspetto di
massa delle società moderne. Nel
documento che ho citato se ne parla come di un’immensa
folla, e, si aggiunge, di una folla in condizione di sbandamento e di sfinimento, come pecore senza pastore. il messaggio
evangelico non è riservato a un piccolo gruppo di iniziati, di privilegiati o
di eletti, si legge ancora nell’esortazione apostolica, per cui, se vuole essere efficace, ed essere fedele alla sua missione, la predicazione evangelica deve arrivare al cuore
delle masse, e per riuscirci deve indirizzare il suo messaggio a comunità di
fedeli, la cui azione può e deve giungere agli altri. Ecco quindi, notatelo
bene, una dottrina sociale che non si limita a fissare un obiettivo, arrivare al cuore delle masse, ma che,
sulla base dell’esperienza che all’epoca era essenzialmente quella
latino-americana della comunità di base, indica un metodo da sperimentare: quello di indirizzare il messaggio a comunità più
coese che poi se ne facciano da tramite
verso altri. Queste comunità, tuttavia, non devono rimanere piccoli gruppi di
iniziati, di eletti, e come tali privilegiati. Un bel problema! Perché l’apertura influisce fatalmente sulla coesione. Questo si è imparato dall’esperienza
di comunità di quel tipo, che sono state proposte, nella riforma della
catechesi del 1970, progettata con il Documento
di base “Il rinnovamento della catechesi”, che potete leggere a questo
indirizzo WEB:
http://www.educat.it/documenti/download/Il%20Rinnovamento%20della%20Catechesi_sito.pdf
come l’ambiente ideale per
sostenere la formazione alla fede, sia dei più giovani che negli adulti. Non
più quindi solo “classi di catechismo”, ma anche comunità educanti in cui vivere, e innanzi
tutto mettere in pratica e sperimentare, i principi religiosi riguardanti ciò
che si intende per carità - agàpe. E
c’è un altro problema al quale gli autori della dottrina sociale ancora non
danno adeguato risalto: comunità coese di quel tipo richiedono una
frequentazione assidua e prolungata, che ai tempi nostri non si riesce in
genere ad ottenere, soprattutto nelle città medie e grandi, dove la gente
finito il lavoro, e quando non sia troppo sfinita per dedicarsi ad altro, va in
giro in cerca di distrazioni e le trova, onorevoli o meno onorevoli.
Pensare a comunità educanti di quel tipo è facile, ma costruirle molto meno. La
legge empirica delle relazioni sociali umane è questa: più si avvicina l’altra
persona, più questo contatto è impegnativo e prende tempo. Lo si constata facilmente nell’amore,
quando passata fatalmente la fase dell’innamoramento, si approfondisce l’amicizia
tra chi si ama. Paradossalmente, quindi, è più semplice, da un punto di vista
umano, gestire l’organizzazione di un grande evento di massa, ad esempio
cinquantamila persone a piazza San Pietro in una mattina col Papa, che tenere
insieme un piccolo gruppo parrocchiale molto coeso di cinquanta persone che
vogliano veramente intendersi fra loro in modo da sostenersi nella fede e in
altro. Le cinquantamila persona hanno un rapporto superficiale ed episodico tra
loro e con il Papa che sono venuti a incontrare, ma in realtà solo a vedere da lontano e ad
ascoltare. Basta dir loro dove devono sedersi, mettere loro in mano il
libretto della liturgia, dotarle di cappelletti e bandiere colorate, prevedere
sufficienti bagni chimici e un servizio di soccorso sanitario per chi stesse
male, procurare un numero di ostie sufficienti per far fare la Comunione a tutti,
un’orchestrina, un coro, un certo numero di chierichetti-steward per dirigere
il flusso di gente, e il gioco è fatto. Questa esperienza sociale, tipica del neo-papismo corrente dagli anni ’80, non è tuttavia quella
di una comunità educante, ma semmai
di una comunità educata, che accetta
di buon grado di fare ciò che le si dice. Solletica l’emotività personale, come
sempre accade in certi eventi di massa in cui si converge per assistere ad uno
spettacolo, ma nulla di più. L’umanità delle persone rimane un po’ sottotraccia
e la folla sembra fatta di persone molto simili: ma è solo perché non si riesce a distinguerle
bene e ciascuno non ha modo di manifestare la sua personalità. perché fa come
fanno tutti. Del resto la nostra mente ha un limite cognitivo stringente, lo
ricordo spesso: non può avere relazioni personali profonde con oltre centocinquanta
altre persone. E’ il numero di Dunbar,
dall’antropologo inglese che lo ha teorizzato, Robin Dunbar, scienziato
settantenne di Liverpool, vissuto a lungo in Africa orientale, professore
universitario ad Oxford. Quando ci troviamo di fronte a folle di più di
centocinquanta persone circa perdiamo la capacità di individuarle tutte
singolarmente, e allora ci avviciniamo solo ad alcune di esse, le altre sfumano
sullo sfondo. Nessun gruppo di più di centocinquanta persone può essere
veramente coeso e non ci si può fare nulla, perché la nostra mente dipende da
un hardware, da un supporto biologico
che risale a circa duecentomila anni fa ed è più o meno quello di allora, non a
subito trasformazioni spettacolari simili a quelle che dalle prime macchine di calcolo elettronico hanno prodotto l’intelligenza artificiale, che macchina
non è più. Un problema questo che si fa sentire già a livello parrocchiale.
Vorremo fare della parrocchia una realtà di massa, per correggere la
tendenza del passato di viverla in comunità
coese ma chiuse, vale a dire come esperienza sociale che coinvolga
le circa quindicimila persone del quartiere che pensano religiosamente secondo
la nostra fede. Ho scritto tempo fa:
«Dai dati dell’ultimo
censimento, le Valli sono abitate complessivamente da circa ventimila persone,
buona parte delle quali rientrano nella nostra comunità parrocchiale. Di
queste, secondo la media nazionale, un buon 80% dovrebbe poter essere
annoverato tra i fedeli, coloro che esprimono la loro religiosità
secondo la nostra fede. Tenendo conto che, in realtà, anche la gente che abita
nei primi edifici oltre piazza Conca d’Oro, prossimi alla piazza, gravita
intorno alla nostra parrocchia per ragioni di comodità, anche se
territorialmente fa parte della comunità parrocchiale degli Angeli Custodi,
possiamo stimare in circa quindicimila persone la nostra comunità parrocchiale,
i fedeli della parrocchia. La nostra quindi è, o almeno dovrebbe
essere, una esperienza parrocchiale di massa».
Di solito abbiamo l’esperienza,
a parte che negli orari di certe Messe, di locali parrocchiali in cui il vuoto
prevale sul pieno. Se però, per una
volta, tutte le persone in qualche modo religiose secondo
la nostra fede decidessero di presentarsi in parrocchia, come quando si va a
piazza San Pietro dal Papa, allora i locali parrocchiali traboccherebbero
presto e la folla si estenderebbe per tutte le strade circostanti invadendo
probabilmente quasi tutta via Val Padana. E, per chi la vedesse da un qualche
pulpito, rimarrebbe folla senza possibilità di approfondire e relazione
personali. A quel punto le si potrebbe solo somministrare una sorta di spettacolo, come in effetti anche le
liturgie sono quando non si riesce a suscitare una sufficiente partecipazione.
E passi per una volta o due, ma come si potrebbe gestire la cosa ogni
giorno, se si ripetesse con quella frequenza. E, tuttavia, è nientedimeno
questo che la dottrina sociale ci propone come missione: entrare nel cuore delle masse. Ma non lo fa arbitrariamente: questo
è, in effetti, un comando del Maestro:
«[19] Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni,
battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo,
[20] insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono
con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.» [trad, it. CEI 2008]
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli