Parrocchia e territorio
Secondo il Codice di diritto canonico la parrocchia è un ente
territoriale.
Canone (=articolo) 518 -
Come regola generale, la parrocchia sia territoriale, tale cioè che
comprenda tutti i fedeli di un determinato territorio; […]
La definizione è legata all’esercizio dei
poteri gerarchici del parroco sulla popolazione di un certo territorio come
espressione di sovranità. Si cade in quel dominio per il fatto di
abitare stabilmente nel suo territorio, senza necessità di aderirvi. Il fine
della territorialità è il governo della popolazione del territorio. E’ come per
lo stato.
Gli enti territoriali sono in genere
organismi a fini generali: si occupano di tutto ciò che riguarda la popolazione
soggetta a loro potere. Una ASL o la
filiale di una banca, pur istituiti per la gente in un certo territorio, non
sono enti territoriali né enti a fini generali.
Vista sotto l’aspetto di comunità la parrocchia
è solo soggetta a quel potere gerarchico. Allo stato, la comunità
parrocchiale non può parteciparvi in nessun modo, né direttamente né attraverso
organismi rappresentativi. Considerata in base alla sua forma di governo, la
parrocchia è ancora una monarchia assoluta.
Poi c’è la pastorale, che è definita
tale per distinguerla dal lavoro di definizione degli enunciati relativi
alla nostra fede la cui accettazione è condizione per l’appartenenza alla
Chiesa. Riguarda non tanto i servizi, per quanto venga praticata anche come tale, ma
il lavoro di costruzione di comunità organizzate secondo il vangelo, che si fa in
primo luogo seguendo gli insegnamenti di vita del Maestro: facendo formazione
e assistenza solidale e misericordiosa. Poi viene quello che si è
imparato in seguito, per così dire strada facendo: liturgia e animazione
sociale, in essa compresa quella politica. Al centro dell’esperienza di
vita cristiana, intesa come quella al seguito del Maestro, vi è la conversione,
intesa come cambiamento profondo di mentalità riguardo al Fondamento
soprannaturale, al senso della propria vita e alle relazioni nelle società in
cui si è immersi, non tanto e comunque non solo come adesione a una religione
formalizzata, in particolare a quella nostra. La pastorale, nel
complesso, si propone di crearle un contesto psicologico e sociale favorevole,
sorreggendo le persone nelle difficoltà che incontrano su quella via e
aiutandole a ritrovarla quando la smarriscono. Un tempo anche da questa
missione la comunità parrocchiale era sostanzialmente esclusa, perché la si
vedeva strettamente legata al potere gerarchico. Da dopo il Concilio Vaticano
2° (1962-1965) questo è cambiato e tutte le persone di fede sono esortate a
collaborare, quale che siano il loro stato di vita e i loro legami gerarchici.
E’ in questo quadro che avvenne l’istituzione dei Consigli pastorali largamente
partecipati, e quindi anche quella dei Consigli pastorali parrocchiali.
Storicamente la comunità
precedette la gerarchia, e di solito nell’edificazione delle società è così che
accade. Più precisamente una gerarchia sociale emerge sempre da un
contesto comunitario e ne dipende nella sua evoluzione. Gerarchia nel senso originario è un potere pubblico sacralizzato,
nel senso di voluto da una divinità. Un potere, dunque, che scende dall’alto
e che può dispiegarsi in più posizioni in una scala discendente, nella quale
ogni grado ha l’autonomia che gli concede quello superiore, al quale deve
rispondere. Un potere che è strutturato per resistere alla spinta comunitaria
per il cambiamento, e questo per dare stabile coerenza alle relazioni sociali. In
questo senso, deprivato di elementi propriamente sacrali, la parola viene
utilizzata nelle scienze del diritto pubblico e, nella pratica ecclesiastica,
si segue la loro cultura, come descrizione dei fenomeni organizzativi e delle
relazioni tra diversi uffici. Rimane sempre una certa tensione tra le comunità
e le gerarchie che vi si sono insediate. Più precisamente le comunità tendono a
cambiare le loro gerarchie, nello stesso modo in cui dalle loro consuetudini e
concezioni emergono il diritto (che non è mai solo un atto dell’autorità) e le stesse
gerarchie.
Parlo di certi fatti che riguardano anche la
società ecclesiastica e le sue gerarchie senza mettere di mezzo la teologia,
perché non sono un teologo. Mi limito a
descrivere le dinamiche gerarchiche e comunitarie per come mi è dato di
osservarle. Questo è il modo corretto di procedere nel progettare e costruire
ordinamenti sociali a sfondo comunitario, quindi volti ad ottenere una
condizione di benessere sociale mediante una diffusa collaborazione della gente.
Nel caso invece che si voglia progettare un’azienda, si dovrà fare
diversamente.
Le gerarchie originano da comunità e queste
ultime, a loro volta, si formano nelle popolazioni per via culturale. La
cultura, in questa accezione, è l’insieme delle consuetudini, concezioni, tecnologie,
riti, elementi linguistici, che si affermano in una popolazione in modo tale
che i suoi membri se ne sentano obbligati e vengano a costituire una tradizione
con caratteri di costanza di generazione in generazione. Le religioni, in
questo senso, rientrano nella cultura delle comunità. Queste ultime assumono i
connotati di società quando nella loro tradizione si affermano gli ordinamenti, vale a dire
regole sufficientemente condivise per stabilire chi e come comanda. Gli esseri
umani, ad un certo punto della loro evoluzione, in quanto viventi sociali hanno preso a costituire, animare e governare
società sempre più complesse.
Gerarchie sono sempre presenti negli
ordinamenti sociali. Quando riconoscono ed esplicitano la loro origine
comunitaria, mediante miti, riti, procedure e, in particolare, riconoscano e
ammettano limiti al loro potere per via partecipativa, assumono carattere
democratico. Caratteristica principale degli ordinamenti democratici è di non ammettere nessun potere senza limiti,
in particolare derivanti da procedure partecipative. In democrazia non può
esistere nessun potere sacralizzato, nel senso di intangibile perché
derivato dalla volontà soprannaturale. Le è quindi indispensabile la secolarizzazione,
che non significa ateismo o agnosticismo o materialismo, ma solo la
consapevolezza dell’origine reale di ogni potere sociale. Tuttavia anche
in regimi democratici continua la produzione dei miti sociali, i quali, anzi,
dalla metà del secolo scorso hanno acquisito grandissima rilevanza quali
ulteriori limiti agli stessi poteri partecipativi. Il sistema dei diritti umani
fondamentali si basa su miti sociali. E questo, tuttavia, senza comportare sacralizzazione, perché
a loro fondamento non viene posta alcuna divinità. A presidio di quei diritti,
che costituiscono un limite allo stesso potere democratico, negli ordinamenti
politico istituzionali delle democrazie avanzate dell’Occidente, come è ancora quella
italiana, vi sono le Corti costituzionali, che, a ben vedere, svolgono nei
regimi democratici lo stesso ruolo dell’Ordine sacro nella nostra Chiesa. Lo
stesso potere di revisione costituzionale risulta esserne limitato: la nostra
Corte Costituzionale, ad esempio, ritiene che in nessun modo, con nessuna
procedura e maggioranza, potrebbe essere abrogato il principio di uguaglianza
tra le persone.
Nella nostra Chiesa, per un complesso di
ragioni delle quali qui non mi occupo, si ritiene essenziale la presenza di
poteri sacralizzati, che sono espressi dai chierici legati all’Ordine
sacro e investiti mediante riti sacramentali. Dunque una democrazia in
senso proprio non è al momento realizzabile in tutto in questo ambito, per
quanto in linea di principio non sia incompatibile con la vita comunitaria
cristiana, come dimostrato dalle Chiese cristiane storiche che la praticano, e
tenendo conto che anche nella democrazia, come ai tempi nostri la si
concepisce, non tutto è nelle mani delle maggioranze. Si parla tuttavia di sinodalità
per delimitare meglio gli ambiti di quel potere sacralizzato, che è definito potestà
perché esercitato per una funzione sacra e al servizio di una missione data dal
Cielo e non nell’interesse di chi ne è investito o della sua cerchia,
distinguendo degli spazi di maggiore condivisione nei quali possa esprimersi l’elemento
comunitario che anche nelle Chiese è sempre generativo delle forme di esercizio del potere,
anche se storicamente ad un certo punto
se ne perse consapevolezza. A
quell’epoca, quindi, per Chiesa si intesero solo i chierici, quindi i membri
dell’Ordine sacro, e i religiosi, quindi monaci e frati, mentre tutta l’altra
gente stava come appiccicata ad essi, come elemento non essenziale. Sotto
questo profilo, durante il Concilio Vaticano 2° si tornò alle più antiche
concezioni delle origini (la gerarchia ecclesiastica cominciò ad emergere solo verso
la fine del Primo secolo, il monachesimo dal Terzo secolo e non vi furono frati
prima del Dodicesimo).
