Definiamo "pace" una situazione sociale, diffusa in un certo tempo e
in una determinata collettività, per cui la violenza nelle relazioni sociali è
in misura maggiore o minore considerata sfavorevolmente, ammessa solo entro
limiti normativi ben definiti e, di fatto, non praticata su larga scala nelle
consuetudini locali e anche, in qualche maniera, socialmente sanzionata.
La violenza nelle relazioni sociali umane è però endemica e ineliminabile. La
pace, così, è sempre relativa e precaria e, in misura maggiore o
minore, ogni società convive e pratica la violenza sociale. La violenza è insita
nella biologia che ci governa: fa parte della natura umana. In qualche misura,
in un qualche tempo e in una qualche occasione della vita, si è violenti.
Questo emerge dall'osservazione dei gruppi umani e dalla memoria della storia
delle società umane. Ma non va diversamente osservando le altre forme animali,
in particolare quelle più evolute. La natura ci appare un sistema biologico in
cui tutti lottano contro tutti, salvo forme di cooperazione opportunistica, e,
anzi, tutti mangiano tutti, e se non andasse così la biologia sul Pianeta si
estinguerebbe.
La violenza, nelle società umane, è una
modalità di relazione sociale. Si usa la violenza per predare, prevaricare,
sottomettere, escludere e la si usa finché conviene, in particolare finché non
ci si trova davanti ad una violenza pari o maggiore e allora sia più
conveniente cooperare. Nelle società umane capaci di cultura, le consuetudini
sociali, le norme sociali e le istituzioni pubbliche esercitano una pressione
per contenere la violenza anarchica nella popolazione, in modo che siano
possibili forme di cooperazione a vantaggio della collettività. Se ne dà una
giustificazione mitologica.
In Lo spirito delle leggi, Montesquieu,
libro 11°, capitolo 4°, scrisse: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne,
egli arriva fin dove non trova limiti». Le istituzioni sociali creano questi
limiti, sia nelle popolazioni sia tra gli stati.
La pace sociale non è mai assoluta. La
violenza viene sempre praticata, in particolare perché serve per contenere
quella anarchica. La violenza anarchica infatti distrugge l’organizzazione
sociale, quindi le possibilità di relazioni di cooperazione ed è un danno per
la collettività. Le persone, in una condizione di violenza anarchica dilagante, finiscono per non aver più fiducia le une
nelle altre.
Nell’evoluzione sociale si osservano fasi di
violenza organizzata per certe finalità. Le guerre tra gli stati sono
tipicamente forme di violenza di questo tipo. La differenza rispetto alle
violenze endemiche in una popolazione, e che da essa scaturiscono e assumono
caratteristiche anarchiche, è che si tratta di violenza ordinata e organizzata
da un centro di potere politico,
vale a dire da una istituzione che esercita di fatto il governo di una società.
Si tratta di una violenza istituzionalizzata e strategica.
Forme di violenza di questo tipo possono
essere promosse da altri gruppi sociali.
Nello scatenare violenza coerente se
ne dà sempre una legittimazione mitologica, vale a dire che prescinde dalla
concreta situazione sociale che determina alla violenza e che sempre è quella in cui una parte sociale ritiene di
potervi trovare una convenienza e allora la scatena, ordinandola ai suoi
sudditi.
Le relazioni sociali di collaborazione,
sempre possibili tra persone, gruppi, istituzioni sociali, stati in una
situazione relativa di pace sociale, sono quelle di scambio, partecipazione,
distribuzione. Le prime consistono nello scambio di valori equivalenti,
come tipicamente appare nel mercato, le seconde nell’inclusione in una
organizzazione sociale di cooperazione, le ultime nella distribuzione di
utilità prodotte dalla cooperazione partecipativa. Le relazione collaborative
di tipo partecipativo e distributivo sono basate sull’inclusione in uno stato sociale di cittadinanza. Le
relazioni di collaborazione sono misurate su un’idea di giustizia, di tipo commutativo,
partecipativo o distributivo a seconda dei casi. Vengono rafforzate dal
diritto e dai miti di popolo e di
cittadinanza.
Nelle società umane le relazioni sociali di
collaborazione fanno aumentare la ricchezza sociale. Tuttavia in certi contesti
sociali lo sviluppo di relazioni sociali più produttive viene impedito dalla
stasi sociale, per il fatto che il sistema politico di riferimento non ha
procedure per sviluppare il contesto sociale assecondando l’evoluzione della
cultura e vi resiste. A questo punto, si può creare una situazione rivoluzionaria,
in cui un centro di potere politico incipiente o in fase espansiva valuti
conveniente il ricorso alla violenza per vincere quelle resistenze.
Le procedure democratiche, impedendo la stasi
permanente, posso creare le conduzione per un’evoluzione non distruttiva.
Infatti la stasi si produce ad opera di un potere che si afferma come sovrano,
vale a dire senza limiti, o addirittura sacralizzato, cioè sovrano per
volontà soprannaturale. La democrazia è,
così, sempre secolarizzante e
quindi i poteri sacralizzati, come tipicamente è quello della gerarchia ecclesiastica
cattolica, le rifiutano legittimazione.
I metodi per indurre il ritorno ad una
situazione di pace sociale sono molto diversi a seconda che si tratti di
fronteggiare una violenza dilagante di tipo anarchico, quella che emerge
endemicamente nelle popolazioni, o una violenza di tipo coerente,
istituzionalizzato o strategico. Infatti, nel secondo caso, è necessario o
delegittimare il centro politico che l’ha ordinata, rifiutando obbedienza all’ordine di guerra, e
questa è un’azione politica che può sicuramente rendere non più conveniente la violenza che era stata
organizzata, oppure opporgli una violenza organizzata pari o maggiore. Nel
primo caso la lotta si può fare con metodi nonviolenti, nel secondo caso è
fatale il rischio di una escalation, quindi un progressivo aumento di intensità,
gravità e portata del fenomeno, fino a che uno o entrambi i belligeranti,
estenuati, trovino conveniente ordinare la cessazione del conflitto. Nel primo
caso il contrasto è mosso da una popolazione contro il suo governo, come
accadde a cavallo degli anni ’60 e ’70 negli
Stati Uniti d’America con i movimenti popolari contro la guerra americana in Vietnam.
E’ facile constatare che gli insegnamenti
evangelici riguardarono solo la violenza che ho chiamato anarchica e che è endemica nella popolazione,
fondamentalmente basata su moventi di avidità, reazione o vendetta. Non ci si
occupò della violenza che ho definito istituzionalizzata e strategica. Non che
i pochi anni del ministero pubblico del Maestro si siano svolti in un contesto pacifico,
tutt’altro; solo che non si presentò l’occasione di una guerra in corso proprio
in quella precisa epoca e in quegli ambienti. Di narrazioni di violenza
istituzionalizzata e strategia è però piena la Bibbia nelle altre parti,
naturalmente, e quindi ci si può organizzare sopra una teologia, come è stato
fatto. Ma il Maestro non ci diede esplicitamente la formula politica per contrastare la violenza coerente,
istituzionalizzata e strategica, che possiamo a questo punto
indicare con il nome che di solito le si dà: guerra. Questo perché negli
insegnamenti del Maestro semplicemente la politica non c’è e la guerra è un fatto politico, a differenza
della violenza anarchica che si manifesta all’interno di una popolazione.
Oggi
sembra ovvio che le Chiese cristiane promuovano la pace, come contrasto alla
violenza comunque intesa, quella anarchica e quella istituzionalizzata, quindi
anche la guerra. Tuttavia si tratta di una svolta piuttosto recente, risalente
a pochi decenni addietro. Per tutto l’altro tempo, fin dalle origini, la si
pensò molto diversamente sulla violenza istituzionalizzata, quella ordinata.
Nel tentativo
di avere l’appoggio dei sovrani e quindi di apparire buoni sudditi, in genere o
non la si contrastò, spingendo la gente di fede ad obbedire, o si contrastò
solo quella che si rivolgeva contro gli apparati ecclesiastici, cercando la
protezione di altri sovrani, e quindi addirittura chiamando alla guerra. Rimase
sempre un punto fermo, in genere, la dottrina che non era lecito ai sudditi ribellarsi
in questo agli ordini dei sovrani e,
in particolare, non era lecito per un suddito giudicare in coscienza se una
certa guerra che veniva ordinata fosse giusta
o non. Questa è ancora la dottrina
cattolica corrente sul punto. Questo perché, come viene spiegato nel capitolo
13 della Lettera ai Romani, attribuita a Paolo di Tarso, sulla quale si
sono esercitate sofisticate teologie, le
istituzioni pubbliche prevengono la violenza anarchica, che potrebbe rivolgersi
anche contro le istituzioni ecclesiastiche, e quindi in questo hanno una loro
legittimazione anche morale. Per quanto gli insegnamenti del Maestro, come fu
osservato (Karl Barth), siano connotati da un blando anarchismo, l’anarchia ha
sempre terrorizzato le gerarchie ecclesiastiche.
Quando dai pulpiti si chiede la pace, in
genere ci si rivolge ai governanti, cioè alla politica di governo che
ha il potere di ordinare la pace e la
guerra, non ai sudditi. Non di ci aspetta che questi ultimi si ribellino, come
anche che premano sui rispettivi governi. Questo però storicamente è servito a poco, perché
ogni potere politico si costruisce la propria giustificazione etica, di solito
di tipo mitologico, alla violenza pubblica che ordina, e, nelle società inculturate
dai cristianesimi, la cristianizza anche. Ogni regime politico sostiene sempre
di trovarsi in stato di necessità
o di legittima difesa nell’ordinare
una guerra, e pratica ampiamente l’azzardo morale, altrimenti detto ragion
di stato, vale a dire la sospensione dell’etica socialmente proclamata, ma,
secondo il programma, solo per una volta, perché conviene ai propri
sudditi. Poi però la cosa si ripete,
ancora e ancora, finché non si incontra una reazione valida dal basso o da
fuori. E’ andata sempre così, storicamente, e quindi verosimilmente così sempre
andrà.
La nostra Chiesa, in particolare, non ha alcuna fiducia che dalla partecipazione
democratica possa scaturire una forza che possa contrastare con successo la violenza
pubblica istituzionalizzata della guerra, nonostante che negli ultimi decenni
ciò sia avvenuto. Anzi, teme la democrazia, nel solco degli antichi maestri
greci, come fonte di disordine anarchico.
Di fatto dagli scorsi anni ’30 vi sono stati movimenti
democratici che hanno contrastato efficacemente le guerre e che hanno creato
istituzioni politiche per prevenirle.
I sistemi politici democratici non sono di
per sé non violenti: tutt’altro. Hanno espresso anzi efferate violenze,
addirittura fino al genocidio. Questo è evidente nella storia della prima delle
democrazie contemporanee, quella statunitense, pur fondata su una Dichiarazione
di indipendenza piena di riferimenti religiosi. Gli Stati Uniti d’America
non hanno mai avuto pace nella loro pur breve storia. Analogamente può dirsi
per l’imperialismo inglese, che, tra metà Ottocento e i primi vent’anni del secolo
successivo, arrivò a sottomettere quasi
tutto il mondo e che fu, ed è ancora, sorretto
da istituzioni espressione anche di una efficiente democrazia, risalente
addirittura al Medioevo.
Vi è tuttavia un elemento, centrale nei sistemi
democratici, su cui può farsi leva per convertirle alla pace sociale. Ed è il principio che non
viene ammesso alcun potere sociale, pubblico o privato, senza limiti. Questo,
non la regola maggioritaria, è l’elemento
fondamentale della democrazia. Ora, se tra i limiti legali supremi di un
sistema democratico viene inserito il principio evangelico dell’agàpe,
che è un altro modo per definire la pace fondata su relazioni
collaborative, di modo che nessuna considerazione di convenienza possa superarlo,
e tale principio lo si faccia presidiare da un sistema giudiziario al quale si riconosca
giurisdizione anche sui centri di potere statali, di modo che, sotto quel profilo, non possano più
rivendicare sovranità, vale a dire la libertà da ogni limite, allora la democrazia
funziona diversamente che nel passato e diventa realmente ed efficacemente motore di pace. E’ la via seguita dal Secondo
dopoguerra dai cristianesimi democratici europei, tra i quali furono protagonisti i cattolicesimi
democratici, nel costruire le nuove democrazie italiana e tedesca, dopo la
caduta dei rispettivi regimi fascisti, e il processo di unificazione europea. Di
questo, però, la gerarchia cattolica si dimostra in genere inconsapevole e
diffidente, in linea con la dottrina sociale contemporanea, purtroppo, che
parte da quel papa Leone 13° che, nel 1901, condannò l’idea che potesse
argomentarsi una democrazia cristiana e che creò i presupposti per la tragica
persecuzione di quelli che sprezzantemente vennero definiti modernisti. Eppure
la nuova democrazia repubblicana italiana, succeduta al regime con il quale il Papato
romano purtroppo si era compromesso nel 1929, venne animata, dal 1946 al 1994
proprio di un partito denominato Democrazia cristiana. E l’Unione Europea
ha ancora al vertice una democratica
cristiana. Ne è conseguito un lunghissimo periodo di reale pace tra
popoli e stati che per duemila anni non avevano mai cessato di combattersi in
guerra. Qualcosa di mai visto nella storia dell’umanità.
Mario Ardigò
– Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli