Problemi di
costruzione sociale
(Gennaio 2019)
0. Ripropongo, in
un piccolo libretto, alcuni miei interventi in tema di costruzione sociale
svolti nel gennaio del 2019.
Ho cercato di spiegare perché, a mio parere, non dobbiamo concentrarci tanto
sui nostri problemi parrocchiali interni,
di integrazione dei gruppi, ma sulla relazione con il quartiere, immaginando
una nuova costruzione sociale. Nuova, sì, ma imparando dal passato ciò che ha funzionato, ciò che
ha funzionato meno bene e ciò che è stato controproducente. Fare conti con la
realtà è molto importante nella costruzione sociale, ma tanto difficile in
religione, dove spesso l’immaginazione e l’emotività la fanno da padrone, al di
fuori di una piccola cerchia di dotti razionalisti, che però appaiono troppo
freddi per saper mettere insieme realtà di mondo vitale, quelle nelle quali si
ricava il senso della vita.
Imparando dal passato ciò che ha funzionato mi
è venuta un’idea. Gli amici delle neocomunità che abitano fra noi, ogni anno,
quando cercano di invitare la gente alle loro catechesi, espongono sulla
facciata della parrocchia un grande stendardo con la scritta Dio ti ama!. Lo si vede fino in fondo a
via Val Padana. L’ho sempre trovata un’idea formidabile. Perché però non
scriverci anche altro? Tipo: Dio ama questo quartiere!. O: Facciamo più bello il quartiere!. O: Grande concorso di idee per cambiare volto a
via Val Padana, per farla veramente la piazza del quartiere!.
Un tempo, prima dell'era delle televisioni e degli smartphone, ci si informava anche mediante i giornali murali. Ancora se ne vedono nei paesini. Oggi l'offerta informativa è tanto grande che difficilmente, anche con gli strumenti telematici più potenti, si riesce a catturare l'attenzione della gente, anche di quella che si ha intorno, vicino. Ma l'architettonica nella chiesa parrocchiale ci favorisce. Piazzandovi uno stendardo in un giorno di festa se ne fa un elemento importante del paesaggio e si parla prima al cuore che alla mente, ma poi anche alla mente.
1. Dal piccolo al grande
1. I miei circa quaranta interlocutori del nostro gruppo parrocchiale di Azione Cattolica intuiscono bene i problemi che abbiamo in parrocchia nel costruire una società in linea con le idealità della nostra fede. Se però chiedessi a qualcuno di loro di spiegarli agli altri in modo da poterci ragionare sopra, probabilmente, così, su due piedi come si suol dire, avrebbe difficoltà a farlo in modo soddisfacente, e ciascuno finirebbe col parlare di ciò che gli sta più a cuore, nel senso che pensagli sarebbe piacevole fare o che lo fa soffrire, in questo modo facendo luce solo su un aspetto particolare della realtà sociale in cui è immerso. Per un altro, in diversa situazione personale, potrebbe essere diverso. A questo punto un animatore, volenterosamente impegnato a far convergere il gruppo verso un certo obiettivo che corrisponda agli scopi che si è dato, per i quali è stato costituito, e che in parrocchia hanno sempre in qualche modo a che fare con la fede, potrebbe ricordare ladottrina sociale con i suoi principi e allora, sondando poi di nuovo il gruppo, scoprirebbe che, sì, le si è dato un assenso di massima aderendo al gruppo, ma che non è quello il vero motivo per cui si è aderito e, soprattutto, che ognuno ha il suo. E che, inoltre, questo quella dottrina non lo mette in conto, per cui dà indicazioni su tante cose, in genere sui grandi obiettivi, ma non sull’essenziale per un'ideologia che voglia essere sociale, vale a dire su come realizzare una società adeguata ai suoi principi. Innanzi tutto perché della società ha un’immagine poco realistica. E poi perché teme la realtà e preferisce immaginarla invece che osservarla e studiarla. Questo è il problema dei problemi della costruzione sociale in una comunità di fede, compresa quella che viene considerata la sua prima cellula, vale a dire la famiglia. Quest’ultimo è un tema assai spinoso e non mi ci avventuro, perché pur avendone, come marito e padre da lunga data, una certa conoscenza pratica, a differenza, in genere, del clero che vi dà direttive sopra, non mi sento ancora veramente la stoffa del martire: in religione infatti le discussioni franche sulla famiglia vanno in genere a finire male, per la quasi totale incomprensione tra la maggior parte del clero (celibe) e la maggior parte dei laici sposati.
Quando mia madre, negli anni ’70, si iscrisse al corso di laurea in Scienze dell’educazione presso la vicina università salesiana, che all’epoca si chiamava Ateneo salesiano e ora Pontificia università salesiana, ebbe come libro di testo in dinamica di gruppo, il libro di Gennaro Luce, Dinamica di gruppo, LMS, 1977, che all’epoca era appena uscito e che ora non è più in commercio. Da molti anni l’ho tra le mani, avendolo preso in prestito da mia madre. Gennaro Luce, laureato in Scienze umane [scienze della condizione umana comprendenti sociologia, psicologia, pedagogia e altro] in Guatemala, si era specializzato in Scienze dell’educazione presso l’università salesiana e poi aveva fatto dieci anni di esperienza sul campo in associazioni giovanili salesiane in Italia e in America. Nel libro mostra di avere bene compreso l’importanza di una visione realistica dei problemi, e lo stesso deve dirsi dei professori salesiani di mia madre, ma, ad esempio, non del parroco di mia madre all’epoca. Mia madre, farmacista, si era iscritta a Scienze dell’educazione non per un suo desiderio personale di allargare la sua cultura personale, ma per perfezionarsi come catechista: era infatti nel gruppo delle mamme catechiste, le mamme che, nel clima effervescente degli anni ’70, il giovane viceparroco era riuscito a coinvolgere nella catechesi per le Prime Comunioni, e anche per la Cresima che all’epoca si faceva pochi giorni dopo la Prima Comunione. Naturalmente, quando mia madre cercò di mettere in pratica nel suo gruppo di catechismo ciò che aveva imparato dai salesiani, il parroco su due piedi la esonerò dall’incarico. E le altre catechiste furono tutto sommato d’accordo, non le diedero alcuna solidarietà. La nuova catechesi di mia madre le aveva sorprese, le faceva sentire inadeguate e non avevano alcuna voglia di imparare. Questo fu per mia madre uno dei dolori più brucianti della sua vita, anche se, disciplinatamente, accettò senza protestare o recriminare la decisione del parroco e continuò il suo apostolato tra gli adulti, con un certo successo, tanto che fino a quando ha potuto, vale a dire fino all’autunno del 2017 seguiva in tutta Italia circa seicento persone appartenenti a vari gruppi che aveva contribuito a fondare. A Pasqua e a Natale scriveva loro una lettera circolare, alla cui stampa e spedizione davo anch’io una mano. Per vent’anni, dopo la morte di mio padre, visse come collaboratrice laica in un nuovo ordine religioso dedicato al culto dello Spirito Santo, con la sede principale a Palestrina. Lì faceva vari lavori, e, in particolare, curava le pubblicazioni per l’estero. Io sono l’unica persona al mondo, ad eccezione forse dei suoi confessori, con cui mia madre si è confidata di quel grande dolore di quando le fu tolto l’incarico di catechista. Perché ne parlo ora? Per mettere in luce quanta sofferenza si infligge talvolta in religione per la pretesa di non fare i conti con la realtà. Per la parrocchia, escludere una come mia madre dal catechismo fu certamente un danno, perché i salesiani erano e sono ottimi educatori, in particolare dei giovani, e inoltre all’epoca erano tra i primi a progettare catechesi in linea con la riforma che dal 1970 si era cominciata ad attuare per allineare la formazione religiosa di base ai nuovi principi deliberati nel corso del Concilio Vaticano 2°.Del resto ai ragazzini di allora piaceva molto il modo in cui mia madre insegnava, con un ampio impiego di audiovisivi, con più estesi riferimenti biblici resi accessibili a menti infantili e altro. Certo, le classi di catechismo di mia madre non era le solite di allora, con i ragazzini muti in ascolto dell’insegnante, come a scuola, e costretti a mandare a memoria il vecchio catechismo a domande e risposte, non comprendendo veramente né le une né le altre. Complessivamente si poteva avere un’impressione di confusione e di indisciplina, che tuttavia, per ciò che ricordo dei tempi di allora, non erano veramente tali, un po’ come realmente si osserva ora, ma erano più che altro manifestazioni di partecipazione emotiva a ciò di cui si stava trattando. Infatti la fede, quando riesce ad elevarsi sopra la dottrina, che ne costituisce solo una sorta di rampa di lancio, riscalda il cuore.
2. Per dottrina in religione si intendono gli insegnamenti sulla nostra fede diffusi con l’autorità del Magistero, vale a dire, tra i cattolici, con quella del Papa e dei vescovi. Questi ultimi di solito si limitano a dare disposizioni attuative di quelle pontificie, ma non sempre e non dovunque. Ad esempio, in America Latina dagli anni Sessanta hanno inaugurato un nuovo pensiero sociale, un nuovo modo di pensare la Chiesa, che poi è stato in parte recepito dalla dottrina. Uno degli esempi di questa evoluzione è il magistero di papa Francesco. Per legge canonica, della nostra Chiesa, il magistero dei vescovi deve comunque essere in linea con quello pontificio e, quindi, un’esperienza locale, sebbene estesa a livello continentale, come quello latino-americana ha potuto diventare veramente patrimonio ecclesiale per tutti solo quando è stata assentita dai Papi e nel limiti in cui lo è stata. Questi limiti sono diventati molto stringenti nel regno di san Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2° (1978-2005), dopo esserlo stato meno nel regno di san Giovanni Battista Montini - Paolo 6° (1963-1978). Quest’ultimo dell’esperienza latino-americana aveva ampiamente trattato in un documento ancora molto importante che l’esortazione apostolica Annunziare il Vangelo [L’impegno di] - Evangelii nuntiandi, del dicembre 1975, che fu determinante nella decisione di mia madre di iscriversi a Scienze dell’educazione. Lo potete leggere sul Web all’indirizzo:
http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/apost_exhortations/documents/hf_p-vi_exh_19751208_evangelii-nuntiandi.html
Vi leggiamo:
« NEL CUORE DELLE MASSE
57. Come Cristo durante il tempo della sua predicazione, come i Dodici al mattino della Pentecoste, anche la Chiesa vede davanti a sé una immensa folla umana che ha bisogno del Vangelo e vi ha diritto, perché Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità»
Conscia del suo dovere di predicare la salvezza a tutti, sapendo che il messaggio evangelico non è riservato a un piccolo gruppo di iniziati, di privilegiati o di eletti, ma destinato a tutti, la Chiesa fa propria l'angoscia di Cristo di fronte alle folle sbandate e sfinite «come pecore senza pastore» e ripete spesso la sua parola: «Sento compassione di questa folla». Ma è anche cosciente che, per l'efficacia della predicazione evangelica, nel cuore delle masse, essa deve indirizzare il suo messaggio a comunità di fedeli, la cui azione può e deve giungere agli altri.
LE COMUNITÀ ECCLESIALI DI BASE
58. Il recente Sinodo si è molto occupato di queste piccole comunità o «comunità di base», perché nella Chiesa d'oggi sono spesso menzionate. Che cosa sono e per quale motivo queste sarebbero destinatarie speciali di evangelizzazione e, nello stesso tempo, evangelizzatrici?
Fiorendo un po' dappertutto nella Chiesa, secondo le differenti testimonianze sentite al Sinodo, esse differiscono molto fra di loro, in seno alla stessa regione e, più ancora, da una regione all'altra.
In alcune regioni sorgono e si sviluppano, salvo eccezioni, all'interno della Chiesa, solidali con la sua vita, nutrite del suo insegnamento, unite ai suoi pastori. In questo caso, nascono dal bisogno di vivere ancora più intensamente la vita della Chiesa; oppure dal desiderio e dalla ricerca di una dimensione più umana, che comunità ecclesiali più vaste possono difficilmente offrire, soprattutto nelle metropoli urbane contemporanee che favoriscono la vita di massa e insieme l'anonimato. Esse possono soltanto prolungare, a modo loro, a livello spirituale e religioso - culto, approfondimento della fede, carità fraterna, preghiera, comunione con i Pastori - la piccola comunità sociologica, villaggio o simili.
Oppure esse vogliono riunire per l'ascolto e la meditazione della Parola, per i Sacramenti e il vincolo dell'Agape, gruppi che l'età, la cultura, lo stato civile o la situazione sociale rendono omogenei, coppie, giovani, professionisti, eccetera; persone che la vita trova già riunite nella lotta per la giustizia, per l'aiuto fraterno ai poveri, per la promozione umana. Oppure, infine, esse radunano i cristiani là dove la penuria dei sacerdoti non favorisce la vita normale di una comunità parrocchiale. Tutto questo è supposto all'interno delle comunità costituite della Chiesa, soprattutto delle Chiese particolari e delle parrocchie.
In altre regioni, al contrario, comunità di base si radunano in uno spirito di critica acerba nei confronti della Chiesa, che esse stimmatizzano volentieri come «istituzionale» e alla quale si oppongono come comunità carismatiche, libere da strutture, ispirate soltanto al Vangelo.
Esse hanno dunque come caratteristica un evidente atteggiamento di biasimo e di rifiuto nei riguardi delle espressioni della Chiesa: la sua gerarchia, i suoi segni. Contestano radicalmente questa Chiesa. In tale linea, la loro ispirazione diviene molto presto ideologica, ed è raro che non diventino quindi preda di una opzione politica, di una corrente, quindi di un sistema, anzi di un partito, con tutto il rischio, che ciò comporta, di esserne strumentalizzate.
La differenza è già notevole: le comunità che per il loro spirito di contestazione si tagliano fuori dalla Chiesa, di cui d'altronde danneggiano l'unità, possono sì intitolarsi «comunità di base», ma è questa una designazione strettamente sociologica. Esse non potrebbero chiamarsi, senza abuso di linguaggio, comunità ecclesiali di base, anche se, rimanendo ostili alla Gerarchia, hanno la pretesa di perseverare nell'unità della Chiesa. Questa qualifica appartiene alle altre, a quelle che si radunano nella Chiesa per far crescere la Chiesa.
Queste ultime comunità saranno un luogo di evangelizzazione, a beneficio delle comunità più vaste, specialmente delle Chiese particolari, e saranno una speranza per la Chiesa universale, come abbiamo detto al termine del menzionato Sinodo, nella misura in cui:
- cercano il loro alimento nella Parola di Dio e non si lasciano imprigionare dalla polarizzazione politica o dalle ideologie di moda, pronte sempre a sfruttare il loro immenso potenziale umano;
- evitano la tentazione sempre minacciosa della contestazione sistematica e dello spirito ipercritico, col pretesto di autenticità e di spirito di collaborazione;
- restano fermamente attaccate alla Chiesa particolare, nella quale si inseriscono, e alla Chiesa universale, evitando così il pericolo - purtroppo reale! - di isolarsi in se stesse, di credersi poi l'unica autentica Chiesa di Cristo, e quindi di anatematizzare le altre comunità ecclesiali;
- conservano una sincera comunione con i Pastori che il Signore dà alla sua Chiesa e col Magistero, che lo Spirito del Cristo ha loro affidato;
- non si considerano giammai come l'unico destinatario o l'unico artefice di evangelizzazione - anche l'unico depositario del Vangelo! -; ma, consapevoli che la Chiesa è molto più vasta e diversificata, accettano che questa Chiesa si incarni anche in modi diversi da quelli, che avvengono in esse;
- crescono ogni giorno in consapevolezza, zelo, impegno, ed irradiazione missionari;
- si mostrano in tutto universalistiche e non mai settarie.
Alle suddette condizioni, certamente esigenti ma esaltanti, le comunità ecclesiali di base corrisponderanno alla loro fondamentale vocazione: ascoltatrici del Vangelo, che è ad esse annunziato, e destinatarie privilegiate dell'evangelizzazione, diverranno senza indugio annunciatrici del Vangelo.»
Le Comunità di base erano il cuore delle nuove esperienze ecclesiali latino-americane. Nel brano che ho citato si coglie l’eco delle controversie che suscitarono. Avevano, nell’ambiente di origine, l’America Latina travagliata dai neo-fascismi in qualche modo appoggiati dalla politica statunitense come male minore nel grande gioco di guerra che a livello globale andava conducendo contro i sovietici, un marcato aspetto politico, anelando anche ad una liberazione sociale da condizioni civili ingiuste e questo anche come impegno religioso. Avevano quindi anche molti e potenti nemici. E il Papato, all’epoca, non intendeva essere coinvolto in quelle dinamiche politiche, temendo che potessero sfociare nella lotta armata o che potessero essere fascinate, e in qualche modo contaminate, dall’ideologia marxista diffusa dai sovietici. E, tuttavia, il papa Montini, a differenza poi del papa Wojtyla, riconosceva i buoni frutti che potevano ricavarsi da quel nuovo modo di vivere la Chiesa, arrivando a definirli esaltanti. Nel medesimo brano si coglie un aspetto molto importante da tenere in considerazione costruendo società, vale a dire l’aspetto di massa delle società moderne. Nel documento che ho citato se ne parla come di un’immensa folla, e, si aggiunge, di una folla in condizione di sbandamento e di sfinimento, come pecore senza pastore. il messaggio evangelico non è riservato a un piccolo gruppo di iniziati, di privilegiati o di eletti, si legge ancora nell’esortazione apostolica, per cui, se vuole essere efficace, ed essere fedele alla sua missione, la predicazione evangelica deve arrivare al cuore delle masse, e per riuscirci deve indirizzare il suo messaggio a comunità di fedeli, la cui azione può e deve giungere agli altri. Ecco quindi, notatelo bene, una dottrina sociale che non si limita a fissare un obiettivo,arrivare al cuore delle masse, ma che, sulla base dell’esperienza che all’epoca era essenzialmente quella latino-americana della comunità di base, indica un metodo da sperimentare: quello di indirizzare il messaggio a comunità più coese che poi se ne facciano da tramite verso altri. Queste comunità, tuttavia, non devono rimanere piccoli gruppi di iniziati, di eletti, e come tali privilegiati. Un bel problema! Perché l’apertura influisce fatalmente sulla coesione. Questo si è imparato dall’esperienza di comunità di quel tipo, che sono state proposte, nella riforma della catechesi del 1970, progettata con ilDocumento di base “Il rinnovamento della catechesi”, che potete leggere a questo indirizzo WEB:
http://www.educat.it/documenti/download/Il%20Rinnovamento%20della%20Catechesi_sito.pdf
come l’ambiente ideale per sostenere la formazione alla fede, sia dei più giovani che negli adulti. Non più quindi solo “classi di catechismo”, ma anche comunità educanti in cui vivere, e innanzi tutto mettere in pratica e sperimentare, i principi religiosi riguardanti ciò che si intende per carità - agàpe. E c’è un altro problema al quale gli autori della dottrina sociale ancora non danno adeguato risalto: comunità coese di quel tipo richiedono una frequentazione assidua e prolungata, che ai tempi nostri non si riesce in genere ad ottenere, soprattutto nelle città medie e grandi, dove la gente finito il lavoro, e quando non sia troppo sfinita per dedicarsi ad altro, va in giro in cerca di distrazioni e le trova, onorevoli o meno onorevoli.
Pensare a comunità educanti di quel tipo è facile, ma costruirle molto meno. La legge empirica delle relazioni sociali umane è questa: più si avvicina l’altra persona, più questo contatto è impegnativo e prende tempo. Lo si constata facilmente nell’amore, quando passata fatalmente la fase dell’innamoramento, si approfondisce l’amicizia tra chi si ama. Paradossalmente, quindi, è più semplice, da un punto di vista umano, gestire l’organizzazione di un grande evento di massa, ad esempio cinquantamila persone a piazza San Pietro in una mattina col Papa, che tenere insieme un piccolo gruppo parrocchiale molto coeso di cinquanta persone che vogliano veramente intendersi fra loro in modo da sostenersi nella fede e in altro. Le cinquantamila persona hanno un rapporto superficiale ed episodico tra loro e con il Papa che sono venuti a incontrare, ma in realtà solo a vedere da lontano e ad ascoltare. Basta dir loro dove devono sedersi, mettere loro in mano il libretto della liturgia, dotarle di cappelletti e bandiere colorate, prevedere sufficienti bagni chimici e un servizio di soccorso sanitario per chi stesse male, procurare un numero di ostie sufficienti per far fare la Comunione a tutti, un’orchestrina, un coro, un certo numero di chierichetti-steward per dirigere il flusso di gente, e il gioco è fatto. Questa esperienza sociale, tipica del neo-papismo corrente dagli anni ’80, non è tuttavia quella di una comunità educante, ma semmai di una comunità educata, che accetta di buon grado di fare ciò che le si dice. Solletica l’emotività personale, come sempre accade in certi eventi di massa in cui si converge per assistere ad uno spettacolo, ma nulla di più. L’umanità delle persone rimane un po’ sottotraccia e la folla sembra fatta di persone molto simili: ma è solo perché non si riesce a distinguerle bene e ciascuno non ha modo di manifestare la sua personalità. perché fa come fanno tutti. Del resto la nostra mente ha un limite cognitivo stringente, lo ricordo spesso: non può avere relazioni personali profonde con oltre centocinquanta altre persone. E’ il numero di Dunbar, dall’antropologo inglese che lo ha teorizzato, Robin Dunbar, scienziato settantenne di Liverpool, vissuto a lungo in Africa orientale, professore universitario ad Oxford. Quando ci troviamo di fronte a folle di più di centocinquanta persone circa perdiamo la capacità di individuarle tutte singolarmente, e allora ci avviciniamo solo ad alcune di esse, le altre sfumano sullo sfondo. Nessun gruppo di più di centocinquanta persone può essere veramente coeso e non ci si può fare nulla, perché la nostra mente dipende da un hardware, da un supporto biologico che risale a circa duecentomila anni fa ed è più o meno quello di allora, non a subito trasformazioni spettacolari simili a quelle che dalle prime macchine di calcolo elettronico hanno prodotto l’intelligenza artificiale, che macchina non è più. Un problema questo che si fa sentire già a livello parrocchiale.
Vorremo fare della parrocchia una realtà di massa, per correggere la tendenza del passato di viverla in comunità coese ma chiuse, vale a dire come esperienza sociale che coinvolga le circa quindicimila persone del quartiere che pensano religiosamente secondo la nostra fede. Ho scritto tempo fa:
«Dai dati dell’ultimo censimento, le Valli sono abitate complessivamente da circa ventimila persone, buona parte delle quali rientrano nella nostra comunità parrocchiale. Di queste, secondo la media nazionale, un buon 80% dovrebbe poter essere annoverato tra i fedeli, coloro che esprimono la loro religiosità secondo la nostra fede. Tenendo conto che, in realtà, anche la gente che abita nei primi edifici oltre piazza Conca d’Oro, prossimi alla piazza, gravita intorno alla nostra parrocchia per ragioni di comodità, anche se territorialmente fa parte della comunità parrocchiale degli Angeli Custodi, possiamo stimare in circa quindicimila persone la nostra comunità parrocchiale, i fedeli della parrocchia. La nostra quindi è, o almeno dovrebbe essere, una esperienza parrocchiale di massa».
Di solito abbiamo l’esperienza, a parte che negli orari di certe Messe, di locali parrocchiali in cui il vuoto prevale sul pieno. Se però, per una volta, tutte le persone in qualche modo religiose secondo la nostra fede decidessero di presentarsi in parrocchia, come quando si va a piazza San Pietro dal Papa, allora i locali parrocchiali traboccherebbero presto e la folla si estenderebbe per tutte le strade circostanti invadendo probabilmente quasi tutta via Val Padana. E, per chi la vedesse da un qualche pulpito, rimarrebbe folla senza possibilità di approfondire e relazione personali. A quel punto le si potrebbe solo somministrare una sorta di spettacolo, come in effetti anche le liturgie sono quando non si riesce a suscitare una sufficiente partecipazione. E passi per una volta o due, ma come si potrebbe gestire la cosa ogni giorno, se si ripetesse con quella frequenza. E, tuttavia, è nientedimeno questo che la dottrina sociale ci propone come missione:entrare nel cuore delle masse. Ma non lo fa arbitrariamente: questo è, in effetti, un comando del Maestro:
«[19] Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, [20] insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.» [trad, it. CEI 2008]
2.Evoluzione delle culture religiose. Dall'istituzione alle comunità educanti
3. La fede religiosa nel soprannaturale si sviluppa in una collettività sociale, vale a dire che è un fatto culturale. Questo significa che la religione, il modo in cui si esprime la fede nel soprannaturale in una società, è modellata dalla cultura di riferimento. La persona singola nasce immersa in una cultura e ne recepisce l’interpretazione religiosa del soprannaturale. E’ quindi religiosa nel modo in cui la sua società di riferimento lo è e, questo è molto importante, fin tanto che lo è. Poiché fin dalla preistoria è proprio dei gruppi sociali umani di migrare, anche le culture e le religioni seguono quei gruppi. Il contatto tra le culture di riferimento di gruppi sociali che vengono in contatto per via di migrazione le cambia. Se non sono gruppi sociali ma singoli individui a spostarsi da una cultura all’altra, che significa in genere da un gruppo sociale all’altro, quindi quando le migrazioni coinvolgono singole persone e non gruppi sociali, ci si deve aspettare che il migrante, desiderando l’assimilazione nel nuovo ambiente sociale, si lasci coinvolgere dalla sua cultura e dalla sua religione. Nell’interazione sociale, che coinvolge sia i gruppi che gli individui, può accadere che nella religiosità del migrante permangano comunque elementi delle culture di origine, assimilati da molto piccolo e quindi più difficili da modificare. Tanto più è importante la pressione sociale sul migrante del nuovo gruppo sociale di riferimento, tanto più gli elementi della cultura di tale gruppo influiranno sulla cultura di origine del migrante. Tuttavia può darsi il risultato opposto, nel caso, ad esempio, in cui la migrazione si sviluppi come un’invasione o una colonizzazione, nel qual caso la cultura dei migranti tenderà a prevalere su quella dei gruppi sociali invasi o colonizzati. Ma anche nel caso che la cultura di importazione risponda ad esigenze che quella originaria del gruppo sociale in cui è importata non soddisfa o non soddisfa a sufficienza. In questo caso si attua una conquista culturale da parte di chi riceve, nel senso che si sentirà elevato, o migliorato, rispetto a prima, mentre nel caso di invasione o colonizzazione, si tratta di una conquista da parte degli invasori o colonizzatori non dei conquistati. I due fenomeni posso realizzarsi in forme miste, in cui, ad esempio, l’invasore è conquistato culturalmente dalla società invasa o l’invaso, ad un certo punto, arriva a vivere come conquista culturale il recepimento della cultura dell’invasore, che all'inizio gli era stata imposta e a cui aveva cercato di reagire opponendosi all'inculturazione. Le culture religiose risultate dall’accostarsi di quelle di gruppi sociali che vengono in contatto in qualche modo vengono sempre modificate rispetto a quelle originarie, secondo le dinamiche che ho descritto, hanno poi vita sempre legata alla nuova società di riferimento, che comprende quei gruppi sociali tra quali è nata l’interazione culturale, e possono in essa affermarsi non venendone più percepita l’estraneità nei gruppi sociali che si sono avvicinati e progressivamente integrati. Tutto questo che ho sommariamente descritto si osserva nelle varie fasi dell’evoluzione ed espansione del cristianesimo. Per acquisirne consapevolezza occorre conoscere la storia. Il cristianesimo nasce da culture di migranti originate dall’antico ebraismo che, interagendo i migranti con l’ambiente culturale dell’ellenismo, vale a dire la cultura greca che si era universalizzata nell’esperienza politica creata dall’affermazione dell’impero costituito da Alessandro il Macedone (vissuto nel 4° secolo dell’era antica), poi dominato dai suoi successori ed esteso in gran parte del Vicino Oriente, Palestina compresa, ne furono profondamente modificate.
4. Nel giro di circa quattro secoli, il cristianesimo fu assimilato dalla cultura dell’antico impero romano, che aveva invaso e colonizzato i territori ellenistici, divenendone l’ideologia politica di base, sostituendo quella basata sugli antichi culti politeistici. Fu quindi impiegato per rafforzare quel potere politico imperiale affermandone l’origine sacra, per mandato celeste. In questa visione l’imperatore era il luogotenente, il vicario, del Cielo e fungeva da padre e pastore. In questa sua veste, ad esempio, convocò tutti i concili ecumenici del Primo millennio. Si ebbe così una sacralizzazione della politica secondo la nostra fede. Il processo non è stato ancora ricostruito in maniera affidabile per quanto riguarda i suoi primi secoli, nei quali si passò dall’emarginazione e ciclica persecuzione all’affermazione nella politica di vertice del tempo, e probabilmente non potrà esserlo più. Dal Quarto secolo, la dimensione politica del cristianesimo gli fu essenziale, costituendone una delle ragioni d’essere e uno dei modi principali di espressione sociale. Questo poi spiega perché dal Secondo millennio della nostra era il Papato volle costruirsi come imperatore religioso e politico insieme e più o meno dal Cinquecento si dette un’organizzazione simile a quella di uno stato anche negli affari prettamente religiosi, non solo per organizzare il proprio dominio, il proprio regno, sulle regioni dell’Italia centrale delle quali era anche sovrano politico.
Dalla fine del Settecento si produsse in Europa un processo di desacralizzazione, in concomitanza con l’affermarsi dei processi democratici. Questi ultimi richiedevano che si potesse liberamente mettere in discussione non solo le singole scelte politiche, ma anche il potere politico in sé. Quest’ultimo desacralizzato, fu anche laicizzato,quindi sottoposto al libero giudizio del làos, parola greca che significa popolo. Non gli si riconobbe più il potere di imporre alle masse una propria religione, in tal modo sacralizzandosi e sottraendosi al giudizio popolare. La libertà religiosa è quindi al fondamento dei processi democratici. Questo non significa però libertà dai valori umanitari, ma libertà politica nell’aderire a una religione di modo che quest’ultima non possa più essere strumentalizzata a fin politici, nella specie di sacralizzazione della politica. La nostra religione, a seguito dei processi di desacralizzazione della politica, sembrò quindi perdere progressivamente una delle sue principali ragion d’essere e, in tal modo, indebolirsi. Ma, nello stesso tempo, iniziò al suo interno il processo di inculturazione dei principi democratici, che è chiaramente percepibile fin dall’origine dell’ideologia democratica moderna e, in particolare, nello sviluppo di quella statunitense, la prima democrazia dell’era moderna, tanto diversa dalle democrazie dell’antichità, ma anche da quelle che erano in precedenza riuscite a svilupparsi in Europa nel Secondo millennio, proprio per la compiuta assimilazione nell'ideologia che dava voce alle masse, al popolo, nell'ideologia democratica, di alcuni importanti principi religiosi cristiani che vennero espressi come ideali di uguaglianza, fraternità e libertà, quindi comevalori democratici. I processi democratici moderni, con la relativa desacralizzazione, videro l’affermarsi sulla scena politica, in Europa e nelle altre regioni di cultura europea, di masse che prima erano state sotto il dominio di dinastie sovrane, con alcune delle quali il Papato, trasformatosi nel Secondo millennio in una sorta di dinastia, si era federato. Anche il Papato fu direttamente investito da un processo di desacralizzazione, vale a dire di messa in questione della sua ragion d’essere come dominio politico, e ciò fin dal Cinquecento, con la Riforma protestante. Anzi, questa desacralizzazione può essere considerata come il modello delle altre, successive, che investirono le dinastie sovrane europee. Della desacralizzazione della politica si prese atto nella nostra confessione religiosa solo a partire dal Concilio Vaticano 2° (1962-1965), che ebbe al centro della sua riflessione la Chiesa come popolo, dunque come realtà di massa in cui le masse non erano più considerate semplicemente come pecore da guidare, ma soggetti attivi , protagonisti, della diffusione della fede religiosa. Ma come dovevano esserlo? Questo argomento fu al centro della riforma della catechesi che fu deliberata in Italia con il cosiddetto Documento di base “Il rinnovamento della catechesi”, del 1970. Venuta meno la pressione sociale degli stati che indirizzava le persone alla fede, dichiarando che per essere buon suddito occorreva essere credenti, in quanto la religione era parte dell’ideologia politica di base e fonte della sacralizzazione della politica, occorreva costituire il popolo di fede come comunità educante per condurre e formare in altro modo alla fede. Si prese così atto del chiaro collegamento tra la società e la sua cultura religiosa. Per preservare quest’ultima occorreva lavorare sulla società e, in ambiente democratico, occorreva lavorare con la collaborazione più vasta, innanzi tutto migliorando molto la formazione e dunque la consapevolezza religiosa. Tuttavia, nella pratica, le cose si presentarono molto più difficili che nell’abbozzo tratteggiato dai teologi.
Le comunità educanti, maturando maggiore consapevolezza, tendevano a sottrarsi al Magistero. Se le si concepiva come comunità al modo della famiglia, con un’autorità naturale ad ordinarne la struttura e a mantenerle sottomesse ai padri religiosi, tendevano a diventare dispotiche e ad essere rifiutate da chi si era formato in ambiente democratico. Inoltre le comunità educanti funzionavano bene solo se rimanevano gruppi di prossimità: allargandosi riuscivano ad funzionare molto meno efficacemente e si presentavano come molto più esposte all’interazione con altre culture, per le dinamiche che ho descritto all’inizio. Se tuttavia si cercava di fortificarle contro questa specie di contaminazione, recuperando ad esempio elementi dell’antica teologia ebraica, esse poi funzionavano come comunità educanti solo su scala molto piccola e si presentavano invece come corpi estranei nelle società di riferimento. Nella nostra parrocchia, nella quale abbiamo vissuto per un tempo molto lungo, per un trentennio, l’esperimento sociale di comunità educanti di tipo familiare con ideologia religiosa fortificata a difesa da contaminazioni esterne, abbiamo riscontrato problemi simili. Il piccolo gruppo, nelle sue intense relazioni affettive di prossimità, crea rapidamente quello che mio zio Achille e altri definirono mondo vitale, il gruppo sociale nel quale la persona trova il senso della vita, ma che, nel mentre ha questo effetto, anche confina la persona al suo interno e la rende dipendente,creandole problemi con la società intorno, quella che si vorrebbe condurre alla fede. L’effetto di mondo vitale si perde quando si cerca di estenderlo e quando c'è tende a separare dal contesto. Per nostri limiti di specie non siamo capaci di più di circa centocinquanta relazioni personali profonde, ma l’umanità è arrivata ormai a circa otto miliardi di persone e ora in religione vorremmo pensarla come un’unica famiglia, la famiglia umana, ed anche provare ad organizzarla effettivamente come tale. Dominandola da un qualche vertice, al modo degli antichi imperatori, si riesce ancora ad ordinarla, ma fatalmente i processi democratici, secondo l’ideologia di libertà, uguaglianza, fraternità, ne risentono, e anche gli effetti di mondo vitale che danno senso alla vita: da cui la crisi molto evidente ai tempi nostri delle democrazie. I capi guardano le masse, ma non vedono i singoli che le compongono, si relazionano con esse come il grande allevatore con gli animali che alleva; le masse guardano ai capi e si illudono di avere con loro una relazione personale, e, guardando tutti verso un vertice, come accade negli stormi di uccelli, sostanzialmente conformandosi per imitazione, riescono anche a dare coerenza all’azione collettiva, come succede in un’orchestra sinfonica o anche in un grande coro. Tuttavia questo tipo di dominio non basta più oggi alla religione, nella quale si vorrebbe indurre, anche e prevalentemente mediante comunità educanti, un’adesione personale e forte alla fede religiosa: non basta più, in altre parole, il conformismo sociale indotto da un’autorità o dalla stessa comunità educante. Questo perché comunità tenute insieme dal semplice conformismo sociale non riescono ad essere veramente attive nella diffusione della fede, e a dare senso a quest'ultima, in un ambiente caratterizzato dalla libertà religiosa, nel quale quindi la pressione sociale alla fede non può andare oltre una certa misura. In ciò sta anche il nostro problema parrocchiale di costruzione sociale. Che fare?
3. Radicamento per metamorfosi
5. Quello che ho scritto nei precedenti interventi sul collegamento tra fede religiosa e società non incide minimamente sulla questione della verità della nostra fede. È invece molto importante nell'azione per costruire o modificare comunità di fede. Chiarisce che non lo si può fare senza conoscere e capire bene la gente nella quale si vogliono indurre, sostenere o correggere quelle relazioni interpersonali nelle quali consiste una comunità. Questa consapevolezza è piuttosto recente; in genere nei secoli in cui il cristianesimo fu usato per sacralizzare, e quindi rafforzare, il potere politico, si è preferito andare per le spicce. Nonostante tutto si sono avuti risultati di inculturazione della fede, ma non sono dipesi dalla violenza anche estrema, esercitata nell'imposizione della religione nelle culture altrui, ma dal fatto che si sono avute anche relazioni interculturali di altro tipo mediante le quali, progressivamente, ci si è conosciuti meglio e, conoscendosi meglio, ci si è anche piaciuti e intesi. In nessun caso, quando ciò è avvenuto, la religiosità è rimasta quella di prima; quando non è avvenuto, non si è realizzata l'inculturazione. La nostra fede si è diffusa a livello globale seguendo le guerre coloniali degli Europei. La diffusione della fede è stata più efficace in America che in Cina o in India o nel Vicino Oriente e in Nord Africa. Certo, in America la colonizzazione si è attuata anche mediante lo sterminio dei nativi, quindi attraverso veri e propri genocidi, ai quali si è aggiunta, a incidere su etnie e culture, la deportazione di ingenti masse di africani fatti schiavi. Tuttavia non si è trattato solo di questo. In America le culture dei colonizzatori europei insediatisi nel continente sono mutate e, mutando, si sono anche rinnovate, facendosi quasi autoctone, assumendo tratti particolari, modellando anche i regimi politici coloniali che ad un certo punto non hanno più voluto esserlo. Indicativa a questo proposito è la condizione delle colonie inglesi e francesi dell'America del Nord, tra le quali, insieme a nuove idee sul rapporto tra religione e società, ha attecchito una nuova concezione di democrazia, che poi ha fatto scuola nel mondo. In America il radicamento è conseguito a una metamorfosi. Questa può essere considerata la legge generale del radicamento culturale. Non c'è radicamento culturale in altre culture senza metamorfosi anche della cultura importata.
La riforma, la metamorfosi culturale, fa paura in religione. Fin dalle origini si è stati assillati dall'idea di una verità normativa e immutabile. Si è recepito l'orrore per la contaminazione culturale che permea certi testi dell'Antico Testamento, mentre quel sentimento è sicuramente meno evidente nel Nuovo Testamento. Ma la faccenda si è fatta molto più seria quando il cristianesimo assunse rilievo politico divenendo la base dell'ideologia politica dell'impero romano, in realtà ormai greco-romano, dal Quarto secolo. A quel punto il conformismo teologico non fu più questione di verità ma di sovranità, e il dissenso fu visto come materia di lesa maestà e come tale punito. Questa impostazione era più o meno ancora vigente quando, negli anni Sessanta del secolo scorso, il Concilio Vaticano 2^ (1962-1965) ce ne liberò. Lo si fece a ragion veduta, in quanto essa avrebbe ostacolato l'inculturazione della fede nell'era della decolonizzazione, quando gli europei iniziarono ad allentare la presa sulle genti extraeuropee cadute nel loro dominio. Tuttavia, nonostante quella importante conquista culturale conseguita nell'ultimo concilio, in Europa, ma in particolare in Italia per la sua travagliata storia degli ultimi due secoli, continuiamo ad avere poca pratica con l'inculturazione della fede mediante metamorfosi, in particolare supponendo erroneamente che la si debba riservare alle relazioni con altre culture. Invece anche le culture degli italiani sono cambiate e, nella costruzione sociale, occorre tenerne conto. Non si può pensare di costruire ripristinando una religiosità del passato, dandole solo una spolveratina. Di questo si cominciò ad acquisire consapevolezza negli anni '70, quando, come ricordo spesso, tutto fu bloccato da un sovrano religioso che aveva, nella Polonia dominata dal comunismo di stampo leninista, maturato una religiosità di resistenza culturale e una spiritualità da assediati (avendone certamente motivo in quel contesto culturale, molto meno in Italia).
4. Fare spazio al quartiere mediante la costruzione sociale
6.Sono passati tre anni da quando in parrocchia abbiamo provato a correggere alcune impostazioni del passato che creavano problemi e ancora non siamo riusciti a realizzare il primo obiettivo: una consuetudine di vita collettiva "corale". Lo ha ricordato il parroco al termine della Messa del Te Deum, l'ultimo giorno dell'anno passato. Bisogna però ricordare che quello che si sta cercando di modificare è stato "costruito" nel corso di trent'anni: questa la vera "particolarità" della nostra parrocchia, l'essere stata sede di un esperimento di totale rigenerazione sociale perseguito con molta determinazione, per la durata di una generazione e con ottime intenzioni. Si voleva "ricostruire" la parrocchia come "comunità educante", secondo gli auspici della riforma della catechesi degli anni '70, e anche come "mondo vitale" al modo di una famiglia, con una intensa solidarietà organizzata intorno a figure di capi naturali, autorità "paterne", in altre parole maschi dominanti, con una struttura per piccoli gruppi nei quali potessero viversi relazioni molto intense, intime, comprendenti anche un costume di grande confidenza reciproca. Questo esperimento ha funzionato, ma su scala troppo piccola, coinvolgendo circa trecento persone, e, soprattutto non si è affermato come realtà di quartiere, attirando molta gente di fuori, troppa. Questo ha progressivamente cambiato la natura della parrocchia secondo uno spirito di club, rendendola un'istituzione che continuava a erogare i servizi religiosi di base, ma come attività parallela e secondaria, proponendo poi come unico modello di coinvolgimento partecipativo, e vero centro della sua attività oltre che sua reale ragion d'essere, quello che ho descritto, gli altri che c'erano stati nel passato rimanendo come esperienze tendenzialmente ad esaurimento, per anziani irriducibili. Aggiungo che la nuova esperienza comunitaria ricevette anche una nuova ideologia, che interpretasse il ruolo delle neo-comunità in relazione alla società intorno, ed essa appare ebraizzante, nel senso che presenta la nuova realtà associativa al modo delle antiche collettività israelitiche nelle loro travagliate relazioni con l'ellenismo, vale a dire come esperienza collettiva minacciata da contaminazione. Si vive un po', per rendere l'idea, nello spirito dei libri dei Maccabei. Il risultato, non voluto naturalmente, è stata una progressiva estraneizzazione della parrocchia rispetto al quartiere. Le cose sono state aggravate anche dai problemi che la nostra religione incontra nell'Italia di oggi, per i veloci cambiamenti culturali che si stanno producendo e per il mutamento delle proporzioni tra giovani e anziani, con l'aumento della quota di questi ultimi. Descrivere il problema non basta a risolverlo. Quello che si è fatto negli ultimi tre anni va nella direzione giusta, di allargare l'esperienza comunitaria, mantenendo il buono che le neo-comunità manifestavano, rimuovendo solo l'esclusività della loro esperienza, facendo spazio ad altre.
Fare spazio al quartiere, in un quartiere che non solo si è disabituato a frequentare la parrocchia come mondo vitale, ma che anche non ne sente più veramente la necessità, e nemmeno ne ha il tempo, perché nell'Italia di oggi si risolve in altro modo il problema di dare senso alla vita, senza avvicinarsi così tanto agli altri, richiede di progettare una nuova costruzione sociale, adeguata ai tempi e agli obiettivi che ci si è dati. I modelli del passato non funzionano se riproposti tali e quali, in particolare quelli tutti centrati sul clero, e soprattutto occorre indurre un nuovo costume partecipativo del quale oggi si cerca di dare un'idea parlando di spirito "sinodale", non inteso nel senso che si discute ma poi si fa come dice il "padre" di riferimento, ma nel senso che, avendo fatto pratica di vita comune ravvicinata, ci si è preso gusto e non si lascia che la comunità sia sfasciata per dissensi su questioni particolari. A questo spirito si oppone quello "condominiale", nel quale ciascuno sta bene solo con i suoi, ma, essendo costretto a incontrarsi con altri per la gestione di servizi comuni, lo fa cercando di avere di più, il massimo possibile, per i suoi perseguendo interessi di parte anche a scapito degli altri, e, se non ci riesce, butta tutto all'aria, perché, a quel punto, tanto peggio tanto meglio. Lo spirito condominiale aleggiava nel passato modello parrocchiale e devo dire anche che, cercando di conoscersi meglio durante il nuovo corso, nelle occasioni che si sono specificamente programmate, non ci si è ancora piaciuti, per cui lo spirito sinodale non si è realizzato e ognuno continua a stare sulle sue quando ci si incontra, al modo in cui lo si fa nelle assemblee condominiali, per la disperazione dei nostri volenterosi preti. A loro dico: il riformatore sociale che dispera ha già perso. Siete sulla strada giusta, ma vi occorre più tempo e, forse, come si racconta di Mosè, vi sarà dato di intravedere solo di lontano la nuova società che agognate di realizzare. Ma non è questo, forse, il destino un po' di tutti i profeti?
5. Non un progetto di pochi e per pochi. Coinvolgere senza imporre
7. Nella costruzione sociale, che si tratti di religione od altro, occorre chiarirsi sugli obiettivi che ci si prefigge di realizzare. In religione sono esposti dalla teologia e sono assai vasti: addirittura organizzare il mondo intero in modo che un’umanità di otto miliardi di persone possa vivere quale l’unica famiglia che essa è considerata dalla fede. Questo comporta di raggiungere ciascuno di quei miliardi di individui e, influendo su di lui, ottenere in lui un cambio di mentalità con un conseguente radicamento culturale innanzi tutto della nostra idea di umanità, che non è condivisa in altre culture. Ciò è compreso nel messaggio evangelico:
[15] […] Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura.
[16] Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato.
[Dal Vangelo secondo Matteo 16, 15-16]
che è più o meno tutto ciò che abbiamo come principio direttivo dell’attività missionaria su scala globale, oltre che la narrazione di come si procedette ai tempi del Maestro in due tornate in Palestina, la prima affidata ai dodici apostoli, narrata nei Vangeli secondo Matteo, Marco e Luca (Lc 9,1-6) e la seconda, affidata a settantadue discepoli, narrata solo dal Vangelo secondo Luca (Lc 10). La missione viene presentata come un viaggio. Si va due a due, senza prendere nulla, né bastone, né borsa, né pane, né denaro, e nemmeno senza un vestito di ricambio. In ogni città ci si ferma in una sola casa finché non si parte. Si annuncia e si guarisce. Se non si è accolti, si va via, scuotendo la polvere dei piedi come gesto contro gli increduli. Già all’epoca del Maestro vi erano quelli che, pur davanti a guarigioni, prodigiose, non accoglievano: lo si narra, a proposito dell’atteggiamento dei samaritani, nel Vangelo secondo Luca 9, 51-55. Viene narrato che, di fronte a quell’atteggiamento riottoso, due discepoli, Giacomo e Giovanni, proposero di invocare una pioggia di fuoco sui recalcitranti, ma che furono rimproverati dal Maestro.
La storia ci insegna che nei secoli seguenti le tecniche missionarie furono piuttosto diverse da quelle sopra descritte. Furono organizzate sulla base delle varie culture espresse dalle nostre collettività di fede e delle esigenze dei tempi per come si fu capaci di valutarle. Appena si poté, furono fatte cadere piogge di fuoco sui dissenzienti. Dal Quarto secolo fino agli scorsi anni Sessanta, l’evangelizzazione su scala globale si fece in gran parte a mano armata e i suoi successi seguirono le fortune belliche degli europei, ma anche la loro capacità di metamorfosi sociale a fini di radicamento. Dove non si fu capaci della prima, o non si perseverò in essa, non ci fu o fu scarso il secondo. Un esempio molto significativo è quello dell’esperienza missionaria in Cina del gesuita marchigiano Matteo Ricci (1552-1610). Il Ricci, oltre che frate gesuita era anche uno scienziato in varie discipline e cercò di realizzare una metamorfosi culturale a fini di radicamento, avendo successo, tanto che la sua figura viene ancora oggi ricordata in Cina. Ma la sua storia non fece scuola in Europa, che viveva un’epoca di accese controversie teologiche, derivate dall’affermarsi della Riforma protestante, che si cercò di contrastare da parte cattolica con il Concilio ecumenico svoltosi a Trento tra il 1545 e il 1563.
Dal Quarto secolo l’attività di diffusione della fede nelle regioni dominate dall’Impero romano ebbe quindi carattere piuttosto diverso da quello descritta nei Vangeli, nei brani che ho sopra ricordato. Il cristianesimo divenne religione ufficiale dello stato e gli altri culti vennero proibiti: lo si stabilì nell’editto di Tessalonica, promosso nel 380 dall’imperatore Teodosio 1°. A seguire vennero persecuzioni violente contro i fedeli dell’antica religione politeistica e di varianti del cristianesimo non ammesse. I primi venivano chiamati pagani, dapagus, parola latina che significa villaggio, probabilmente perché si riteneva che i loro culti fossero ancora seguiti prevalentemente nelle campagne, anche se si danno anche altre spiegazioni come indicato nell’enciclopedia Treccani on-line:
pagano agg. e s. m. (f. -a) [lat. paganus, quindi propr. «abitante del villaggio», e più tardi «pagano»; il mutamento di sign. potrebbe essere dovuto al fatto che l’antica religione resistette più a lungo nei villaggi che nelle città; secondo altra ipotesi paganus, che aveva già nel lat. class. il sign. di «civile, borghese, non militare», contrapponendosi quindi a miles, avrebbe acquistato il nuovo sign. perché i primi cristiani, che si consideravano militi di Cristo, chiamavano pagani, cioè «borghesi», gli infedeli; più recentemente si è sostenuto che il pagus era un’entità non soltanto sociale ma anche religiosa, con proprie feste pubbliche sacre (paganalie), sicché paganus sarebbe stato colui che si manteneva fedele ai valori sacri tradizionali del pagus.
Quando diamo del pagano a chi non segue o non segue più la nostra religione ci allineiamo, in genere inconsapevolmente, con i costumi di diffusione violenta della fede attuati dal Quarto secolo in Europa. Io lo evito e vi consiglio di fare come me, anche se nella predicazione si suole ancora dare dei pagani agli irreligiosi o ai religiosi secondo altre fedi. Insultare gli altri non è mai un buon inizio dell'inculturazione.
8. Nel Medioevo europeo la violenza, anche estrema, fu connaturata all’evangelizzazione. Il suo culmine si ebbe nelle Crociate, guerre concepite come azioni religiose che furono organizzate contro i musulmani del Vicino Oriente. Questi metodi furono seguiti anche nella prima grande colonizzazione extraeuropea condotta dagli europei dopo la fine dell’Impero Romano, quella che riguardò dal Cinquecento l’America. Comportò genocidi degli Amerindi, i nativi, vale a dire i discendenti di coloro, popolazioni di ceppo asiatico, che erano migrati nel continente in epoca preistorica. Nelle successive guerre di colonizzazione europea in Africa, Asia e Oceania, dal Settecento, ci si condusse diversamente quanto alle questioni religiose, in genere consentendo alle popolazioni sottomesse di continuare a praticare i loro culti. Questo anche per l’affermarsi in Europa di idee diverse in materia di coesistenza religiosa, derivate dalla dura esperienza delle guerre di religione combattute in Europa tra cattolici e protestanti. La pressione sui nativi fu sicuramente più alta nell’azione dei missionari su popolazioni ritenute primitive, in Africa e Oceania, ma in genere non si ebbero gli eccessi perpetrati in America. L’unica regione extraeuropea del mondo in cui, al di fuori dell’America, gli europei ebbero successo nell’inculturare la loro religione nei nativi furono le Filippine. In Nuova Zelanda e in Australia si ebbe la quasi completa sostituzione di nativi con i colonizzatori europei cristiani che in quelle regioni si radicarono al modo degli autoctoni, come già avvenuto in America, con conseguente metamorfosi culturale.
La ragione della violenza di matrice religiosa non fu, in genere, veramente basata su esigenze di fede, bensì su questioni politiche. Il cristianesimo era stato infatti inglobato nell’ideologia politica degli europei e il dissenso veniva considerato un crimine politico, di lesa maestà, e come tale punito. Il Papato romano, in particolare, organizzò un proprio sistema di polizia politica, che va sotto il nome di Inquisizione, quando dall’anno Mille cercò di affermarsi anche come autorità politica europea, e di impero religioso. Oggi ci riesce difficile comprendere come la diffusione violenta della fede, e la conseguente repressione religiosa, potesse essere considerata in linea con i principi originariamente dettati dal Maestro, ma per un tempo lunghissimo non si ebbero difficoltà a capirlo. C’è, oggi, chi addirittura di quei tempi ha nostalgia e vi cerca ispirazione per la costruzione sociale.
9. La politica è ancora in qualche modo chiamata in questione dalla fede, ma generalmente in un modo diverso. La dottrina sociale moderna, infatti, sviluppata dal Papato a partire da fine Ottocento nell’ambiente culturale in cui stavano affermandosi ideologie democratiche, chiama all’azione per la riforma sociale, come azione di fede. Questo appunto significa concepire la politica come manifestazione di carità. La nostra Azione Cattolica fu costituita nel 1906 proprio per fare questo lavoro in società. Questo va tenuto presente anche negli obiettivi di riforma di una parrocchia come la nostra. Fare dell’umanità una sola famiglia descrive bene ciò a cui si tende. Ricordare la tragica storia passata della diffusione della fede, in cui prevalentemente si tese invece a fare dell’umanità un unico impero serve a chiarirsi le idee soprattutto suoi metodi da impiegare per ottenere i risultati che ci si prefigge. Una volta farlo veniva sospettato di eresia, ora invece è doveroso, in quello sforzo di purificazione della memoria, al quale ci guidò san Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2° nella preparazione al Grande Giubileo dell’Anno 2000. La storia è quella che è, non può essere cambiata: se ne può solo alterare la memoria, come ogni regime politico dispotico ad un certo punto tenta di fare, e anche la nostra Chiesa ha cercato ciclicamente di fare. Purificazione della memoria, nell’insegnamento di san Wojtyla, non significa manomissione e anzi richiede innanzi tutto di fare memoria realistica degli eventi. Significa, in realtà, purificazione di chi fa memoria, nel senso che egli deve sapersi distaccare dalle esperienze del passato che, alla luce della fede, non possono essere più prese a modello per il futuro. Come può una fede nell’agàpe, nella benevolenza universale, accettare di diventare violenta e addirittura stragista? Questo lavoro di purificazione è più facile quando si fa memoria di eventi lontani nel tempo e nello spazio. Oggi, forse, non accetteremmo di collaborare, come azione religiosa, a una conquista stragista della città di Gerusalemme come accaduto nel Medioevo. E questo anche se qualcosa dello spirito del passato rimane, quando decidiamo come condurci da cristiani in quella città che, come ci si proponeva nel Medioevo, è stata sottratta in gran parte ai musulmani, anche senza essere più, in gran parte, nelle mani dei cristiani. I cosiddetti luoghi santi sono quelli costruiti ideologicamente e materialmente come tali al tempo delle Crociate. Così, quasi certamente, non accetteremmo di seguire i metodi di evangelizzazione praticati nel Cinquecento e Seicento in America e questo anche se, questa posizione non comporta ancora una condanna morale radicale proporzionata all’enormità dei genocidi perpetrati in quelle epoche. Ma quando si tratta di giudicare eventi più vicini, nel tempo, nello spazio, al nostro cuore, le cose si fanno più difficili, ad esempio quando si cerca di fare purificazione della memoria sull’esperimento di costruzione sociale attuato nella nostra parrocchia dal 1983 all’autunno del 2015, in sostanza per una generazione. Da chi lo condivise ci si attesta in difesa, da chi dissentì ci si pone in attacco. Manca una memoria condivisa che, insieme al bene che ne uscì, sappia riconoscere francamente ciò che non funzionò.
10. Ritornando all’inizio: che cosa si vuole realizzare riformando la costruzione sociale della parrocchia? Ci basta ottenere un aumento della pratica sacramentale, ad esempi della frequenza alla Messa domenicale? Vorremmo ottenere una maggiore consapevolezza culturale sulle grandi verità di fede? Vorremmo anche indurre una più salda spiritualità personale? Vorremmo, oltre a tutto ciò, curare i mali sociali del quartiere come azione religiosa, nello spirito dell’attuale dottrina sociale? Riteniamo che quest’ultimo lavoro sia strettamente connesso con gli altri obiettivi in quanto questi ultimi possono essere conseguiti solo in una comunità educante che sorregga lo sforzo di perfezionamento personale? Nel vecchio corso, ad esempio, non ci si proponeva un lavoro di costruzione sociale al di fuori delle comunità educanti. Ci si prefiggeva, idealmente, un’espansione di queste ultime, tali e quali come erano, nella società intorno fino ad inglobarne la maggior parte possibile. La legge generale del radicamento culturale,nessun radicamento senza metamorfosi culturale, veniva seguita solo all’interno delle neo-comunità, mentre non la si accettava nel lavoro di espansione sociale, temendo la contaminazione culturale. Le neo-comunità apparivano assai diverse da quelle dell’associazionismo religioso del passato, quindi prodotto di una intensa metamorfosi attraverso la quale si era ottenuto un forte radicamento delle spiritualità personali degli aderenti, ma non accettavano la diversità degli altri fuori, ai quali era lasciata, sostanzialmente, l’unica scelta dell’assimilazione. Ora il modello parrocchiale corrente è impostato diversamente, ma non manifesta evidente il proprio obiettivo in società e questo, se da un lato rende meno rigido il rapporto con gli altri fuori, non rende ancora bene l’idea di che cosa ci si aspetta nell’uscire e che cosa gli altri di fuori dovrebbero aspettarsi, e anche temere, da noi. Questo li fa più guardinghi nei confronti delle nostre iniziative volenterose. La dottrina sociale corrente non aiuta in questo, perché si mantiene troppo sul vago. Poi però è insoddisfatta di noi, che operiamo sul campo, e ci rimprovera di rimanere anime belle, facendoci meri ripetitori di concetti senza sapercene fare attuatori. Questo ciclico rimprovero di animobellismo mi accompagna fin dalle mie prime esperienza associative in religione ed in effetti ogni riforma in religione procede con una esasperante lentezza, tranne certi periodi di convulso avanzamento seguiti da altrettanti bruschi arresti. Attuare i bei propositi è difficile. Si è in qualche modo costretti a rimanere anime belle. Ci si sente lanciati verso il cambiamento, ma presto arriva la doccia gelata: i superiori, timorosi di perdere il controllo, ordinano di fermarsi, perché andando troppo avanti si cominciano a perdere tanti pezzi. Poi però rimpiangono quello che si poteva fare e se la prendono con noi anime belle per disciplina, per così dire (le anime belle più volenterose avendo fatto spesso una pessima fine, come minimo sperimentando l'emarginazione). In un articolo su Civiltà Cattolica di questo mese, il direttore della rivista Antonio Spadaro ricorda le parole di papa Francesco da primate di Argentina, nel 2010, poco dopo le elezioni politiche tenute in quello stato nel marzo di quell’anno: «Non serve un progetto di pochi e per pochi, di una minoranza illuminata e di testimoni, che si appropria di un senso collettivo. Si tratta di un accordo sul vivere insieme. E’ la volontà espressa di voler essere popolo-nazione nel contemporaneo». Ragionando su quelle parole, Spadaro scrive: «Non basta più formare i giardini delle élite e discutere al caldo dei “caminetti”. Non bastano più le accolte di anime belle [,..] Facciamo discorsi ragionevoli e illuminati, ma la gente è altrove. E il grande rischio è quello di immaginare il “popolo” in forma di “massa anonima”». Ecco, vedete di nuovo l’accusa di animobellismo. Riguarda anche noi in parrocchia? Un po’ sì: ecco che i teorici della dottrina sociale sono insoddisfatti di noi perché non sappiamo relazionarci conle masse, il quartiere per quanto ci riguarda. La questione centrale, scrive ancora Spadaro, è quella della democrazia. Si è presa consapevolezza, infatti, continua Spadaro, che le democrazie possono morire, e ciò anche per mano di leader eletti democraticamente. E ai tempi nostri la democrazia, a lungo avversata, è considerata un importante strumento per l'attuazione dei principi della dottrina sociale. Per noi, ragionare in quell’ordine di idee significa fare i conti con le circa quindicimila persone di fede che popolano il quartiere, acquisendo con loro quella familiarità che serve a non mantenercele anonime. E’ questo che realmente vogliamo? O ci accontentiamo di volare più basso?
Ricordiamo sempre questo: tanto più vasto è il radicamento culturale che si vuole ottenere, tanto più intensa è la metamorfosi che serve. Non basta urlare il Vangelo dai tetti. Quanto siamo disposti a cambiare per ottenere quel risultato? E, soprattutto, siamo veramente capaci di cambiare nella misura che serve o è necessario perdere ancora un po’ di tempo per approfondire e chiarirci tra noi? Un’anima bella non basta, certo, hanno ragione i teorici della dottrina sociale, ma è un buon punto di partenza; migliore sicuramente di un’anima brutta, e di un brutto passato che ogni tanto riemerge, anche se spesso inconsapevolmente o almeno ignorando o sottovalutando il male che in esso c'era. Per agire con spirito sinodale, che significa proponendosi di camminare insieme anche se si è discordi nel dettaglio, occorre inoltre farne pratica e noi abbiamo appena cominciato.
6. Insegnare il sentire politico per superare i confini del piccolo gruppo di mondo vitale di riferimento
11. Se consideriamo la nostra realtà naturale di animali umani, vale a dire la biologia che ci accomuna agli altri viventi non umani e in particolare agli altri mammiferi, dobbiamo riconoscere che l’idea dicostituirci in un’unica famiglia che comprenda tutta l’umanità è largamente fuori della nostra portata. Non siamo fatti per questo. La nostra realtà sociale naturale è quella degli altri primati, costituita di piccoli gruppi. Il nostro organismo non riesce a stabilire relazioni profonde al di là di un certo numero di altri individui. Tutta la nostra vita, anche se la trascorriamo immersi in folle immense, si svolge in teatriumani limitati, formati dagli individui che assorbono di volta in volta la nostra attenzione, che si tratti di assistere ad una lezione scolastica, di partecipare ad una liturgia, di fare la spesa o di guidare un veicolo nelle strade cittadine. Tutto il resto sfuma indistinto intorno e noi non ne abbiamo precisa consapevolezza, ma solo memoria generica e un’immagine predittiva, sempre generica, basata sulla memoria, sulle passate esperienze. Spesso memoria e immagine predittiva sono sbagliate, nel senso che non corrispondono alla realtà, sono solo il frutto del funzionamento della nostra mente, che è ciò che veramente ci distingue dagli animali non umani. E’ appunto con la mente che possiamo costruire l’immagine e poi anche l’idea, una struttura di pensiero, di un’umanità di tipo familiare, legata quindi a livello globale dalle stesse relazioni di benevolenza e solidarietà che (talvolta ma non sempre) si creano nei piccoli gruppi in cui appariamo come confinati. Quel tipo di umanità la possiamo pensare, ma solo nelle grandi linee; ci è precluso, per limiti biologici di specie, di avere con ciascuno degli individui di questa umanità allargata le stesse relazioni che abbiamo nei piccoli gruppi in cui la nostra vita si svolge, e, in particolare, in quelli più importanti, dai quali deriviamo il senso della vita. Tuttavia anche la possibilità di pensare in quel modo serve: perché ci consente diprogettare relazioni al di là dei micromondi nei quali siamo confinati, di concepire una storia che va molto al di là di essi, dando senso a collettività molto più vaste e quindi consentendo anche di organizzarle.“Pensare è varcare le frontiere” osservò il filosofo tedesco Ernst Bloch (1885-1977). Pensare ci consente di trascendere, vale a dire superare, i nostri limiti di specie. Lo si è iniziato a fare pensando, progettando ecostruendo, in epoca preistorica, i primi strumenti utènsili, ad esempio le pietre scheggiate che i nostri antichissimi progenitori, circa 2,5 milioni di anni fa, cominciarono ad utilizzare per tagliare. L’evoluzione delle nostre società ha seguito la stessa dinamica: in un certo senso le società sono gli strumenti che ci occorrono per evadere dai piccoli gruppi in cui biologicamente saremmo confinati. Le religioni sono state la prima e fondamentale via mediante la quale l’evoluzione sociale ha fatto un importante salto di qualità, consentendo di costruire i primiregni, le prime entità politiche di società molto allargate. Si trattava di visioni unificanti che spiegavano il posto degli umani nella natura, in una natura umanizzata e quindi resa accessibile agli umani, personificata negli dei, nelle potenze superne immaginate simili a viventi umani, natura nella quale anche gli umani avevano un proprio dio, una potenza che trascendeva il singolo e anche il suo piccolo gruppo di riferimento: facendovi tutti riferimento si potevano organizzare società molto vaste anche non conoscendosi tutti uno per uno. Nelle religioni primitive era essenziale un’etica sociale e, anzi, essa era la loro fondamentale ragione d’essere. Quell’etica indicava la via per rimanere nel giusto equilibrio con le potenze naturali e per mantenere vitale la società allargata, che ormai era diventata indispensabile per la sopravvivenza. Ora abbiamo imparato a volare e, volando molto alto, siamo andati anche nello spazio interplanetario. Le nostre società si sono molto evolute e, in esse, anche le religioni. Ma la natura di queste ultime non è veramente cambiata. Hanno a che fare ancora oggi con la trascendenza, nel senso che servono a dare senso a una vita sociale che supera di molto i confini dei piccoli gruppi nei quali di volta in volta stabiliamo relazioni sociali, ma anche la nostra stessa vita biologica. La visione religiosa dà il senso del succedersi delle generazioni umane e della nostra vita in esso. Ci consente dipensare relazioni con coloro che non sono più e con coloro che non sono ancora: i primi come progenitori, avi, i secondi come¸ posteri, gente la cui vita dipenderà dalla nostra. Dare senso al succedersi delle generazioni ha comportato un’importantissima conquista culturale, quella del diritto. Quest’ultimo è un sistema di regole definite, quindi compiutamente espresse e conoscibili, dotato di una certa stabilità sociale, nel senso che, un volta dato, viene ritenuto vincolante in società, la quale si impegna a farlo rispettare con la forza del numero, sovrastando l’indisciplina dei singoli; un ordine che supera i singoli e le loro vite biologiche. Il diritto dà stabilità alle regole, ma anche alla società, perché le più importanti regole giuridiche, vale a dire relative al diritto, riguardano appunto la costituzione della società, concepita come collettività umana stabile che unisce le varie generazioni e per la quale, quindi, la morte individuale non è la fine di tutto. Religione e diritto consentono alla società di resistere alla morte degli individui che la compongono.
12. Tutto ciò che ho sommariamente riassunto rientra nel programma scolastico delle scuole superiori, lo si trova nei libri di testo scolastici, è diventato veramente alla portata di tutti, nell’era della scolarizzazione di massa. Ma quanti ne mantengono veramente consapevolezza? Eppure si tratta di conoscenze molto importanti, che spiegano, in particolare, perché le religioni sono una costituente vitale per le società umane e questo anche se, come accadeva e accade nei regimi comunisti ateistici, si sono costruite religioni atee, ma comunque religioni. Anche oggi in Occidente, un complesso di società molto evolute, le principali convinzioni sociali correnti hanno natura religiosa, ad esempio quelle che riguardano i diritti umani fondamentali. Qual è, dunque, la caratteristica fondamentale della religione? Non necessariamente quella di far riferimento ad una o più divinità, perché, sotto questo aspetto le religioni variano molto e possiamo anche riscontrare religioni che non comprendono relazioni soprannaturali con un dio. E’ invece essenziale alla religione pensare la trascendenza, vale a dire di immaginare il superamento dei nostri limiti biologici di specie per dare senso ad esperienze sociali più vaste di quelle nelle quali siamo confinati e ciò, e questo è molto importante da capire, sulla base di una intuizione, non di una effettiva conoscenza, che nella pratica ci è impossibile. L’intuizione è un fenomeno mentale che ha a che fare con l’emotività, una componente essenziale del funzionamento della nostra mente, come ci insegnano gli psicologi, in particolare quelli che si occupano del modo come decidiamo. Nell’intuizione si ha una visione semplificata della realtà sulla base di ciò che si sa, che non è tutto ciò che servirebbe sapere e che rimane al di fuori della nostra portata, e di ciò che si sente emotivamente e quindi anche si desidera. Perché un soldato, in combattimento, sacrifica la propria vita difendendo un avamposto indifendibile, solo per dare modo ad altri di salvarsi? Perché un vigile del fuoco mette a serio rischio la propria vita cacciandosi in un incendio per salvare altra gente? Perché, di fronte a una persona che affoga, ci si sente emotivamente spinti a fare qualcosa e talvolta effettivamente la si fa a rischio della propria vita? Tutte queste sono manifestazioni di religiosità.
Finora sono rimasto sul generico, ma scendendo a noi, al caso particolare della nostra parrocchia, quello che ho ricordato serve a capire l’importanza di ciò che si fa in chiesa: dare senso religioso serve infatti a mantenere vitale la società e questo è indispensabile per la sopravvivenza di tutti. L’umanità è divenuta tanto numerosa e la vita di tutti dipende da un sistema di relazioni sociali tanto complesso che il disordine o la dissoluzione sociale mettono in pericolo, molto più che in altre epoche, addirittura la sopravvivenza collettiva, e questo a prescindere da eventi catastrofici conflittuali come le guerre, nelle quali ci si fa deliberatamente del male. La società, nell'ordinario, deve essere in grado di funzionare come progettata, come se le persone ne costituissero ingranaggi. Difficile però integrarvi individui limitati, in modo che conservino anche una certa libertà di azione che rientra nella loro natura biologica desiderare e ricercare, senza suscitare uno spirito religioso, senza dare un senso religioso a quel tipo di convivenza sociale. Gli esseri umani non sono automi, e per la loro biologia sono portati a mantenere uno spazio di libertà attorno a sé, negli scenari in cui di volta in volta interagiscono. Serve il loro consenso per organizzare la società, che, però, per la sua complessità, sfugge alla loro capacità cognitiva. Ne possono intuire il senso religiosamente. D'altra parte quella società, come ho osservato, ci è ormai indispensabile per la sopravvivenza. Possiamo stare poco tempo sott’acqua, senza qualche strumento che ci consenta di superare i nostri limiti biologici; così possiamo rimanere poco tempo fuori della società molto complessa del nostro tempo e non ci sono, in realtà, strumenti che ci consentano di superare questo che, ormai, è un vero e proprio nuovo limite, ma di quelli che non possono essere trascesi. Se potessimo riuscirci saremmo dei. Ma una cosa così ci riesce difficile addirittura da immaginare, da pensare. La saggezza biblica ci ammonisce: impariamo a contare i nostri giorni!
Da quello che ho riassunto emerge anche una conseguenza: la religiosità è modellata dalle esigenze sociali. Di solito, nella nostra religione, si immagina una dottrina solo da applicare a una società, un po’ al modo del diritto. In realtà la storia della nostra esperienza religiosa dimostra chiaramente che la dottrina ha seguito l’evoluzione sociale, e non sarebbe potuto essere che così, vista la funzione sociale della religione. Questo per il motivo che una religione che non ne sia capace diverrebbe rapidamente inutile. La principale critica delle religioni ateistiche nei confronti della nostra è appunto di essere diventata inutile, perché le uniche religioni utili sarebbero quelle a base razionalistica che non si riferiscono a divinità superne, non personalizzano forze soprannaturali, ma costruiscono la trascendenza a partire dalle realtà sociali umane. La spiegazione del perché non lo è dovrebbe essere parte importante della formazione religiosa di secondo livello, per adolescenti e adulti. Ma la dimostrazione dovrebbe essere essenzialmente pratica, secondo l’evangelico venite e vedete. Ciò comporta anche il fare tirocinio della nostra spiritualità, che è una componente importante della nostra religiosità. Ecco dunque che si delineano alcune direttrici generali che possono guidarci nell’azione di riforma parrocchiale, e questo del resto anche secondo indicazioni del magistero, date medianti Direttòri di catechetica: costruire una società religiosa di prossimità dove fare esperienza di fede e spiritualità e capirne il senso. Ma quanto di prossimità? Ecco il primo problema. Comunità troppo piccole danno senso ma non attivano veramente la trascendenza, sono utili solo come punto di partenza, al modo in cui lo fu la prima piccola comunità di apostoli intorno al Maestro; comunità troppo grandi non arrivano a dare senso perché all’individuo appaiono come masse anonime in cui egli stesso è anonimo, non è chiamato per nome. Una soluzione tentata per superare quella difficoltà è di costituire figure di mediazione tra i piccoli gruppi e tipicamente esse nella nostra confessione sono costituite dai sacerdoti. Diminuendo il loro numero si è ricorsi ad altre specie di animatori. Questi ultimi presentano la controindicazione di far divenire le comunità dipendenti da loro, relegando in posizione passiva gli altri componenti. E’ un effetto che si ha, del resto, anche nella mediazione sacerdotale, ma con minore intensità, per il fatto che la classe sacerdotale è nettamente distinta dai gruppi in cui opera e quindi non si integra mai completamente in essi. Tuttavia, nel mondo di oggi occorre qualche cosa di diverso e di più impegnativo: occorre indurre una spiritualità che comporti anche il superamento del piccolo gruppo di riferimento in ciascuno di coloro che lo vivono. E’, fondamentalmente, il lavoro della democrazia, che consiste appunto nel sentire politico della complessità sociale, ma con animo religioso nel senso che ho prima precisato, in modo da saper prendere a cuore anche ciò che va oltre la propria dimensione di prossimità. Questa è una importante conquista culturale che richiede una specifica organizzazione. Significa, usando le parole del nostro parroco e il suo auspicio nella messa del Te Deum, l’ultimo dell’anno, saper organizzare una dimensione corale della parrocchia. In questo abbiamo incontrato difficoltà, in particolare perché non ci si riesce a mettere d’accordo su quello che si deve cantare. Nessuno vuole cantare i canti dell’altro.
7. Organizzare significa immaginare. Indurre il sentimento sociale di stato nascente
13. Organizzare significa immaginare. Immaginare una società che vada oltre un piccolo gruppo di non più di centocinquanta persone, che è alla nostra portata cognitiva come umani, ci è difficile. Nel pensarla la dividiamo in sottogruppi, ciascuno dei quali ce lo figuriamo come un singolo individuo. Ma in realtà non lo è. Costruiamo delle relazioni normative tra i sottogruppi, nel senso di vincolanti. A ciascuno assegniamo uno scopo, una funzione,una posizione nello spazio e nei confronti degli altri,delimitandolo. Stabiliamo una procedura per prendere decisioni collettive, infine, costruiamo una narrazione che costituisca il mito fondativo della neosocietà e che possa essere tramandata tra gli associati coinvolgendone l'emotività. Quel mito è la sintesi del perché la neosocietà esiste e delle funzioni che primariamente intende svolgere. Il mito, dovendo sollecitare l'emotività, ed essere quindi alla sua portata, mette in scena necessariamente un piccolo gruppo di fondatori. Naturalmente la realtà della neosocietà è più complessa di come la si è immaginata e, soprattutto, meno stabile. La nostra biologia tende a rendere instabili società pensate come stabili. L'organizzazione sociale, lo osservò il filosofo inglese del Seicento Thomas Hobbes, serve a rendere stabile ciò che stabile non è.
L'esistenza di ogni società dipende dalla sua persistente utilità e dal coinvolgimento emotivo di un numero di persone, i consociati, sufficiente a raggiungere gli scopi che si è assegnata. Questi ultimi sono definiti dalle sue regole e dal mito fondativo, ma vengono aggiornati per adeguarli alle esigenze sociali del gruppo dei consociati, non del singolo ma dei singoli nelle loro relazioni sociali, al numero e caratteristiche di essi e alle influenze esterne. Ogni società è quindi in costante metamorfosi, se non altro per il succedersi delle generazioni dei consociati e dei suoi vari esponenti di vertice. Ogni società ha anche una vita delimitata e quindi nasce, muore o si rigenera, come gli individui di cui è composta. Il coinvolgimento emotivo dei suoi membri è massimo all'inizio, i sociologi ne parlano come di sentimento di "stato nascente", e nelle fasi di rigenerazione, e tende a diminuire nel tempo: è una dinamica simile a quella delle fasi di innamoramento e amore sessuale. Del resto quel tipo di relazioni tra individui definisce un tipo di società minima. Si tratta di un piccolo gruppo, il minimo, fatto di due sole persone, in cui il coinvolgimento emotivo è massimo ed è sostenuto dalla biologia sessuale, che ne alimenta la coesione ma solo nel breve periodo. Essa cessa in mancanza di rigenerazioni e in queste rigenerazioni consiste l'amore tra i sessi. Il ricordo della fase di innamoramento ne costituisce il mito fondativo. Le sue regole però vengono solo in parte create dagli amanti, quelle più vincolanti sono date dalla cultura di riferimento. In nessun caso queste ultime bastano a mantenere la coesione, anche se facciano riferimento a miti soprannaturali. Questa è una regola generale delle società umane: queste ultime durano finché c'è un numero sufficiente di consociati che si piacciono e siano sufficienti a conseguire lo scopo collettivo. Non possono sussistere a lungo solo a comando, per spirito di dovere. Altrimenti muoiono o, anche, subiscono metamorfosi che le trasformano, e a volte è come se risorgessero dopo morte, come si narra del mitologico uccello chiamato Fenice, che risorge dalle sue ceneri.
Da dove ho ricavato ciò che ho descritto? Dall'esperienza personale e da ciò che ho letto. Questo non è un testo scientifico e quindi non ho l'obbligo di distinguere e dettagliare ciò che è mia esperienza e ciò che ho tratto dal pensiero altrui, citandone le fonti. L'importante è verificare se, anche nella vostra esperienza personale, le società nascono, muoiono e si rigenerano come ho descritto.
14. Scendendo nel nostro caso particolare e facendo applicazione di ciò che ho ho sopra esposto, osservo questo: la nostra parrocchia come esperienza sociale era già morta nel 2015, quando iniziò un suo nuovo corso, e da allora sta vivendo una rigenerazione per metamorfosi. Era morta perché era finita come corpo sociale, si era dissolta nei sottogruppi che ne abitavano le spoglie, al modo in cui i romani nel Medioevo abitavano tra le rovine dell'antica Roma. Sopravviveva come realtà istituzionale, come "casa dei preti". Non c'è da recriminare su questo: la morte delle società è un fatto naturale come quella degli individui. Alla fine l'instabilità finisce sempre per avere il sopravvento e, per una rigenerazione, occorre riorganizzare. La nostra parrocchia era già morta anche prima, rigenerandosi, nel corso degli anni '80. A quell'epoca divenne diversa da quella della mia infanzia e adolescenza e di quando mia madre vi aveva fatto la catechista. Quella svolta, a differenza di quella più recente, fu, però, voluta, deliberata, mettendo fine a una precedente società che si pensava fatalmente compromessa. Il mito fondativo di rigenerazione, quello delle neocomunità di tipo tribale chiuse a difesa contro la societá ostile, non è riuscito ad affermarsi nel quartiere, nei circa quindicimila che ancora pensano religiosamente secondo la nostra fede: è bastato solo a porre fine al passato e ad avviare la rigenerazione. Negli ultimi anni, nella senescenza del corpo sociale, è rimasto come giustificazione di un complesso di sottogruppi che abitavano ancora, saltuariamente, gli spazi parrocchiali. Questi ultimi presero ad essere poco abitati e. da disabitati, assunsero, almeno per me che li ricordavo in una fase precedente, un aspetto diruto. E' ciò che appunto si osserva in tutte le civiltà che invecchiano ed è come quando una persona assume le sembianze da vecchia.
Anche le parrocchie come istituzioni muoiono: accade quando mancano i preti e allora vengono accorpate. Nel nostro caso la Diocesi ha deciso diversamente, ha deliberato di avviare una intensa rigenerazione, mandandoci molti e volenterosi preti e un parroco di grande esperienza nella risoluzione di problemi simili. Del resto la popolazione del nostro quartiere corrisponde a quella di una piccola diocesi, non è un cosa da poco. E c'è un fatto nuovo e importante, che sta diventando sempre più eclatante: l'arrivo di tante famiglie con bambini che si insediano negli appartamenti lasciati dai più anziani. In altre parole si sta producendo un marcato ricambio generazionale. È stata quindi oculata la scelta della Diocesi di investire nella nostra parrocchia.
Le difficoltà sono date fondamentalmente dalla mancanza di un buon mito fondativo e dall'interferenza di quello precedente. Inoltre vi è l'insufficiente consuetudine reciproca. Ci si conosce poco e quando ci si frequenta si diffida. Lo si è visto negli incontri "ecumenici" che si sono svolti in Quaresima. Ci si è limitati a proporre i propri punti di vista e a dire che si stava bene solo con chi la pensava nello stesso modo e si voleva continuare così. C'è una certa resistenza, più che altro passiva, alla rigenerazione. Non siamo disposti a cantare gli uni i canti degli altri, letteralmente. La gente del quartiere più che altro osserva, non capendo bene che sta succedendo. Intuisce il cambiamento, ma non ne è ancora coinvolta come partecipe, ma più che altro come utente di servizi religiosi. La frattura sociale, che è stata la vera origine del nuovo corso attuato negli anni '80, di quella svolta, non si è ricomposta e all'epoca veniva interpretata mitologicamente come la rivincita degli ortodossi contro i modernisti. Ora, in genere, se ne è persa consapevolezza, ma io, sessantenne, l'ho vissuta in prima persona e so come andò. Ci si è fatti, e ci si fa, del male, anche se non si ricorda bene il perché. Quando scoccano scintille, riemerge l'antico sospetto reciproco di eresia, lanciato per lo più da persone che non sanno bene di che parlano. Non è giunto forse il momento di cambiare? Non è giunto il momento del perdono reciproco e della riconciliazione? Non è forse l'ora di darsi regole diverse, ad esempio di vietarsi la calunnia incolta? La lingua, si dice, ferisce più della spada. Non è giunto il tempo della pace? Lo chiese ai Bosniaci San Karol Wojtyla in una storica omelia tenuta negli anni '90 a Sarajevo, dopo la fine della guerra civile.
8. Dalla giurisdizione territoriale alla democrazia comunitaria
15. Organizzare un servizio è più semplice che costruire una comunità. Richiede infatti molta minore empatia, la capacità di immedesimarsi negli altri, e simpatia, vale a dire il piacersi. C'è un lavoro da fare e c’è chi vuole che venga fatto, procura i mezzi per farlo e lo organizza. Se il lavoro ha ad oggetto la società, come nel caso di un servizio sanitario, essa si presenta come un pubblico di utenti, di gente che si avvicina per ottenere quel servizio quando ne ha necessità. Del pubblico occorre tener conto perché serve una sua qualche collaborazione per la migliore gestione di servizio. Vi è così un abbozzo di elemento comunitario Se il servizio non riguarda la società, come nel caso in cui ci si proponga di costruire qualcosa di materiale, tutto è più semplice, perché l'elemento umano viene ordinato secondo ciò che serve per fare quel certo lavoro, ognuno ha il suo compito e hanno voce in capitolo solo i capi.
La parrocchia svolge anche dei servizi religiosi e sotto questo profilo può essere considerata come un ente pubblico di servizio, al modo di una azienda sanitaria locale, perché è in massima parte finanziata con risorse pubbliche. Lo è perché quei servizi hanno a che fare anche con la coesione sociale e quindi presentano anche un interesse specificamente politico. Renderli in regime di finanziamento pubblico ne consente il controllo da parte di chi finanzia, attraverso intese con le autorità religiose che si chiamano concordati e sono concluse al massimo livello, tra stati e Papato. I concordati sono coevi alla costituzione di quest’ultimo come impero religioso nel Secondo millennio. Il primo concordato fu concluso nel 1122 nelle città tedesca di Worms tra l’imperatore germanico Enrico 5° di Franconia e il papa Callisto 2°: con l’accordo l’imperatore rinunciò alla consacrazione ecclesiastica dei vescovi, riconoscendola solo al Papa, riservandosi solo il potere di conferire ai vescovi i loro poteri pubblici, quali suoi feudatari. Questo segnò il primo vero riconoscimento di un potere imperiale del Papato analogo a quello dell’imperatore civile, rivendicato dal Papato a partire dall’Undicesimo secolo sotto il regno del papa Gregorio 7°, regnante dal 1073 al 1085.
Come ente pubblico religioso erogatore di servizi, la parrocchia può essere vista come suddivisa in dipartimenti, secondo le aree di intervento: amministrazione del patrimonio, del personale e dello stato religioso (registri parrocchiali); liturgia e sacramenti, formazione religiosa, carità. Sotto questo aspetto è un’articolazione di una complessa burocrazia territoriale, nella quale ogni settore è posto sotto l’autorità di un monarca, affiancato da collaboratori e consulenti. L’uno e gli altri sono scelti prevalentemente tra gli appartenenti alla classe sacerdotale, caratterizzata da una specifica formazione, da una particolare investitura sacramentale e da un particolare impegno di fedeltà e sottomissione ai superiori. Nel complesso la struttura burocratica ha aspetto piramidale: in alto un vertice monocratico e a scendere altri vertici monocratici subordinati con competenza settoriale o territoriale che controllano a loro volta autorità con competenza minore, fino ad arrivare al resto del popolo che n non controlla nulla. In quest’ottica il pubblico degli utenti è in posizione passiva: accede ai servizi e fa ciò che gli si dice. Ottiene un riconoscimento religioso che per due millenni è stato molto importante in società, ora molto meno. Il bisogno di questo riconoscimento religioso è la fonte del potere religioso, ciò che lo giustifica. L’esercizio del potere religioso è organizzato come una giurisdizione territoriale, della quale la parrocchia è l’articolazione di base. Il popolo è quindi suddiviso su base territoriale, non per affinità di altro genere, e chi si sposta sul territorio passa automaticamente da una giurisdizione all’altra. La residenza determina la soggezione a una giurisdizione e, nelle questioni di stato religioso, non ce se ne può liberare scegliendo liberamente a quale appartenere. Questa struttura della parrocchia è ancora vigente, in particolare dal punto di vista giuridico, e coesiste con un’altra più recente, che data fondamentalmente al Concilio Vaticano 2° (1962-1965).
Quest’ultima, in italia, ha come antecedente l’organizzazione politica dei fedeli che il Papato promosse nella seconda metà dell’Ottocento nella sua dura controversia con il Regno d’Italia, che l’aveva spodestato, mediante conquista bellica, del suo piccolo regno nell’Italia centrale, con capitale Roma, nel 1870.
16. L’Italia, e in misura minore l’Europa intera, fu storicamente il principale laboratorio politico del Papato, il territorio dove il Papato sperimentava e affinava la sua giurisdizione. Questo in particolare nel suo difficile rapporto con i movimenti politici democratici, manifestatisi in Europa del Settecento. Vinto nell’Ottocento dai nazionalisti del Regno d’Italia ed essendosi dato quest’ultimo, da poco (la prima costituzione del Regno era del 1848), un’organizzazione democratica, il Papato prese lo spunto da movimenti sociali in favore dei proletari (così li si definisce nell’enciclica Le novità - Rerum novarum del 1891, diffusa sotto l’autorità del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°, la prima enciclica della dottrina sociale moderna), vale a dire i lavoratori alle dipendenze altrui, la parte meno favorita e largamente maggioritaria della nazione, che, come in tutta l’Europa della seconda metà dell’Ottocento, si erano organizzati spontaneamente, per promuovere nella società italiana un movimento politico di resistenza, per appoggiare le sue pretese di restituzione del potere temporale, almeno sulla città di Roma. Questa giurisdizione territoriale veniva ritenuta indispensabile al ministero religioso del Papato, per renderlo indipendente dalle pretese degli stati. Il Papato cercò di ottenere con la pressione popolare ciò che non gli era più dato di conseguire, come in passato, con la diplomazia internazionale, cercando appoggio nei regnanti europei. In questa prospettiva il movimento dei fedeli veniva concepito come un esercito, del quale clero e religiosi erano gli ufficiali, il Papa il comandante supremo e i vescovi i generali, secondo una struttura sempre piramidale. Manifestandosi nel movimento popolare tendenze democratiche, di democrazia cristiana, il Papato le annientò bruscamente, sconfessandole teologicamente con l’enciclica Le gravi preoccupazioni per le questioni sociali - Graves de communi re del 1901, diffusa sotto l’autorità del papa Pecci, provocando nel 1904 lo scioglimento dell’Opera dei Congressi nelle quali si erano manifestate e progettando nel 1905, con l’enciclica Il fermo proposito, del papa Giuseppe Sarto - Pio 10°, una nuova organizzazione a livello nazionale, che fu costituita l’anno successivo, in cui furono deliberati gli statuti della nostra Azione Cattolica.
Nel prosieguo della sua storia l’Azione Cattolica non rimase però uno strumento passivo nelle mani del Papato. Attraverso di essa si produsse l’acculturazione dei cattolici italiani alla democrazia, proponendo un modello di fedele laico nuovo. Questo sviluppo ebbe successo, portando, dal secondo dopoguerra, dal 1945, all’egemonia del cattolicesimo sociale e democratico sulla politica italiana. Analoghe esperienze furono vissute anche nel resto d’Europa, anche se la storia italiana risultò sempre veramente particolare avendo dovuto superare una contrapposizione frontale tra Papato e stato democratico che non ha precedenti nel mondo e che, purtroppo, finì anche per gettare il Papato nel compromesso con il regime mussoliniano, per una decina d’anni a partire dal 1929.
Il nuovo modello di fedele era quello di una persona consapevole, partecipe, con una larga autonomia nelle questioni sociali, accreditata in particolare dalla sua competenza in quelle che, nel gergo teologico della dottrina sociale, vengono definite questioni temporali, e che sono quelle relative all’organizzazione sociale, vista come necessariamente mutevole nel tempo, e in questo senso temporale, a differenza del regno del sacro, visto (irrealisticamente) come eterno. Il campo temporale comprende la scienza, la tecnica, l'istruzione, l’impresa industriale e artigiana, il commercio, la politica, ma anche la carità, intesa come il soccorso a chi in società sta peggio per vari motivi. La riforma sociale entrò sempre più nel campo dell’autonomia laicale, che, alle origini della dottrina sociale, aveva poco spazio, ritenendosi che ci si dovesse limitare ad applicare i comandi dati dal Papato. Questi sviluppi si produssero anche altrove nel mondo, in particolare in Occidente, e furono coevi alla secolarizzazione, processo connaturato alla democrazia, che significa concepire la politica come integralmente soggetta alla critica razionale dei consociati, senza alcuna area che, per ragioni sacrali, per essere munita di un carattere sacro, quindi eterno e indiscutibile, potesse sottrarsi a questa giurisdizione democratica. Detta così, la cosa può apparire indolore dal punto di vista della Chiesa, ma non lo è: significa ammettere la possibilità dileggi degli stati che contrastano con principi sacralizzati, e in quanto tali ritenuti indiscutibili, innanzi tutto quelli che vorrebbero sottrarre la Chiesa alla giurisdizione degli stati al di fuori di concordati, ma, ad esempio leggi che ammettano idee a lungo, e a volte ancora, contrastate dal potere religioso, come alcune di quelle liberali e socialiste in materia di libertà religiosa, beni ecclesiastici, questioni matrimoniali e riproduttive, stato civile del clero e dei religiosi, istruzione religiosa nelle scuole pubbliche e altro.
Questo portò a riflettere sulla concezione religiosa di popolo, soggetto che era al centro dei movimenti democratici a livello globale, e a mettere in azione una riforma religiosa come mai c’era stata dall’Undicesimo secolo, analoga a quella prodottasi in Europa dal Settecento nelle organizzazioni politiche con il trasferimento disovranità da dinastie regnanti ad altre organizzazioni su base democratica. L’assimilazione piena della democrazia poteva infatti portare, agendo le masse dei fedeli con metodo democratico e influendo in tal modo sulle società di riferimento, ad una riforma sociale compatibile con le idealità religiose ed, anzi, appariva ormai l’unica via per ottenerla, almeno in Occidente.
17. L’Azione Cattolica era stata tutto sommato un movimento settoriale, determinato dalle contingenze politiche del momento. Veniva concepita come un supporto al potere religioso di tipo piramidale. Prendendo atto dell’emergere dei popoli alla sovranità democratica, era necessario dare nuova forma all'intero popolo religioso in vista dei nuovi compiti che doveva svolgere nel nuovo contesto sociale, in particolare in vista della riforma sociale. Quest’ultima da obiettivo tutto sommato strumentale alle pretese del Papato vide accentuato il suo carattere specificamente religioso e dunque fondamentale nella formazione e nella pratica della fede, come azione di carità. Di tutto questo si trattò e su questo deliberò il Concilio Vaticano 2°, con importantissime pronunce anche a carattere specificamente dogmatico, sui fondamenti. Da ciò emerse una nuova immagine di popolo, ma non solo: anche di Chiesa. Si innescò un moto di riforma religiosa molto esteso. Quando però si trattò di tradurre di deliberati conciliari nella realtà parrocchiale si manifestarono serie difficoltà, che non si ebbero nell’organizzare nuovi movimenti di intervento sociale, che si affiancarono all’Azione Cattolica, cercando di estendere l’influenza sociale della religione a tutta la società. Fondamentalmente la principale difficoltà era il carattere tutto sommato artificioso ed estrinseco che determinava l’individuazione del popolo parrocchiale, ritagliato secondo un criterio territoriale. senza che avesse molta importanza l’empatia, il sapersi immedesimare negli altri, e la simpatia, il piacersi, che erano invece centrali e fondativi nelle realtà di movimento. In altre parole, il fattore unificante in una parrocchia è quasi esclusivamente la soggezione a una giurisdizione ecclesiastica, per il resto il popolo di una parrocchia è molto eterogeno, diviso per settori utenza, per fasce d’età, per opinioni sulla società e il proprio posto in essa e in relazione con gli altri, quindi per questioni politiche. Farne realmente un popolo, con le caratteristiche di competenza e coinvolgimento partecipativo richiesto dalla dottrina sociale, è sicuramente possibile, ma può farsi solo sviluppando dinamiche democratiche, le quali tuttavia comporterebbero la desacralizzazione di ciò che sacro non è, quindi un dibattito prettamente politico e libero sui problemi organizzativi. Ciò che si è molto restii a concedere, per il timore che poi l’organizzazione finisca in mani incompetenti o malintenzionate, un pericolo insito in ogni democrazia, come in ogni potere. Non si istituiscono spazi di maggiore partecipazione per il timore che la gente non sia preparata, ma non istituendoli non si dà alla gente il modo di prepararsi, innanzi tutto facendone tirocinio. La situazione è di sostanziale stallo, che è quando non si può andare né avanti né indietro, pur volendolo, qualsiasi mossa essendo contrastata da una contromossa. Nel mezzo di tutto ciò si è manifestata una grave crisi delle democrazie occidentali, che tendono a cadere nel potere di oligarchi, di gruppi ristretti di comando insofferenti della critica democratica, vista come fattore di inefficienza. Paradossalmente la Chiesa, che storicamente ebbe tante difficoltà ad assimilare i valori democratici, e ancora per certi versi li ha, costituisce oggi, avendone comunque assimilati una quota importante, uno dei principali fattori di resistenza di quei valori. Essi potrebbero essere messi alla prova in un disegno di riforma dell’organizzazione parrocchiale che comporta anche la ridefinizione del suo popolo, dell’immagine che se ne dà, che si dovrebbe cercare di far corrispondere a quella deliberata nell’ultimo Concilio.
9. Fare i conti con la realtà. Imparare dagli errori
18. Quando si affronta quel particolare tipo di riforma sociale che è la costruzione sociale, in genere riesce difficile fare i conti con la realtà e, in particolare, imparare dall'esperienza del passato, specialmente quando se ne dà una valutazione negativa. Ogni riformatore, di solito, è in polemica con il passato e con i suoi fautori. Questo porta a ritenere che quello che nel passato non è andato per il verso giusto sia dipeso solo dall'incapacità o dalla volontà cattiva dei precedenti organizzatori, oltre che della gente che si voleva organizzare, ma non è sempre così. Si pensa poi di poter progettare come se si trattasse di scrivere un copione teatrale e alla gente da aggregare nella nuova costruzione sociale come ad attori capaci di recitare qualsiasi commedia. E non è mai così. Si dice spesso che la Chiesa è esperta in umanità, ma questo comporta sapere e volere fare i conti con la realtà. Questo riesce difficile ai teologi, non solo a quelli che si occupano di dogmatica, i meno legati alla realtà, ma anche a quelli che si occupano di teologia applicata, come quelli che scrivono di dottrina sociale. Eppure, tanto più l'organizzazione sociale riesce quanto più è realmente esperta di umanità. Ma l'esserlo non è ritenuto indispensabile agli organizzatori ecclesiali. Per questo, ad esempio, troviamo chi si occupa di teologia della famiglia, dettando legge ai coniugi, senza avere personale esperienza delle relazioni d'amore tra coniugi, e questo passi perché comunque quel tipo di esperienza è sempre limitata, ma anche non osservando obiettivamente l'esperienza altrui, selezionando in essa solo i modelli che rientrano nella dogmatica di riferimento. Questo crea poi, inevitabilmente, incomprensioni con coloro che della famiglia hanno maggiore pratica, che si tende a lenire ignorandole da entrambe le parti, con la giusta dose di ipocrisia. È così faccio anch'io, sorvolando. Ma l'organizzazione parrocchiale è materia più neutra, nella quale fare i conti con la realtà dà meno dispiaceri: i dogmi, ciò che si ritiene non negoziabile, sono a distanza di sicurezza.
Ragionando realisticamente sull'esperienza di organizzazione parrocchiale nei tre decenni dal 1983 al 2015, dobbiamo riconoscere che essa fu caratterizzata dal tentativo di coniugare l'aspetto istituzionale con un elemento comunitario forte, in linea con la teologia ecclesiale del Concilio Vaticano 2º. Quindi si volle trasformare una struttura di erogazione di servizi religiosi in una comunità solidale coinvolta anche nella prestazione di quei servizi, ma primariamente in ciò che i teologi chiamano koinonìa, parola greca che significa l'agire solidale da compagni, esperienza che si fa rientrare nel concetto di carità. Lo si fece però senza tenere nel giusto conto il fatto che in parrocchia si stava già vivendo un esperimento simile e, anzi, nell'intento di correggerlo, di superarlo. Lo si fece importando ideologia, metodo e personale di uno dei nuovi movimenti ecclesiali che, dagli anni Settanta e nella vivace stagione post-conciliare, avevano preso ad affiancare l'Azione Cattolica nell'azione sociale. Esso, originato nella Spagna fortemente segnata dall'esperienza franchista, alla quale regnante il papa Eugenio Pacelli - Pio 12^ si era guardato con favore, era poco acculturato alla democrazia. Si prese come riferimento ideologico il tribalismo degli antichi israeliti, in particolare nella fase della loro travagliata resistenza contro l'ellenismo. Questo modello contrastava fortemente con la pratica sociale del quartiere, all'epoca animato da vivaci processi democratici per la difesa del pratone, il grande spazio verde che costeggia il quartiere su via Conca d'Oro/via Val d'Ala (il comitato promotore delle agitazioni venne costituito in parrocchia), e della stessa parrocchia e venne vissuto come una colonizzazione religiosa, anche perché prese a coinvolgere molta gente di fuori, che però veniva da noi solo per gli eventi di quel movimento, per il resto rimanendo estranea. Il collegamento tra l'aspetto istituzionale della parrocchia e quello neo -comunitario che si voleva indurre si ottenne incaricando un parroco che si era formato in quel movimento e che era quindi pratico dei suoi metodi. In questo modo, in definitiva, l'istituzione promosse quel movimento senza che scattassero empatia e simpatia nel quartiere. Si fece del rigore nel tendere al modello di relazioni matrimoniali e familiari insegnato dalla teologia del Magistero un punto di forza e di riconoscibilità sociale, una sorta di bandiera della neo -comunità, nonostante i problemi che presentava nella pratica per molta gente del quartiere. Non proporselo venne additato come mancanza di fede, da correggere con un ricondizionamento catechetico. La gente del quartiere non apprezzò di essere sconfessata in quel modo, venendo anche messa in questione come genitori. Così come non fu coinvolta dall'esclusivismo di quel movimento, proposto sostanzialmente come unica via ortodossa al perfezionamento di fede. Questo, progredendo l'esperimento di riorganizzazione parrocchiale, causò disaffezione. La gente prese a trasferirsi in altre parrocchie per i servizi religiosi.
19. Valutando realisticamente il passato, vanno riconosciuti come fattori critici non aver mantenuto un sufficiente pluralismo nei metodi, spiritualità e forme associative ammessi e l'aver condotto la riorganizzazione secondo un modello poco acculturato ai valori democratici, in tal modo ostacolando il dialogo e quindi l'espansione nel quartiere dell'esperienza comunitaria parrocchiale.
Non si fu capaci di imparare dell'esperienza. Ci si incaponì per un trentennio. Questo perché quell'esperimento sociale venne vissuto anche come contrasto di tendenze moderniste, di contaminazione culturale con una società intorno accusata di paganesimo, da parte di ortodossi. E il cambiare come un cedimento alla contaminazione. Non si accettò mai, veramente, il dialogo. I dissenzienti vennero semplicemente tollerati da anziani, con i giovani fu peggio. Questo ostacolò il ricambio generazionale e per un tempo tanto lungo, appunto una generazione, da produrre conseguenze serie: in mancanza di ricambio generazionale una collettività fatalmente muore, e così accadde.
Vi è anche da evidenziare un fattore critico sotto il profilo istituzionale. Il modello comunitario importato ne aveva sviluppato uno proprio, che mi parve di tipo autoritario, sorretto da una diaconia di maschi dominanti. Questo può essere sospettato di dipendenza ideologica dal clima culturale della civiltà franchista spagnola. Si tratta di un modello più pervasivo del maschilismo clericale che è endemico nella nostra confessione, e non per caso: appare pensato con marcati intenti disciplinari, esso infatti condizionava l'accettazione del singolo nella neocomunità. E' il modello del catechista-padre di comunità. Questa struttura istituzionale non è in linea né con il modello istituzionale precedente all'ultimo Concilio né con quello deliberato dal Vaticano 2°. Con il primo perché, sostanzialmente, crea un'autorità sacrale,e come tale indiscutibile, al di fuori dell'Ordine sacro, con il secondo perché contrasta con il principio democratico di uguaglianza in dignità tra le persone, senza distinzione di sesso, cultura, condizione sociale e opinioni, che fu accolto nella Costituzione dogmatica Luce per le genti - Lumen gentium, anche se in genere non se ne ha consapevolezza e, di fronte alle obiezioni, si butta lì il consueto "La Chiesa non è una democrazia". E' contrario alla dignità delle persone cercare di ricondizionarle per farle nuove, l'utopia dei totalitarismi del secolo scorso. E' cosa che bisogna lasciare al Cielo, all'evoluzione spirituale personale nelle relazioni soprannaturali, secondo i tempi di maturazione di ciascuno, che non possono essere rigidamente inquadrati.
20. La conclusione: l'affermazione in parrocchia della koinonìa, della benevolente solidarietà comunitaria che parte dall'accettarsi e dal piacersi reciproci e che poi si manifesta anche nella diakonìa, che è il servizio disinteressato per il bene comune, non può farsi secondo un unico modello, perché la realtà sociale di riferimento a questo resiste in quanto manifesta un marcato pluralismo, secondo cultura, età, condizione sociale, approccio personale alla religione, influenze esterne di vario tipo, casi della vita, e quindi necessita, nelle relazioni di prossimità, quelle di mondo vitale, di uno schema che sia adeguato alle varie situazioni così come un abito a chi lo indossa. Tra le varie esperienze vi deve però essere, va costruita, una struttura di mediazione, che tenga tutti insieme in modo sinodale, secondo il quale l'unità dei diversi è un valore, e non condominiale, secondo il quale l'unità dei diversi è una necessità contingente, fino al superamento del pluralismo, e si sta l'un contro l'altro armati. Una tale struttura di mediazione, che ci consentirebbe una nuova fase di espansione nel quartiere, deve essere necessariamente su base democratica, intendendo per democrazia non solo un metodo per prendere decisioni collettive a maggioranza, ma prima di tutto un sistema di valori che conceda a ciascuno la sua dignità, facendogli spazio e dandogli modo di presentarsi ed esprimersi, ma ordinatamente, in modo che ciò sia possibile a tutti. Quel metodo di voto è conseguenza di quei valori. Di questo occorre fare tirocinio, perché non è abilità che si insegna in religione, sebbene questo fosse in definitiva l'auspicio dei saggi dell'ultimo Concilio nel delineare una nuova figura di fedele laico.
Certo, mi si potrebbe obiettare che in religione quello non è indispensabile. In qualche modo è vero. Per millenni bastò al fedele laico sapere le preghiere rituali e conoscere chi comandava in Cielo, chi sulla Terra e che cosa si dovesse fare per piacere all'uno e all'altro. Era l'era degli imperi e delle guerre fra essi, in cui era possibile anche immaginare che la fede nell'amore universale potesse essere diffusa e radicata per via bellica. Ma viviamo un altro tempo. Quella strada porterebbe alla catastrofe dell'umanità. La pace non è più un'alternativa, ma una necessità vitale. La nostra religione ne ha preso consapevolezza, almeno ai vertici, ma diffonderla presenta qualche problema. Non ci si può riuscire con metodi scolastici o autoritari, occorre fare tirocinio del nuovo mondo che occorre. E' un lavoro che ci si aspetta in gran parte dai laici: questa la grande novità dell'ultimo Concilio. Essa è esposta fin dalle prime parole della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce per le genti - Lumen gentium: «[...]a Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano». La Chiesa-popolo come sacramento di unità: qui c'è tutto il Concilio Vaticano 2°. E' stata un'importantissima evoluzione culturale, che deve però ancora diventare una conquista culturale diffusa. La missione è di realizzarla a partire dalle parrocchie.
Non si tratta, naturalmente, di mettere ai voti i dogmi, ma di costruire un ambiente e delle procedure che consentano il dialogo fraterno per definire nell'organizzazione parrocchiale e, in particolare, nelle varie forme di diakonia e di carità, quale sia di volta in volta il bene comune da realizzare. Una struttura comunicativa benevolente, noncondominiale, in cui ciascuno si senta a casa propria sebbene non possa avere con tutti relazioni di tipo familiare, perché esse sono possibili solo nelle relazioni di prossimità. Una struttura comunicativa non a senso unico, dall'alto verso il basso, dai pochi al vertice alle masse, ma che consenta un vero dialogo, quindi una comunicazione in cui anche quelli che si trovano in alto fanno spazio agli altri in modo da realizzare, nel dialogo, un'uguaglianza in dignità. Che uscirebbe da un modello simile? Siamo sicuri che produrrebbe buoni risultati o invece si rischia la deviazione, l'errore? Lo si può scoprire solo sperimentando. L'esperienza delle democrazie contemporanee ci conforta, così come la crisi delle medesime ci ammonisce. Allontanarsi dalla democrazia alimenta infatti i conflitti.
L'alternativa? Potenziare la parrocchia come ente di servizio pubblico cercando di attirare gli utenti con le medesime tecniche di fascinazione impiegate dall'industria commerciale. E' in fondo ciò che si fa nella gestione dei santuari miracolanti e nell'organizzazione degli eventi religiosi di massa. L'esperienza insegna, però, che si tende a divenirne dipendenti, come accade nell'abuso di stupefacenti. E, in un certo senso, si tratta di assuefazione ad una realtà aumentata, che con l'abuso di quelle sostanze presenta qualche analogia. Innanzi tutto per il fatto che il singolo, anche se immerso in esperienze di massa, viene confinato nella sua emotività personale.
Una nota finale: c'è chi ritiene disdicevole imparare dai propri errori, invece questo è alla base dell'evoluzione della scienza contemporanea, ma, infine, anche principio di ogni sapienza, che è quando si rimane disposti alla permanente conversione, senza indurirsi nei propri partiti presi.
10. Non ogni metodo fa bene. Addomesticarci a piccole dosi
21. Quando si tratta di immaginare società di massa, che si tratti di quindicimila o di otto miliardi non fa molta differenza per noi: si tratta comunque di realtà collettive fuori delle nostra portata cognitiva, nel senso che le riusciamo a cogliere solo religiosamente, vale a dire intuendone il senso semplificando e personalizzando, in tal modo unificando, ciò che è moltitudine. L’intuizione, tuttavia, ci espone all’errore, a costruirci visioni che non corrispondono alle reali dinamiche sociali: allora quello che è uno strumento culturale, e prima di questo mentale, neurologico, per superare nostri limiti di specie, derivanti dalla nostra biologia, da come siamo fatti, al modo come lo sono le automobili e gli aerei, non funziona a dovere e in quelle visioni ci si imprigiona. La possibilità dell’errore intuitivo ci rende manipolabili in chi sappia trarne profitto, in chi sappia come fare. L’accusa che storicamente si è cominciata a fare alle religioni dal Cinquecento europeo consiste appunto in questo: di essere solo strumento di manipolazione culturale a fine di dominio. E certamente le religioni sono state anche questo e, anzi, dal punto di vista antropologico nacquero in epoca preistorica proprio per svolgere questo lavoro. Eppure corrispondono ad un anelito profondamente umano: quello di dare senso alla realtà, in particolare alla vita individuale e al succedersi delle generazioni. Costruite originariamente per sacralizzare il dominio politico e un certo ordine sociale da esso voluto, per dare senso ai primi regni, ad un certo punto, in Oriente, da cui tante civiltà umane scaturirono, cominciarono ad assumere un’altra funzione,distinguendosi dai re-sacerdoti, prendendo a desacralizzare la politica spingendo lo sguardo molto più in là, fino a comprendere l’intero universo conosciuto, congiungendo Cielo e Terra come mai prima s’era fatto. Una forma molto avanzata di questo processo si osserva nella nostra religione, che subì una spettacolare evoluzione nelle sue relazioni con l’ellenismo delle sue origini e la grande filosofia greca, che ragionava sul senso della vita partendo dall’osservazione della Terra, e che tuttavia anelava al Cielo. La teologia della nostra religione ebbe la visione del Cielo che tornava sulla Terra e, facendolo,sconfessava il carattere soprannaturale, e quindi il dominio, di ogni potenza terrena, che si trattasse di forze sociali o naturali. “Tu non sei un dio!” ammonisce ad ogni potenza che pretenda di esserlo. In questo divenne forza di liberazione: la verità rende liberi, è scritto. Anche la storia e gli avi vennero desacralizzati: si fu così liberati, culturalmente, dalla schiavitù del fato, al quale gli stessi dei dell’antichità greco-romana venivano pensati come asserviti, e dei costumi degli antichi, i mos maiorum dei latini, si poté pensare veramente il nuovo e questo tornò utile in tempi di velocissimi cambiamenti sociali e culturali, quelli che caratterizzarono gli ultimi due millenni, quelli pervasi dalla nostra fede. I latini, nostri precursori culturali, temevano le res novae, letteralmente le novità ma il senso di questa espressione nella cultura latina era quello di rivoluzione, e cercavano di ancorare la loro civiltà ai mos maiorum alla tradizione degli antichi, al di fuori della quale si pensava solo il disordine e la fine della costruzione sociale.
«I Romani, presi come popolo, erano dominati da una particolare venerazione per l’autorità, i precedenti, la tradizione, e insieme da una radicata avversione per ogni mutamento, a meno che il mutamento non potesse dimostrarsi in armonia col costume avito, col mos maiorum. Mancando ancora una qualsiasi idea di fede nel progresso, che non era ancora stata inventata, i Romani guardavano alla novità con sfiducia e avversione. La parola novus suonava male. Tuttavia la storia del passato ricordava ai Romani che mutamenti c’erano stati, anche se lenti e combattuti.»
da Ronald Syme (1903-1989), Roman revolution (citazione da Elisa Romano, L’ambiguità del nuovo: res novae e cultura romana, nella rivista Laboratorio italiano, n.6/2006 <https://journals.openedition.org/laboratoireitalien/191>)
L’acculturazione alla nostra fede liberò la civiltà latina dalla schiavitù della tradizione e diede a quella greca dell’ellenismo l’opportunità di liberarsi da quella della politica di puro dominio, dedita al potere per il potere. Su queste basi furono costruite, dal Quarto secolo, e nell’imponente rimescolamento di popoli che si produsse da quell’epoca, una serie di nuove civiltà. Questo lavoro è continuato fino a noi ed è parte di quello che ci proponiamo di fare in parrocchia e nel quartiere, quando immaginiamo di fare dell’intero quartiere, almeno per i quindicimila che sono religiosi secondo la nostra fede, un’unica famiglia secondo gli indirizzi dei saggi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), che addirittura pensarono all’intero genere umano, non a questa umanità che ora vive ma al succedersi delle generazioni, un’unica famiglia, la famiglia umana.
22. Gli esseri umani, nei loro sentimenti religiosi, sono manipolabili. Quindi le religioni sono strumentalizzabili da chi vuole prendere il potere nelle società umane. Tuttavia sono anche forza di liberazione. Chi è insofferente del dominio altrui cercherà di trovarvi motivi e metodi per liberarsi, ma per via religiosa si può anche cadere in mani altrui. Oggi accade in un modo nuovo, che è stato reso possibile dall’evoluzione tecnologica.
Il metodo fu scoperto dalla psicologia applicata alla pubblicità commerciale. come colpire l’intuitività del pubblico in modo che, al momento giusto, decidesse di comprare un certo prodotto a differenza di altri. Questo si ottiene costruendo e proponendo una visione di tipo religioso, secondo la quale un certo prodotto, al di là della sua reale utilità, ha anche effetti sociali prodigiosi, liberando ed elevando. Le tecniche pubblicitarie sanno anche suscitare un desiderio di un certo prodotto che va molto oltre la sua necessità per la vita dell’acquirente. Tutto è centrato sul momento della transazione commerciale, quando c’è lo scambio tra prodotto e prezzo. Ma si cerca anche di creare un contesto in cui questo atto di acquisto possa essere ripetuto, fidelizzando, come si dice, il cliente. Fidelizzare ha a che fare con una fede, che è propriamente religiosa perché si basa sull’intuizione. La verifica razionale dell’utilità e degli effetti sociali di un acquisto di solito delude: questo ci spiegano di solito le inchieste promosse dalle associazioni dei consumatori. Un volta che l’abbiamo tra le mani il nuovo acquisto non ci può dare che l’utilità sua propriareale e svanisce la sua magia che corrispondeva alla visione indotta religiosamente. E tuttavia rimane il desiderio. E’ una strategia commerciale che ha avuto successo, narrano le cronache, con un prodotto tra quelli cosiddetti di culto, ed ecco che torna una terminologia religiosa, e molto costoso, l’I-Phone, lo smartphone costruito dalla statunitense Apple Computer.
Più o meno da cinque anni, le medesime tecniche sono state sfruttate in politica con sorprendenti risultati, in particolare negli Stati Uniti d’America e in Brasile, ma anche altrove. Questo perché la straordinaria diffusione planetaria degli smartphone e gli sviluppi dell’intelligenza artificiale hanno dato la possibilità di nuove forme molto efficaci di organizzazione del consenso, inducendo particolari visioni di natura sostanzialmente religiosa, perché basate sull’intuizione, non sulla precisa comprensione della realtà, che ci è possibile solo in campi limitati e in esperienze di prossimità. L’intelligenza artificiale non ha i nostri limiti di specie nel comprendere la moltitudine. E’ stata costruita proprio per superarli. Non è più un meccanismo, ma sta avviandosi ad essere una pura e semplice intelligenza, un essere vivente con possibilità cognitive molto superiori a quelle degli umani, come singoli e anche associati. Il suo unico limite è la quantità dei sensori mediante i quali percepisce la realtà. Essi possono essere numerosissimi e addirittura si cerca di realizzarne di microscopici, capaci ad esempio di percorrere i vasi sanguigni e le altre vie cave del corpo umano. Nella capacità di relazionarsi con moltitudini di esseri umani relazionandosi però con ciascuno di essi l’intelligenza artificiale sta assumendo capacità che di solito si attribuiscono agli dei. La visione che la politica che si dota di questo strumento, connesso agli individui attraverso i loro smartphone,che sono sensori di sistemi di intelligenza artificiale, cerca di indurre nelle persone è di una umanità costituita in famiglia umana, in un sistema costante di relazioni benevolenti e solidali. La fede in questa visione costituisce la base del consenso degli utenti connessi. Il primo comandamento di cui si serve di questa tecnica è quindi “Connettetevi!”. Ma connessione significa, poi, effettivamente solidarietà? La cosa appare funzionare un po’ come per la pubblicità commerciale. Lo scopo di chi controlla il sistema è il consenso, in particolare nelle procedure elettorali e referendarie. Il sistema serve a convincere la gente a tracciare un segno sul punto giusto di una scheda di voto, al momento in cui deve decidere. Per il restoconnessione non significa realmente un qualche legame di tipo personale, dal quale dipende la solidarietà. Il sistema di connessione non è pensato per questo e chi lo controlla ha delle vite delle persone una visione come di moltitudine, indistinta, di massa, comprensibile solo statisticamente, al di fuori del particolare aspetto della propensione alla decisione in un senso o nell’altro nelle procedure elettorali e referendarie. E connessione con il vertice che controlla mediante sistemi di intelligenza artificiale, capaci di interagire con il singolo utente connesso in modo da indurlo a decidere in un certo modo al momento opportuno, non significa realmente connessione con gli altri utenti, dei quali ciascun utente riesce a mantenere solo un’immagine indistinta.
Sono correnti, quindi, attualmente, in società due visioni del mondo come famiglia umana, quella della nostra religione e quella, sempre di tipo religioso, organizzata e suscitata mediante tecnologie di intelligenza artificiale applicate alla politica. La prima, però, punta a realizzarla veramente, in benevolenza e solidarietà, quella visione, a partire dalle realtà di prossimità; l’altra si limita, per ora, a indurla, un po’ come accade nella magia del cinema, che consente un certo coinvolgimento emotivo finché dura lo spettacolo. La prima religione ha anche funzione critica verso la seconda e anche ad essa ripete l’ammonizione “Tu non sei un dio!”; l’altra si mostra insofferente delle critiche, vorrebbe strumentalizzare la prima al modo in cui lo si è fatto tanto a lungo nei secoli passati, ma vi è poco acculturata, ha difficolta a riuscirci anche se sembra sia studiando come farlo di nuovo ai tempi nostri, e soprattutto sconta il fatto che la nostra fede, come strumento di liberazione, si è molto affinata culturalmente nella travagliata esperienza con i tempi moderni e, nella sua riflessione razionale sulla realtà, è divenuta più difficilmente condizionabile.
23. Ma che interessa tutto ciò che ho sunteggiato al nostro gruppo di quaranta volenterosi di una parrocchia della periferia nord-orientale romana?
Se ci sentiamo coinvolti nel disegno di riforma sociale che vorrebbe ricollegare parrocchia e quartiere e, così facendo, iniziare a far vivere al quartiere l’esperienza della famiglia umana proposta nella visione dei saggi dell’ultimo Concilio, di certi fatti dobbiamo necessariamente prendere consapevolezza. Operiamo infatti in una realtà sociale profondamente da essi permeata. Vedete, ad esempio, quanta gente connessa c’è, addirittura camminando per strada. Si parla di lookdown generation, come delle moltitudini connesse del nostro tempo: quelli che camminano guardando in basso verso i loro smartphone e spesso cascano a terra.
Si racconta che il filosofo greco Talete di Mileto, vissuto tra il Settimo e il Sesto secolo dell’era antica, camminando guardando in alto verso le stelle, cadde in un pozzo. Venne per questo preso in giro da una servetta che passava di lì, lui, il grand’uomo. Così, in fondo, accade a noi, quando ci pensiamo grandi lasciandoci fascinare da ciò che ci mostrano i nostri smartphone. Talete, però, guardava in alto, noi in basso, in senso reale e metaforico. La differenza: guardare in alto libera, anche nei pozzi in cui si è caduti, guardare in basso confina e relega.
Come immaginiamo di poter realizzare la famiglia umana nel quartiere? Quando tra noi ne abbiamo parlato, mi pare che le idee che abbiamo esposto non siano state un granché: innanzi tutto fanno riferimento particolare alla nostra prospettiva, senza tener conto del complesso, per cui suggeriamo ciò che andrebbe bene per noi, senza tener conto di come sono fatti e di ciò che desiderano altri diversi da noi, e poi, al dunque, non riescono a immaginare la complessità, perché si finisce per proporre una versione alternativa e migliorata del piccolo gruppo. Inoltre siamo prodighi nei consigli agli altri su come dovrebbero essere, ma piuttosto avari nel programmare un nostro personale impegno. In effetti, a ben considerare, il tempo è poco: da più giovani perché ci sono famiglia e lavoro a riempircelo, da anziani perché inizia a correre troppo velocemente (è la sconfortante scoperta degli ultrassantenni) e le forze, ma anche l’immaginazione, cominciano a non assisterci più come una volta.
Che succederebbe se tutti i quindicimila fedeli prendessero l’abitudine di far un salto in parrocchia ogni giorno? Non ci sarebbe posto per tutti. Gli ambienti parrocchiali, pensati per essere la casa di tutti, non possono esserlo realmente, se non come visione. Del resto la parrocchia non dovrebbe essere pensata come casa di tutti, nel senso di ciascuno di quei tutti, ma come casa della collettività, che è una cosa diversa. Si vive necessariamente altrove nella gran parte del tempo, al di fuori dei preti che in parrocchia abitano e ad essa sono permanentemente incardinati per servizio, ma si prende la parrocchia come luogo di riferimento della collettività, nel suo agire sociale. Ma non è il luogo a fare la collettività: è il sistema delle relazioni sociali. Facciamo manutenzione negli ambienti parrocchiali, e questo è utile per restaurare la casa della collettività, ma il lavoro principale è quello di restaurare le relazioni sociali di prossimità. Ciò che si fa, innanzi tutto, con la consuetudine reciproca, facendo realmente e personalmente esperienza degli altri. Di solito si hanno ambizioni esagerate sotto questo profilo. Cito qui una battuta del film di Nanni Moretti, Mia madre: ci dobbiamo prendere l’un l’altro a piccole dosi. Più ci avviciniamo l’un l’altro più cresce l’impegno personale in questa relazione, ma anche, certo, cresce il sentimento di pienezza che se ne trae. Per questo possiamo realmente avvicinarci solo a quelli che ci piacciono, che suscitano un coinvolgimento emotivo profondo, e non ci possiamo fare nulla perché siamo fatti così più o meno da duecentomila anni e non potremo cambiare se non in quell’ordine di tempo. Tuttavia la consuetudine reciproca ci è necessaria e le istituzioni, le regole che ci diamo per i contatti sociali, servono proprio a renderla possibile senza che diventi intollerabile. Se noi vogliamo creare un contesto in cui siano possibili più estese relazioni profonde, dobbiamo anche immaginare un corrispondente sistema istituzionale. Questo anche per renderle stabili. Infatti le relazioni profonde, per quanto tali, raramente sono anche stabili, o almeno hanno quella stabilità a cui si punta in parrocchia. E’, in fondo, la dinamica dell’amore. Innamoramento non significa sempre amore a lungo termine. La famiglia è lo strumento sociale e culturale con cui si cerca di dare stabilità alle relazioni d’amore, ma non basta se non c’è anche un impegno personale in chi vi è coinvolto. Questo impegno personale serve suscitare anche in ogni altra realtà sociale: è una conquista culturale, richiede una formazione, che è uno dei campi in cui si lavora in parrocchia, uno dei suoi settori della diakonìa, intesa come servizio con significato religioso. Questo lavorare sulla manutenzione delle relazioni sociali, immaginando anche nuovi contesti istituzionali per favorirle, è parte della koinonìa, l’agire da compagni con spirito religioso. Diakonìa e koinonìa sono parole del greco antico utilizzate dalla teologia, nel discorso religioso, in quanto definiscono servizio e spirito comunitario secondo la fede e come tali sono state impiegate fin dalle origini nella tradizione.
24. Il piacerci emotivamente, sebbene di solito a piccole dosi, ci stimola nelle relazioni sociali ma anche ci limita, in quanto ci si piace selettivamente, l’amore universale essendo solo un’utopia o un anelito. La conoscenza profonda e motivante è possibile solo tra simili, o con coloro con cui si condividono certe esperienze forti o interessi importanti. E non è veramente possibile se non in gruppi limitati, quelli definiti di mondo vitale, come esperienze sociali dalle quali si trae il senso della vita. Questo significa che per collegare questi gruppi limitati in una trama che, in potenza, consenta di far sentire in relazione i quindicimila del quartiere ai quali idealmente vorremmo rivolgerci, occorre costruire strutture di mediazione, capaci anche di suscitare un certo coinvolgimento emotivo, istituzioni che evochino mondi vitali. In questo consiste la liturgia, che deriva dalle parole greche che significano azione e popolo. Vi è una liturgia canonica, secondo la quale celebriamo i riti religiosi, ma ce ne dovremmo inventare una ulteriore per suscitare uno spirito collettivo parrocchiale, nostro proprio di noi delle Valli, con un quello che ho chiamato mito di fondazione, una narrazione che dia il senso dell’esperienza collettiva che si vuole suscitare, e poi canti, riti sociali, simboli. Questo era stato ben compreso nell’esperimento sociale tentato in parrocchia per trent’anni: in questo possiamo stare alla sua scuola. Ma le strutture di mediazione da esso attuate non sono bastate a coinvolgere le masse del quartiere. Ne dobbiamo pensare di nuove. Sottolineo la potenza evocativa dei simboli: ciascuno di noi tiene presso di sé una qualche oggetto, o in sé un ricordo, con quella capacità evocativa. Dalla scorsa estate sul lago ho portato un carillon: suonandolo entro nello spirito di quella vacanza.
Avvicinare la gente, non illudiamoci, può dare anche qualche dispiacere. Gli altri non sono quasi mai come vorremmo che fossero, e così noi per loro. Così, il tirocinio delle relazioni di prossimità potrebbe anche finire male, quando ci si trova insopportabili. E’ per questo che occorre avvicinarci a poco a poco, con cautela, prendendo gradualmente confidenza, come nell’addomesticamento degli animali, e, in un certo senso, l’avvicinarsi consiste proprio in un addomesticamento reciproco. Il verbo addomesticare contiene la parola latina domus, che significa casa. Addomesticarci reciprocamente significa costruire una casa comune, intesa non come luogo fisico, come edificio, ma come contesto di relazioni umane profonde, ciò che nella lingua inglese viene inteso con la parola home[fonetica: houm], a differenza di house [fonetica: haus], casa come luogo fisico, costruzione.
Tutto ciò non basta immaginarlo, ma anche attuarlo imparando dall’esperienza, quindi anche dagli errori fatti, senza incaponirsi nel ripeterli. Chi inizia ad attuare è un fondatore. ll politico e scrittore fiorentino Niccolò Machiavelli, vissuto tra il Quattrocento e il Cinquecento, ne ha parlato nella sua opera più nota, Il Principe, come di una personalità straordinaria che, profittando delle occasioni fornite dall’epoca in cui vive, con la propria virtù organizza e attua un nuovo ordine politico. Ogni esperienza sociale ha necessità di fondatori, ma deve anche fare i conti con la realtà, per capire le opportunità che offre. La visione del Machiavelli della politica non era però religiosa: per lui il potere era il solo scopo razionale del potere. La politica oggi prevalente, quella che sviluppa il controllo sociale mediante l’intelligenza artificiale, ragiona proprio così e, poiché anche per essa il potere è fine a se stesso, non va tanto per il sottile sui mezzi utilizzati a fini di potere. Nel riorganizzare la parrocchia contano invece sia il fine sia i mezzi. Non riorganizziamo, da fondatori che ora vorremmo essere, a fini di potere, anche se indubbiamente vogliamo estendere la nostra influenza sociale nel quartiere, ed è importante come riorganizziamo, i metodi utilizziamo per farlo. Non ogni metodo è infatti compatibile con la nostra impostazione religiosa. Non lo sarebbe il fascinare la gente secondo le tecniche della pubblicità commerciale e non lo sarebbe se sfruttassimo arbitrariamente la naturale propensione della gente a credere all’ignoto, a una magica realtà numinosa, suscitando irrealistiche aspettative soprannaturali, non alla nostra portata, il che accade con una certa frequenza in campo religioso. La gente non si deve aspettare da noi guarigioni miracolose dei propri mali fisici o psicologici o che la sua condizione sociale cambi radicalmente per il solo fatto di riavvicinarsi a noi e a prescindere da un impegno serio su se stessi e nella collettività. Se vogliamo radicarci nuovamente nel quartiere, non dobbiamo promettere più di ciò che realisticamente possiamo mantenere. In questo dobbiamo saperci distinguere dalle altre offerte di riforma sociale sul mercato, per così dire. Questo deve essere un nostro fattore ben riconoscibile di distinzione e, in qualche modo, di nobiltà della nostra proposta. Abbiamo ereditato una nobiltà dalla tradizione passata, ma questo non basta, ci ammonisce Paolo di Tarso: la nobiltà di stirpe di solito delude, occorre conquistarla di generazione in generazione nello sforzo costante di migliorarsi e, in particolare in religione, convertendosi, allontanandosi dalle vie sbagliate, quelle che fanno soffrire la società.
11. Un lavoro artigianale che richiede la collaborazione di molti
25. Le relazioni telematiche funzionano su piccola e su grande scala. Le reti sociali combinano le due dimensioni: i singoli utenti lavorano su piccola scala, interagendo con pochi, anche se quelli che leggono sono molti di più; chi controlla la rete lavora su grande scala, cercando di influenzare la moltitudine degli utenti, andandoli a cercare uno per uno con la mediazione di programmi di intelligenza artificiale che, accumulando dati significativi su di loro, imparano a capirli uno per uno. Un blog come acvivearomavalli.blogspot.com lavora su piccola scala, nell’ordine di una quarantina di lettori che gravitano nella zona del quartiere romano di Monte Sacro conosciuta come Valli, nel settore nord orientale della città, nel Terzo Municipio di Roma Capitale. Quello che vi si legge è di poca o nessuna utilità per chi non ha quel legame territoriale, se non come aneddoto di vita sociale. La situazione italiana è veramente particolare, non ha equivalenti nel mondo e, al suo interno, quella romana è a sua volta particolare. Questo specialmente per quanto riguarda le relazioni tra vita di fede e politica e tra Chiesa e stato. Ma le Valli, e la loro parrocchia, hanno avuto, dagli anni Cinquanta, e in particolare dagli anni Ottanta, una storia diversa da quella di altri quartieri romani. Sebbene si rivolga a un microcosmo sociale, lo strumento telematico presenta una grande utilità, perché evoca in permanenza un’esperienza collettiva che si pensava avviata verso la dissoluzione, quella dell’Azione cattolica parrocchiale. Il titolo del blog lo chiarisce: “AC”, vale a dire l’Azione Cattolica, vive, cioè esiste ed è vitale, a dispetto delle attese, a Roma Valli, vale a dire in quella porzione del territorio romano che conta circa ventimila abitanti,anime secondo l’antica definizione ecclesiastica e anche civile, nella parte del quartiere Montesacro tra via Conca d’Oro, via Val d’Ala, via dei Prati Fiscali, viale Tirreno e piazza Conca d’Oro, dei quali circa quindicimila, stando alle statistiche generali della religiosità in Italia, verosimilmente sono religiosi secondo la nostra fede. Il blog si rivolge a persone già acculturate nell’Azione Cattolica: le altre, anche se gravitanti nel nostro quartiere, potrebbero avere difficoltà a intendere la terminologia e i riferimenti storici e culturali usati. Le persone alle quali il blog è dedicato sono indotte, in gran parte per l’interesse suscitato dal conoscere personalmente chi scrive, a dedicare una ventina di minuti al giorno del loro tempo per leggere il pezzo quotidiano del blog. Esso sussurra loro: “Esistete!”. Venti minuti circa: un impegno notevolmente superiore a quello in genere profuso su un singolo post da qualsiasi utente di rete sociale telematica, per quanto esso rimanga connesso molto più a lungo, si calcola per diverse ore al giorno, tutti i giorni. Sussurrare alle coscienze crea una relazione molto profonda, che si intensifica quando il leggere diventa un’abitudine. Leggere tutti insieme il medesimo testo, e rifletterci sopra, crea poi il terreno fertile per relazioni profonde tra i lettori, che anche si frequentano almeno due volte alla settimana, in parrocchia. Molto più profonde di quelle consentite dal quel reciproco periodico incontrarsi per un’ora circa a volta. Questa è una tecnica di costruzione sociale, che possiamo figurarci come il lavoro a maglia di una signora, come quello che tante volte vidi fare a mia madre con i ferri e l’uncinetto, maglia dopo maglia intrecciando il filo di lana. La preghiera liturgica personale, come quella della Liturgia delle ore, funziona nello stesso modo.
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Fig.1 Lavoro a maglia
26. Da qualche anno il lavoro di costruzione del consenso sociale si fa in altro modo, connettendo le persone a reti sociali controllate e influenzate da programmi di intelligenza artificiale. Questo modo di agire sulla società ha su di essa l’effetto di un forte vento su una prateria: fa piegare l’erba da uno stesso lato per un certo tempo, ma poi essa ritorna come prima.
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Fig. 2 Forte vento sulla prateria
Questa azione sociale non crea relazioni profonde, non costruisce società, ma solo il consenso quando serve; non ha effetto duraturo, ma istantaneo. Del resto relazioni profonde sarebbero controproducente su chi controlla la rete, perché ridurrebbe la manipolabilità del corpo sociale di riferimento. Il potere su di esso è tanto maggiore quanta maggiore è la flessibilità del consenso indotto, in modo tale che la società controllata assecondi la volontà di chi comanda a prescindere da suo contenuto, qualunque cosa comandi. Per millenni questo risultato richiedeva dosi massicce di violenza sociale da parte del potere, la novità degli ultimi tempi è che non è più necessaria. Connettendo i membri di un corpo sociale ad una rete telematica controllata mediante sistemi di intelligenza artificiale si ottiene lo stesso effetto, influendo appropriatamente su ognuno degli utenti in base alla conoscenza che se ne ha mediante relazione telematiche liberamente assentite. Questo purché si mantenga una certa labilità delle relazioni sociali, che si ottiene smontando o depotenziando i corpi intermedi, vale a dire le realtà sociali che si frappongono tra chi comanda e chi subisce.
Le relazioni sociali che la dottrina sociale esorta a costruire sono di altro tipo, sono profonde al modo di quelle di mondo vitale, dei piccoli gruppi dai quali ciascuno ricava il senso della vita, anche se tendenzialmente rivolte a tutti, e con tutti si intende l’intera umanità concepita come famiglia umana.
Questo richiede di lavorare maglia per maglia, come nel lavoro all’uncinetto o con i ferri, ma su scala sempre maggiore. E’ un lavoro di tipo artigianale che richiede il coinvolgimento personale di molti operatori, tendenzialmente nel rapporto uno-a-uno, un operatore per ogni persona da raggiungere per farsela amica. La società che lavora è modellata dal lavoro da svolgere.
Prima del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) lo si pensava strutturato in questo modo:
fig.3 da Emilio Alberich, La catechesi oggi. Manuale di catechetica fondamentale. Elledici, 2015, pag.171.
con i fedeli laici mantenuti nella posizione di gregge da guidare, inculcando un’etica trasmessa dalla gerarchia.
Dopo il Concilio Vaticano 2° viene pensato secondo questo schema:
fig.4 da Emilio Alberich, La catechesi oggi. Manuale di catechetica fondamentale. Elledici, 2015, pag.173.
In realtà quegli schemi non definiscono la società religiosa com’è, ma come la si vorrebbe.
Lo schema realistico sarebbe più o meno questo:
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Fig.5. Nuvole di relazioni sociali arpionate da un centro direttivo
vale a dire addensamenti, nuvole, di relazioni sociali vibranti in varie direzioni e arpionate da un centro direttivo. Gli arpioni sono la rete istituzionale, ma essi sono confitti in un elemento gassoso, instabile.
La società nel suo complesso può essere rappresentata così:
fig.6 società nel suo complesso
come addensamenti di relazioni sociali vibranti che centri istituzionali tra loro collegati cercano di arpionare ruotando.
27. Negli addensamenti di relazioni sociali ci sono le persone. Gli arpioni istituzionali possono attaccarsi solo dove l’addensamento si fa più fitto, altrimenti lo attraversano senza fare presa. La coesione sociale si realizza solo dove, per via culturale di costruzione sociale, si riesca a realizzare un addensamento che consenta agli arpioni istituzionali di fare presa. I legami tra i centri istituzionali, poi, di fanno più labili allontanandosi dal centro e possono spezzarsi quando i centri, arpionando gli addensamenti di relazioni sociali, vengono da essi trascinati lontano dagli altri centri.
Questa struttura della società venne compresa dagli autori del primo documento della dottrina sociale moderna, l’enciclica [l’ardente brama]di novità [che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli,] - Rerum novarum [semel excitata cupidine, quae diu quidem commovet civitates,], diffusa nel 1891 sotto l’autorità del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°, che infatti consigliarono:
PARTE SECONDA
IL VERO RIMEDIO:
L'UNIONE DELLE ASSOCIAZIONI
[…]
C) L'opera delle associazioni
1 - Necessità della collaborazione di tutti
36. Finalmente, a dirimere la questione operaia possono contribuire molto i capitalisti e gli operai medesimi con istituzioni ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi e ad avvicinare e udire le due classi tra loro. Tali sono le società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni private destinate a prendersi cura dell'operaio, della vedova, dei figli orfani, nei casi d'improvvisi infortuni, d'infermità, o di altro umano accidente; i patronati per i fanciulli d'ambo i sessi, per la gioventù e per gli adulti. Tengono però il primo posto le corporazioni di arti e mestieri che nel loro complesso contengono quasi tutte le altre istituzioni. Evidentissimi furono presso i nostri antenati i vantaggi di tali corporazioni, e non solo a pro degli artieri, ma come attestano documenti in gran numero, ad onore e perfezionamento delle arti medesime. I progressi della cultura, le nuove abitudini e i cresciuti bisogni della vita esigono che queste corporazioni si adattino alle condizioni attuali. Vediamo con piacere formarsi ovunque associazioni di questo genere, sia di soli operai sia miste di operai e padroni, ed è desiderabile che crescano di numero e di operosità. Sebbene ne abbiamo parlato più volte, ci piace ritornarvi sopra per mostrarne l'opportunità, la legittimità, la forma del loro ordinamento e la loro azione.
quindi la costituzione di tante associazioni particolari per realizzare quegli addensamenti di relazioni sociali necessari a sostenere la trama delle istituzioni, che possiamo considerare come lo scheletro della costruzione sociale.
Fu una conquista culturale molto importante della quale ancora si fatica a mantenere consapevolezza, a favore di schemi più semplificati, ma irrealistici, ad esempio quello piramidale, con il popolo sottomesso geometricamente a una struttura gerarchica, o quello ellittico o circolare, con popolo e gerarchia compresi in un unico insieme.
La struttura sociale può anche essere rappresentata come un tessuto su un vetrino istologico:
fig.7 istologia sociale.
L’esame di anatomia patologia, condotto in gran parte sui vetrini istologici, è tra i più difficili del corso di medicina, per i problemi che si incontrano nell’interpretare la trama dei tessuti fissati sui vetrini. Analoghe difficoltà sorgono quando si cerca di avere una immagine realistica della società, necessaria per lavorarci sopra.
La nostra Chiesa conseguì consapevolezza realistica della complessità sociale quando decise di promuovere azioni sociali per influire su società in cui si stavano affermando processi democratici, che avrebbero finito per attribuire un ruolo molto importante alla masse, maggioritarie, di chi in società si trovava sfavorito. In precedenza il Papato, al vertice di una struttura gerarchica organizzata dal Secondo millennio della nostra era, si era limitato a trattare più o meno da pari con le dinastie civili sovrane, arrivando a compromessi con intese concordatarie secondo la reciproca utilità. In quella prospettiva tutto era più semplice: non si doveva fare i conti con le moltitudini e la violenza necessaria a dominarle veniva lasciata a sovrani civili e ai loro apparati burocratici e militari, il cosiddetto braccio secolare.
L’emergere delle masse al potere politico fu un duro shock per i teologi della corte pontificia. Essi pensavano latino. Così, quando all’inizio dell’enciclica sulle novità diffusa nel 1891, scrissero Rerum novarum… , che è il genitivo plurale di res novae, letteralmente, dal latino, delle cose nuove, vale dire delle novità, non intendevano verosimilmente solo riferirsi alle novità nel senso che questa parola ha per noi, ma alle res novae nella concezione degli antichi romani, per i quali, per loro così attaccati ai mos maiorum, alla tradizione degli avi, significava rivoluzione catastrofica, capace di dissolvere l’ordine sociale. Al centro di quell’enciclica vi era infatti un conflitto «di tale e tanta gravità - si legge in quel documento - che tiene sospesi gli animi in trepida aspettazione e affatica l'ingegno dei dotti, i congressi dei sapienti, le assemblee popolari, le deliberazioni dei legislatori, i consigli dei principi, tanto che oggi non vi è questione che maggiormente interessi il mondo.» Esso - per gli autori dell’enciclica era scaturito dai «portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell'industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l'essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l'unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l'aggiunta dei peggiorati costumi.»
Viviamo tempi simili.
12. Ideologia di mediazione culturale per familiarizzare
28. Uno dei temi ricorrenti nelle narrazioni fantascientifiche è il racconto di società immaginarie in cui tutti gli individui sono connessi tra loro e formano un’unica mente. Non a caso, in questa prospettiva, spesso gli individui vengono presentati come organismi biologici integrati da parti artificiali. Infatti quel tipo di connessione è al di là delle nostre capacità organiche. Possiamo avere e gestire tra noi solo connessioni episodiche, più o meno frequenti, più o meno intense, ma episodiche, mediate da un sistema condiviso di atteggiamenti, suoni, simboli e segni che nel suo insieme costituisce il linguaggio, gestuale, verbale, simbolico e scritto. Ognuno appare all’altro nell’incontro episodico provenendo dall’ignoto. Su dove fosse prima di apparire abbiamo un’idea imprecisa, basata su precedenti abituali che però potrebbero non essersi ripetuti. Su dove andrà dopo abbiamo un’idea predittiva basata sugli stessi elementi, che però in concreto potrebbe non corrispondere a ciò che avverrà. Gli individui non viaggiano su binari, come i treni. L’interazione nell’incontro è puntuale, limitata nel tempo e nel suo oggetto. Poi si scioglie e gli individui che vi hanno partecipato scompaiono gli uni per gli altri. Sapersi figurare l’immagine di un gruppo che permane al di là degli incontri episodici è una capacità che si acquisisce nell’evoluzione della psiche, nell’infanzia. Il bambino piccolo, senza un contatto fisico e visivo con la persona che ne ha cura, non mantiene la consapevolezza del fatto che comunque ci sia e si occupi di lui: quella persona scompare. A questa condizione si ritorna nel caso di alcune malattie neurologiche. In questi casi gli altri con cui si hanno relazioni abituali profonde, quando scompaiono, ritornano nella massa indistinta intorno e, al riapparire, non vengono riconosciuti e bisogna ripetere le procedure di familiarizzazione, che partono dalla domanda “Chi sei?” rivolta dalla persona malata al nuovo apparso. La capacità di avere consapevolezza della permanenza del gruppo sociale anche quando fisicamente è nella fase di scioglimento è anche una conquista culturale: quando la si raggiunge si comincia a pensare alla società come un tutto che esprime anche sé stessi, nella quale si è integrati non solo come una galassia o rete alla quale si sia connessi dall'esterno. La relazione di integrazione distingue la collettività familiare dalla relazione di connessione che è tipica delle reti sociali telematiche. La permanenza di queste ultime, a differenza delle collettività di tipo familiare, dipende da chi le controlla. La questione della permanenza delle società è al centro di un’importante tema teologico che riguarda la natura della Chiesa secondo la nostra fede: sussiste solo al momento dell’incontro di un gruppo o anche nei momenti in cui non si è episodicamente insieme? La teologia della nostra confessione è per la seconda alternativa e, in particolare, vi ha costruito sopra il dogma della presenza reale, che determina il particolare modo in cui ci comportiamo quando entriamo in una chiesa, che riteniamo abitata dal divino.
Da un punto di vista sociologico e antropologico, i locali parrocchiali sono il luogo di incontri significativi secondo la nostra fede. Lì appariamo gli uni agli altri per riconoscerci come gente di fede, partecipare a liturgie, approfondire la nostra conoscenza reciproca e sui temi della religione, programmare attività collettive. Nei locali parrocchiali si addensano relazioni sociali, guidate da consuetudini e rituali condivisi. Quando parliamo di Chiesa in uscita immaginiamo un gruppo di fedeli che abiti la Chiesa come ambiente sociale in quelle consuetudini di incontri e lo vorremmo capace di stabilire più ampie relazioni sociali, di estenderle incontrando altre persone, che significa sempre entrare in altri ambienti sociali, dove relazioni sociali si addensano, altrove. In realtà ognuno di noi abita più ambienti sociali, ciascuno con le sue consuetudini e i suoi riti sociali. Nessuno è mai veramente confinato in quella particolare sede di incontro che è la Chiesa. In un certo senso la Chiesa è già uscita, e, anzi, appare nel convergere di individui sociali dall’esterno. Schematicamente immaginiamo una dinamica di movimento fisico, andare dall’interno all’esterno, ma in realtà lo scopo che si prefigge è di influire su altri ambienti sociali, lì dove le relazioni sociali si addensano sulla base di altre esigenze e ideologie. Ogni ambiente sociale è definito da una cultura particolare, intesa come insieme di costumi e linguaggi: il contatto interculturale richiede una struttura di mediazione. Il sempliceapparire agli altri in genere non basta. In passato, nel corso di una missione diocesana, si andò al Pratone a predicare la nostra fede a chi c’era, ma chi ascoltava rimase indifferente. In realtà, per come fu organizzato quell’incontro episodico, non ebbe voce, si limitò ad ascoltare non intendendo: si erano infatti saltate le procedure di familiarizzazione che rendono possibile la mediazione culturale. E’ un errore che si commette spesso. Qualche giorno fa, alcuni giovani volontari di un’associazione caritativa religiosa sono venuti a visitare mia madre, ospite di un pensionato e affetta da una grave encefalopatia, mentre io ero presente. Mia madre conserva capacità cognitive, ma bisogna avvicinarlesi in un certo modo, parlando a bassa voce e lentamente, con gesti lenti e soprattutto stabilendo un contatto fisico, ad esempio tenendole la mano o accarezzandole la testa. Quei volontari sono entrati tutti allegri parlandole festosamente ad alta voce e mostrandole dei doni che le portavano: caramelle, che mia madre non è più in grado di mangiare, un flacone di shampoo, che mia madre non è più in grado di usare. E, nel mostrarle quelle cose, non si sono resi conto che mia madre teneva gli occhi chiusi. La confusione l’angoscia. Ho provato a descrivere la situazione di mia madre ai nuovi venuti, ma loro agivano secondo uno schema prefissato, che evidentemente avevano intenzione di replicare con tutti gli anziani che andavano a visitare, senza tener conto della loro specifica condizione. Ho cercato anche di spiegare chi fosse mia madre e, in particolare, che si trattava di persona di fede molto profonda, che per vent’anni aveva vissuto da collaboratrice laica nella sede di un nuovo ordine religioso e del fatto che da giovane aveva partecipato, consapevole e attiva, a gruppi che avevano avuto un certa rilevanza nelle faccende pubbliche italiane. Ma l’ascoltare non rientrava nel protocollo di quei volenterosi. Il tempo, del resto, era poco. E poi si trattava di eventi del passato che qualche volta, benché poi non tanto lontani nel tempo, hanno per i più giovani la stessa consistenza delle guerre puniche. Mancando una struttura di mediazione culturale, l’incontro, in realtà, non c’è stato, anche se probabilmente quei volontari hanno immaginato di sì. E quello che probabilmente hanno pensato anche i predicatori del Pratone.
29. La costruzione di una ideologia di mediazione culturale è essenziale per far sì che da incontri episodici si costruisca una società, un addensamento di relazioni sociali con carattere di stabilità e di tendenziale intensificazione. Su di esso poi potranno organizzarsi istituzioni che promuovano la stabilità e la coerenza dell’insieme. Senza quella struttura gli incontri, anche se realizzati in un contesto liturgico, rimangono poco o nulla significativi. Se si è costretti ad utilizzare i medesimi locali o servizi lo si fa con spirito condominiale, nei limiti del contratto di condominio che costituisce sempre una transazione tra i propri appetiti e quelli degli altri, in base alla quale, facendosi reciproche concessioni determinate dai reciproci rapporti di forza, si arriva a condividere ciò che si preferirebbe avere tutto per sé, costituendo gli altri solo un fastidioso inconveniente, per altro ineliminabile. Questa è l’allucinante situazione del condominio di varie confessioni religiose sulla basilica del Santo Sepolcro, a Gerusalemme, in Israele: la pace è sempre precaria e spesso, come si narra, scoppiano anche violente zuffe tra i sant’uomini che, con spirito condominiale, si occupano di quei luoghi. I cattolici e i protestanti, che storicamente sono arrivati dopo, contano poco. Complessivamente sono sei le confessioni cristiane partecipi dell’accordo di condominio sul luogo ritenuto sacro da tutte. Nonostante professino la fede dell’amore, non riescono ad andare veramente d’accordo: manca una struttura di mediazione cultura valida e la teologia, in quel contesto, non aiuta perché serve a marcare le differenze, a dividere.
Non dobbiamo attenderci che, poiché professiamo la religione dell’amore, si riesca a convivere pacificamente. Il Vangelo non basta. E nemmeno soccorrere gli altri, secondo lo schema dell’ospedale da campo. La metafora vale se vuole spingerci ad uscire da circoli chiusi di adepti per operare nella società di fuori. Ma non è detto che l’incontro di soccorso crei quelle relazioni sociali che costruiscono la società. Non funzionò ai tempi del Maestro. Come si legge nei Vangeli, le folle che accorsero a lui per essere guarite in definitiva non vennero stabilmente coinvolte, se non a seguito di un lavoro successivo di inculturazione. Mi ha sempre sorpreso infatti che, poco tempo dopo i festosi Osanna al momento del suo ingresso a Gerusalemme, tanto fragorosi da far preoccupare le autorità sacerdotali, il popolo convenuto davanti al palazzo di Pilato avesse poi scelto di salvare Barabba piuttosto che lui. Non era sicuramente tutto il popolo, ma dov’erano gli altri?
Certo, l’incontro personale è essenziale per stabilire relazioni profonde. Le altre relazioni sono labili. Per conoscersi veramente, e per piacersi, ciò che è alla base della costruzione sociale, in particolare nel tempo della fondazione (che i sociologici assimilano all'innamoramento, quale sentimento di stato nascente), sono necessari incontri di prossimità, in cui ci si possa vedere e sentire, alla lettera, il calore reciproco. Questo dipende dalla nostra biologia e non ci possiamo fare nulla. Altri tipi di relazioni, come quelle telematiche, lasciano il tempo che trovano. La frequentazione reciproca è quindi molto importante e a questo servono gli ambienti parrocchiali. Nella delicata fase di fondazione, come quella che stiamo vivendo in parrocchia, dovrebbe coinvolgere obbligatoriamente, sotto vincolo di obbedienza canonica, tutti coloro che, a qualsiasi titolo, pretendono di esercitare o di fatto esercitano una qualche influenza sociale nell’ambiente sociale parrocchiale. Costoro dovrebbero iniziare a fare vita comunitaria, con incontri più frequenti e prolungati, secondo una programmazione che compete al parroco quale luogotenente del vescovo. In questa consuetudine di incontri, in cui si realizzerà anche l’addomesticamento reciproco, la familiarizzazione, occorrerà ideare e sperimentare le strutture di mediazione che servono. Il Consiglio pastorale, per il peso eccessivo della sua struttura formale e per i suoi limitati compiti, non serve allo scopo. E’ divenuto inoltre pletorico, per ciò che ricordo, non si sa più bene chi abbia titolo a parteciparvi, e si riunisce troppo poco spesso. Quando ci si incontra, per come me ne raccontano, prevale lo spirito condominiale e questo fatalmente, perché si ha insufficiente consuetudine reciproca. La partecipazione a quel nuovo tipo di esperienza comunitaria dovrebbe essere condizione ineludibile per essere ammessi ad esercitare in parrocchia qualsiasi tipo di influenza sociale. In questo si seguirebbe l’esempio del Maestro con i primi apostoli, ai quali egli spiegava ciò che rimaneva oscuro per la cerchia più estesa di chi ascoltava. L’incontro ravvicinato è veicolo di mediazione culturale, anche se non basta, per sé, a produrla: essa va ideata e sperimentata per vedere se in che limiti funzioni, apportando su campo le opportune modifiche, imparando dall'esperienza fatta e non incaponendosi nel ripetere errori evidenti.
13. Due parrocchie in una. I problemi col quartiere
«E’ possibile parlare di una dialettica tra natura e società. Questa dialettica è un dato della condizione umana e si manifesta in ogni individuo umano. Per l’individuo, naturalmente, essa si svolge in una situazione già strutturata. C’è una continua dialettica, che nasce con le primissime fasi della socializzazione e continua a operare per tutto il periodo dell’esistenza dell’individuo nella società, tra ogni animale umano e la sua situazione socio-storica. Esteriormente, è una dialettica tra l’animale individuale e il mondo sociale; interiormente, è una dialettica tra il substrato biologico dell’individuo e la sua identità socialmente prodotta.
Per quanto riguarda l’aspetto esteriore è ancora possibile affermare che l’organismo postula dei limiti a ciò che è socialmente possibile. Come hanno detto dei costituzionalisti inglesi, il parlamento può fare tutto, fuorché far partorire gli uomini. Se il parlamento ci provasse, il suo progetto troverebbe un ostacolo insormontabile nella costituzione fisiologica dell’uomo. I fattori biologici limitano la portata delle possibilità sociali dell’individuo, ma il mondo sociale, che, rispetto al singolo, è preesistente, a sua volta impone dei limiti a ciò che è biologicamente possibile all’organismo. La dialettica si manifesta dunque nella reciproca restrizione tra organismo e società.
[…]
L’uomo è biologicamente predestinato a costruire il mondo e ad abitarvi in comune con gli altri. Questo mondo diventa per lui la realtà dominante e definitiva. I suoi limiti sono posti dalla natura, ma, una volta costruito, esso influisce a sua volta sulla natura. Nella dialettica tra la natura e i mondo socialmente costruito lo stesso organismo umano viene trasformato e in questo modo l’uomo produce la realtà e se stesso.»
da Peter L Berger - Thomas Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, 2016 (prima ed. USA, 1966); pag.225-226; 229.
30. Uno dei nostri problemi sociali è quello di due parrocchie che abitano negli stessi locali parrocchiali, come in un condominio. La prima, fatta prevalentemente da gente del quartiere, non sente il bisogno (ricambiata) dell’altra, un gruppo di neo-comunità nel quale c’è molta gente di fuori, e del resto non sarebbe nemmeno ammessa ai suoi eventi. La seconda fa infatti in gran parte vita sociale e liturgica a sé, esclusiva. Per essere dei suoi occorre superare un vaglio, non basta desiderarlo ed essere parrocchiani. E’ necessario aprirsi completamente e cambiare abitudini secondo quanto richiesto dai capi della comunità, in base ad un progetto con tappe e verifiche puntuali che viene presentato come un cammino che non finisce mai. C’è chi è più avanti e chi più indietro, e chi è indietro cerca di imparare da chi è avanti e, innanzi tutto, di conformarsi ai costumi comunitari: è così modellato da essi. Ogni anno, nelle Messe domenicali di un certo giorno, in autunno, questa esperienza personale ci viene presentata con una testimonianza, più o meno secondo la medesima traccia e a volte proprio con gli stessi discorsi: un cambiamento affascinante tra la vita religiosa di prima e quella dopo, l’idea di essere stati raggiunti dal Cielo integrandosi in una comunità forte. Chi è fuori se ne è fatta in genere l’idea di un’esperienza autosufficiente, autoreferenziale, che basta a se stessa. Diffida della pretesa di quegli altri di apertura del proprio animo alla comunità, di questa elevata confidenza comunitaria; la teme (e non a torto). La diffidenza è ricambiata. E' per questo che si ha la sensazione di abitare la parrocchia al modo di un condominio. Quando ci si trova insieme, non ci si incontra veramente, si è gente che va e che viene, come in una stazione ferroviaria. In questi momenti i locali parrocchiali diventano non luoghi, come i sociologi definiscono le strutture di passaggio senza incontro, appunto le stazioni ferroviarie, gli aeroporti, certi piazzali in cui non ci si ferma, ma ci si limita a smistarsi. Nei tre anni del nuovo corso non si è riusciti nemmeno a iniziare una integrazione tra le due parrocchie. La ostacolano la diffidenza e la scarsa voglia di essere coinvolta più intensamente della gente del quartiere e la costruzione sociale di tipo esclusivo dei camminanti, che non integra se non assimilando e percepisce il rifiuto dell’assimilazione come ostilità. Di tutto questo ho scritto molte volte, tra il 2012 e il 2015, e non voglio ripetermi. Tutto ciò che ho scritto è ancora disponibile sul blog acvivearomavalli.blogspot.com. Potrebbe essere utile darvi un occhiata, per i nuovi preti che sono arrivati da noi quest’anno, per comprendere il problema, in modo migliore, ad esempio, che attingendo notizie sul WEB dai nemici dichiarati di quell’esperienza comunitaria, i quali descrivono astiosamente il male che vi vedono senza tenere in debito conto del bene che indubbiamente produce. Io non mi ritengo un nemico di quegli altri, ma uno che ha sofferto e soffre la divisione. So, per esperienza personale, che quelli che vi partecipano sono persone buone. Ho infatti imparato a conoscerli e anche a stimarli.
31. L’altro problema della parrocchia è con il quartiere. Una volta rimossa l’eccessiva caratterizzazione di liturgie e attività di formazione che si era prodotta secondo l’ideologia dell’esperienza comunitaria di cui ho parlato, ci si aspettava, e anch’io mi aspettavo, che la gente del quartiere tornasse a prendere possesso della sua parrocchia. Così ancora non è stato.
La ragioni? E’ la società che nel frattempo è cambiata e noi in essa. Si dà meno importanza alla partecipazione comunitaria, che si era molto affermata in Europa nel Medioevo, quando serviva a proteggere da ambienti naturali e sociali fattisi ostili. L’affermazione della personalità individuale, come riscatto dalla tirannia medievale comunitaria, data in Europa dal Cinquecento: fu, all’inizio, un fatto diintellettuali, poi di proprietari, che dalla proprietà ricavavano la loro forza di resistenza, e dagli anni Sessanta, in Occidente, è esperienza di massa. La consente il sistema giuridico, arricchito di tanti diritti sociali che, appunto, rende possibile la sopravvivenza di massa come individui liberi. Nella figura 1 ho rappresentato la comunità-corporazione sul modello medievale, in cui gli individui erano inglobati all’interno di intensi addensamenti di relazioni sociali. Nella figura 2 ho rappresentato la situazione attuale. Le frecce indicano le relazioni giuridiche, con limitato coinvolgimento emotivo, empatico e simpatetico. Nella figura 3 ho rappresentato l’evento drammatico di quando, per una qualche ragione, viene meno l’aggancio dei diritti sociali, ad esempio per accidenti che vanno oltre quelli coperti dalla previdenza sociale (può trattarsi anche di eventi che non incidono sul reddito, ad esempio la perdita di una persona cara, un amore o una gravidanza finiti male, un insuccesso scolastico o nei rapporti con i colleghi di lavoro), e l’individuo allora inizia a ruotare eccentricamente lontano dagli altri e finisce a costituire uno scarto sociale, mentre nel contesto indicato nella figura 1 rimaneva pur sempre incapsulato nel gruppo sociale di riferimento.
L’esperienza comune è di avere sempre meno tempo per le relazioni sociali di gruppo, in ogni tempo della vita. In realtà non se ne sente, ordinariamente, il bisogno. Ve ne sono ora sostituti emotivi nelle reti sociali telematiche alle quali si è connessi a lungo, in prevalenza tramite gli smartphone che teniamo sempre presso di noi, a pochi centimetri da cervello e cuore. L’amore da giovani, ad esempio, si vive prevalentemente in due e un tempo non era così, erano coinvolte le rispettive famiglie allargate e altri gruppi sociali di riferimento, e anche quelli religiosi. La famiglia così è veramente nucleare, papà, mamma e figli. Il numero di questi ultimi è delimitato dalle forze del gruppo di adulti di riferimento: in due soli se ne hanno meno. E’ la società a dirci quanti figli fare, non solo la nostra biologia. Da anziani, partendo i figli per altre vite, si rimane soli e, tanto più, quando il partner si distacca o muore. Da anziani si ha più tempo e si avverte di più la solitudine. In altre età della vita si è talmente indaffarati da farci poco caso. In questo contesto si hanno meno occasioni di fare vero tirocinio sociale e le relazioni, al di là del microgruppo di riferimento, di solito la famiglia nucleare, prendono sempre più un aspetto contrattualizzato in cui si punta a dare nella misura in cui si riceve. Quando l’isolamento diviene percepibile, nei tempi liberi dal consueto affaccendamento, si cerca il gruppo più che altro come medicina dell’anima, per sentirsi meglio. Vale a dire che se ne ha una visione concentrata sull'utilità che può dare a sé stessi. E' come se, valutando costi e benefici della costruzione di un ponte o di un traforo, si tenesse conto solo di quanto spesso chi valuta ci passerà sopra o dentro, e non dell'utilità sociale, ad esempio per il commercio e il turismo, e anche per le generazioni future, trattandosi di opera che diventa obsoleta e richiede quindi importanti lavori di adeguamento solo nel giro più o meno di un secolo, non nel corso della vita di chi decide di costruirla e di chi la costruisce."Starò meglio?", ci si chiede decidendo di aderire, non "Staremomeglio?" o anche, in certi casi, "Servirà anche ai nostri figli?".E’ ciò che traspare anche dalle narrazioni che fanno della loro esperienza gli aderenti alle neo-comunità della nostra parrocchia: parlano di un’esperienza interiore affascinante, aumentata, diversa dalla religiosità di prima (che è poi quella degli altri parrocchiani). Non li ho sentiti mai parlare di ciò che collettivamente si è raggiunto, come gruppo, non solo nell’anima individuale. Il fenomeno è generale nella società di oggi. La sfiducia nel gruppo sociale allargato come strumento d’azione per raggiungere scopi collettivi c’è anche in chi controlla la politica. Si pensa sempre che sia meglio una direzione di pochi, dominati da singole personalità, i leader, Machiavelli avrebbe detto il Principe: poiché però le procedure democratiche richiedono il periodico coinvolgimento dei cittadini, si cerca di accaparrarsene il consenso quando serve, e nei limiti in cui serve cercando per il resto di avere le mani libere, usando le medesime tecniche della pubblicità commerciale, perché al momento debito traccino un segno sul punto giusto di una scheda di voto. Non ci si cura più di far crescere le collettività. Una volta si pensava che questo presentasse utilità sociale e si era anche istituito un sistema di finanziamento pubblico per provvedervi, analogo a quello per i servizi religiosi. Ora invece si pensa che fossero soldi sprecati e lo si è abolito. Dunque i partiti politici non hanno più risorse per provvedervi, perché sono sempre meno quelli che aderiscono versando quote sociali, e questo, della taccagneria nel contribuire, è analogo a ciò che si osserva nella nostra Chiesa, che non potrebbe funzionare senza il finanziamento pubblico (ora di poco meno di un miliardo di euro all’anno).
32. Nelle comunità - medicina dell’anima i miti sociali di fondazione (religiosi, spirituali in genere, politici, sportivi, artistici o di altro genere, come contattare gli extraterrestri o parlare alle piante), quando ci sono, appaiono strumentali. L’obiettivo principale è creare una comunità terapeutica per sanare l’anima, dove fare esperienze di realtà aumentata e sentirsi meglio.
L’ideologia delle neo-comunità della nostra parrocchia di cui dicevo punta dichiaratamente, per statuto, a irrobustire la vita di fede mediante un sostegno comunitario, ma quell’esperienza comunitaria di fatto viene prevalentemente considerata e scelta, da ciò che si ricava dalle narrazioni che ne fanno quelli che la vivono, per l’effettiva solidarietà che crea, per il clima fraterno, che, appunto, cura l’anima, quindi come medicina dell’anima, in quanto crea e consente di sperimentare una realtà sociale diversa, aumentata, rispetto alle altre intorno. La fede ne appare solo come il mito fondativo. Ma quanto conta? Tuttavia quella solidarietà ha un prezzo, che però viene pagato, mi pare, solo nei limiti di ciò che dall'esperienza si ricava o si pensa di ricavare, altrimenti no o non più. Vale a dire che, nonostante l’immagine di compattezza che di quell'esperienza si ha, c’è chi entra e chi esce e i più astiosi critici di quell’esperienza sociale sono appunto i fuoriusciti. Il prezzo è quello di una certa qual tirannia comunitaria sull’anima. Una volta, casualmente, ho orecchiato una conversazione tra due persone coinvolte in quell’esperienza sociale (non si hanno del resto molte altre e diverse occasioni per conoscerne dettagli), le quali, riferendosi ad un neofita che evidentemente recalcitrava, si dicevano l’un l’altra che bisognava ricostruirlo. Altre volte, sempre orecchiando qua e là, mi è sembrato che, per ricostruire, si pensasse di dover prima demolire, in modo da ricostruire da capo. Questo modo di pensare ha causato i primi dispiaceri alle origini delle neo-comunità, poi superati all’epoca del regno di san Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°. Nei primi tempi, questa fase di ricostruzione era presentata come troppo simile a un neo-battesimo, ciò che stonava pericolosamente con un dogma. Dopo la prima fase di familiarizzazione, si fa, mi pare di aver capito, una confessione generale, di revisione dell'intera propria vita, e poi, nelle piccole comunità di riferimento in cui si fraziona l’esperienza generale, ci si confida apertamente di fronte agli altri, sotto la Croce. Questo è vivamente sconsigliato dagli psicologi, perché rende fragile chi si apre in quel modo rispetto al gruppo che ascolta. In ogni gruppo la dignità del singolo dipende dal mantenere un certo spazio di riservatezza personale. Del resto è questa anche la pratica della nostra liturgia del sacramento della Penitenza. Indubbiamente, però, questa grande confidenza comunitaria stabilizza le comunità di riferimento, ma lo fa rendendo gli individui dipendenti da esse. E poi, nel mentre coinvolge, divide dagli altri, da chi ne è fuori. L’integrazione, lo ripeto, si ha soloper assimilazione e quest’ultima produce un certo apparente conformismo. Essere messo fuori dopo aver vissuto dentro è vissuto come un grave trauma, un violento shock. In Fuci, da universitario, sperimentai ciò che significava quando accogliemmo una fuoriuscita da quell’esperienza comunitaria.
L’immagine del neo-gruppo in movimento impressiona, quando i suoi membri si muovono tutti insieme, e riempiono gli ambienti. Noi umani abbiamo limiti cognitivi nel figurarci le masse: quando osserviamo un grosso gruppo che si muove e riempie uno spazio fisico (ad esempio la nostra chiesa parrocchiale che all'inizio degli anni '90 è stata costruita di dimensioni che sono circa la metà di quelle della precedente chiesa sotterranea) pensiamo “Sono molti”. Se però riuscissimo a convocare in via Val Padana (la chiesa parrocchiale non basterebbe) i quindicimila del quartiere che vivono la loro religiosità secondo la nostra fede, sarebbero molti di più, e lo capiremmo bene vedendone la moltitudine. Però in genere non ci riusciamo e allora pensiamo la parrocchia come abitata da molti di quelle neo-comunità e da pochi altri, o almeno, dal nuovo corso, di altri tanti quanti sono i primi. Ma non è così. Gli altri, tutti quelli del quartiere ai quali la parrocchia è inviata, sono molti di più. La missione è agganciarli quanti più possibile, non di vagliarli, selezionarli, facendo la squadretta che ci pare, come si fa da ragazzi per la partita.
I preti sono (anche) parte di un organismo burocratico che pretende risultati in tempi certi. Un tempo si contavano le ostie distribuite nelle Messe domenicali e da lì si valutava l’efficacia di una gestione parrocchiale. Ora si fanno calcoli più sofisticati, ma comunque, molti è meglio di pochi o di meno. La tentazione, allora, può essere di tagliare corto e di provare ad innestare di forza una parrocchia nell’altra, senza perdere tanto tempo nella mediazione culturale e nel tirocinio di familiarizzazione e di addomesticamento. Metto in guardia chi ci pensa. Valuti che in trent’anni, dal 1983 al 2015, di esperienza ricostruttiva della parrocchia secondo la neo-ideologia comunitaria a cui ho accennato, cercando di forzare senza mediazione culturale, si è riusciti a produrre un gruppo comunitario molto coeso di sole trecento persone circa (in calo, dalle scarne notizie che se ne hanno). Gli altri del quartiere, a torto o a ragione, si è dato l’uno e l’altro caso per come la vedo io, se ne sono sentiti in qualche modo messi in questione, criticati e anche sconfessati, ad esempio nel loro modo di vivere la liturgia, l'amore, il matrimonio, il ruolo di genitori e di figli, di uomini e donne e, talvolta, dai racconti che sento, se ne sono sentiti anche urtati e addirittura traumatizzati. I preti hanno senz'altro potuto raccogliere confidenze simili, che negli incontri pubblici si ha in genere pudore di esprimere francamente. Molti si sono allontanati e non solo per l'andazzo dei tempi. Segnalo che qualcosa di simile è emerso anche durante gli incontri ecumenici della scorsa Quaresima, anche se in quelle occasioni si è dato indubbiamente, da quelli che hanno partecipato, il meglio di sé. Accade quando qualcuno sbotta: “se la pensi così, allora non hai fede!”.
Il lavoro che c’è da fare è sicuramente molto impegnativo, molto più che in altre parrocchie, come hanno ben compreso, alla fine, in Diocesi, mandandoci in soccorso un gruppo molto forte di preti, una vera e propria squadra d’emergenza.
Da un lato occorrere correggere ciò che di spiritualità di setta emerge ancora nell'attività parrocchiale delle neo-comunità che della parrocchia vogliono ancora far parte (ciò che fanno altrove non ci deve riguardare), dall'altro bisogna coinvolgere nuovamente il quartiere in un lavoro collettivo che non sia vissuto (solo) come medicina dell’anima, ma punti ad ottenere risultati collettivi, non solo individuali, in un’azione in senso lato liturgica, per fare (anche) ciò che serve per vivere meglio insieme nel quartiere nel quale la parrocchia è immerso. Per far comprendere alla gente del quartiere che la nostra fede è importante per riuscirci. Occorre quindi pazientemente ideare e sperimentare nuovi modi di essere comunità, con l’obiettivo di coinvolgere senza asservire, di questa esperienza sociale facendo fare il più ampio tirocinio possibile, a tutte le età, per vedere se e come funziona e per correggerla sulla base dell’esperienza. La nostra fede è fatta per liberare: l’unica dipendenza che ammette è quella dal Cielo.
14. Oltre il paternalismo e gli effetti speciali
«Il gruppo paternalista, dicevamo, è una forma sottile di dittatura; il leader “impone” in un modo dolce, furbesco, dissimulato, nascosto, tatticone. Tutti pendono (“devono pendere”) da suoi consigli. La pressione psicologica esercitata sui membri è fortissima: da una parte c’è amore, in quanto il leader ha sentimenti paterni verso i “sudditi”, dall’altra nasce il disprezzo e, spesso, l’odio, in quanto i membri si sentono coartati nell’esercizio della loro iniziativa e della loro creatività.
Questa dipendenza affettiva ambivalente (amore e odio) ripropone, negli altri, stadi di regressione psicologica. Di qui l’infantilismo, l’immaturità affettiva, gli squilibri emotivi, la mancanza di responsabilità, l’incapacità di affrontare la vita, i disadattamento sociale. In questo sistema, cioè, i membri si abituano talmente a dipendere dal “padre”, da ritenere naturale e perfino obbligatorio lasciare ogni decisione, anche la più personale, ala discrezione delle “teste più vecchie e più sagge”.»
da Gennaro Luce, Dinamica di gruppo, LMS, 1977, pag.86-87.
33. Tra il problema con neo-comunità non integrate e quello con il quartiere, quale affrontare per primo, qual è il più urgente e/o il più grave? Senz’altro il secondo. Risolverlo è inoltre la sola via per occuparsi con efficacia dell’altro, in particolare per procurarsi gli strumenti che servono per farlo.
Le neocomunità hanno creato dipendenza e hanno impostazione paternalista. Del resto, in un certo senso, nell’azione di propaganda per l’adesione sembrano cercare di selezionare proprio chi è psicologicamente predisposto per la dipendenza, rivolgendosi a insoddisfatti e sofferenti e proponendosi come cura. Su un contesto sociale simile non si può influire semplicemente esponendo obiettivamente i problemi che crea e che si creano al suo interno. Questi discorsi non fanno breccia, non scalfiscono minimamente l’autorità paternalistica che permea il gruppo e che fa resistenza per mantenere il controllo sulla fraternità. L’organizzazione è stata pensata proprio con questo scopo e fa il suo lavoro. L’unica via per incidervi è inglobare il gruppo in un contesto sociale più esteso di mediazione culturale che lo familiarizzi progressivamente con la realtà esterna, con la società intorno, facendogliene riprendere consuetudine e facendogliene sperimentare le opportunità di bene, laddove il gruppo vede prevalentemente il male. Questo da noi manca: manca la gente che serve. Dovremmo attirarla dal quartiere, che però ci si mostra ancora indifferente. Questo non solo per il nostro particolare passato parrocchiale, per l’esperienza neocomunitaria che si è tentato a lungo di imporle, fallendo, ma, e questo dobbiamo imparare da ciò che abbiamo vissuto negli ultimi tre anni nei quali si è tentato di cambiare correggendo la rotta, anche perché la società in cui è immersa è cambiata profondamente, come è avvenuto per quella italiana in genere.
34. Tutto è originato agli inizi degli anni ’90, quando si pensava che i problemi dell’Europa si stessero avviando a soluzione dopo la rapida composizione della frattura ideologica, politica e istituzionale tra la sua parte occidentale, ad economia capitalista, e quella orientale, ad economia comunista, dominata in gran parte dall’Unione sovietica, che comprendeva la Russia ed altri popoli caduti sotto il dominio russo in epoca zarista e poi coinvolti nella rivoluzione sovietica del 1917. E’ a quel punto che divenne ideologia dominante l’idea che ciascuno dovesse fare da solo, competendo con gli altri facendo del suo meglio, e che non ci si dovesse attendere un qualche sostegno sociale se non, fondamentalmente, nella malattia grave e nella vecchiaia. Al di fuori di questi casi l’intervento pubblico venne pensato come spreco. In un contesto simile, di libertà dell’iniziativa privata in una società con tante opportunità in più, sempre maggiori man mano che si immaginava il mondo nuovo senza più la minaccia incombente di una guerra di annientamento e senza la necessità di mantenervi le pesanti strutture sociali create per far fronte a quella minaccia, ad esempio il controllo molto rigido di frontiere e scambi, si pensava che, al dunque, ognuno poi finisse in società dove aveva meritato, chi in basso e chi in alto, chi ricco e chi meno ricco, ma comunque tutti con un benessere maggiore che nel passato, con il che si pensava di aver risolto il problema della giustizia sociale. Anche gli autori della dottrina sociale lo pensarono. L’ultimo documento di quell’era fu l’enciclica Il centenario - Centesimus Annus, diffusa nel 1991 dal papa san Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°, nei cento anni dal primo documento della dottrina sociale moderna, l’enciclica Le novità - Rerum Novarum, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°. Nella Il Centenario il papa espose l’organizzazione del mondo nuovo, pensandolo democratico e globalizzato, ma anche pacificato.
Così si riferì all’enciclica Le novità - Rerum Novarum:
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5. Le «cose nuove», alle quali il Papa si riferiva, erano tutt'altro che positive. Il primo paragrafo dell'Enciclica descrive le «cose nuove», che le han dato il nome, con parole forti: «Una volta suscitata la brama di cose nuove, che da tempo sta sconvolgendo gli Stati, ne sarebbe derivato come conseguenza che i desideri di cambiamenti si trasferissero alla fine dall'ordine politico al settore contiguo dell'economia. Difatti, i progressi incessanti dell'industria, le nuove strade aperte dalle professioni, le mutate relazioni tra padroni e operai; l'accumulo della ricchezza nelle mani di pochi, accanto alla miseria della moltitudine; la maggiore coscienza che i lavoratori hanno acquistato di sé e, di conseguenza, una maggiore unione tra essi ed inoltre il peggioramento dei costumi, tutte queste cose hanno fatto scoppiare un conflitto».
Il Papa, e con lui la Chiesa, come anche la comunità civile, si trovavano di fronte ad una società divisa da un conflitto, tanto più duro e inumano perché non conosceva regola né norma. Era il conflitto tra il capitale e il lavoro, o — come lo chiamava l'Enciclica — la questione operaia, e proprio su di esso, nei termini acutissimi in cui allora si prospettava, il Papa non esitò a dire la sua parola.
Si presenta qui la prima riflessione, che l'Enciclica suggerisce per il tempo presente. Di fronte ad un conflitto che opponeva, quasi come «lupi», l'uomo all'uomo fin sul piano della sussistenza fisica degli uni e dell'opulenza degli altri, il Papa non dubitò di dover intervenire, in virtù del suo «ministero apostolico», ossia della missione ricevuta da Gesù Cristo stesso di «pascere gli agnelli e le pecorelle» (cf Gv 21,15-17) e di «legare e sciogliere sulla terra» per il Regno dei cieli (cf Mt 16,19). Sua intenzione era certamente quella di ristabilire la pace, e il lettore contemporaneo non può non notare la severa condanna della lotta di classe, che egli pronunciava senza mezzi termini. Ma era ben consapevole del fatto che la pace si edifica sul fondamento della giustizia: contenuto essenziale dell'Enciclica fu appunto quello di proclamare le condizioni fondamentali della giustizia nella congiuntura economica e sociale di allora.
In questo modo Leone XIII, sulle orme dei predecessori, stabiliva un paradigma permanente per la Chiesa. Questa, infatti, ha la sua parola da dire di fronte a determinate situazioni umane, individuali e comunitarie, nazionali e internazionali, per le quali formula una vera dottrina, un corpus, che le permette di analizzare le realtà sociali, di pronunciarsi su di esse e di indicare orientamenti per la giusta soluzione dei problemi che ne derivano.
Ai tempi di Leone XIII una simile concezione del diritto-dovere della Chiesa era ben lontana dall'essere comunemente ammessa.
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Continuò osservando:
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22. Partendo dalla situazione mondiale ora descritta, e già ampiamente esposta nell'Enciclica Sollicitudo rei socialis, si comprende l'inaspettata e promettente portata degli avvenimenti degli ultimi anni. Il loro culmine certo sono stati gli avvenimenti del 1989 nei Paesi dell'Europa centrale ed orientale, ma essi abbracciano un arco di tempo ed un orizzonte geografico più ampi. Nel corso degli anni '80 crollano progressivamente in alcuni Paesi dell'America Latina, ma anche dell'Africa e dell'Asia certi regimi dittatoriali ed oppressivi; in altri casi inizia un difficile, ma fecondo cammino di transizione verso forme politiche più partecipative e più giuste. Un contributo importante, anzi decisivo, ha dato l'impegno della Chiesa per la difesa e la promozione dei diritti dell'uomo: in ambienti fortemente ideologizzati, in cui lo schieramento di parte offuscava la consapevolezza della comune dignità umana, la Chiesa ha affermato con semplicità ed energia che ogni uomo — quali che siano le sue convinzioni personali — porta in sé l'immagine di Dio e, quindi, merita rispetto. In tale affermazione si è spesso riconosciuta la grande maggioranza del popolo, e ciò ha portato alla ricerca di forme di lotta e di soluzioni politiche più rispettose della dignità della persona.
Da questo processo storico sono emerse nuove forme di democrazia, che offrono la speranza di un cambiamento nelle fragili strutture politiche e sociali, gravate dall'ipoteca di una penosa serie di ingiustizie e di rancori, oltre che da un'economia disastrata e da pesanti conflitti sociali. Mentre con tutta la Chiesa rendo grazie a Dio per la testimonianza, spesso eroica, che non pochi Pastori, intere comunità cristiane, singoli fedeli ed altri uomini di buona volontà hanno dato in tali difficili circostanze, prego perché egli sostenga gli sforzi di tutti per costruire un futuro migliore. È, questa, infatti una responsabilità non solo dei cittadini di quei Paesi, ma di tutti i cristiani e degli uomini di buona volontà. Si tratta di mostrare che i complessi problemi di quei popoli possono essere risolti col metodo del dialogo e della solidarietà, anziché con la lotta per la distruzione dell'avversario e con la guerra.
23. Tra i numerosi fattori della caduta dei regimi oppressivi alcuni meritano di essere ricordati in particolare. Il fattore decisivo, che ha avviato i cambiamenti, è certamente la violazione dei diritti del lavoro. Non si può dimenticare che la crisi fondamentale dei sistemi, che pretendono di esprimere il governo ed anzi la dittatura degli operai, inizia con i grandi moti avvenuti in Polonia in nome della solidarietà. Sono le folle dei lavoratori a delegittimare l'ideologia, che presume di parlare in loro nome, ed a ritrovare e quasi riscoprire, partendo dall'esperienza vissuta e difficile del lavoro e dell'oppressione, espressioni e principi della dottrina sociale della Chiesa.
Merita, poi, di essere sottolineato il fatto che alla caduta di un simile «blocco», o impero, si arriva quasi dappertutto mediante una lotta pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia. Mentre il marxismo riteneva che solo portando agli estremi le contraddizioni sociali fosse possibile arrivare alla loro soluzione mediante lo scontro violento, le lotte che hanno condotto al crollo del marxismo insistono con tenacia nel tentare tutte le vie del negoziato, del dialogo, della testimonianza della verità, facendo appello alla coscienza dell'avversario e cercando di risvegliare in lui il senso della comune dignità umana.
Sembrava che l'ordine europeo, uscito dalla seconda guerra mondiale e consacrato dagli Accordi di Yalta, potesse essere scosso soltanto da un'altra guerra. È stato, invece, superato dall'impegno non violento di uomini che, mentre si sono sempre rifiutati di cedere al potere della forza, hanno saputo trovare di volta in volta forme efficaci per rendere testimonianza alla verità. Ciò ha disarmato l'avversario, perché la violenza ha sempre bisogno di legittimarsi con la menzogna, di assumere, pur se falsamente, l'aspetto della difesa di un diritto o della risposta a una minaccia altrui. Ringrazio ancora Dio che ha sostenuto il cuore degli uomini nel tempo della difficile prova, pregando perché un tale esempio possa valere in altri luoghi ed in altre circostanze. Che gli uomini imparino a lottare per la giustizia senza violenza, rinunciando alla lotta di classe nelle controversie interne, come alla guerra in quelle internazionali.
[…]
5. Gli avvenimenti dell' '89 offrono l'esempio del successo della volontà di negoziato e dello spirito evangelico contro un avversario deciso a non lasciarsi vincolare da principi morali: essi sono un monito per quanti, in nome del realismo politico, vogliono bandire dall'arena politica il diritto e la morale. Certo la lotta, che ha portato ai cambiamenti dell' '89, ha richiesto lucidità, moderazione, sofferenze e sacrifici; in un certo senso, essa è nata dalla preghiera, e sarebbe stata impensabile senza un'illimitata fiducia in Dio, Signore della storia, che ha nelle sue mani il cuore degli uomini. È unendo la propria sofferenza per la verità e per la libertà a quella di Cristo sulla Croce che l'uomo può compiere il miracolo della pace ed è in grado di scorgere il sentiero spesso angusto tra la viltà che cede al male e la violenza che, illudendosi di combatterlo, lo aggrava.
[…]
La caduta del marxismo naturalmente ha avuto effetti di grande portata in ordine alla divisione della terra in mondi chiusi l'uno all'altro ed in gelosa concorrenza tra loro. Essa mette in luce più chiaramente la realtà dell'interdipendenza dei popoli, nonché il fatto che il lavoro umano per sua natura è destinato ad unire i popoli, non già a dividerli. La pace e la prosperità, infatti, sono beni che appartengono a tutto il genere umano, sicché non è possibile goderne correttamente e durevolmente se vengono ottenuti e conservati a danno di altri popoli e Nazioni, violando i loro diritti o escludendoli dalle fonti del benessere.
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52. […] l'altro nome della pace è lo sviluppo. Come esiste la responsabilità collettiva di evitare la guerra, così esiste la responsabilità collettiva di promuovere lo sviluppo. Come a livello interno è possibile e doveroso costruire un'economia sociale che orienti il funzionamento del mercato verso il bene comune, allo stesso modo è necessario che ci siano interventi adeguati anche a livello internazionale. Perciò, bisogna fare un grande sforzo di reciproca comprensione, di conoscenza e di sensibilizzazione delle coscienze. È questa l'auspicata cultura che fa crescere la fiducia nelle potenzialità umane del povero e, quindi, nella sua capacità di migliorare la propria condizione mediante il lavoro, o di dare un positivo contributo al benessere economico. Per far questo, però, il povero — individuo o Nazione — ha bisogno che gli siano offerte condizioni realisticamente accessibili. Creare tali occasioni è il compito di una concertazione mondiale per lo sviluppo, che implica anche il sacrificio delle posizioni di rendita e di potere, di cui le economie più sviluppate si avvantaggiano.
Ciò può comportare importanti cambiamenti negli stili di vita consolidati, al fine di limitare lo spreco delle risorse ambientali ed umane, permettendo così a tutti i popoli ed uomini della terra di averne in misura sufficiente. A ciò si deve aggiungere la valorizzazione dei nuovi beni materiali e spirituali, frutto del lavoro e della cultura dei popoli oggi emarginati, ottenendo così il complessivo arricchimento umano della famiglia delle Nazioni.
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35. Dunque, riassumendo: la caduta del marxismo aveva aperto la via, rimuovendo le ragioni di un conflitto catastrofico globale, ad un nuovo mondo in cui era possibile lo sviluppo come strategia di pace.
L’enliclica Il centenario venne pensata, in fondo, come esaustiva: che c’era altro da aggiungere? Fine della storia. Se ne cominciava a parlare anche in altri ambiti. “Fine della storia?”, si era chiesto nel 1989 lo storico statunitense Francis Fukujama, sviluppando poi il tema in un libro del 1992 con quello stesso titolo che divenne molto noto e molto citato.
In realtà le attese degli autori degli anni ’90 si sono rivelate completamente errate ed è questa l’origine dei nostri problemi in Occidente, ma anche altrove, e anche in una realtà di prossimità come il nostro quartiere.
Tra il 1989 e i primi anni ’90 crollarono i regimi comunisti dell’Europa orientale, dominati da una particolare versione del marxismo, quellaleninista, dal suo ideatore, il russo Vladimir Il′ič. Ul′janov detto Lenin(1870-1924). Da ciò derivarono la sfiducia, in generale, anche verso ogni altro tipo di pensiero marxista, composto di varie correnti unificate dall’intento di spiegare le sofferenze sociali come frutto del dominio di classi privilegiate minoritarie su classi subalterne maggioritarie mediante il controllo dell’economia e del commercio, e verso i movimenti e partiti, non solo marxisti, che avevano cercato di contrastare l’ingiustizia sociale creando strutture sociali di contenimento del capitalismo nelle sue forme più aggressive e di sostegno ai ceti sfavoriti della popolazione. La riorganizzazione del mondo si fece secondo l’ideologia, ormai globale, che ognuno dovesse fare da sé e che ciascuno aveva in società quello che aveva meritato e lo sviluppo si fece a vantaggio di porzioni minoritarie della popolazione alimentando diseguaglianze stratosferiche, segnalate ad esempio dal vertiginoso aumento dei redditi dei capi delle imprese private, rispetto ai salari più bassi dei lavoratori addetti alle medesime imprese. I diritti sociali, ad esempio a un reddito dignitoso, ad una abitazione, a cure sanitarie accessibili a tutti, a pensioni per la vecchiaia e l’invalidità, vennero progressivamente concepiti come sprechi. In questo contesto di lotta di tutti contro tutti, le società globalizzate si incattivirono, e chi non ce la faceva veniva ridotto alla condizione di scarto sociale. Si pensava che, tutto sommato, fosse giusto così. Se pace e sviluppo erano sinonimi, e lo sviluppo si realizzava a quelle nuove condizioni, contrastare quel tipo di sviluppo significava minacciare la pace sociale. Il pensiero marxista avrebbe facilmente fatto rilevare l’incongruenza del ragionamento: la pace che si stava imponendo nel mondo si era fatta in realtà convincendo le masse degli sfavoriti che non c’era nulla da fare per provare a cambiare e ciascuno aveva la dose di sofferenza che si era meritato. Ma il pensiero critico, ogni pensiero critico non solo quello marxista, era tra gli sfavoriti del nuovo corso. Anche la dottrina sociale in fondo ne fu a lungo convinta. Dopo il 1991, il successivo documento della dottrina sociale fu l’enciclica Carità nella verità - Caritas in veritate, diffusa nel 2009 dal papa Joseph Ratzinger - Benedetto 16°: passarono quasi vent’anni!
36. Ci troviamo quindi, in conclusione, ad operare come parrocchia, cercando di riallacciare relazioni sociali, in un quartiere in cui si manifesta, come tutt’intorno, una società incattivita, e incattivita perché impaurita, e impaurita perché sofferente senza sapere che fare, perché convinta che ci si possa, e anzi ci si debba, salvare da soli e che fare società sia tempo perso. Ci si muove in un contesto urbano che appare spesso degradato e diruto, non solo, come si dice, perché al vertice non sanno più bene che e come fare, ma perché, di anno in anno, sono sempre meno le risorse dedicate a fini sociali. Questo ha incrementato la sfiducia nella politica, ma non solo verso di essa, in realtà verso ogni esperienza sociale, quelle religiose comprese. Non ci si attende nulla di buono dalla società e si pensa che in società ognuno, in definitiva, continui a fare il proprio interesse a dispetto di ogni professione od obbligo di altruismo, sfruttando a proprio beneficio, o al massimo a beneficio dei propri complici, il potere che gli è attribuito. Nessuno crede più veramente alle chiacchiere di ogni tipo di organizzatore sociale, ritenendole, appunto, solo chiacchiere. Da chi fa politica si pretende, così, un ritorno immediato a vantaggio del singolo: soldi per ciascuno e prima possibile. Ci si è disamorati dei piani a lungo termine, che caratterizzano in genere la costruzione di grandi opere pubbliche, i cui benefici si spalmano su un tempo superiore alle vite dei singoli che hanno voce in capitolo per programmarne i lavori.
Ma, in questa situazione, la religione ha ancora opportunità, al di là del presentarsi come medicina dell’anima (speranza in genere fallace) o del fascinare mediante effetti speciali, che siano il prodigioso, il miracolo eclatante, l’apparizione, o il grande evento di massa costruito intorno a personalità miracolanti? E’ appunto su questo che dovremmo chiarirci.
15. Sentirsi responsabili di tutto. Il problema principale è con il quartiere
36. Chi ha preso come riferimento un certo gruppo sociale, anche se vi ha partecipato passivamente o discontinuamente, deve sentirsene responsabile. E questo anche non ha condiviso la politica di chi l’ha guidato o addirittura l’ha avversata. Il risultato di un gruppo sociale, infatti, dipende dall’azione di tutti e non è mai precisamente determinabile da chi riesce a comandarlo. Quindi riserva sempre delle sorprese. Ne trattò per esteso uno dei precursori delle scienze sociali europee, il francese Alexis de Toqueville (1805-1859).
Ho avuto l’opportunità di vivere nel quartiere delle Valli per gran parte della mia vita, a parte quattro anni nei quali ho vissuto altrove. A parte gli anni del mio scoutismo, nei quali sono stato parrocchiano degli Angeli Custodi, a piazza Sempione, ho fatto riferimento alla nostra parrocchia, in tutte sue varie ere. Vi ho ricevuto Prima Comunione e Cresima. Vi ho vissuto in prevalenza passivamente, fino a quando, dal 2012, ho cominciato a sussurrare con il blog acvivearomavalli. In genere ne sono stato un osservatore distaccato e, per questo, forse, più obiettivo. Però capisco di dovermi sentire responsabile di com’è la parrocchia e che questo mio modo di partecipare l’ha sicuramente fatta un po’ diversa da come poteva essere.
Nella seconda metà degli anni ’70, mia madre, che in parrocchia faceva la catechista ed era stata molto coinvolta dalle idee nuove diffuse dal Concilio Vaticano 2°, una sera mi presentò a don Franco, il viceparroco che animava uno strepitoso gruppo giovani. Anche in quella occasione non mi feci coinvolgere. Che sarebbe successo se invece l’avessi fatto? Da giovani, quando si è anziani lo si rimpiange, si perde tanto tempo, e io allora stavo appunto perdendo il mio tempo.
Dunque, nella misura in cui si è stati in qualche modo coinvolti, anche mantenendo un ruolo passivo o di opposizione, in un’esperienza sociale, nel fare un esame di coscienza sociale bisogna sempre parlare in prima persona, certo in prima persona plurale se non si è stati in una posizione di vertice. Dunque, se si ritiene che si sia sbagliato, bisogna riconoscere “abbiamo” sbagliato. Se ci si chiama fuori, non si ha una visione realistica della cosa. In una società democratica come la nostra, in cui non si rischiano vita o salute prendendo certe posizioni, le opportunità di incider su ogni esperienza sociale sono molte, e in genere molte di più di quelle che si sono sfruttate. Così, ad un franco esame retrospettivo, si ha sempre qualcosa da rimproverarsi, qualcosa che avremmo preferito aver fatto in modo diverso.
Se in quell’esame di coscienza sociale si è sinceri, si è anche più efficaci, perché si considerano i problemi per come effettivamente si sono presentati. Quando mi diede le prime lezioni di matematica, mio padre mi ammoniva a cercare di iniziare con l’esporre in modo chiaro il problema da risolvere, perché questo era parte della sua soluzione. Se si fa in altro modo, se ci si chiama fuori, lo si farà anche a fini difensivi, perché la consapevolezza del proprio reale ruolo in genere c’è sempre anche se in modo indistinto, in fondo all’anima, e allora si comincerà per gettare la colpa sugli altri, su come sono fatti, su quello che hanno realizzato. Il passo successivo è di riformare mediante demolizione ed esclusione. Questo modo di ricostruire non si adatta alla riforma sociale, genera molta inutile sofferenza e un enorme spreco di risorse. La legge generale della riforma sociale è che non si parte mai da zero, e non bisogna augurarsi di essere costretti a partire da quel punto. Si riforma in base alla cultura del proprio tempo, che preesiste. L’altra legge generale è che si costruisce sempre per apporti. Questo dipende dal fatto che la materia della costruzione sociale sono, appunto, la società e la sua cultura e si interviene sempre nel corso di un loro processo storico che determina la ricettività sociale e il grado di coinvolgimento delle persone alle quali ci si rivolge. Nessuna civiltà, e nessuna delle sue società, in fondo nasce, ma solo evolve. Del resto questo può dirsi anche del singolo vivente, fin da quando lo è, dalla sua vita monocellulare dei primi istanti. La sua vita è caratterizzata, e limitata, dal suo patrimonio genetico, che è sempre in evoluzione.
37. Ragionando con quello spirito, ho riconosciuto che oggi il problema della parrocchia non sono le neocomunità poco integrate con l’insieme, ma le relazioni con il quartiere. Queste ultime si sono troppo allentate e ognuno sembra preferire fare da sé, al massimo con chi gli è più simile e pensa come lui. Dunque, quello che imputiamo alle neocomunità è, in realtà, lo spirito del quartiere, in cui si diffida di ogni società. Questo è l’andazzo dell’Italia di oggi e crea gravi problemi in politica, nel governo della società nazionale ad ogni livello.
Le comunità devono adattarsi alla gente tanto più quanto più le si fanno prossime e, nelle realtà cosiddette di mondo vitale, come la famiglia, quelle da cui si trae il senso della vita, devono adattarsi al singolo come un abito. Altrimenti non funzionano per lo scopo per le quali sono state pensate e vissute.
Questo significa che nel costruire le comunità di mondo vitale ci si deve consentire una maggiore libertà, specialmente dal punto di vista ideologico.
Da bambino ho fatto parte dei Lupetti, il primo gruppo dello scoutismo, e si aveva come mito fondativo la storia di Mowgli nel branco dei lupi raccontata dall’inglese Rudyard Kipling (1865-1936). Sorprendentemente, però, non ci si immedesimava nel ragazzo Mowli, ma nei lupi. Il gruppo dei Lupetti è chiamato branco. Il capo-gruppo, infatti, assumeva il soprannome di Akela, che nel racconto di Kipling è i capo-branco. Il prete che ci seguiva assunse il nome di Baloo, l’orso saggio della storia di Kipling. Un pedante revisore ideologico avrebbe potuto perdere il suo tempo facendo le pulci a quel mito, segnalandone, ad esempio, i discostamenti dal dogma. Un sacerdote paragonato ad un animale e nemmeno capo della comunità!? Ma appunto non lo si faceva e non lo si fa. Il mito è strumentale allo scopo sociale del gruppo e vale in quei limiti, serve a far sviluppare la personalità del ragazzo, a farla evolvere secondo il metodo scout, che, alla fine, vorrebbe produrre un cittadino partecipe, consapevole e responsabile, capace di orientarsi in ogni difficoltà, senza perdersi d’animo, come i trapper nord-americani ai tempi della conquista delWest. E’ esattamente con questo spirito che andrebbero considerati, e valutati, i particolari costumi e riti delle neocomunità che abitano la parrocchia. Perdono tempo i loro più astiosi e pedanti critici. Valgono nella misura in cui sono funzionali alla coesione e alla vita del gruppo e quest’ultimo, che si presenta come realtà di mondo vitale, è stato adattato alle necessità delle persone che vi vengono coinvolte. Non bisogna ogni volta costruirci sopra un dramma teologico, e questo vale anche per i capi delle neocomunità, che tendono ad attribuire un’importanza eccessiva a quei costumi, ritenendoli addirittura, a volte mi è sembrato, un discrimine dell’ortodossia. No: si può essereortodossi anche in altro modo, con altre ideologie fondative. Altrimenti non si spiegherebbe lo storico pluralismo di ordini religiosi e confraternite: si tenderebbe tutti ad un solo modello, e così non è stato.
L’errore che a lungo abbiamo fatto in parrocchia è stato quello di considerare quel modello neocomunitario il più adatto ad ogni fedele, benché, con tutta evidenza, fosse stato costruito per una particolare tipologia di fedele. Ad esempio per chi, nella giovinezza, pensa di esprimere la sua religiosità anche nel fare più figli della media. E sicuramente lo si può fare, perché il genitore ha modo di praticare con i figli ogni virtù cristiana, e così santificarsi. Ma non è una via che va bene per tutti. E, soprattutto, è una via faticosa, che tiene concentrati su una realtà di estrema prossimità, e, dunque, socialmente, va integrata con chi abbia voglia di fare un lavoro diverso, più rivolto a realtà sociali più estese, ciò che appunto non siamo riusciti a fare. Semplicemente, ad un certo punto, mi è sembrato che non ci sia più pensato. Ce se n’è anche fatti una ragione, dicendosi che pensare in grande era inutile perché la società intorno era malvagia e, anche quando non lo era ancora, comunque insufficiente dal punto di vista religioso. In ciò ci si è accodati ai nostri vescovi nei loro momenti di depressione e allo stesso san Karol Wojtyla negli ultimi suoi anni di regno, nei quali, con le forze fisiche che inesorabilmente gli si indebolivano, vedeva tutto nero e minacciato dall’Anticristo, sulla scia delle oscure visioni del russo Valdimir Sergeevic Solovev (1853-1900).
Ad un certo punto è venuta meno l’interazione con il quartiere, che invece aveva caratterizzato la fase espansiva della nostra parrocchia negli anni ’70. Semplicemente non si sono più fatte proposte sociali al quartiere e ci si è limitati ad attendere che la gente venisse, per ricevere servizi religiosi di base, selezionando poi tra essa chi fosse adatto all’integrazione nelle neocomunità. Questo mi pare si sia fatto con un certo maggiore radicalismo con i giovani, nel post Cresima. Per gli anziani vennero lasciate altre possibilità, ma non credendoci troppo, più che altro, mi parve, come medicina dell’anima o circolo per riempire il tempo libero da pensionati. Certo che, poi, così facendo e ragionando, il quartiere ci è divenuto estraneo e noi ad esso. Nel frattempo il quartiere, che negli anni Settanta si presentava un po’ come una borgata, con una sua specifica caratterizzazione, è andato manifestando i problemi di dissoluzione sociale che travagliano l’intera società italiana e per questo è divenuto più difficile agganciarlo. Ma è proprio al ripristino dell’interazione con il quartiere che dovremmo puntare, senza travagliarci troppo sui problemi di comprensione tra neocomunità e altri fedeli, che si risolveranno spontaneamente quando parrocchia e quartiere riprenderanno a conoscersi e a piacersi, arriverà gente nuova che, partecipando, cambierà il nostro risultato sociale, in modi che potrebbero sorprenderci. Così è per ogni evoluzione sociale. L’alternativa, concretamente possibile, è la fine di una società, ciò che papa Francesco dice sempre di temere, con le chiese ridotte a museo del passato, abitate solo da una burocrazia ecclesiastica.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro,Valli