Problemi di
costruzione sociale - 13
E’ possibile
parlare di una dialettica tra natura e società. Questa dialettica è un dato della condizione umana e si manifesta
in ogni individuo umano. Per l’individuo, naturalmente, essa si svolge in una
situazione già strutturata. C’è una continua dialettica, che nasce con le
primissime fasi della socializzazione e continua a operare per tutto il periodo dell’esistenza
dell’individuo nella società, tra ogni
animale umano e la sua situazione socio-storica. Esteriormente, è una
dialettica tra l’animale individuale e il mondo sociale; interiormente, è una
dialettica tra il substrato biologico dell’individuo e la sua identità
socialmente prodotta.
Per quanto riguarda l’aspetto esteriore è ancora possibile affermare che
l’organismo postula dei limiti a ciò che è socialmente possibile. Come hanno
detto dei costituzionalisti inglesi, il parlamento può fare tutto, fuorché far
partorire gli uomini. Se il parlamento ci provasse, il suo progetto troverebbe
un ostacolo insormontabile nella costituzione fisiologica dell’uomo. I fattori
biologici limitano la portata delle possibilità sociali dell’individuo, ma il
mondo sociale, che, rispetto al singolo, è preesistente, a sua volta impone dei
limiti a ciò che è biologicamente possibile all’organismo. La dialettica si
manifesta dunque nella reciproca restrizione tra organismo e società.
[…]
L’uomo è biologicamente predestinato a costruire il mondo e ad abitarvi
in comune con gli altri. Questo mondo
diventa per lui la realtà dominante e definitiva. I suoi limiti sono posti dalla natura, ma, una volta
costruito, esso influisce a sua volta
sulla natura. Nella dialettica tra la natura e i mondo socialmente costruito lo
stesso organismo umano viene trasformato e in questo modo l’uomo produce la
realtà e se stesso.
da Peter L Berger - Thomas
Luckmann, La realtà come costruzione
sociale, Il Mulino, 2016 (prima ed. USA, 1966); pag.225-226; 229.
1. Uno dei nostri problemi sociali è quello di due
parrocchie che abitano negli stessi locali parrocchiali, come in un condominio.
La prima, fatta prevalentemente da gente del quartiere, non sente il bisogno (ricambiata) dell’altra, un gruppo di neo-comunità nel quale c’è molta gente di fuori, e del resto non sarebbe nemmeno ammessa ai suoi eventi. La seconda fa infatti in gran parte vita
sociale e liturgica a sé, esclusiva. Per essere dei suoi occorre superare un vaglio, non
basta desiderarlo ed essere parrocchiani. E’ necessario aprirsi completamente e
cambiare abitudini secondo quanto richiesto dai capi della comunità, in base ad un
progetto con tappe e verifiche puntuali che viene presentato come un cammino che non finisce mai. C’è chi è
più avanti e chi più indietro, e chi è
indietro cerca di imparare da chi è avanti e, innanzi tutto, di conformarsi ai
costumi comunitari: è così modellato da essi. Ogni anno, nelle Messe domenicali di
un certo giorno, in autunno, questa esperienza personale ci viene presentata
con una testimonianza, più o meno
secondo la medesima traccia e a volte proprio con gli stessi discorsi: un cambiamento affascinante tra la vita religiosa
di prima e quella dopo, l’idea di essere stati raggiunti dal Cielo integrandosi
in una comunità forte. Chi è fuori se ne è fatta in genere l’idea di un’esperienza
autosufficiente, autoreferenziale, che basta a se stessa. Diffida della pretesa di quegli altri di apertura del
proprio animo alla comunità, di questa elevata confidenza comunitaria; la teme
(e non a torto). La diffidenza è ricambiata. E' per questo che si ha la sensazione di abitare la
parrocchia al modo di un condominio. Quando ci si trova insieme, non ci si
incontra veramente, si è gente che va e che viene, come in una stazione
ferroviaria. In questi momenti i locali parrocchiali diventano non
luoghi, come i sociologi definiscono le strutture di passaggio senza
incontro, appunto le stazioni ferroviarie, gli aeroporti, certi piazzali in cui
non ci si ferma, ma ci si limita a smistarsi. Nei tre anni del nuovo corso non
si è riusciti nemmeno a iniziare una integrazione tra le due parrocchie. La
ostacolano la diffidenza e la scarsa voglia di essere coinvolta più
intensamente della gente del quartiere e la costruzione sociale di tipo
esclusivo dei camminanti, che non integra se non
assimilando e percepisce il rifiuto dell’assimilazione come ostilità. Di tutto
questo ho scritto molte volte, tra il 2012 e il 2015, e non voglio ripetermi.
Tutto ciò che ho scritto è ancora
disponibile sul blog acvivearomavalli.blogspot.com. Potrebbe essere utile darvi un occhiata, per i nuovi preti che sono
arrivati da noi quest’anno, per comprendere il problema, in modo migliore, ad esempio, che attingendo
notizie sul WEB dai nemici dichiarati di quell’esperienza comunitaria, i quali descrivono
astiosamente il male che vi vedono senza tenere in debito conto del bene che indubbiamente
produce. Io non mi ritengo un nemico di quegli altri, ma uno che ha sofferto e
soffre la divisione. So, per esperienza personale, che quelli che vi partecipano
sono persone buone. Ho infatti imparato a conoscerli e anche a stimarli.
2. L’altro problema della parrocchia è con il quartiere. Una volta rimossa
l’eccessiva caratterizzazione di liturgie e attività di formazione che si era
prodotta secondo l’ideologia dell’esperienza comunitaria di cui ho parlato, ci
si aspettava, e anch’io mi aspettavo, che la gente del quartiere tornasse a prendere possesso della sua parrocchia. Così ancora non è stato.
La ragioni? E’ la società che nel frattempo è cambiata e noi
in essa. Si dà meno importanza alla partecipazione comunitaria, che si era
molto affermata in Europa nel Medioevo, quando serviva a proteggere da ambienti
naturali e sociali fattisi ostili. L’affermazione della personalità
individuale, come riscatto dalla tirannia medievale comunitaria, data in Europa dal Cinquecento: fu,
all’inizio, un fatto di intellettuali,
poi di proprietari, che dalla
proprietà ricavavano la loro forza di resistenza, e dagli anni Sessanta, in Occidente, è esperienza di massa. La consente il sistema giuridico, arricchito di
tanti diritti sociali che, appunto, rende possibile la
sopravvivenza di massa come individui liberi. Nella figura 1 ho rappresentato la
comunità-corporazione sul modello medievale, in cui gli individui erano
inglobati all’interno di intensi addensamenti di relazioni sociali. Nella
figura 2 ho rappresentato la situazione attuale. Le frecce indicano le
relazioni giuridiche, con limitato coinvolgimento emotivo, empatico e
simpatetico. Nella figura 3 ho rappresentato l’evento drammatico di quando, per
una qualche ragione, viene meno l’aggancio dei diritti sociali, ad esempio per
accidenti che vanno oltre quelli coperti dalla previdenza sociale (può
trattarsi anche di eventi che non incidono sul reddito, ad esempio la perdita di una
persona cara, un amore o una gravidanza finiti male, un insuccesso scolastico o
nei rapporti con i colleghi di lavoro), e l’individuo allora inizia a ruotare
eccentricamente lontano dagli altri e finisce a costituire uno scarto sociale, mentre nel contesto indicato nella
figura 1 rimaneva pur sempre incapsulato nel gruppo sociale di riferimento.
L’esperienza comune è di avere sempre meno
tempo per le relazioni sociali di gruppo, in ogni tempo della vita. In realtà non se ne sente, ordinariamente, il bisogno. Ve ne sono ora sostituti emotivi nelle reti sociali telematiche alle quali si è connessi a lungo, in prevalenza tramite gli smartphone che teniamo sempre presso di noi, a pochi centimetri da cervello e cuore. L’amore da
giovani, ad esempio, si vive prevalentemente in due e un tempo non era così, erano coinvolte le rispettive famiglie allargate e altri gruppi sociali di riferimento, e anche quelli religiosi. La famiglia
così è veramente nucleare, papà, mamma e figli. Il numero di questi ultimi è
delimitato dalle forze del gruppo di adulti di riferimento: in due soli se ne hanno meno. E’ la società a dirci quanti
figli fare, non solo la nostra biologia. Da anziani, partendo i figli per altre vite, si rimane soli e,
tanto più, quando il partner si distacca o muore. Da anziani si ha più tempo e
si avverte di più la solitudine. In altre età della vita si è talmente
indaffarati da farci poco caso. In questo contesto si hanno meno occasioni di
fare vero tirocinio sociale e le relazioni, al di là del microgruppo di
riferimento, di solito la famiglia nucleare, prendono sempre più un aspetto
contrattualizzato in cui si punta a dare nella misura in cui si riceve. Quando
l’isolamento diviene percepibile, nei tempi liberi
dal consueto affaccendamento, si
cerca il gruppo più che altro come medicina
dell’anima, per sentirsi meglio. Vale a dire che se ne ha una visione concentrata sull'utilità che può dare a sé stessi. E' come se, valutando costi e benefici della costruzione di un ponte o di un traforo, si tenesse conto solo di quanto spesso chi valuta ci passerà sopra o dentro, e non dell'utilità sociale, ad esempio per il commercio e il turismo, e anche per le generazioni future, trattandosi di opera che diventa obsoleta e richiede quindi importanti lavori di adeguamento solo nel giro più o meno di un secolo, non nel corso della vita di chi decide di costruirla e di chi la costruisce. "Starò meglio?", ci si chiede decidendo di aderire, non "Staremo meglio?" o anche, in certi casi, "Servirà anche ai nostri figli?".E’ ciò che traspare anche
dalle narrazioni che fanno della loro esperienza gli aderenti alle neo-comunità della nostra
parrocchia: parlano di un’esperienza interiore affascinante, aumentata, diversa dalla religiosità di
prima (che è poi quella degli altri parrocchiani). Non li ho sentiti mai
parlare di ciò che collettivamente si è raggiunto, come gruppo, non solo nell’anima
individuale. Il fenomeno è generale nella società di oggi. La sfiducia nel
gruppo sociale allargato come strumento d’azione per raggiungere scopi
collettivi c’è anche in chi controlla la politica. Si pensa sempre che sia meglio una
direzione di pochi, dominati da singole
personalità, i leader, Machiavelli avrebbe detto il Principe: poiché però le procedure democratiche richiedono il periodico
coinvolgimento dei cittadini, si cerca di accaparrarsene il consenso quando
serve, e nei limiti in cui serve cercando per il resto di avere le mani libere, usando le medesime tecniche della pubblicità commerciale, perché al momento
debito traccino un segno sul punto giusto di una scheda di voto. Non ci si cura
più di far crescere le collettività. Una volta si pensava che questo
presentasse utilità sociale e si era anche istituito un sistema di finanziamento
pubblico per provvedervi, analogo a quello per i servizi religiosi. Ora invece si
pensa che fossero soldi sprecati e lo si è abolito. Dunque i partiti politici non
hanno più risorse per provvedervi, perché sono sempre meno quelli che
aderiscono versando quote sociali, e questo, della taccagneria nel contribuire,
è analogo a ciò che si osserva nella nostra Chiesa, che non potrebbe funzionare
senza il finanziamento pubblico (ora di poco meno di un miliardo di euro
all’anno).
3. Nelle comunità - medicina dell’anima i miti sociali di fondazione
(religiosi, spirituali in genere, politici, sportivi, artistici o di altro genere, come contattare gli extraterrestri o parlare alle piante), quando ci sono, appaiono
strumentali. L’obiettivo principale è creare una comunità terapeutica per
sanare l’anima, dove fare esperienze di realtà aumentata e sentirsi meglio.
L’ideologia delle neo-comunità della nostra parrocchia di cui dicevo
punta dichiaratamente, per statuto, a
irrobustire la vita di fede mediante un sostegno comunitario, ma
quell’esperienza comunitaria di fatto viene prevalentemente considerata e scelta, da ciò che si
ricava dalle narrazioni che ne fanno quelli che la vivono, per l’effettiva
solidarietà che crea, per il clima fraterno, che, appunto, cura l’anima, quindi come medicina dell’anima, in quanto crea e consente di sperimentare una realtà sociale diversa, aumentata, rispetto alle altre intorno. La fede ne appare
solo come il mito fondativo. Ma quanto conta? Tuttavia quella solidarietà ha un
prezzo, che però viene pagato, mi pare, solo nei limiti di ciò che dall'esperienza si
ricava o si pensa di ricavare, altrimenti no o non più. Vale a dire che, nonostante l’immagine di compattezza che di quell'esperienza si ha, c’è chi entra e chi esce e i più astiosi
critici di quell’esperienza sociale sono appunto i fuoriusciti. Il prezzo è quello
di una certa qual tirannia comunitaria sull’anima. Una volta, casualmente, ho
orecchiato una conversazione tra due persone coinvolte in quell’esperienza sociale (non
si hanno del resto molte altre e diverse occasioni per conoscerne dettagli), le
quali, riferendosi ad un neofita che evidentemente recalcitrava, si dicevano l’un
l’altra che bisognava ricostruirlo.
Altre volte, sempre orecchiando qua e là, mi è sembrato che, per ricostruire,
si pensasse di dover prima demolire,
in modo da ricostruire da capo. Questo modo di pensare ha causato
i primi dispiaceri alle origini delle neo-comunità, poi superati all’epoca del
regno di san Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°. Nei primi tempi, questa fase di ricostruzione era presentata come troppo simile a un neo-battesimo, ciò che stonava
pericolosamente con un dogma. Dopo la
prima fase di familiarizzazione, si fa, mi pare di aver capito, una confessione
generale, di revisione dell'intera propria vita, e poi, nelle piccole comunità di riferimento in cui si fraziona
l’esperienza generale, ci si confida apertamente di fronte agli altri, sotto la Croce. Questo è vivamente
sconsigliato dagli psicologi, perché rende fragile chi si apre in quel modo
rispetto al gruppo che ascolta. In ogni gruppo la dignità del singolo dipende
dal mantenere un certo spazio di riservatezza personale. Del resto è questa
anche la pratica della nostra liturgia
del sacramento della Penitenza. Indubbiamente, però, questa grande
confidenza comunitaria stabilizza le comunità di riferimento, ma lo fa rendendo
gli individui dipendenti da esse. E poi, nel mentre coinvolge, divide
dagli altri, da chi ne è fuori.
L’integrazione, lo ripeto, si ha solo
per assimilazione e quest’ultima produce un certo apparente conformismo. Essere
messo fuori dopo aver vissuto dentro è vissuto come un grave trauma, un
violento shock. In Fuci, da universitario, sperimentai ciò che significava quando
accogliemmo una fuoriuscita da quell’esperienza comunitaria.
L’immagine del neo-gruppo in movimento
impressiona, quando i suoi membri si muovono tutti insieme, e riempiono gli
ambienti. Noi umani abbiamo limiti
cognitivi nel figurarci le masse: quando osserviamo un grosso gruppo che si
muove e riempie uno spazio fisico (ad esempio la nostra chiesa parrocchiale che all'inizio degli anni '90 è stata costruita di dimensioni che sono circa la metà di quelle della precedente chiesa sotterranea) pensiamo “Sono molti”. Se però riuscissimo a convocare in via Val Padana (la chiesa parrocchiale non basterebbe) i
quindicimila del quartiere che vivono la loro religiosità secondo la nostra
fede, sarebbero molti di più, e lo capiremmo bene vedendone la moltitudine. Però in genere non ci riusciamo e allora pensiamo la parrocchia come abitata da molti di quelle neo-comunità e da pochi altri, o almeno, dal nuovo corso, di altri tanti quanti sono i primi. Ma non è così. Gli altri, tutti quelli del quartiere ai quali la parrocchia è inviata, sono molti di più. La missione è agganciarli quanti più possibile, non di vagliarli, selezionarli, facendo la squadretta che ci pare, come si fa da ragazzi per la partita.
I preti sono (anche) parte di un organismo burocratico
che pretende risultati in tempi certi. Un tempo si contavano le ostie
distribuite nelle Messe domenicali e da lì si valutava l’efficacia di una
gestione parrocchiale. Ora si fanno calcoli più sofisticati, ma comunque, molti è meglio di pochi o di meno. La
tentazione, allora, può essere di tagliare corto e di provare ad innestare di forza una
parrocchia nell’altra, senza perdere tanto tempo nella mediazione culturale e
nel tirocinio di familiarizzazione e di addomesticamento. Metto in guardia chi
ci pensa. Valuti che in trent’anni, dal 1983 al 2015, di esperienza ricostruttiva della parrocchia
secondo la neo-ideologia comunitaria a cui ho accennato, cercando di forzare senza mediazione culturale, si è riusciti a
produrre un gruppo comunitario molto
coeso di sole trecento persone circa (in calo, dalle scarne notizie che se ne hanno).
Gli altri del quartiere, a torto o a ragione, si è dato l’uno e l’altro caso
per come la vedo io, se ne sono sentiti in qualche modo messi in questione, criticati e anche sconfessati, ad
esempio nel loro modo di vivere la liturgia, l'amore, il matrimonio, il ruolo di
genitori e di figli, di uomini e donne e, talvolta, dai racconti che sento, se ne sono sentiti anche urtati e
addirittura traumatizzati. I preti hanno senz'altro potuto raccogliere confidenze simili, che negli incontri pubblici si ha in genere pudore di esprimere francamente. Molti si sono allontanati e non solo per l'andazzo dei tempi. Segnalo che qualcosa di simile è emerso anche
durante gli incontri ecumenici della scorsa Quaresima, anche se in quelle
occasioni si è dato indubbiamente, da quelli che hanno partecipato, il meglio
di sé. Accade quando qualcuno sbotta: “se
la pensi così, allora non hai fede!”.
Il lavoro che c’è da fare è
sicuramente molto impegnativo, molto più che in altre parrocchie, come hanno
ben compreso, alla fine, in Diocesi, mandandoci in soccorso un gruppo molto
forte di preti, una vera e propria squadra d’emergenza.
Da un lato occorrere correggere ciò che di spiritualità di setta emerge ancora nell'attività parrocchiale delle neo-comunità che della parrocchia vogliono ancora far parte (ciò che fanno altrove non ci deve riguardare), dall'altro bisogna coinvolgere
nuovamente il quartiere in un lavoro collettivo che non sia vissuto (solo) come
medicina dell’anima, ma punti ad ottenere risultati collettivi, non solo
individuali, in un’azione in senso lato liturgica, per fare (anche) ciò che serve per vivere meglio insieme nel quartiere nel quale la parrocchia è immerso. Per far comprendere alla gente del quartiere che la nostra fede è importante per riuscirci. Occorre quindi pazientemente ideare e sperimentare nuovi modi di essere comunità, con l’obiettivo di
coinvolgere senza asservire, di questa esperienza sociale
facendo fare il più ampio tirocinio possibile, a tutte le età, per vedere se e
come funziona e per correggerla sulla base dell’esperienza. La nostra fede è
fatta per liberare: l’unica
dipendenza che ammette è quella dal Cielo.
Mario Ardigò - Azione Cattolica
in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli