Problemi di
costruzione sociale - 10
1. Quando si tratta di
immaginare società di massa, che si tratti di quindicimila o di otto miliardi
non fa molta differenza per noi: si tratta comunque di realtà collettive fuori
delle nostra portata cognitiva, nel senso che le riusciamo a cogliere solo religiosamente,
vale a dire intuendone il senso semplificando e personalizzando, in tal modo
unificando, ciò che è moltitudine. L’intuizione, tuttavia, ci espone all’errore,
a costruirci visioni che non corrispondono alle reali dinamiche sociali: allora
quello che è uno strumento culturale, e prima di questo mentale, neurologico,
per superare nostri limiti di specie, derivanti dalla nostra biologia, da come
siamo fatti, al modo come lo sono le automobili e gli aerei, non funziona a
dovere e in quelle visioni ci si imprigiona. La possibilità dell’errore intuitivo
ci rende manipolabili in chi sappia trarne profitto, in chi sappia come fare. L’accusa
che storicamente si è cominciata a fare alle religioni dal Cinquecento europeo
consiste appunto in questo: di essere solo strumento di manipolazione culturale
a fine di dominio. E certamente le religioni sono state anche questo e, anzi,
dal punto di vista antropologico nacquero in epoca preistorica proprio per
svolgere questo lavoro. Eppure corrispondono ad un anelito profondamente umano:
quello di dare senso alla realtà, in particolare alla vita individuale e al
succedersi delle generazioni. Costruite originariamente per sacralizzare il
dominio politico e un certo ordine sociale da esso voluto, per dare senso ai
primi regni, ad un certo punto, in
Oriente, da cui tante civiltà umane scaturirono, cominciarono ad assumere un’altra
funzione, distinguendosi dai re-sacerdoti, prendendo a desacralizzare la politica spingendo lo sguardo molto più in
là, fino a comprendere l’intero universo conosciuto, congiungendo Cielo e Terra
come mai prima s’era fatto. Una forma molto avanzata di questo processo si
osserva nella nostra religione, che subì una spettacolare evoluzione nelle sue
relazioni con l’ellenismo delle sue origini e la grande filosofia greca, che
ragionava sul senso della vita partendo dall’osservazione della Terra, e che
tuttavia anelava al Cielo. La teologia della nostra religione ebbe la visione
del Cielo che tornava sulla Terra e, facendolo, sconfessava il carattere
soprannaturale, e quindi il dominio, di ogni potenza terrena, che si trattasse
di forze sociali o naturali. “Tu non sei
un dio!” ammonisce ad ogni potenza
che pretenda di esserlo. In questo divenne forza di liberazione: la verità rende liberi, è scritto. Anche
la storia e gli avi vennero desacralizzati: si fu così liberati, culturalmente,
dalla schiavitù del fato, al quale gli stessi dei dell’antichità
greco-romana venivano pensati come asserviti, e dei costumi degli antichi, i mos maiorum dei latini, si poté pensare veramente il nuovo e questo tornò utile in tempi di
velocissimi cambiamenti sociali e culturali, quelli che caratterizzarono gli
ultimi due millenni, quelli pervasi dalla nostra fede. I latini, nostri
precursori culturali, temevano le res
novae, letteralmente le novità ma il senso di questa espressione
nella cultura latina era quello di rivoluzione, e cercavano di ancorare la
loro civiltà ai mos maiorum alla tradizione degli
antichi, al di fuori della quale si pensava solo il disordine e la fine della costruzione sociale.
«I Romani, presi come popolo, erano
dominati da una particolare venerazione per l’autorità, i precedenti, la
tradizione, e insieme da una radicata avversione per ogni mutamento, a meno che
il mutamento non potesse dimostrarsi in armonia col costume avito, col mos
maiorum. Mancando ancora
una qualsiasi idea di fede nel progresso, che non era ancora stata inventata, i
Romani guardavano alla novità con sfiducia e avversione. La parola novus suonava male.
Tuttavia la storia del passato ricordava ai Romani che mutamenti c’erano stati,
anche se lenti e combattuti.»
da Ronald Syme (1903-1989), Roman revolution (citazione
da Elisa Romano, L’ambiguità del nuovo: res novae e cultura romana, nella rivista Laboratorio
italiano, n.6/2006 <https://journals.openedition.org/laboratoireitalien/191>)
L’acculturazione alla nostra fede liberò la
civiltà latina dalla schiavitù della tradizione e diede a quella greca dell’ellenismo
l’opportunità di liberarsi da quella della politica di puro dominio, dedita al
potere per il potere. Su queste basi furono costruite, dal Quarto secolo, e
nell’imponente rimescolamento di popoli che si produsse da quell’epoca, una
serie di nuove civiltà. Questo lavoro è continuato fino a noi ed è parte di
quello che ci proponiamo di fare in parrocchia e nel quartiere, quando
immaginiamo di fare dell’intero quartiere, almeno per i quindicimila che sono
religiosi secondo la nostra fede, un’unica famiglia secondo gli indirizzi dei saggi
del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), che addirittura pensarono all’intero genere
umano, non a questa umanità che ora vive ma al succedersi delle
generazioni, un’unica famiglia, la
famiglia umana.
2. Gli esseri umani, nei loro sentimenti religiosi, sono
manipolabili. Quindi le religioni sono strumentalizzabili da chi vuole prendere
il potere nelle società umane. Tuttavia sono anche forza di liberazione. Chi è
insofferente del dominio altrui cercherà di trovarvi motivi e metodi per
liberarsi, ma per via religiosa si può anche cadere in mani altrui. Oggi accade
in un modo nuovo, che è stato reso possibile dall’evoluzione tecnologica.
Il metodo fu scoperto dalla psicologia
applicata alla pubblicità commerciale. come colpire l’intuitività del pubblico in
modo che, al momento giusto, decidesse di comprare un certo prodotto a differenza di
altri. Questo si ottiene costruendo e proponendo una visione di tipo religioso, secondo la
quale un certo prodotto, al di là della sua reale utilità, ha anche effetti
sociali prodigiosi, liberando ed elevando. Le tecniche pubblicitarie sanno
anche suscitare un desiderio di un certo prodotto che va molto oltre la sua
necessità per la vita dell’acquirente. Tutto è centrato sul momento della transazione
commerciale, quando c’è lo scambio tra prodotto e prezzo. Ma si cerca anche di
creare un contesto in cui questo atto di acquisto possa essere ripetuto, fidelizzando, come si dice, il cliente. Fidelizzare ha a che fare
con una fede, che è propriamente
religiosa perché si basa sull’intuizione. La verifica razionale dell’utilità e
degli effetti sociali di un acquisto di solito delude: questo ci spiegano di
solito le inchieste promosse dalle associazioni dei consumatori. Un volta che l’abbiamo
tra le mani il nuovo acquisto non ci può dare che l’utilità sua propria reale e svanisce la sua magia
che corrispondeva alla visione indotta religiosamente. E tuttavia rimane il desiderio. E’ una strategia commerciale
che ha avuto successo, narrano le cronache, con un prodotto tra quelli
cosiddetti di culto, ed ecco che torna una
terminologia religiosa, e molto costoso, l’I-Phone,
lo smartphone costruito dalla
statunitense Apple Computer.
Più o meno da cinque anni, le medesime
tecniche sono state sfruttate in politica con sorprendenti risultati, in
particolare negli Stati Uniti d’America e in Brasile, ma anche altrove. Questo
perché la straordinaria diffusione planetaria degli smartphone e gli sviluppi dell’intelligenza artificiale
hanno dato la possibilità di nuove forme molto efficaci di
organizzazione del consenso, inducendo particolari visioni di natura sostanzialmente religiosa, perché basate sull’intuizione,
non sulla precisa comprensione della realtà, che ci è possibile solo in campi
limitati e in esperienze di prossimità. L’intelligenza
artificiale non ha i nostri limiti di specie nel comprendere la moltitudine. E’ stata costruita proprio per
superarli. Non è più un meccanismo,
ma sta avviandosi ad essere una pura e semplice intelligenza, un essere vivente con possibilità cognitive molto superiori a
quelle degli umani, come singoli e anche associati. Il suo unico limite è la
quantità dei sensori mediante i quali percepisce la realtà. Essi
possono essere numerosissimi e addirittura si cerca di realizzarne di
microscopici, capaci ad esempio di percorrere i vasi sanguigni e le altre vie
cave del corpo umano. Nella capacità di
relazionarsi con moltitudini di esseri umani relazionandosi però con ciascuno di essi l’intelligenza artificiale sta
assumendo capacità che di solito si attribuiscono agli dei. La visione che la
politica che si dota di questo strumento, connesso agli individui attraverso i loro smartphone, che sono sensori di sistemi di intelligenza
artificiale, cerca di indurre nelle persone è di una
umanità costituita in famiglia umana,
in un sistema costante di relazioni benevolenti e solidali. La fede in questa visione costituisce la base del
consenso degli utenti connessi. Il primo comandamento di cui si serve di questa
tecnica è quindi “Connettetevi!”. Ma connessione significa, poi, effettivamente solidarietà? La cosa appare funzionare un po’ come per la
pubblicità commerciale. Lo scopo di chi controlla il sistema è il consenso, in
particolare nelle procedure elettorali e referendarie. Il sistema serve a
convincere la gente a tracciare un segno sul punto giusto di una scheda di
voto, al momento in cui deve decidere. Per il resto connessione non significa
realmente un qualche legame di tipo personale, dal quale dipende la solidarietà.
Il sistema di connessione non è pensato per questo e chi lo controlla ha delle
vite delle persone una visione come di moltitudine, indistinta, di massa,
comprensibile solo statisticamente, al di fuori del particolare aspetto della
propensione alla decisione in un senso o nell’altro nelle procedure elettorali
e referendarie. E connessione con il vertice che controlla mediante sistemi
di intelligenza artificiale, capaci di interagire con il singolo utente
connesso in modo da indurlo a decidere in un certo modo al momento opportuno,
non significa realmente connessione con gli altri utenti, dei quali
ciascun utente riesce a mantenere solo un’immagine indistinta.
Sono correnti,
quindi, attualmente, in società due visioni del mondo come famiglia umana, quella della nostra religione e quella, sempre di
tipo religioso, organizzata e suscitata mediante tecnologie di intelligenza
artificiale applicate alla politica. La prima, però, punta a realizzarla veramente, in benevolenza e solidarietà, quella visione,
a partire dalle realtà di prossimità; l’altra si limita, per ora, a indurla, un
po’ come accade nella magia del cinema, che consente un certo
coinvolgimento emotivo finché dura lo spettacolo. La prima religione ha anche
funzione critica verso la seconda e anche ad essa ripete l’ammonizione “Tu non sei un dio!”; l’altra si mostra
insofferente delle critiche, vorrebbe strumentalizzare la prima al modo in cui
lo si è fatto tanto a lungo nei secoli passati, ma vi è poco acculturata, ha
difficolta a riuscirci anche se sembra sia studiando come farlo di nuovo ai
tempi nostri, e soprattutto sconta il fatto che la nostra fede, come strumento
di liberazione, si è molto affinata culturalmente nella travagliata esperienza
con i tempi moderni e, nella sua riflessione razionale sulla realtà, è divenuta
più difficilmente condizionabile.
3. Ma che
interessa tutto ciò che ho sunteggiato al nostro gruppo di quaranta volenterosi
di una parrocchia della periferia nord-orientale romana?
Se ci sentiamo
coinvolti nel disegno di riforma sociale che vorrebbe ricollegare parrocchia e quartiere
e, così facendo, iniziare a far vivere al quartiere l’esperienza della famiglia umana proposta nella
visione dei saggi dell’ultimo Concilio, di certi fatti dobbiamo necessariamente
prendere consapevolezza. Operiamo
infatti in una realtà sociale profondamente da essi permeata. Vedete, ad
esempio, quanta gente connessa c’è, addirittura camminando per
strada. Si parla di lookdown generation,
come delle moltitudini connesse del nostro tempo: quelli che camminano guardando in basso verso i loro smartphone
e spesso cascano a terra.
Si racconta che il filosofo greco Talete di
Mileto, vissuto tra il Settimo e il Sesto secolo dell’era antica, camminando
guardando in alto verso le stelle, cadde in un pozzo. Venne per questo preso in
giro da una servetta che passava di lì, lui, il grand’uomo. Così, in fondo, accade a noi, quando ci
pensiamo grandi lasciandoci fascinare da ciò che ci mostrano i nostri smartphone. Talete, però, guardava in
alto, noi in basso, in senso reale e metaforico. La
differenza: guardare in alto libera, anche nei pozzi in cui si è caduti, guardare in basso confina e relega.
Come immaginiamo di poter realizzare la famiglia umana
nel quartiere? Quando tra noi ne abbiamo parlato, mi pare che le idee che
abbiamo esposto non siano state un granché: innanzi tutto fanno riferimento particolare alla nostra prospettiva, senza tener conto del
complesso, per cui suggeriamo ciò che andrebbe bene per noi, senza tener conto
di come sono fatti e di ciò che desiderano altri diversi da noi, e poi, al
dunque, non riescono a immaginare la complessità, perché si finisce per proporre
una versione alternativa e migliorata
del piccolo gruppo. Inoltre siamo prodighi nei consigli agli altri su come
dovrebbero essere, ma piuttosto avari nel programmare un nostro personale
impegno. In effetti, a ben considerare, il tempo è poco: da più giovani perché
ci sono famiglia e lavoro a riempircelo, da anziani perché inizia a correre
troppo velocemente (è la sconfortante scoperta degli ultrassantenni) e le
forze, ma anche l’immaginazione, cominciano a non assisterci più come una
volta.
Che
succederebbe se tutti i quindicimila fedeli prendessero l’abitudine
di far un salto in parrocchia ogni giorno? Non ci sarebbe posto per
tutti. Gli ambienti parrocchiali, pensati per essere la casa di tutti, non possono esserlo realmente, se non come visione.
Del resto la parrocchia non dovrebbe essere pensata come casa di tutti, nel senso di ciascuno di quei tutti, ma come casa della collettività, che
è una cosa diversa. Si vive necessariamente altrove nella gran parte del tempo,
al di fuori dei preti che in parrocchia abitano e ad essa sono permanentemente
incardinati per servizio, ma si prende la parrocchia come luogo di riferimento della
collettività, nel suo agire sociale. Ma non è il luogo a fare la collettività:
è il sistema delle relazioni sociali. Facciamo manutenzione negli ambienti
parrocchiali, e questo è utile per restaurare la casa della collettività, ma il lavoro principale è quello di restaurare le relazioni sociali di prossimità. Ciò che si
fa, innanzi tutto, con la consuetudine reciproca, facendo realmente e personalmente esperienza degli altri. Di solito si hanno
ambizioni esagerate sotto questo profilo. Cito qui una battuta del film di Nanni
Moretti, Mia madre: ci dobbiamo
prendere l’un l’altro a piccole dosi. Più ci avviciniamo l’un l’altro
più cresce l’impegno personale in questa relazione, ma anche, certo, cresce il
sentimento di pienezza che se ne trae. Per questo possiamo realmente
avvicinarci solo a quelli che ci piacciono, che suscitano un coinvolgimento
emotivo profondo, e non ci possiamo fare nulla perché siamo fatti così più o
meno da duecentomila anni e non potremo cambiare se non in quell’ordine di
tempo. Tuttavia la consuetudine reciproca ci è necessaria e le istituzioni, le
regole che ci diamo per i contatti sociali, servono proprio a renderla
possibile senza che diventi intollerabile. Se noi vogliamo creare un contesto
in cui siano possibili più estese relazioni profonde, dobbiamo anche immaginare
un corrispondente sistema istituzionale. Questo anche per renderle stabili.
Infatti le relazioni profonde, per quanto tali, raramente sono anche stabili, o
almeno hanno quella stabilità a cui si
punta in parrocchia. E’, in fondo, la dinamica dell’amore. Innamoramento non
significa sempre amore a lungo termine. La famiglia è lo strumento sociale e culturale con cui si cerca di dare stabilità
alle relazioni d’amore, ma non basta se
non c’è anche un impegno personale in chi vi è coinvolto. Questo impegno
personale serve suscitare anche in ogni altra realtà sociale: è una conquista
culturale, richiede una formazione, che
è uno dei campi in cui si lavora in parrocchia, uno dei suoi settori
della diakonìa, intesa come servizio con significato religioso. Questo lavorare
sulla manutenzione delle relazioni sociali, immaginando anche nuovi contesti
istituzionali per favorirle, è parte
della koinonìa, l’agire da compagni con spirito religioso. Diakonìa e koinonìa sono parole del greco antico utilizzate dalla
teologia, nel discorso religioso, in
quanto definiscono servizio e spirito comunitario secondo la fede e come
tali sono state impiegate fin dalle origini nella tradizione.
Il piacerci emotivamente, sebbene di solito a
piccole dosi, ci stimola nelle relazioni sociali ma anche ci limita, in quanto
ci si piace selettivamente, l’amore universale essendo solo un’utopia o un anelito. La conoscenza profonda e
motivante è possibile solo tra simili, o con coloro con cui si condividono certe
esperienze forti o interessi importanti. E non è veramente possibile se non in gruppi
limitati, quelli definiti di mondo vitale,
come esperienze sociali dalle quali si trae il senso della vita. Questo
significa che per collegare questi gruppi limitati in una trama che, in
potenza, consenta di far sentire in relazione i quindicimila del quartiere ai
quali idealmente vorremmo rivolgerci, occorre costruire strutture di
mediazione, capaci anche di suscitare un certo coinvolgimento emotivo, istituzioni che evochino mondi vitali. In questo consiste la
liturgia, che deriva dalle parole greche che significano azione e popolo. Vi è una
liturgia canonica, secondo la quale celebriamo i riti religiosi, ma ce ne
dovremmo inventare una ulteriore per suscitare uno spirito collettivo
parrocchiale, nostro proprio di noi delle Valli, con un quello che ho chiamato mito di fondazione, una narrazione che dia il senso dell’esperienza
collettiva che si vuole suscitare, e poi canti, riti sociali, simboli. Questo era
stato ben compreso nell’esperimento sociale tentato in parrocchia per trent’anni:
in questo possiamo stare alla sua scuola. Ma le strutture di mediazione da esso
attuate non sono bastate a coinvolgere le masse del quartiere. Ne dobbiamo
pensare di nuove. Sottolineo la potenza evocativa dei simboli: ciascuno di noi
tiene presso di sé una qualche oggetto, o in sé un ricordo, con quella capacità evocativa. Dalla
scorsa estate sul lago ho portato un carillon: suonandolo entro nello spirito
di quella vacanza.
Avvicinare la gente, non illudiamoci, può
dare anche qualche dispiacere. Gli altri non sono quasi mai come vorremmo che fossero, e così
noi per loro. Così, il tirocinio delle relazioni di prossimità potrebbe anche
finire male, quando ci si trova insopportabili. E’ per questo che occorre
avvicinarci a poco a poco, con cautela, prendendo gradualmente confidenza, come
nell’addomesticamento degli animali, e, in un certo senso, l’avvicinarsi
consiste proprio in un addomesticamento reciproco. Il verbo addomesticare contiene la parola latina domus, che significa casa. Addomesticarci reciprocamente
significa costruire una casa comune, intesa non come luogo fisico, come
edificio, ma come contesto di relazioni umane profonde, ciò che nella lingua
inglese viene inteso con la parola home [fonetica: houm],
a differenza di house [fonetica: haus], casa come
luogo fisico, costruzione.
Tutto ciò non basta immaginarlo, ma anche attuarlo
imparando dall’esperienza, quindi anche dagli errori fatti, senza incaponirsi
nel ripeterli. Chi inizia ad attuare è un
fondatore. ll politico e scrittore fiorentino Niccolò Machiavelli, vissuto
tra il Quattrocento e il Cinquecento, ne ha parlato nella sua opera più nota, Il Principe, come di una personalità
straordinaria che, profittando delle occasioni fornite dall’epoca in cui vive, con
la propria virtù organizza e attua un nuovo ordine politico. Ogni esperienza
sociale ha necessità di fondatori, ma deve anche fare i conti con la realtà, per capire le
opportunità che offre. La visione del Machiavelli della politica non era però religiosa: per lui il potere era il
solo scopo razionale del potere. La politica oggi prevalente, quella che
sviluppa il controllo sociale mediante l’intelligenza artificiale, ragiona
proprio così e, poiché anche per essa
il potere è fine a se stesso, non va
tanto per il sottile sui mezzi utilizzati a fini di potere. Nel riorganizzare
la parrocchia contano invece sia il fine sia i mezzi. Non riorganizziamo, da fondatori che ora vorremmo essere, a fini
di potere, anche se indubbiamente vogliamo estendere la nostra influenza
sociale nel quartiere, ed è importante come
riorganizziamo, i metodi
utilizziamo per farlo. Non ogni metodo è infatti compatibile con la nostra
impostazione religiosa. Non lo sarebbe il fascinare la gente secondo le
tecniche della pubblicità commerciale e non lo sarebbe se sfruttassimo arbitrariamente
la naturale propensione della gente a credere all’ignoto, a una magica realtà
numinosa, suscitando irrealistiche aspettative soprannaturali, non alla nostra
portata, il che accade con una certa frequenza in campo religioso. La gente non
si deve aspettare da noi guarigioni miracolose dei propri mali fisici o
psicologici o che la sua condizione sociale cambi radicalmente per il solo
fatto di riavvicinarsi a noi e a prescindere da un impegno serio su se stessi
e nella collettività. Se vogliamo radicarci nuovamente nel quartiere,
non dobbiamo promettere più di ciò che realisticamente possiamo mantenere. In
questo dobbiamo saperci distinguere dalle altre offerte di riforma sociale sul
mercato, per così dire. Questo deve essere un nostro fattore ben riconoscibile di
distinzione e, in qualche modo, di nobiltà
della nostra proposta. Abbiamo ereditato una nobiltà dalla tradizione passata, ma
questo non basta, ci ammonisce Paolo di Tarso: la nobiltà di stirpe di solito
delude, occorre conquistarla di generazione in generazione nello sforzo
costante di migliorarsi e, in particolare in religione, convertendosi, allontanandosi dalle vie sbagliate, quelle che fanno
soffrire la società.
Mario Ardigò - Azione
Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli