Dai molti uno
Sullo stemma degli Stati uniti d’America c’è
il motto “Ex pluribus unum”, che significa “Dai molti, uno” ed
evoca la concordia popolare per costruire il nuovo stato americano. Potrebbe
andar bene anche per indicare uno degli scopi del nuovo Statuto dei Consigli
pastorali parrocchiali della Diocesi di Roma:
FINALITÀ
art. 3
[…]
j. favorire la comunione
tra i cristiani di diversa formazione culturale, sociale e religiosa e tra i
gruppi ecclesiali, al fine di costituire insieme la comunità ecclesiale; […]
Costituire la comunità ecclesiale è cosa diversa dal
semplice governarla. E il suo governo va oltre la semplice amministrazione dei
beni parrocchiali, che comprende anche l’assegnazione degli spazi e delle
attrezzature parrocchiali ai vari gruppi che la parrocchia abitano.
Fare dei molti uno va però oltre le
possibilità degli esseri umani, la cui individualità, legata al possesso di una
mente, non è comprimibile se non in limiti piuttosto contenuti. Insomma, i
molti rimarranno sempre molti. In questo, le politiche che vorrebbero
costruire le società umane rendendole come organismi viventi, facendone
diventare i molti solo delle loro
parti, sono irrealistiche. Quella delle società-corpi
rimarrà solo una metafora per indicare relazioni più intense, appunto comunitarie.
La
socialità umana più intensa, quindi comunitaria, si manifesta solo su
piccola scala. Rimando su questo all’interessante libro dell’antropologo inglese
Robin Dunbar, Amici, pubblicato in traduzione italiana da Einaudi 2022,
anche in e-book e kindle. Formiamo società immense, ma la nostra indole comunitaria
si manifesta in gruppi molto piccoli, in cerchie, secondo il lessico di
Dunbar, tanto più piccole quanto più intese sono le relazioni tra i loro membri.
In genere la cerchia più larga in cui siamo coinvolti non conta più di centocinquanta
persone. Oltre ci sono solo delle folle indistinte. La cerchia con le relazioni
più intense conta circa cinque persone. Ma quando facciamo conversazione, riusciamo
a dialogare contemporaneamente con non più di tre persone. I gruppi di cinque, allora,
si dividono in uno da due e uno da tre. Nelle riunioni con più di una trentina
di persone fatichiamo a seguire tutte. Ci viene spontaneo costituire gli
organismi collegiali decidenti, nei quali bisogna discutere il da farsi, in
modo che non superino la trentina di persone. E, così, anche i Consigli pastorali
parrocchiali riformati a Roma saranno
composti da circa venticinque membri.
In natura non esistono popoli, ma solo
queste cerchie, che si intrecciano tra loro in vari tipi di relazioni, mediate
da miti e diritto. Sono questi ultimi che, fino ai nostri tempi, ci hanno consentito
di costituire società enormemente più grandi piccole cerchie in cui altrimenti
saremmo confinati, mantenendo tuttavia la percezione emotiva di essere in comunità.
Ad essi si stanno aggiungendo gli strumenti di trattamento di informazioni che
vanno sotto il nome di Intelligenza artificiale, espressione fuorviante perché
non si tratta di intelligenza, ma solo di sistemi di trattamento dei
dati che imitano le reti neurali del nostro cervello, né di qualcosa di artificiale,
bensì di sistemi non umani. I sistemi di intelligenza artificiale ci
rendono in grado di mantenere consapevolezza anche nel caso di realtà estremamente
complesse, che sfuggirebbero ai nostri sensi e alle nostre menti. Una
folla composta da persone dotate ciascuna di un dispositivo che trasmetta
informazioni personali a un sistema di intelligenza artificiale non è più un
insieme indistinto: è ciò che già ora accade con la grande diffusione degli smart
phone, espressione che letteralmente significa telefono intelligente,
ma che in realtà indica un dispositivo in grado di relazionarsi con sistemi di
intelligenza artificiale. Comunque, diritto e intelligenza artificiale non
bastano a fare comunità, senza il mito. Il mito può renderlo possibile
perché è carico di elementi emotivi e la nostra è una mente emotiva.
In filosofia quelle nostre cerchie di socialità, dense di elementi emotivi, sono
state anche definite mondi vitali, o espressioni simili, perché è in
esse e da esse che ogni persona
ricava il senso emotivo della sua esistenza. L’organizzazione sociale in grande
ci è necessaria, ai tempi nostri in cui siamo in otto miliardi sul pianeta, per
sopravvivere; ma lo sono anche i nostri, molto più limitati, mondi vitali, e quelli
in cui siamo più coinvolti li sentiamo come delle famiglie.
La parrocchia è una istituzione sociale in grande,
mediata da miti e diritto. Il nuovo Statuto rientra in quest’ultimo. La
mitologia è attualmente quella religiosa di tipo comunitario, con marcata impronta
organicista. Nella parrocchia si manifestano molti mondi vitali e la sfida dello
Statuto è quelli di mantenerli collaboranti
e in pace tra loro, e anche di attrarne altri da fuori. In qualche modo, il
nuovo Consiglio pastorale parrocchiale viene presentato come un nuovo mondo vitale, quindi caratterizzato da intense
intese emotive tra chi vi partecipa, che ha lo scopo di tessere relazioni
positive, collaborative, tra i mondi vitali attratti nell’ambito parrocchiale. Altrimenti,
ce ne rendiamo bene conto, essi rimangono estranei l’uno all’altro. L’equilibrio
che così si vuole comporre sarà però sempre instabile, perché questa è la condizione
permanente di tutte le società umane, e quindi il lavoro di costruzione comunitaria
non avrà mai fine: questo perché le persone che fanno comunità cambiano nel
tempo, non solo nell’avvicendarsi delle generazioni ma anche per il passaggio
di ogni persona nelle varie età della vita.
Molto giustamente è stato osservato che, per
raggiungere quello scopo, non basta istituire procedure come quelle che in altri
enti territoriali, ad esempio in un Comune, sono usate per legittimare politicamente
e giuridicamente organismi di governo e programmi di azione. In questo senso,
la sinodalità come viene prospettata nei processi sinodali in corso di questi
tempi, dei quali lo stesso nuovo Statuto è espressione, non si esaurisce nel decidere
chi e come comanda e le forme di partecipazione allargata alle decisioni, ma
vorrebbe indurre nuovi intrecci di mondi vitali in modo da suscitare quella che
potremmo definire la gioia del partecipare, vale a dire quel desiderio emotivo
delle persone dello stare e del lavorare insieme senza il quale una realtà come
quella di una chiesa non si manifesta (e allora la gente viene solo come
spettatrice o utente, quando le serve).
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli