La pace “giusta”
Potrebbe essere interessante programmare in parrocchia un laboratorio sinodale per dialogare sulla pace, se solo lo si potesse fare prescindendo dal teologhese, vale a dire il confuso chiacchiericcio che spesso si fa negli ambienti ecclesiali storpiando il gergo teologico.
La teologia, cioè la riflessione colta sulla fede comunitaria, è una cosa seria, ma solo se, appunto, è colta, vale a dire sufficientemente informata e consapevole del preciso senso delle espressioni che usa e dell’evoluzione storica dei concetti. Altrimenti è meglio metterla da parte. In materia di pace, poi, non si è dimostrata particolarmente utile, tutt’altro purtroppo. Quando ci si affanna su assunti indimostrabili, come tipicamente sono quelli che riguardano il soprannaturale, si finisce sempre per menare le mani: è andata sempre così e non c’è ragione di pensare che le cose cambino.
Il problema di far pace, vale a dire di costruirla, riguarda tutte le persone da vicino, fin nei loro ambienti sociali di prossimità e fin da quando sono piccole. Nei giochi di gruppo infantili possiamo osservare messe in scena tutte le dinamiche di conflittualità e di pacificazione che caratterizzano le società delle persone adulte.
Tuttavia le persone adulte hanno poca fiducia nella capacità di bimbe e bimbi di autoorganizzarsi pacificamente e hanno torto, perché ci si riesce anche a quell’età, pur tra ricorrenti drammi di conflittualità, che tuttavia durano poco. Da un giorno all’altro si può ricominciare da capo, cosa che non riesce più tra le persone adulte. D’altra parte, così, le forme di organizzazione che si affermano rimangono precarie, ma in definitiva non occorre che durino di più, perché da piccoli si cambia profondamente e velocemente e ogni assetto sociale dura solo finché serve. Questa è una lezione che da persone adulte si tende a dimenticare e allora si immaginano società eterne, che non possono esistere se non nella fantasia.
Ora di solito si dice che il nostro Dio vuole la pace. Ma per gran parte della storia dei cristianesimi non la si è pensata così. Si pensava che la pace non fosse alla portata degli umani e che dovesse discendere dal Cielo, ma alla fine dei tempi. Il libro dell’Apocalisse, nella Bibbia cristiana, si conclude con una visione simile.
In alcune parti della Bibbia si plaude allo sterminio dei nemici. In altre la guerra è presentata come una punizione divina. Nei Vangeli se ne parla, di sfuggita, come di un flagello in qualche modo collegato alla cattiveria degli esseri umani e, in particolare, al rifiuto del vangelo e del Cristo. In questi contesti scritturistici c’è un’idea di giustizia come obbedienza ai comandamenti divini. La disubbidienza turba la pace tra Cielo e terra, il patto santo, e di conseguenza quella tra gli esseri umani. In altre parti se ne propone un’idea più legata all’esperienza comune, dove per giustizia si intende una certa proporzionalità negli scambi. In altre ancora la persona giusta è quella che si lascia guidare dalla pietà.
Le Scritture sono molto utili per discutere di pacificazione, perché propongono una serie di situazioni conflittuali, con le relative conseguenze, sulle quali si può provare ad argomentare come far pace. Ma non contengono soluzioni definitive, altrimenti le società animate dalla religiosità biblica sarebbero state pacifiche, mentre sono state storicamente molto bellicose.
A tutti piace pensare di poter vivere in situazioni di pace, che generano sicurezza e, rendendo possibile dinamiche collaborative, maggiore ricchezza. Ma si vorrebbe la pace alle proprie condizioni e questa è quella che, da chi ne parla, è definita pace giusta. Ma naturalmente non lo è se non nella misura in cui un’idea di giustizia sia realmente condivisa tra i gruppi potenzialmente o realmente in conflitto. Così, per perpetuare all’infinito i conflitti non mi pare che vi sia via migliore che quella di mirare a una pace giusta.
Una situazione di pace, caratterizzata dall’impiego più contenuto della violenza, è in genere più vantaggiosa di una situazione conflittuale, con produzione di violenza anarchica, in cui ogni persona pensa solo o prevalentemente al proprio interesse, o istituzionalizzata, in cui ci si organizza per darsi addosso gli uni gli altri. Questo perché le dinamiche sociali collaborative, favorite in condizione di pace sociale, producono ricchezza. Anche la predazione a spese degli altri arricchisce, certo, ma è un arricchimento di breve momento se non produce poi anche nuove dinamiche collaborative mediante le quali si crei nuova ricchezza.
Tuttavia non ogni situazione di pace è equivalente. Vi sono varie qualità della pace sociale, che non dipendono da una qualche giustizia, ma dall’intensità ed estensione della violenza necessaria per mantenerle, dopo che si sono affermate in società. Maggiore è l’intensità ed estensione delle dinamiche collaborative, minore è la violenza necessaria per mantenere una situazione di pace e, di conseguenza, più alta è la qualità della pace organizzata.
La pace diventa precaria quando una o più componenti sociali trovano conveniente aprire un conflitto per superare un certo ordinamento. Questo può accadere sempre, anche in situazioni di pace di alta qualità, ma la situazione in cui più frequentemente si produce è quando strati sempre più vasti di popolazione vengono emarginati o esclusi dalle dinamiche collaborative, che si realizzano come scambio, partecipazione e distribuzione di utilità socialmente prodotte, e allora, contandosi, sentendosi forti, e facendo il bilancio delle sofferenze presenti rispetto a quelle di un conflitto, in rapporto anche con i benefici conseguibili da un rovesciamento del sistema di potere, si decide che vale la pena di rischiare.
Una delle vie di pacificazione è dunque quella di rendere nuovamente possibili, di mantenere ed estendere dinamiche sociali collaborative, includendovi sempre più gente. Trattandosi di fatti sociali, occorre anche indurre una corrispondente cultura, che le renda socialmente plausibili. In questo anche le religioni possono, in astratto, essere utili, anche se storicamente sono state impiegate maggiormente per sacralizzare situazioni conflittuali. Ora può dispiacere, ma è andata così.
C’è chi pensa che la pace si costruisca meglio rovesciando in un colpo solo ordinamenti considerati ingiusti in una certa prospettiva, ma in realtà l’esperienza storica dimostra, al contrario, che è più efficace lavorare di fino sull’esistente, provando a cambiarlo poco a poco. È la via che è stata definita come riformismo.
Tutte le società umane cambiano nel tempo perché si succedono le generazioni e nessuna è mai uguale alla precedente. Ma cambiano anche perché le popolazioni e le relative culture si ibridano, avvicinandosi. Questo è il clima sociale favorevole al riformismo, come anche alle dinamiche collaborative. Di solito, invece, le società resistono ai cambiamenti rivoluzionari, perché il loro esito è meno prevedibile e, così, generano insicurezza. Una volta che si comincia a rovesciare, non si sa mai bene come finirà. È anche il caso delle guerre. Chi le ordina assicura che saranno sicuramente vinte in breve, ma questo raramente accade. Questo fu il contesto in cui gli italiani furono trascinati nelle due guerre mondiali (che iniziarono e rimasero però sostanzialmente europee, mentre la guerra con il Giappone, che si inserì nella seconda, fu sostanzialmente un processo indipendente) da chi le ordinò.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli