INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

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Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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venerdì 11 gennaio 2019

Problemi di costruzione sociale - 10


Problemi di costruzione sociale - 10

1.  Quando si tratta di immaginare società di massa, che si tratti di quindicimila o di otto miliardi non fa molta differenza per noi: si tratta comunque di realtà collettive fuori delle nostra portata cognitiva, nel senso che le riusciamo a cogliere solo religiosamente, vale a dire intuendone il senso semplificando e personalizzando, in tal modo unificando, ciò che è moltitudine. L’intuizione, tuttavia, ci espone all’errore, a costruirci visioni che non corrispondono alle reali dinamiche sociali: allora quello che è uno strumento culturale, e prima di questo mentale, neurologico, per superare nostri limiti di specie, derivanti dalla nostra biologia, da come siamo fatti, al modo come lo sono le automobili e gli aerei, non funziona a dovere e in quelle visioni ci si imprigiona. La possibilità dell’errore intuitivo ci rende manipolabili in chi sappia trarne profitto, in chi sappia come fare. L’accusa che storicamente si è cominciata a fare alle religioni dal Cinquecento europeo consiste appunto in questo: di essere solo strumento di manipolazione culturale a fine di dominio. E certamente le religioni sono state anche questo e, anzi, dal punto di vista antropologico nacquero in epoca preistorica proprio per svolgere questo lavoro. Eppure corrispondono ad un anelito profondamente umano: quello di dare senso alla realtà, in particolare alla vita individuale e al succedersi delle generazioni. Costruite originariamente per sacralizzare il dominio politico e un certo ordine sociale da esso voluto, per dare senso ai primi  regni,  ad un certo punto, in Oriente, da cui tante civiltà umane scaturirono, cominciarono ad assumere un’altra funzione, distinguendosi dai re-sacerdoti, prendendo a desacralizzare  la politica spingendo lo sguardo molto più in là, fino a comprendere l’intero universo conosciuto, congiungendo Cielo e Terra come mai prima s’era fatto. Una forma molto avanzata di questo processo si osserva nella nostra religione, che subì una spettacolare evoluzione nelle sue relazioni con l’ellenismo delle sue origini e la grande filosofia greca, che ragionava sul senso della vita partendo dall’osservazione della Terra, e che tuttavia anelava al Cielo. La teologia della nostra religione ebbe la visione del Cielo che tornava sulla Terra e, facendolo, sconfessava  il carattere soprannaturale, e quindi il dominio, di ogni potenza terrena, che si trattasse di forze sociali o naturali. “Tu non sei un dio!”  ammonisce ad ogni potenza che pretenda di esserlo. In questo divenne forza di liberazione: la verità rende liberi, è scritto. Anche la storia e gli avi vennero desacralizzati: si fu così liberati, culturalmente, dalla schiavitù del  fato, al quale gli stessi dei dell’antichità greco-romana venivano pensati come asserviti, e dei  costumi degli antichi, i mos maiorum  dei latini, si poté pensare veramente il nuovo e questo tornò utile in tempi di velocissimi cambiamenti sociali e culturali, quelli che caratterizzarono gli ultimi due millenni, quelli pervasi dalla nostra fede. I latini, nostri precursori culturali, temevano   le  res novae, letteralmente le  novità ma il senso di questa espressione nella cultura latina era quello di  rivoluzione, e cercavano di ancorare la loro civiltà ai mos maiorum alla tradizione  degli antichi, al di fuori della quale si pensava solo il disordine  e la fine della costruzione sociale.

«I Romani, presi come popolo, erano dominati da una particolare venerazione per l’autorità, i precedenti, la tradizione, e insieme da una radicata avversione per ogni mutamento, a meno che il mutamento non potesse dimostrarsi in armonia col costume avito, col mos maiorum. Mancando ancora una qualsiasi idea di fede nel progresso, che non era ancora stata inventata, i Romani guardavano alla novità con sfiducia e avversione. La parola novus suonava male. Tuttavia la storia del passato ricordava ai Romani che mutamenti c’erano stati, anche se lenti e combattuti.»

da Ronald Syme (1903-1989), Roman revolution  (citazione da  Elisa Romano, L’ambiguità del nuovo: res novae e cultura romana, nella rivista Laboratorio italiano, n.6/2006 <https://journals.openedition.org/laboratoireitalien/191>)


  L’acculturazione alla nostra fede liberò la civiltà latina dalla schiavitù della tradizione e diede a quella greca dell’ellenismo l’opportunità di liberarsi da quella della politica di puro dominio, dedita al potere per il potere. Su queste basi furono costruite, dal Quarto secolo, e nell’imponente rimescolamento di popoli che si produsse da quell’epoca, una serie di nuove civiltà. Questo lavoro è continuato fino a noi ed è parte di quello che ci proponiamo di fare in parrocchia e nel quartiere, quando immaginiamo di fare dell’intero quartiere, almeno per i quindicimila che sono religiosi secondo la nostra fede, un’unica  famiglia secondo gli indirizzi dei saggi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), che addirittura pensarono all’intero genere umano, non a questa umanità che ora vive ma al succedersi delle generazioni, un’unica famiglia, la famiglia umana.
2. Gli esseri umani, nei loro sentimenti religiosi, sono manipolabili. Quindi le religioni sono strumentalizzabili da chi vuole prendere il potere nelle società umane. Tuttavia sono anche forza di liberazione. Chi è insofferente del dominio altrui cercherà di trovarvi motivi e metodi per liberarsi, ma per via religiosa si può anche cadere in mani altrui. Oggi accade in un modo nuovo, che è stato reso possibile dall’evoluzione tecnologica.
 Il metodo fu scoperto dalla psicologia applicata alla pubblicità commerciale. come colpire l’intuitività  del pubblico in modo che, al momento giusto, decidesse  di comprare un certo prodotto a differenza di altri. Questo si ottiene  costruendo  e  proponendo  una visione di tipo religioso, secondo la quale un certo prodotto, al di là della sua reale utilità, ha anche effetti sociali prodigiosi, liberando  ed  elevando. Le tecniche pubblicitarie sanno anche suscitare un desiderio  di un certo prodotto che va molto oltre la sua necessità per la vita dell’acquirente. Tutto è centrato sul momento della transazione commerciale, quando c’è lo scambio tra prodotto e prezzo. Ma si cerca anche di creare un contesto in cui questo atto di acquisto possa essere ripetuto, fidelizzando,  come si dice, il cliente.  Fidelizzare ha a che fare con una fede, che è propriamente religiosa perché si basa sull’intuizione. La verifica razionale dell’utilità e degli effetti sociali di un acquisto di solito delude: questo ci spiegano di solito le inchieste promosse dalle associazioni dei consumatori. Un volta che l’abbiamo tra le mani il nuovo acquisto non ci può dare che l’utilità sua propria reale  e svanisce la sua  magia che corrispondeva alla visione  indotta religiosamente. E tuttavia rimane il  desiderio. E’ una strategia commerciale che ha avuto successo, narrano le cronache, con un prodotto tra quelli cosiddetti  di culto, ed ecco che torna una terminologia religiosa, e molto costoso, l’I-Phone,  lo smartphone  costruito dalla statunitense Apple Computer.
  Più o meno da cinque anni, le medesime tecniche sono state sfruttate in politica con sorprendenti risultati, in particolare negli Stati Uniti d’America e in Brasile, ma anche altrove. Questo perché la straordinaria diffusione planetaria degli  smartphone  e gli sviluppi dell’intelligenza artificiale  hanno dato la possibilità di nuove forme molto efficaci di organizzazione del consenso, inducendo particolari visioni di natura sostanzialmente religiosa, perché basate sull’intuizione, non sulla precisa comprensione della realtà, che ci è possibile solo in campi limitati e in esperienze di prossimità. L’intelligenza artificiale  non ha  i nostri limiti di specie nel comprendere  la moltitudine. E’ stata costruita proprio per superarli. Non è più un meccanismo, ma sta avviandosi ad essere una pura e semplice  intelligenza, un  essere vivente  con possibilità cognitive molto superiori a quelle degli umani, come singoli e anche associati. Il suo unico limite è la quantità dei sensori  mediante i quali percepisce  la realtà. Essi possono essere numerosissimi e addirittura si cerca di realizzarne di microscopici, capaci ad esempio di percorrere i vasi sanguigni e le altre vie cave  del corpo umano. Nella capacità di relazionarsi con moltitudini di esseri umani relazionandosi però con  ciascuno  di essi l’intelligenza artificiale sta assumendo capacità che di solito si attribuiscono agli dei. La visione che la politica che si dota di questo strumento, connesso agli individui  attraverso i loro smartphone, che sono sensori di sistemi di intelligenza artificiale, cerca di indurre nelle persone è di una umanità costituita in famiglia umana, in un sistema costante di relazioni benevolenti e solidali. La  fede  in questa visione costituisce la base del consenso degli utenti connessi. Il primo comandamento di cui si serve di questa tecnica  è quindi  “Connettetevi!”. Ma  connessione  significa, poi, effettivamente  solidarietà?  La cosa appare funzionare un po’ come per la pubblicità commerciale. Lo scopo di chi controlla il sistema è il consenso, in particolare nelle procedure elettorali e referendarie. Il sistema serve a convincere la gente a tracciare un segno sul punto giusto di una scheda di voto, al momento in cui deve decidere. Per il resto connessione  non significa realmente un qualche legame di tipo personale, dal quale dipende la solidarietà. Il sistema di connessione non è pensato per questo e chi lo controlla ha delle vite delle persone una visione come di moltitudine, indistinta, di massa, comprensibile solo statisticamente, al di fuori del particolare aspetto della propensione alla decisione in un senso o nell’altro nelle procedure elettorali e referendarie. E  connessione  con il vertice che controlla mediante sistemi di intelligenza artificiale, capaci di interagire con il singolo utente connesso in modo da indurlo a decidere in un certo modo al momento opportuno, non significa realmente  connessione con gli altri utenti, dei quali ciascun utente riesce a mantenere solo un’immagine indistinta.
 Sono correnti, quindi, attualmente, in società due visioni del mondo come famiglia umana, quella della nostra religione e quella, sempre di tipo religioso, organizzata e suscitata mediante tecnologie di intelligenza artificiale applicate alla politica. La prima, però, punta a realizzarla veramente,  in benevolenza e solidarietà, quella visione, a partire dalle realtà di prossimità; l’altra si limita, per ora, a indurla, un po’ come accade nella  magia  del cinema, che consente un certo coinvolgimento emotivo finché dura lo spettacolo. La prima religione ha anche funzione critica verso la seconda e anche ad essa ripete l’ammonizione “Tu non sei un dio!”; l’altra si mostra insofferente delle critiche, vorrebbe strumentalizzare la prima al modo in cui lo si è fatto tanto a lungo nei secoli passati, ma vi è poco acculturata, ha difficolta a riuscirci anche se sembra sia studiando come farlo di nuovo ai tempi nostri, e soprattutto sconta il fatto che la nostra fede, come strumento di liberazione, si è molto affinata culturalmente nella travagliata esperienza con i tempi moderni e, nella sua riflessione razionale sulla realtà, è divenuta più difficilmente condizionabile.
3. Ma che interessa tutto ciò che ho sunteggiato al nostro gruppo di quaranta volenterosi di una parrocchia della periferia nord-orientale  romana?
  Se ci sentiamo coinvolti nel disegno di riforma sociale che vorrebbe ricollegare parrocchia e quartiere e, così facendo, iniziare a far vivere al quartiere l’esperienza della famiglia umana proposta nella visione dei saggi dell’ultimo Concilio, di certi fatti dobbiamo necessariamente prendere consapevolezza.  Operiamo infatti in una realtà sociale profondamente da essi permeata. Vedete, ad esempio, quanta gente  connessa c’è, addirittura camminando per strada. Si parla di lookdown generation, come delle moltitudini connesse  del nostro tempo: quelli che camminano  guardando in basso verso i loro smartphone e spesso cascano a terra.
  Si racconta che il filosofo greco Talete di Mileto, vissuto tra il Settimo e il Sesto secolo dell’era antica, camminando guardando in alto verso le stelle, cadde in un pozzo. Venne per questo preso in giro da una servetta che passava di lì, lui, il grand’uomo.  Così, in fondo, accade a noi, quando ci pensiamo grandi lasciandoci fascinare da ciò che ci mostrano i nostri smartphone. Talete, però, guardava in alto, noi  in basso, in senso reale e metaforico. La differenza: guardare in alto  libera, anche nei pozzi in cui si è caduti, guardare in basso confina e relega.
 Come immaginiamo di poter realizzare  la famiglia umana nel quartiere? Quando tra noi ne abbiamo parlato, mi pare che le idee che abbiamo esposto non siano state un granché: innanzi tutto fanno riferimento particolare  alla nostra prospettiva, senza tener conto del complesso, per cui suggeriamo ciò che andrebbe bene  per noi, senza tener conto di come sono fatti e di ciò che desiderano altri diversi da noi, e poi, al dunque, non riescono a immaginare  la complessità, perché si finisce per proporre una versione alternativa  e migliorata del piccolo gruppo. Inoltre siamo prodighi nei consigli agli altri su come dovrebbero essere, ma piuttosto avari nel programmare un nostro personale impegno. In effetti, a ben considerare, il tempo è poco: da più giovani perché ci sono famiglia e lavoro a riempircelo, da anziani perché inizia a correre troppo velocemente (è la sconfortante scoperta degli ultrassantenni) e le forze, ma anche l’immaginazione, cominciano a non assisterci più come una volta.
  Che succederebbe se tutti  i quindicimila fedeli  prendessero l’abitudine di far un salto in parrocchia  ogni giorno? Non ci sarebbe posto per tutti. Gli ambienti parrocchiali, pensati per essere la casa di tutti, non possono esserlo realmente, se non come visione. Del resto la parrocchia non dovrebbe essere pensata come casa di tutti, nel senso di  ciascuno  di quei tutti, ma come  casa della collettività, che è una cosa diversa. Si vive necessariamente altrove nella gran parte del tempo, al di fuori dei preti che in parrocchia abitano e ad essa sono permanentemente incardinati per servizio, ma si prende la parrocchia come luogo  di riferimento della collettività, nel suo agire sociale. Ma non è il luogo  a fare la collettività: è il sistema delle relazioni sociali. Facciamo manutenzione negli ambienti parrocchiali, e questo è utile per restaurare la casa della collettività, ma il lavoro principale è quello di  restaurare  le relazioni sociali di prossimità. Ciò che si fa, innanzi tutto, con la consuetudine reciproca, facendo realmente  e  personalmente  esperienza degli altri. Di solito si hanno ambizioni esagerate sotto questo profilo. Cito qui una battuta del film di Nanni Moretti, Mia madre: ci dobbiamo prendere l’un l’altro  a piccole dosi. Più ci avviciniamo l’un l’altro più cresce l’impegno personale in questa relazione, ma anche, certo, cresce il sentimento di pienezza che se ne trae. Per questo possiamo realmente avvicinarci solo a quelli che ci piacciono, che suscitano un coinvolgimento emotivo profondo, e non ci possiamo fare nulla perché siamo fatti così più o meno da duecentomila anni e non potremo cambiare se non in quell’ordine di tempo. Tuttavia la consuetudine reciproca ci è necessaria e le istituzioni, le regole che ci diamo per i contatti sociali, servono proprio a renderla possibile senza che diventi intollerabile. Se noi vogliamo creare un contesto in cui siano possibili più estese relazioni profonde, dobbiamo anche immaginare un corrispondente sistema istituzionale. Questo anche per renderle stabili. Infatti le relazioni profonde, per quanto tali, raramente sono anche stabili, o almeno hanno quella stabilità  a cui si punta in parrocchia. E’, in fondo, la dinamica dell’amore. Innamoramento non significa sempre amore a lungo termine. La famiglia è lo strumento sociale  e culturale con cui si cerca di dare stabilità alle relazioni d’amore,  ma non basta se non c’è anche un impegno personale in chi vi è coinvolto. Questo impegno personale serve suscitare anche in ogni altra realtà sociale: è una conquista culturale, richiede una formazione, che  è uno dei campi in cui si lavora in parrocchia, uno dei suoi settori della diakonìa, intesa come servizio  con significato religioso. Questo lavorare sulla manutenzione delle relazioni sociali, immaginando anche nuovi contesti istituzionali per favorirle,  è parte della  koinonìa, l’agire da  compagni  con spirito religioso. Diakonìa  e koinonìa  sono parole del greco antico utilizzate dalla teologia, nel discorso religioso,  in quanto definiscono  servizio  e  spirito comunitario secondo la fede e come tali sono state impiegate fin dalle origini nella tradizione.
  Il piacerci emotivamente, sebbene di solito a piccole dosi, ci stimola nelle relazioni sociali ma anche ci limita, in quanto ci si piace selettivamente, l’amore universale essendo solo un’utopia o  un anelito. La conoscenza profonda e motivante è possibile solo tra simili, o con coloro con cui  si condividono certe esperienze forti o interessi importanti. E non è veramente possibile se non in gruppi limitati, quelli definiti di mondo vitale, come esperienze sociali dalle quali si trae il senso della vita. Questo significa che per collegare  questi gruppi limitati in una trama che, in potenza, consenta di far sentire in relazione i quindicimila del quartiere ai quali idealmente vorremmo rivolgerci, occorre costruire strutture di mediazione, capaci anche di suscitare un certo coinvolgimento emotivo, istituzioni che evochino mondi vitali. In questo consiste la liturgia, che deriva dalle parole greche che significano azione e popolo. Vi è una liturgia canonica, secondo la quale celebriamo i riti religiosi, ma ce ne dovremmo inventare una ulteriore per suscitare uno spirito collettivo parrocchiale, nostro proprio di noi delle Valli, con un quello che ho chiamato mito di fondazione, una narrazione che dia il senso dell’esperienza collettiva che si vuole suscitare, e poi canti, riti sociali, simboli. Questo era stato ben compreso nell’esperimento sociale tentato in parrocchia per trent’anni: in questo possiamo stare alla sua scuola. Ma le strutture di mediazione da esso attuate non sono bastate a coinvolgere le masse del quartiere. Ne dobbiamo pensare di nuove. Sottolineo la potenza evocativa dei simboli: ciascuno di noi tiene presso di sé una qualche oggetto, o in sé un ricordo,  con quella capacità evocativa. Dalla scorsa estate sul lago ho portato un carillon: suonandolo entro nello spirito di quella vacanza.