Negli
organismi ecclesiastici sinodali, gerarchie ecclesiastiche e comunità entrano
in relazioni collaborative riconoscendo di non poter fare a meno le une delle
altre, applicando il principio “Non solo da noi, ma non senza di noi”.
L’inclusione è essenziale nella sinodalità, anche se purtroppo storicamente molto
raramente è stata praticata così e allora si è fatto ricorso a molta violenza.
Lo sviluppo della sinodalità ecclesiale
contemporanea, a differenza dei secoli passati, è senz’altro legato allo
sviluppo della cultura democratica, in particolare nell’Europa occidentale. Le
autocrazie totalitarie sacralizzate sono diventate molto ostiche per gli
europei occidentali, che se ne sentono umiliati non vedendovi l’espressione
della volontà superna. In questo la
teologia del Popolo di Dio seguita dai saggi del Concilio Vaticano 2° è
invecchiata presto: ha segnato indubbiamente lo sforzo di mutare la precedente
ideologia totalitaria, ma, nel tentativo di ottenere il più ampio consenso
nelle assemblee conciliari, ha accostato elementi che si sono rivelati
incompatibili, mantenendo un diritto sostanzialmente totalitario e non in linea
con la nuova teologia comunitaria. Il processo sinodale attualmente in corso,
che coinvolge tutte le Chiese cattoliche del
mondo e anche la Chiesa italiana al suo interno, è il tentativo di
arrivare a una sintesi più sostenibile, senza intervenire sulla dogmatica
promulgata negli anni Sessanta dall’ultimo Concilio Vaticano.
Si vuole partire da tirocini pratici, per fare
esperienza di nuove relazioni ecclesiali prima di tracciare programmi e
ordinamenti. Si dovrà sicuramente proseguire a lungo, e la seconda sessione
dell’Assemblea del Sinodo dei vescovi sulla sinodalità, programmata per
l’ottobre del prossimo anno, sicuramente si rivelerà solo una tappa, sia pure
importante, di questo processo.
Papa
Francesco vuole che le parrocchie romane siano profondamente coinvolte in
quello che si sta sperimentando, svolgendo il ruolo di apripista: questo il
senso del nuovo Statuto dei Consigli pastorali parrocchiali della Diocesi di Roma, che lui stesso ha
firmato lo scorso 8 settembre (mentre nel nuovo ordinamento del Vicariato di
Roma, l’organismo di vertice della Diocesi, è scritto che ordinariamente deve
essere emesso dal Cardinal Vicario, con il consenso del Consiglio episcopale,
che ora è presieduto dal Papa). Ne deriva una grande responsabilità per noi
fedeli romani.
Dunque è importante capire bene di che si
tratta, anche se per la gran parte di noi si tratta di cose nuove.
Suscitare nel territorio della nostra
parrocchia una vera comunità, anche se articolata in tante componenti (giovani,
adulti, anziani, legati a varie tradizioni di spiritualità e culturali ecc.),
nella quale tuttavia si riconosce di non voler fare a meno degli altri e ci si
dà da fare, non si viene solo come spettatori: questo il vero scopo della
sinodalità che si vorrebbe praticare. Quindi non il governo della popolazione
del nostro territorio, né l’amministrazione dei beni parrocchiali.
Questo comporta coinvolgere, includere,
avvicinare: un compito che può non risultare facile, perché non siamo formiche
o api, ma esseri umani, ciascuna persona con mente e volontà propri. Il nuovo Consiglio
pastorale parrocchiale dovrebbe
fungere da catalizzatore del processo.
Mario Ardigò –
Azione Cattolica in San Clemente papa –
Roma, Monte Sacro Valli