  Avvicinare la gente, non illudiamoci, può dare anche qualche dispiacere. Gli altri non sono quasi mai come vorremmo che fossero, e così noi per loro. Così, il tirocinio delle relazioni di prossimità potrebbe anche finire male, quando ci si trova insopportabili. E’ per questo che occorre avvicinarci a poco a poco, con cautela, prendendo gradualmente confidenza, come nell’addomesticamento degli animali, e, in un certo senso, l’avvicinarsi consiste proprio in un addomesticamento reciproco. Il verbo  addomesticare contiene la parola latina domus, che significa casa. Addomesticarci reciprocamente significa costruire una  casa  comune, intesa non come luogo fisico, come edificio, ma come contesto di relazioni umane profonde, ciò che nella lingua inglese viene inteso con la parola home [fonetica: houm], a differenza di house [fonetica: haus], casa come luogo fisico, costruzione.
 Tutto ciò non basta immaginarlo, ma anche attuarlo imparando dall’esperienza, quindi anche dagli errori fatti, senza incaponirsi nel ripeterli. Chi inizia ad attuare è un fondatore. ll politico e scrittore fiorentino Niccolò Machiavelli, vissuto tra il Quattrocento e il Cinquecento, ne ha parlato nella sua opera più nota, Il Principe, come di una personalità straordinaria che, profittando delle occasioni fornite dall’epoca in cui vive, con la propria virtù organizza e attua un nuovo ordine politico. Ogni esperienza sociale ha necessità di fondatori, ma deve anche fare  i conti con la realtà, per capire le opportunità che offre. La visione del Machiavelli della politica non  era però religiosa: per lui il potere era il solo scopo razionale del potere. La politica oggi prevalente, quella che sviluppa il controllo sociale mediante l’intelligenza artificiale, ragiona proprio così e, poiché anche per  essa il  potere è fine a se stesso, non va tanto per il sottile sui mezzi utilizzati a fini di potere. Nel riorganizzare la parrocchia contano invece sia il fine sia i mezzi. Non riorganizziamo, da fondatori  che ora vorremmo essere, a fini di potere, anche se indubbiamente vogliamo estendere la nostra influenza sociale nel quartiere, ed è importante come  riorganizziamo, i metodi utilizziamo per farlo. Non ogni metodo è infatti compatibile con la nostra impostazione religiosa. Non lo sarebbe il fascinare la gente secondo le tecniche della pubblicità commerciale e non lo sarebbe se sfruttassimo arbitrariamente la naturale propensione della gente a credere all’ignoto, a una magica realtà numinosa, suscitando irrealistiche aspettative soprannaturali, non alla nostra portata, il che accade con una certa frequenza in campo religioso. La gente non si deve aspettare da noi guarigioni miracolose dei propri mali fisici o psicologici o che la sua condizione sociale cambi radicalmente per il solo fatto di riavvicinarsi a noi e a prescindere da un impegno serio su  se stessi  e nella collettività. Se vogliamo radicarci nuovamente nel quartiere, non dobbiamo promettere più di ciò che realisticamente possiamo mantenere. In questo dobbiamo saperci distinguere dalle altre offerte di riforma sociale sul mercato, per così dire. Questo deve essere un nostro fattore ben riconoscibile di distinzione e, in qualche modo, di nobiltà della nostra proposta.  Abbiamo ereditato  una nobiltà dalla tradizione passata, ma questo non basta, ci ammonisce Paolo di Tarso: la nobiltà di stirpe di solito delude, occorre conquistarla di generazione in generazione nello sforzo costante di migliorarsi e, in particolare in religione, convertendosi, allontanandosi dalle vie sbagliate, quelle che fanno soffrire la società.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli