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Città di Dio, città dell’uomo, città del diavolo
(22 ottobre 2012)
Il peccato che
è nell’uomo decaduto si ritrova anche nelle sue città e nelle forme sociali più
vaste e complesse: queste ultime possono assicurare agli uomini vantaggi
sensibili in varie direzioni, ma tendono a porsi come grandi concentrazioni di
potere (le megalopoli, gli imperi) e divenire sempre più anonime e soprattutto
consentire uno sfrenamento più incontenibile delle peggiori passioni umane:
l’ambizione prevaricatrice, l’avidità di illimitati guadagni, il lusso spettacolare,
la lussuria sempre più cupida di ogni perversione, l’adulterazione
industrializzata della verità, lo spargimento ingiusto di sangue ecc. Sicché
non si può parlare di un’ambivalenza delle forme sociali e del potere, come
fanno molti sociologi contemporanei, ma il credente deve riconoscere un loro
inquinamento profondo con altissimi rischi: il rischio più grave di tutti è la
guerra, sempre più generalizzata e distruttiva a livello planetario.
[da Giuseppe
Dossetti, Eucaristia e città, Editrice
A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8,00]
Dossetti pronunciò le parole sopra riportate
dopo aver preso sinteticamente in rassegna la dottrina e l’esperienza biblica,
dai primordi di Israele a tutto il Nuovo Testamento. Si era nel 1987, in un
mondo molto diverso da quello in cui viviamo oggi e, in particolare, non si era
ancora nell’era della globalizzazione,
della interconnessione planetaria delle economie e delle società umane. L’umanità era dominata da due grandi sistemi
politici sovranazionali, quello centrato sugli Stati Uniti d’America e quello
che prendeva a riferimento l’Unione Sovietica, e seguiva due gruppi di sistemi
economici, piuttosto articolati al loro interno, quelli di tipo capitalista e
quelli di tipo socialista-collettivista. Le accuse di perversione sociale
venivano lanciate e rilanciate dall’uno all’altro degli schieramenti, che
concepivano sé stessi come reciprocamente alternativi, l’uno il rovescio
dell’altro. Questo comportava che chi, in ciascuno di quegli universi sociali
contrapposti, assumesse una posizione critica nei confronti della civiltà umana in cui si trovava, poteva fare
riferimento all’altro mondo che le si contrapponeva come a un mondo alternativo, al regno
del bene, a un modello positivo.
Ai tempi nostri quest’alternativa sembra mancare, perché la Terra sembra retta
da potenze umane omogenee ed è diventata così più significativa la critica
globale alle società umane che si può ricavare dal dato biblico, seguendo
Dossetti: il male appare come universalmente connaturato con l’esperienza delle
società umane e da esse ineliminabile. Come disse Dossetti, non vi è quindi una
semplice ambivalenza tra male e bene,
ma un inquinamento profondo che ora
si manifesta come pervasivo di tutta l’umanità, senza reali alternative. E
tuttavia, paradossalmente, il rischio di
guerra globale, ancora molto alto al tempo in cui Dossetti pronunciò quelle
parole, sembra oggi molto meno forte in una umanità molto più numerosa dei
tempi antichi, con il conseguente aumento dei motivi di conflitto, e in un tempo
in cui le capacità distruttive si sono enormemente accresciute. Questa è anche opera umana. La pace ha
anche una valenza religiosa e quindi si è spinti a ragionarci su anche sotto
questa prospettiva. E ci si può chiedere come conciliare le esigenze di impegno
nel mondo nuovo in cui ci troviamo a
vivere con il pessimismo biblico
sulle organizzazioni sociali umane.
Bisogna allora evidenziare un importante
problema che noi, gente di fede, abbiamo nel trattare, insieme con altre
persone al di fuori della cerchia di chi condivide le nostre convinzioni
religiose, le cose del nostro mondo: i principi ai quali vogliamo riferirci per
orientare le nostre condotte individuali e collettive sono tratti da un’antica
sapienza che si è formata in un mondo radicalmente diverso da quello in cui
viviamo. Non si tratta di una differenza di un più rispetto al meno (oggi, ad
esempio, il mondo è più popolato; le armi oggi sono più
potenti e via dicendo), si tratta di una novità
profonda, strutturale e piuttosto recente. Non dobbiamo però pensare che si
tratti di un processo anche irreversibile.
I tempi nuovi in cui ci troviamo
dipendono da una certa organizzazione sociale molto complessa e quindi anche
particolarmente fragile, nonostante la sua pervasività e potenza globale. Anni
fa uno scrittore italiano scrisse un libro vaticinando le condizioni della morte di megalopoli, della crisi di un’organizzazione sociale umana
moderna molto articolata e complicata. Un nuovo
medioevo, in senso negativo, una regressione
catastrofica, è quindi senz’altro possibile, ipotizzabile. Ce ne possiamo
prefigurare le condizioni. Le tempeste che travagliano le relazioni economiche
su scala globale ne possono essere considerate in qualche modo delle
avvisaglie. Oggi più che in qualsiasi
altra precedente epoca storica appare quindi rilevante, nel dirigere le nostre
società, una sapienza che scaturisce da competenze umane molto raffinate e
dall’interazione solidale e virtuosa tra i centri collettivi di potere, in una tensione verso il bene dell’umanità, per
preservarla dai pericoli e dal male che
sempre incombe. Pur nella consapevolezza religiosa dell’influsso di potenze invisibili, quella che spinge
verso la Città di Dio e quella che
invece tenta verso la Città del diavolo,
compresenti nelle nostre società come in ogni singola persona, sembra che per
la costruzione della Città dell’uomo,
espressione cara a Giuseppe Lazzati (1909-1986), ai tempi nostri ci si debba
impegnare molto nella storia umana, più che nelle ere passate, nella ricerca in
concreto di soluzioni escogitate responsabilmente da noi stessi, ragionando e
cooperando con tutti coloro che sono bene intenzionati, avendo innanzi tutto di
mira la prevenzione di quel gravissimo rischio di cui parlava Dossetti, quello
di una guerra globale e catastrofica, e poi di quello che Dossetti nel 1987 non
poteva ancora presagire, di una crisi economica catastrofica globale, una
specie di carestia biblica che
coinvolga tutta la Terra. Non possiamo limitarci a considerarci solo spettatori del conflitto cosmico
soprannaturale. Siamo spinti a scuoterci da una certa passività nell’impegno sociale che può derivare da quel pessimismo religioso sulle cose umane a cui ho accennato e dal concepirci sempre
come stranieri in ogni patria
terrena, nel senso però di estranei. E l’esperienza storica, ad esempio quella
della cooperazione europea sfociata nell’Unione Europea di oggi, ha dimostrato
che questi sforzi collettivi possono avere successo. Ogni soluzione, però, non sarà mai univoca:
per ogni problema se ne possono infatti
pensare di diverse e le predizioni sulla loro efficacia si sono
dimostrate in diverso grado fallibili. Inoltre ogni tipo di soluzione è
strettamente correlato al tipo di problema al quale risponde e i problemi hanno
un’evoluzione storica, come tutte le cose umane e come gli stessi esseri umani.
Questo incide abbastanza sulla possibilità di formulare una dottrina sociale che coniughi in modo
realistico, universale e definitivo le esigenze della nostra fede religiosa,
che è strutturata anche su principi che si riferiscono a un mondo che non c’è
più, con quelle dell’umanità di oggi. E, prima di ogni cosa, sull’affidabilità
di una dottrina con quelle pretese
formulata con autorità da capi religiosi che fanno principalmente riferimento a
un contesto teologico, di coerenza teologica.
Mi piacerebbe, a
questo punto, concludere anticipandovi la
soluzione delle soluzioni, il discorso ragionevole che chiuda il sistema in
modo rassicurante per noi persone religiose, chiarendo che il problema è solo
apparente e che vi è ancora una via semplice
per vivere da persone di fede nel nostro tempo. Tuttavia non posso farlo,
perché di passo in passo vi ho portato sulle frontiere estreme delle nostre
concezioni religiose, oltre le quali, benché la storia ci spinga collettivamente
in quella direzione, non si sa bene che cosa ci si debba aspettare.
Voglio precisare che
la novità della situazione dei tempi nostri è apprezzabile essenzialmente su
scala globale, mondiale, perché su scale più piccole (nazione, regione, città, quartieri,
condomini ecc.) le cose si presentano diversamente e mantiene piena
affidabilità orientativa il contesto tradizionale dei principi di fede,
caratterizzato da un certo pessimismo sulle faccende umane. Questo rientra
nella nostra esperienza quotidiana. Eppure il nuovo ci si presenta anche in
essa, nella nostra vita feriale, e
può, ad esempio, avere il volto dell’immigrato da un altro continente che
chiede il riconoscimento di una cittadinanza
universale sulla base di quella nuova
organizzazione globale delle cose umane di cui dicevo. In questioni come queste anche
noi, individualmente e come piccoli gruppi, abbiamo voce in capitolo e non si
tratta sempre di scelte facili. E sul risultato globale, per i meccanismi delle
democrazie di popolo che reggono le nostre società, incideranno anche le nostre
scelte, così come esse hanno certamente influito, in una dinamica corale, sul risultato dei tanti decenni di pace nel
continente europeo.
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22
Quale impegno nell’Anno della
Fede? Andare avanti!
(24 ottobre 2012)
Nella riunione di
ieri del nostro gruppo ci siamo interrogati su quale debba essere il nostro
atteggiamento in questo Anno della Fede,
indetto dal papa Benedetto 16° con la lettera apostolica Porta Fidei (trad. porta della fede) dell’11 ottobre
2011 e aperto lo scorso 11 ottobre,
cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano 2° (1962-1965).
Potete trovare il
documento all’indirizzo WEB:
http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20111011_porta-fidei_it.html
Leggendo le parole del Papa possiamo
individuare questi presupposti e
obiettivi dell’iniziativa:
·
entrare
nella Chiesa significa impegnarsi in un cammino
che dura tutta la vita. La fede
cristiana è come una porta che,
attraverso il Battesimo, ce lo fa
iniziare;
·
bisogna
riscoprire questo cammino nella fede,
perché la fede ai tempi nostri non è più
un presupposto ovvio;
·
dobbiamo
ritrovare il gusto di nutrirci del cibo che rimane per la vita eterna,
vale a dire della Parola di Dio
trasmessa dalla Chiesa e del Pane di vita,
per continuare a credere in Gesù, il Cristo;
·
attraverso
la propria testimonianza di vita i cristiani sono poi chiamati a far risplendere la Parola di verità che il
Signore Gesù ci ha lasciato;
·
l’Anno della Fede in questa prospettiva è un impegno a una rinnovata e autentica
conversione al Signore, unico Salvatore del mondo;
·
in
questo spirito è anche necessario un più convinto impegno ecclesiale
a favore di una nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e
ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede; esso scaturisce da una fede rafforzata;
·
il percorso comune nell’Anno della Fede deve portarci a capire in modo più profondo non
solo i contenuti della fede ma anche
il senso del credere, l’atto con cui decidiamo di affidarci
totalmente a Dio, in piena libertà, che è dono di Dio e azione della
sua grazia, la quale agisce e trasforma la persona fin nel suo intimo;
·
la professione di fede comporta anche assumersi la responsabilità sociale di ciò
che si crede: non è un fatto privato e implica
anche una testimonianza ed un impegno pubblici; essa quindi è un atto personale ed insieme comunitario. E’ la Chiesa,
infatti, il primo soggetto della fede;
·
per la
conoscenza sistematica dei contenuti della fede cristiana tutti possono
trovare nel Catechismo della Chiesa
cattolica (1993; 1997) un sussidio prezioso ed indispensabile;
·
non
dobbiamo temere di argomentare razionalmente la fede, anche in quest’epoca in
cui molti ritengono che certezze razionali possano conseguirsi solo nell’ambito
del pensiero scientifico e tecnologico, perché confidiamo che tra la fede e la
scienza non vi sia conflitto, in quanto entrambe, anche se per vie diverse, tendono alla verità;
·
sarà
decisivo nel corso di questo Anno
ripercorrere la storia della nostra fede, la quale vede il mistero insondabile
dell’intreccio tra santità e peccato;
·
In questo tempo siamo invitati a tenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo, “colui che
dà origine alla fede e la porta a compimento; in lui, morto e risorto per la nostra salvezza, trovano piena luce gli
esempi di fede che hanno segnato questi duemila anni della nostra storia di
salvezza”;
·
nell’Anno
della fede dobbiamo vedere anche un’occasione per intensificare la nostra testimonianza della carità; la fede senza la carità non porta frutto e
la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia costante del dubbio.
Fede e carità si esigono a vicenda, così che l’una permette all’altra di
attuare il suo cammino;
·
nell’Anno della
Fede siamo inviati a scuoterci da una certa pigrizia nel conoscere e testimoniare la nostra fede religiosa
comune; in particolare ciò riguarda i più anziani, che ritrovino gli ideali di
gioventù: “Giunto ormai al termine della
sua vita, l’apostolo Paolo chiede al discepolo Timoteo di ‘cercare la fede’
(cfr 2Tm 2,22) con la stessa
costanza di quando era ragazzo (cfr 2Tm
3,15). Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede”.
·
nella fede siamo ricolmi di gioia perché, pur
vivendo anche l’esperienza della sofferenza “noi
crediamo con ferma certezza che il Signore Gesù ha sconfitto il male e la
morte. Con questa sicura fiducia ci affidiamo a Lui: Egli, presente in mezzo a
noi, vince il potere del maligno (cfr Lc
11,20) e la Chiesa, comunità visibile della sua misericordia, permane in Lui
come segno della riconciliazione definitiva con il Padre”.
Ora, uno dei modi di intendere gli impegni
proposti nell’Anno della Fede
è quello di presentarli come un cammino
di ritorno: ci siamo allontanati dalla verità e ritorniamo indietro, riconoscendo il male che c’è in noi e che da
noi è scaturito. Questo corrisponde a figure storiche che troviamo nell’Antico
Testamento e, in definitiva anche a insegnamenti che troviamo nel Nuovo. Ma
esso presenta alcuni problemi, che sono collegati all’idea di cammino, a questa che è una metafora
bella e suggestiva fino a che
corrisponda a come la Chiesa vuole concepire sé stessa. Ora, a ben considerare,
questa idea del ritorno nella lettera
apostolica citata non c’è (c’è quella
di conversione, che è un’altra cosa:
è cambiamento e nuovo orientamento come manifestazione di fede). Infatti il cammino che si propone ai fedeli non è verso la fede, ma a partire dalla fede (concepita come una porta). Certo, poi, per opera della grazia dalla nostra
testimonianza di fede può accadere che altri, dal di fuori, decidano di passare per quella porta, ma per loro non si tratterà di un ritorno. Il documento del Papa a questo proposito si apre con la
citazione di un brano degli Atti degli apostoli, 14,27 in cui si legge
(versione CEI 2008):
Appena
arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto
capire per mezzo loro e come avesse
aperto ai pagani la porta della fede.
Quel passo si riferisce al ritorno di Paolo e
di altri suoi compagni da una missione in città del mondo pagano del loro
tempo.
Per quanto indubbiamente nella vita delle
persone ci possano essere momenti in cui esse si allontanano dalla Chiesa e poi le
si avvicinano nuovamente, in un movimento effettivamente di ritorno, e quindi ci sono anche dei
gruppi per così dire specializzati
nel favorire questa decisione di rientro
(anche se è tutta la Chiesa che dovrebbe ritenersi impegnata in questo), nella
lettera apostolica citata non è questo ad
essere centrale. Piuttosto il Papa appare preoccupato di una certa pigrizia e distrazione
di noi fedeli nel rispondere alle
esigenze di fede, nel trarre le conseguenze dalla nostra professione di fede, e
teme che questo accada perché riflettiamo troppo poco su di essa. Non ci siamo
dedicati abbastanza a tenere viva la comprensione dei contenuti della nostra
fede e nel nostro impegno sociale, quando c’è stato, a volte abbiamo tenuto più conto delle conseguenze sociali, culturali e politiche di esso che della sua
origine religiosa, in una sorta di secolarizzazione
dell’azione nostra. L’Anno della Fede, per
come io credo di aver compreso l’invito che ci è stato rivolto, deve così
servire a scuoterci da questa pigrizia e a porci nuovamente in cammino secondo l’orientamento che ci viene
dalla comune fede religiosa: appunto un cammino
nella fede. Come battezzati infatti, a prescindere da
quella pigrizia e da quelle distrazioni abbiamo mantenuto sempre
piena cittadinanza nella nostra Chiesa, non ne siamo mai usciti e nessuno ce ne
può cacciare fuori, e questo è un effetto irreversibile del Battesimo.
Questo dobbiamo sempre ribadire con
la massima forza, contro ogni retriva tentazione reazionaria, che storicamente
purtroppo è sempre presente di quando
in quando.
Per come la vedo io,
noi, piccolo gregge dell’Azione Cattolica in San Clemente papa, in questo Anno della Fede, non dobbiamo prendere
la strada per andare da qualche parte indietro,
ma siamo spinti proprio dalla nostra fede
in avanti.
La lettera apostolica citata pone poi espressamente, tra gli
impegni per l’Anno della Fede, quello
di “ripercorrere la storia della nostra
fede, la quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e peccato”.
“Mentre la prima evidenzia il grande apporto che
uomini e donne hanno offerto alla crescita ed allo sviluppo della comunità con
la testimonianza della loro vita, il secondo deve provocare in ognuno una
sincera e permanente opera di conversione per sperimentare la misericordia del
Padre che a tutti va incontro.”
In questo ci indica anche quell’impegno di
purificazione della memoria, che
significa comprendere ciò che nel nostro passato ecclesiale non andava nella
direzione giusta e distaccarsene per il futuro (senza con questo volere
anticipare il giudizio divino sulle vite delle persone che di quel passato furono artefici), sulla quale la
nostra Chiesa si è avviata per iniziativa del papa Giovanni Paolo 2° in
occasione del Grande Giubileo dell’Anno 2000.
La concomitanza tra l’apertura dell’Anno della Fede e il cinquantesimo
anniversario dell’inizio del Concilio
Vaticano 2°, grande occasione di aggiornamento
della nostra Chiesa, pur nella fede della Tradizione, rende chiaro che non è al
passato che ci viene chiesto di guardare, in particolare a modi organizzativi
che si riferiscono ad epoche che non sono più.
Ciò che del passato ci viene richiesto di riscoprire è la fede della Tradizione, la fede di sempre, che è fede in colui che
riteniamo il Salvatore dei secoli, ieri, oggi e domani: egli vive e trae a sé
tutto.
Certo, cari amici, ieri contandoci e
considerando le nostre forze reali, dico noi del nostro gruppo in San Clemente
papa, ci siamo chiesti se questo compito verso il quale siamo spinti in questo Anno della Fede non superi di molto le
nostre forze. Ma non dobbiamo scoraggiarci, perché, e questa è una delle cose
che possiamo riscoprire in questo Anno della Fede, noi non siamo soli:
siamo parte di un lavoro collettivo molto più grande e poi confidiamo, nella
fede, in colui che può dare successo a tutte le nostre opere.
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23
E pluribus unum: quale
fondamento per l’unità?
(25 ottobre 2012)
Sullo stemma degli
Stati Uniti d’America compare il motto latino E pluribus unum, che significa da
molti, uno. Fu proposto dai rivoluzionari autonomisti nordamericani Adams,
Jefferson e Franklin nel 1776 e successivamente adottato ufficialmente. Si
riferisce alla volontà delle tredici colonie britanniche nordamericane di
unirsi in una dichiarazione di indipendenza contro la Gran Bretagna, fondata
sulla convinzione della pari dignità umana, per essere stati gli
esseri umani creati uguali in certi diritti umani fondamentali inalienabili
e, innanzi tutto, in quelli alla vita, alla libertà e alla ricerca della
felicità. Perché mi riferisco spesso alla nascita degli
Stati Uniti d’America? Perché quella vicenda storica segna l’origine delle
democrazie contemporanee e, nello stesso tempo, la creazione di un’unità
politica in democrazia caratterizzata da un forte anelito religioso cristiano.
Essa mostra quindi che ideali cristiani e
ideali democratici possono convivere, non sono necessariamente in conflitto.
Ciò con cui la democrazia non può convivere è infatti la tirannia. Questo era
tanto chiaro a quei rivoluzionari che Benjamin Franklin aveva anche escogitato
un altro motto: Ribellarsi al tiranno è
obbedire a Dio. Benché quest’ordine di idee fosse molto antico
nell’ideologia cristiana e fosse stato in particolare affermato, su basi bibliche, nell’ordine
concettuale di S.Tommaso D’Aquino (filosofo del Duecento, il cui pensiero venne
approvato ufficialmente con l’enciclica Aeterni
patris del Papa Leone 13° - del 1879), la democrazia come è intesa oggi (con l’affermazione del diritto
politico di resistenza al tiranno che violi quei diritti umani fondamentali
inalienabili) venne accettata dalla Chiesa cattolica come regime politico
preferibile solo nel 1944 (radiomessaggio natalizio del papa Pio 12°).
Anche lo stato dal
quale i rivoluzionari nordamericani vollero staccarsi era fondato sull’unità di
diversi popoli (Inghilterra, Galles e Scozia: la Gran Bretagna), In questo caso
però il fattore di unità era la
sudditanza a una dinastia monarchica, la quale ad un certo punto, sulla base di
precise accuse storiche esplicitate nella Dichiarazione
di indipendenza del 1776, venne
vista come tirannica. Paradossalmente quindi la proclamazione di un’unità
politica su certi principi, fatta dai rivoluzionari nordamericana, coincise con
la secessione da un’unità politica fondata sulla sudditanza a un potere visto
come tirannico.
La questione dei fondamenti dell’unità è stata una di
quelle fortemente critiche anche
nella Chiesa cattolica, in particolare da quando, nel quarto secolo della
nostra era, essa divenne rilevante per l’unità politica dei popoli unificati
nell’impero romano e successivamente
anche per quella dei nuovi stati sorti dalla dissoluzione, nell’Europa
Occidentale, di quel dominio. Quando si parla di radici cristiane dell’Europa ci si vuole riferire anche a questo. In questa materia ha inciso
potentemente il Concilio Vaticano 2°, aprendo veramente una nuova epoca.
Il punto di partenza
del nuovo ordine concettuale è la pari
dignità delle persone che formano il popolo di Dio.
...comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la
grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c’è che
una sola salvezza, una sola speranza e una
carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa
riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché
“non c’è né Giudeo né Gentile, non c’è schiavo né libero, non c’è né uomo né
donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù (Gal 3,28 gr; cfr Col 3,11).
[…]
… vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla
dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo.
[Dalla costituzione
dogmatica Lumen Gentium, sulla
Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].
Questa pari
dignità conduce a rispettare la varietà
nella Chiesa che raduna quel popolo
La santa Chiesa è, per divina istituzione, organizzata
e diretta con mirabile varietà.
[…]
Così nella diversità stessa, tutti danno testimonianza
della mirabile unità nel corpo di Cristo.
[Dalla costituzione
dogmatica Lumen Gentium, sulla
Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].
Il fattore di unità è di ordine spirituale:
… infine Dio mandò lo Spirito del Figlio suo, Signore
e vivificatore, il quale per tutta la
Chiesa e per tutti e singoli i credenti è principio di associazione e di
unità, nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nella
frazione del pane e nelle preghiere (cfr At, 2,42).
[Dalla costituzione
dogmatica Lumen Gentium, sulla
Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]
La realizzazione dell’unità è impegno comune
di tutti i fedeli:
…le singole parti portano i propri doni alle altre
parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si
accrescono con uno scambio mutuo universale verso la pienezza dell’unità.
[Dalla costituzione
dogmatica Lumen Gentium, sulla
Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]
Ad essa siamo spinti dalla legge dell’amore cristiano:
Questo popolo messianico ha per capo Cristo […] Ha per
condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel core dei quali dimora
lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare
come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr Gv 13,34).
[Dalla costituzione
dogmatica Lumen Gentium, sulla
Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.9]
Per capire a che tipo di amore ci riferisca
quando si parla della legge cristiana
dell’amore è opportuno leggere il testo greco del brano del Vangelo di
Giovanni citato nella costituzione dogmatica: “Entolèn cainèn dìdomi umìn, ina agapàte
allèlus, cathòs egàpesa umàs, ina cai agapàte allèlus.” (trad.:Vi
do un comandamento nuovo che vi amiate [agapàte] gli uni gli altri; come io vi ho amato
[egàpesa], così amatevi [agapàte] anche voi gli uni gli altri”. In questo
brano viene utilizzato il verbo greco agapào che ha la stessa radice del
sostantivo agàpe [in italiano tradotto con amore], il quale nella Bibbia richiama l’idea di pasti comuni come segno d’amore reciproco.
Riassumendo: secondo le concezioni conciliari,
l’unità non significa necessariamente uniformità
e trova fondamento dal basso, in una
comune ispirazione ideale che spinge gli uni verso gli altri, come
quando si partecipa a una bella cena tutti insieme, per una comunione di vita, di carità e verità [Lumen Gentium, n. 9].
Ora, non è che queste idee siano veramente
nuove, perché erano tra quelle fondamentali fin dalle origini. La loro portata
innovativa sta nel fatto che esse sono stata proclamate nel Concilio Vaticano
2° dopo che per quasi due millenni i fattori di unità nella Chiesa cattolica
erano stati visti principalmente nella
sudditanza sacrale ad un unico Pastore terreno
e
nella stretta uniformità ideologica e
liturgica (ad esempio nell’uso universale del latino liturgico).
Dove voglio andare a parare con tutto questo?
Cerco di dirlo nel modo meno “traumatico” possibile.
Il fatto che l’Anno della Fede che è appena iniziato sia stato così esplicitamente collegato al
Concilio Vaticano 2°, tanto da essere stato fatto iniziare nel giorno del
cinquantesimo anniversario dell’apertura di quel concilio, rende ben chiaro che
non si vuole da noi il ritorno alla
preponderanza degli antichi fattori di unità. Quell’era della nostra
confessione religiosa è finita.
Dobbiamo resistere alla tentazione di “ritornare” nel senso di
incamminarci di nuovo per vecchie strade che portano a un mondo dal quale
faticosamente ci siamo infine distaccati, dopo tanto dolore, perché basato su
principi non evangelici. L’evo antico ha comportato nella storia della
Chiesa, della quale nella lettera
apostolica Porta Fidei di indizione
dell’Anno della Fede siamo chiamati a
prendere maggiore consapevolezza, fatti gravi dei quali abbiamo dovuto
collettivamente pentirci, sotto la guida del papa Giovanni Paolo 2°, nel corso
del Grande Giubileo dell’Anno 2000.
[…]
Un Rappresentante della
Curia Romana:
Preghiamo perché ciascuno di
noi,
riconoscendo che anche uomini di Chiesa,
in nome della fede e della morale,
hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici
nel pur doveroso impegno di difesa della verità,
sappia imitare il Signore Gesù,
mite e umile di cuore.
Preghiera in silenzio.
II Santo Padre:
Signore, Dio di tutti gli
uomini,
in certe epoche della storia
i cristiani hanno talvolta accondisceso a metodi di intolleranza
e non hanno seguito il grande comandamento dell'amore,
deturpando così il volto della Chiesa, tua Sposa.
Abbi misericordia dei tuoi figli peccatori
e accogli il nostro proposito
di cercare e promuovere la verità nella dolcezza della carità,
ben sapendo che la verità
non si impone che in virtù della stessa verità.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
R. Kyrie, eleison; Kyrie, eleison; Kyrie,
eleison.
[Dalla liturgia
della Giornata del perdono, celebrata
il 12-3-2000 nel corso del Grande Giubileo dell’Anno 2000]
Come risulta chiaramente dalla lettera
apostolica di indizione, si vuole che nell’Anno
della Fede noi fedeli approfondiamo
un cammino comune nella fede, aiutandoci gli uni gli altri in unione spirituale pur nella legittima varietà di stili di vita individuali e comunitari,
anche per un rinnovato impegno di testimonianza nella società in cui viviamo,
per influire in tal modo su di essa con rinnovata
sapienza e consapevolezza infondendo
valori cristiani, cercando di promuovere, secondo il comando ricevuto,
l’unità spirituale di tutti i popoli della Terra. Non ci viene chiesto invece di realizzare un’unità discriminatoria,
separando da noi, come “infedeli” o “scarsamente fedeli”, coloro che su alcune
cose legittimamente la pensano diversamente da altri, nel presupposto che
questi ultimi siano monopolisti della retta dottrina, della retta liturgia, dei
retti principi di vita comunitaria. Questo significherebbe in un certo
senso tornare al nostro tremendo passato,
equivocando gli scopi dell’importante iniziativa alla quale siamo stati tutti chiamati.
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24
Gioia e timore alla
base dell’impegno religioso nella società
(27 ottobre 2012)
Leggo in Giuseppe
Dossetti, Eucaristia e città, Editrice
A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8, che ho utilizzato questa estate per le mie
meditazioni religiose:
[…] nella … nuova
economia l’amore –motivo fondamentale dell’osservanza dei precetti non elimina
il santo timore filiale che, con soggezione totale e trepidante adorazione
della maestà di Dio, deve permanere a ogni livello della vita spirituale.
Perciò, anche restando nel Nuovo Testamento,
vediamo che c’è un timore di Dio che e inculcato assiduamente dagli apostoli
(la stessa Lettera ai Romani 11,10; la Lettera agli Ebrei 4,1; la Prima lettera
di Pietro 1,17 e 3,16); ed è inculcato da Gesù stesso come necessario (Mt
10,28),
[…]
Certo l’Eucaristia, se
davvero vissuta nella fede, suppone la gioia: ma non necessariamente una gioia
sensibile.
Deve esser una gioia non adolescenziale, ma da
adulto, che non presuppone … di saltare il timore, ma che nasce proprio da un
timore virile e consapevole: stiamo di fronte al corpo e al sangue del Verbo
eterno di Dio”.
Questo discorso che Dossetti riferiva specificamente
all’Eucaristia può essere esteso all’atteggiamento che complessivamente la
persona religiosa può avere nei confronti del tempo e della società in cui si
trova a vivere. Il timore deriva dalla consapevolezza della grandezza degli
ideali professati e dalla conseguente responsabilità, ma la gioia deriva della
stessa fonte e, in particolare, dalla convinzione che quegli ideali non siano
basati solo sulle proprie forze e che, quindi, l’universo, e l’umanità in esso,
sia tratto da una forza irresistibile, non spinto da noi, verso un suo beato compimento. In altre circostanze,
al contrario, timore e gioia non vanno d’accordo, se il primo deriva
dall’incertezza sul futuro, che può anche mettersi molto male, e dalla
considerazione dell’insufficienza delle proprie forze e conseguentemente la gioia, se anche c’è,
finisce per essere piuttosto precaria e minacciata ed è essenzialmente gioia
nell’oggi e anzi addirittura solo
nell’ora corrente. Quella che
scaturisce dal timore religioso è invece gioia per il passato, per il presente
e per il futuro, quindi si basa su
una valutazione complessivamente positiva e fiduciosa della storia. Si fonda su
una considerazione realistica delle cose come vanno, e questa è come si dice
nel lessico attuale la sua laicità,
perché la fede non è solo immaginazione e sentimento, ma anche su una
spiritualità intima e quindi profonda che cambia molto l’atteggiamento che si
ha verso ciò che ci circonda e che, in tanti modi, ci determina, ci interroga,
ci sollecita e, a volte, ci atterrisce. L’animo religioso, di conseguenza, di
fronte ad ogni difficoltà della vita, sia
essa di quelle proprie personali o di quelle di realtà vicine come la
famiglia o l’ambiente umano abituale, come anche su scala maggiore, di quelle
che riguardano la propria città, regione, nazione o, al limite, l’intera
umanità, innanzi tutto si raccoglie nella propria spiritualità per rafforzare
il suo legame con il fondamento beato, in quell’atteggiamento che Dossetti
indica come di devozione filiale,
quindi in una familiarità di relazione con esso che non intacca il sentimento
di stupore e trepidazione di fronte ad un assoluto che si pensa
sorprendentemente animato da amore viscerale, materno, ma anche virile, paterno, nei confronti di noi
umani. Il passo successivo è quello della comprensione
del mondo intorno a sé e poi dell’azione in
esso, nel tentativo di comporre profano e religioso in una esperimento sapienziale nel
proprio tempo, che, senza pretendere di esaurire tutto ciò che si può dire
e fare in merito, rende, e uso concetti espressi nel sussidio Un passo oltre dell’Azione Cattolica,
Editrice A.V.E, 2011, testimoni dell’oltre, vale a dire di
quel fondamento religioso, nell’impegno laicale
nel mondo in cui ci si è trovati a vivere, nell’umanità di cui si è parte,
innanzi tutto nella propria famiglia, poi nel proprio lavoro, poi nelle
istituzioni pubbliche di cui si è partecipi, ad esempio in ciò che si fa come
cittadini (in una città, in una regione, in una nazione, in un’unione
sovranazionale), fino ad arrivare a ciò che deriva dall’essere partecipi
dell’intera umanità in un certo tempo storico, con la conseguente
responsabilità globale in ciò in cui di fatto si influisce su di essa
o si potrebbe farlo o farlo diversamente. Questo è quello che in quel sussidio
si definisce come cattolicità attiva,
che non significa essere nella nostra società una sorta di piazzisti del sacro o di lobbisti
della nostra confessione religiosa (ad esempio per procurarle privilegi ed
esenzioni) o di militi o messi di una
potenza conquistatrice e dominatrice delle anime, ma prendere sul serio l’imperativo
religioso che ci spinge tra le genti per provare a radunarle nel popolo di Dio, in una comunione di vita, di carità e di verità,
insegnando loro ad osservare tutto ciò
che ci è stato comandato, innanzi tutto la legge dell’amore-agàpe.
Questo programma, che ho esposto
brevemente, non è facile da attuare e, innanzi tutto, richiede che si impari a
collaborare con gli altri. L’impegno religioso, come ci è stato ricordato nella lettera apostolica Porta Fidei (2011) con cui è stato
indetto l’Anno della Fede iniziato
l’11 ottobre scorso, non è un fatto
privato. Ecco che in questo può essere interessante l’impegno in Azione
Cattolica. Esso è appunto un impegno,
quindi un’esperienza faticosa i cui risultati non sono del tutto scontati e in
cui gli insegnamenti ricevuti sono solo una
base di partenza negli esercizi di
laicità che si faranno, vale a dire
nello sforzo di comprensione realistica del mondo in cui si vive alla
luce di una spiritualità religiosa. Chi pensasse di trovare in un gruppo di
Azione Cattolica ricette di vita,
personale o comunitaria, già pronte e
ammaestramenti globali su ciò che si deve fare o si deve pensare in ogni
occasione rimarrebbe deluso. Un gruppo di Azione Cattolica non è una sorta di centro addestramento reclute in cui sergenti
maggiori iniziano la gente al servizio in una santa milizia. In Azione
Cattolica si è consapevoli di partecipare a un lavoro comune di ideazione e di
azione di progettazione di un futuro di bene, per noi, per la società in cui
viviamo, per l’intera umanità. In esso ognuno porta i
propri doni in un mutuo scambio che accresce
gli altri, in uno sforzo comune per
promuovere l’unità universale del genere umano a partire dalle realtà più
vicine fino a quella globale.
“[…] la
Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta
l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell’unità dello Spirito con
lui.
[,,,] In virtù di questa cattolicità, le singole parti
portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il
tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per
uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità”
[dalla Costituzione dogmatica Lumen Gentium, n.13, del Concilio Vaticano 2°]
Ora è chiaro, riprendendo il discorso da cui sono
partito, che l’universalità di questo
impegno comune, la sua cattolicità,
la sua effettiva apertura a tutte le
genti alle quali riteniamo di essere stati inviati, dipende dal suo fondamento religioso e quindi da quel timore di cui si diceva, il quale, in particolare,
deve prevenire da ogni tentazione di assolutizzare
una soluzione, un modello, un’esperienza, un cammino, una ideologia, una concezione
filosofica, una spiritualità, un capo, una guida spirituale, un’organizzazione
particolare, e via dicendo: si tratta di una familiarità con l’assoluto
caratterizzata, appunto, da devozione
filiale, nella considerazione che, secondo gli insegnamenti ricevuti, il Regno, quello di cui religiosamente
attendiamo la manifestazione alla fine dei tempi, non è di questo mondo, sebbene sia già presente come in embrione in questo mondo, e pertanto non lo
possiamo mai ritenere pienamente realizzato in nessuna delle nostre ideazioni e
soprattutto non ce ne possiamo mai attribuire la sovranità. Questo, ben lungi dallo
scoraggiare e umiliare, è anche la base
della creatività religiosa nella società e quindi dell’efficacia
della nostra azione comune, che non deve mai cessare di scrutare i segni dei tempi e determinarsi con sapienza di conseguenza,
rinnovandosi incessantemente.
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25
Fare memoria di un’alleanza
(30 ottobre 2012)
“…nell’episodio del
roveto ardente (Es 3,2-6) sul monte Horeb, l’angelo del’Eterno (malakh Adonai)
che appare a Mosè ‘in una fiamma di fuoco’ nel mezzo del roveto che non si
consuma gli dice molto esplicitamente: ‘io sono il Dio di tuo padre, il Dio di
Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe’. La visione dell’angelo è dunque
una teofania. […] L’Invisibile si presenta
di nuovo, sotto la forma di un angelo, per vivificare in Mosé … quella alleanza
‘per le generazioni’ (ledorotam) (Gn 17,9).
[…]
Quella teofania rende visibile all’anima
l’alleanza immemoriale tra Dio e la Sua creazione, alleanza che abitualmente
l’anima non percepisce fintanto che guarda il mondo e le creature che vi si
trovano attraverso una morsa di paura e di collera, di anticipazione avida e
invidiosa, o fintanto che si rassegna alla protezione tragica della rinuncia e
sprezza il desiderio”,
[da: Chaterine Chalier, Angeli
e uomini, Giuntina, 2009, euro 16, pag.19, 20 e 26]
L’altro giorno discutevo di come, per quello
che so, la nostra parrocchia perde la gran parte dei giovani adolescenti e
ventenni iniziati nel catechismo alla vita religiosa e non li recupera più. E,
in effetti, viene il momento in cui, nello sforzo di approfondire i temi della
nostra fede e di ottenere un maggiore impegno, viene detto chiaramente loro,
più o meno esplicitamente, che sono sbagliati, che la loro vita è tutta da
rifare, che devono essere ricostruiti dalle basi, perché hanno toccato il
fondo, in particolare perché vogliono fare l’amore e questo è, per loro che non
sono sposati, peccato mortale. E’
chiaro che a questo punto loro scappano, perché, secondo natura, il loro
mestiere, in quell’epoca della loro vita,
è proprio fare l’amore. Non tollerano di sentirsi in questo come in libertà vigilata e di vivere con rimorso ogni soddisfazione sotto questo
profilo, dovendo immediatamente pentirsene.
Non è più come quando il prete diceva loro di “non toccarsi” e questo poteva essere accettato in un’ottica umana e
religiosa insieme, perché si sentiva che quelle consuetudini, pur nella loro
banalità, sarebbero state superate crescendo e che, anzi, crescere consisteva
proprio nel superarle. Quando poi si cresce, e di solito ad un certo punto si
trova un equilibrio nelle cose dell’amore, il problema si ripresenta sotto un
altro aspetto, perché, quando si riprende in considerazione una prospettiva di
fede, che in molti casi è la fede della propria tradizione familiare, quella
dei “propri padri”, si trova un
ostacolo nella pretesa etica religiosa di non porre ostacoli alla procreazione
e quindi di affrontare l’amore con una fiducia che, ad un animo ragionevole,
può apparire come un gioco d’azzardo, in cui però si punta tutta la propria
vita. E poi, naturalmente, ci sono le difficoltà che sorgono nel caso di crisi
e di fallimento dei matrimoni e di ricostituzione di nuovi rapporti coniugali.
Non sono problemi di oggi, ma di sempre, fin dalle origini, millenni fa, tanto
che si ritrovano nella Bibbia, ma un tempo ci si faceva meno caso, un po’
perché dai laici si tollerava una maggiore ipocrisia, specialmente dai maschi,
e poi perché per la maggior parte delle persone il tirare a campare, in un mondo tutto sommato molto più difficile di
quello dei nostri tempi, sovrastava tutto (con i problemi economici, le guerre,
le malattie inguaribili, la violenza sociale che c’erano). Una certa ideologia
repressiva nei confronti delle donne era poi vista come necessaria al
mantenimento dell’unità delle famiglie e, come contropartita, si era poi più
comprensivi verso di loro, viste come la parte debole e sottomessa di rapporti
personali dominati inevitabilmente dal capriccio degli uomini. Nella nostra
epoca invece, e specialmente dopo il Concilio Vaticano 2°, si pretende dai
laici un’adesione molto più consapevole e coerente in tutti gli aspetti della
vita e questo in un tempo in cui i modelli sessuali e familiari sono in veloce
evoluzione e in cui il successo sessuale viene visto, anche in tarda età, come
manifestazione di affermazione sociale in una società dominata dal consumismo e
dall’esteriorità.
Cari lettori, non
sono un sacerdote. A ognuno la sua parte. Non ho assunto il difficile impegno
di risolvervi quei problemi o anche solo
di aiutarvi in questo dandovi una direzione spirituale. E, lo dico
francamente, non ho in tasca la soluzione per tutti, non saprei proprio come
fare. Se poi volete conoscere la posizione del magistero, vi rimando al Catechismo della Chiesa cattolica. Nella
mia esperienza di solito si riesce ad un certo punto a pacificarsi sotto quei
profili ma si tratta di accomodamenti sempre piuttosto precari che vanno
rivisti di quando in quando, e in questo la pratica sacramentale della
penitenza qualche volta può aiutare. E’ più che altro un esercizio di sapienza umana, non facile, all’esito del
quale, se le cose vanno bene e fintanto che vanno così, ci si compiace anche da
un punto di vista religioso. Ognuno in questo deve essere piuttosto creativo,
non deve aspettarsi che gli altri, anche autorevoli, abbiano modelli di stili
di vita adatti alla sua propria condizione particolare. Lo sviluppo di una
spiritualità adulta, matura, con l’aiuto del sacerdote, è fondamentale in una
prospettiva religiosa. Penso in definitiva che un laico come me, nel
relazionarsi con gli altri intorno a lui, dovrebbe lasciare certi temi alla
coscienza delle persone, nel rispetto della loro dignità umana.
In Azione Cattolica,
specialmente in quest’Anno della Fede
in cui cerchiamo di approfondire le ragioni della nostra appartenenza
religiosa, sentiamo di avere molto bisogno di persone di fede più giovani d’età, che però si tengono ancora
lontane. Non possiamo assicurare loro che in parrocchia non troveranno problemi
sulle questioni delle relazioni sessuali, perché questo è un aspetto della vita
delle persone umane che interroga gli spiriti religiosi e quindi ci si discute
su. Accade anche in altre religioni. Quello che possiamo garantire è che in
Azione Cattolica sarà sempre rispettata la loro dignità umana e che non si
tenterà di imporre loro da parte
nostra, sotto sanzione di esclusione, un certo stile di vita. Come ci è stato
ricordato nel Sinodo dei vescovi che si è concluso domenica scorsa, la Chiesa è la casa di tutti i battezzati,
anche di coloro che, pur sentendosi persone di fede, per tanti motivi non
riescono a vivere in tutto secondo le prescrizioni della morale religiosa
corrente. Su certe cose si ragiona, per cercare insieme soluzioni che poi
ognuno proverà ad applicare nella propria vita, se crede. E possiamo anche dire
che l’impegno in Azione Cattolica non è principalmente diretto a dare
orientamenti sessuali. Esso ha invece maggiormente a che fare con l’idea di
cercare di radunare le persone umane in un popolo nuovo, unito intorno a certi
grandi ideali, che per noi assumono anche una prospettiva religiosa. In questo
viviamo un’epoca propizia, perché nell’Europa di oggi viene data molta
importanza a questo sforzo, tanto che si è prodotto un imponente moto
centripeto di genti verso il nostro continente. Di recente noi europei abbiamo
avuto il Nobel per i tanti decenni di pace che si è riusciti ad ottenere da noi
e la pace è un tema che ha una forte valenza religiosa. L’aspetto peculiare
dell’esperienza religiosa è che essa non cerca di federare le genti sulla base di compromessi di interessi o di uno
scambio di equivalenti, come accade nei contratti commerciali, ma a partire da
un’interiorità che per noi, comprendendo per molti aspetti realtà
soprannaturali, assume il connotato di una spiritualità. Accade, ad un certo
punto, in molte vite che, nel mondo di tutti i giorni, si colga, nella propria
interiorità ma non solo emotivamente perché c’entra anche la ragione, un senso
dello stare insieme dell’umanità che va
oltre quello che ordinariamente guida le nostre azioni e che spesso ci
lascia insoddisfatti. E’, in un certo senso, l’esperienza di Mosè sull’Horeb
evocata nel libro della Chalier. Una interpretazione di quell’episodio è che le
fiamme del roveto fossero immagine di fiamme interiori. Mosè era fuggito
dall’Egitto dopo aver ucciso un sorvegliante che vessava gli ebrei, asserviti
dalla violenza del popolo in cui si erano rifugiati. Nella paura per la propria
sopravvivenza, che lo aveva determinato alla fuga, aveva represso il desiderio
di tornare per attuare la liberazione
di coloro che erano schiavi. E’ a partire dalla sua interiorità che si attua un
suo cambiamento di vita. Egli si sente in esilio nella terra di Madian, il
luogo del suo rifugio, così come l’Egitto del faraone era terra di esilio per
il suo popolo, e ora anche per lui. Egli
vorrebbe agire in favore della sua gente, ma è bloccato dalla paura. La forza
di determinarsi secondo il suo profondo desiderio, vincendo quel timore per la
propria vita, gli viene dalla memoria dell’antica alleanza, che non era un
patto tra potenze terrene, ma con l’Eterno, del quale egli, ad un certo punto,
riesce nuovamente a sentire la voce che chiama all’azione, quindi ad alzarsi e andare.
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26
Azione Cattolica: insieme per promuovere la pace universale
(1 novembre 2012)
Siccome il regno di
Cristo non è di questo mondo (cfr Gv
18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla
sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e
accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò
che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida e le eleva.
[…]
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa
cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale;
a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli
cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza
eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza
[Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)]
Nei mesi di mese di
settembre e ottobre scorso, scrivendo diverse riflessioni sulla costituzione
dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium,
mi sono limitato a riferirmi ai soli numeri 9
e 13 di quel documento, inseriti nel capitolo 2°. Questo può dare
un’idea della vastità delle questioni affrontate in quella grande assemblea,
che segnò un punto di passaggio importante nella storia ecclesiale, dando
inizio a un gran fermento e a sviluppi ancora in corso. Prenderne sufficiente
consapevolezza non è lavoro breve né facile, dato il linguaggio teologico con
cui sono scritti i testi dei documenti che furono allora approvati e diffusi
nel mondo. E tuttavia bisogna tener
conto del monito di quel Concilio, rivolto a noi fedeli cattolici (Lumen Gentium, n.14), della necessità di
corrispondere con il pensiero, con le parole e con le opere all’azione
soprannaturale per la quale, non per nostri meriti, siamo stati pienamente
incorporati nella nostra Chiesa, e questo
sotto pena di essere giudicati più severamente degli altri nel caso di
diserzione.
Il santo
Concilio si rivolge quindi prima di tutto ai fedeli cattolici.
[…]
Si ricordino
bene tutti i figli della Chiesa che la loro privilegiata condizione non va
ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; per cui, se non
vi corrispondono col pensiero, con
le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma
anzi saranno più severamente giudicati.
In quell’elenco di doveri
del fedele, prima viene il pensiero, vale a dire l’ascoltare e il comprendere,
ma anche l’ideare e progettare per il presente e il futuro,
propri e delle collettività delle quali si è partecipi. Poi viene l’interloquire
con gli altri e l’operare: nella visione conciliare
questa parte deve farsi collaborando con tutte le persone bene intenzionate,
anche al di fuori del nostro contesto religioso (“sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine
tutti gli uomini senza eccezione”, brano della Lumen Gentium citato all’inizio).
Questo impegno ideale e sociale rientra in quelli in cui l’Azione Cattolica si
sente da sempre particolarmente coinvolta.
Per quanto l’Azione
Cattolica com’è oggi sia stata istituita e regolata dall’autorità ecclesiale,
quindi dai papi e dai vescovi, sia pure con l’importante partecipazione degli
associati nelle forme statutarie, essa storicamente nacque, visse e tuttora
vive per iniziativa e impulso della società dei fedeli laici, mossi in
particolare dall’esigenza di pensare e di attuare, sulla base delle idealità
religiose, modi nuovi per influire come
collettività sulle società dei tempi in cui le persone di fede si trovano
inserite e specialmente su quelle con organizzazione democratica. Essa può
considerarsi espressione di quel grande movimento di popolo che dalla fine del
Settecento si è espresso in varie forme per una più larga partecipazione delle
genti alla determinazione dei destini dell’umanità, quindi per il passaggio
delle persone dalla semplice condizione di sudditi all’altrui potere alla
condizione di cittadinanza democratica. Per altro il coinvolgimento popolare
venne visto all’inizio in funzione
essenzialmente difensiva di un ordine
sociale nel quale la Chiesa era storicamente bene inserita, con privilegi, esenzioni e uno
spazio riconosciuto di autorità e di libertà, quindi, per semplificare, contro
i fermenti liberali e socialisti che si andavano largamente diffondendo a
partire dall’Ottocento. Questa impostazione
si andò rafforzando dopo la rivoluzione sovietica attuata nei domini
dell’Impero russo. Diciamo che a lungo l’esperienza democratica venne
considerata con un certo sospetto
dall’autorità gerarchica della Chiesa. Questa posizione mutò dopo l’esperienza
storica dei fascismi europei e la catastrofe della Seconda guerra mondiale. Fu
allora che i capi della nostra Chiesa cominciarono a chiedersi se la democrazia
sarebbe potuta essere un valido ostacolo a quei disastri. Come ho spesso
ricordato, questo punto di svolta si manifestò nel radio messaggio natalizio
del papa Pio 12° del 1944:
Il
problema della democrazia
[…] Queste moltitudini,
irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi
invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile
— che, se non fosse mancata la
possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il
mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che
affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre
creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
La pace universale ha
sicuramente una valenza religiosa, come è ricordato nel passo della Lumen gentium che ho citato all’inizio. Nel mondo di oggi,
ed è la prima volta che accade, si pensa concretamente di poterla attuare con
una diversa organizzazione globale dell’umanità, sfruttando le opportunità che
derivano da quattro fattori: assetto democratico delle istituzioni, miglioramento generalizzato delle condizioni
di vita determinato anche da una più equa distribuzione delle risorse
consentita in ordinamenti democratici, miglioramento
diffuso dell’istruzione ricercato anche per l’esigenza di consentire la più
larga partecipazione alla vita sociale democratica, effettività di un sistema universale di diritti umani, sul quale i
sistemi politici democratici di fondano. Anche la Chiesa dei nostri tempi crede
in queste potenzialità:
57. Il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che rendere più efficace
l'opera della carità nel sociale e costituisce la cornice più appropriata per
incentivare la collaborazione fraterna
tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per
la giustizia e la pace dell'umanità. Nella Costituzione pastorale Gaudium et
spes i Padri conciliari
affermavano: « Credenti e non credenti sono generalmente d'accordo nel ritenere
che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all'uomo, come a suo
centro e a suo vertice ». Per i credenti, il mondo non è frutto del caso né
della necessità, ma di un progetto di Dio. Nasce di qui il dovere che i
credenti hanno di unire i loro sforzi con tutti gli uomini e le donne di buona
volontà di altre religioni o non credenti, affinché questo nostro mondo
corrisponda effettivamente al progetto divino: vivere come una famiglia, sotto
lo sguardo del Creatore.
[Dall’enciclica Caritas in veritate – Amore
nella verità (2009), del papa Benedetto 16°]
Non bisogna fraintendere
pensando che la straordinaria opportunità storica che ci si è aperta sia una
manifestazione dell’avvento del Regno beato che religiosamente stiamo
attendendo. Sappiamo che quel Regno non è di questo mondo. Questo significa che
esso non può in alcun modo confondersi con alcuna delle nostre realizzazioni,
anche con le più grandi. A volta si è tentati di farlo. E’ accaduto, ad
esempio, nel ’91, con la fine dell’Unione Sovietica, organizzazione politica
imperiale che in tutta la sua storia ha costituito un ostacolo micidiale per le
Chiese cristiane. Ma si è visto che quello che ne è uscito è il consueto
insieme di grano e zizzania, di bene
e di male, che troviamo da sempre in ogni società umana e in ogni persona.
Ricordo ciò che sostenne Dossetti un suo celebre intervento pubblico del 1987,
pubblicato nel libretto Eucaristia e
città, Editrice A.V.E., 2011 (pagine 45 e 46):
Il regno di Dio è Regno dei
cieli: e quindi viene dall’alto, per
volontà e opera di Dio. Non si realizza e neppure si prepara o si affretta per sinergia umana. E’ un fatto
assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene comune, architettonicamente
sommo, che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.
Il Regno giunge a noi, senza di noi [… ] per
un decreto del Padre, in un momento imprevedibile “che il Padre ha riservato
alla sua potestà (At 1,6-7).
E allora sarà non il coronamento della storia,
ma la rottura della storia, semplicemente il suo troncamento, “in ictu oculi” [trad. mia “in un batter
d’occhio”] (1Cor 15,52).
Sentiamo però nostro
dovere religioso di scrutare i segni dei
tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo (espressione che si trova
nell’enciclica pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes – La gioia e la speranza – n.4)
per scoprire in concreto quale sia il
nostro dovere oggi, per noi che siamo stati mandati nel mondo per radunare
le sue genti come in un’unica famiglia
umana (encicl.Caritas in veritate, n.53)
in una comunione di vita, di carità e di
verità (cost. Lumen gentium, n.9).
Come non
cessano di rammentarci il papa e i nostri vescovi, il sistema dei diritti umani
fondamentali sul quale si basano le democrazie contemporanee ha fondamento
religioso e, in particolare, fondamento religioso cristiano. Su che base,
altrimenti, può essere riconosciuto che esseri umani tanto diversi per etnie,
culture, religioni, lingue, condizioni sociali, ricchezze e altre importanti differenziazioni, quali
sono gli abitanti della Terra, hanno uguale
dignità e quindi sono titolari di
quei diritti umani fondamentali? Fondamento religioso significa soprannaturale,
vale a dire a prescindere da quello che si osserva in natura. La derivazione
cristiana del fondamento sta nel fatto che l’ordine soprannaturale al quale fa
riferimento è caratterizzato da amore
oblativo e viscerale, al modo dei genitori –padre/madre- per i loro figli, e
tuttavia universale, per tutti, oltre ogni differenziazione e
ogni divisione. Ebbene, quel fondamento religioso di principi di civiltà
che si sta cercando di attuare globalmente ci indica con chiarezza una via
importante di impegno cristiano (non l’unica). Perché, come ci è stato
ricordato due domeniche fa da un sacerdote missionario, i cristiani, cattolici
e di altre Chiese, sono una minoranza sulla Terra, circa il 15% dell’intera
popolazione umana. E’ veramente impressionante quindi che, nonostante ciò e
nonostante le stragi, vessazioni, oppressioni perpetrate nei secoli passati da nazioni sedicenti cristiane, certi valori
della nostra fede improntino ancora così profondamente la nostra civiltà a
livello globale. In questo si può senz’altro vedere la manifestazione del
disegno provvidenziale, senza però nascondersi che la realizzazione storica di quei valori è seriamente minacciata. Essa
è infatti opera umana e, come tale, suscettibile di degrado e di estinzione. La
storia dell’umanità non è infatti necessariamente una storia di progresso, come
dimostra il medioevo europeo, e,
senza un valido impegno di sufficienti forze umane che amano quei valori
e sono disposte a rischiare anche la propria vita nella lotta per essi, può prendere un altro corso. L’ideologia dei
diritti umani fondamentali regge infatti
le democrazie contemporanee e queste ultime rendono credibile la prospettiva di
una pace universale, per il tramite di una giustizia sociale che mantenga in
concreto, estenda o ristabilisca l’uguale
dignità degli esseri umani. L’Azione cattolica è schierata per la pace e la
giustizia universale e intende lavorare con particolare impegno in questo
campo. La nostra Chiesa, con il Concilio Vaticano 2°, ha rimosso ogni ostacolo
che, per incrostazioni storiche, poteva ostacolare al suo interno la riscoperta
e l’attuazione di tutte le potenzialità dell’antica dottrina della paternità
divina universale. Ad esempio la grave storica inimicizia verso le persone di
altre religioni, innanzi tutto gli ebrei e i cristiani di altre confessioni, e i
non credenti. Ecco come si esprime la costituzione pastorale Gaudium et spes:
Il rispetto e l'amore deve
estendersi pure a coloro che pensano od operano diversamente da noi nelle cose
sociali, politiche e persino religiose, poiché con quanta maggiore umanità e
amore penetreremo nei loro modi di vedere, tanto più facilmente potremo con
loro iniziare un dialogo.
Certamente tale amore e amabilità non devono
in alcun modo renderci indifferenti verso la verità e il bene. Anzi è l'amore
stesso che spinge i discepoli di Cristo ad annunziare a tutti gli uomini la
verità che salva. Ma occorre distinguere tra errore, sempre da rifiutarsi, ed
errante, che conserva sempre la dignità di persona, anche quando è macchiato da
false o insufficienti nozioni religiose.
Solo Dio è giudice e
scrutatore dei cuori; perciò ci vieta di giudicare la colpevolezza interiore di
chiunque. La dottrina del Cristo esige che noi perdoniamo anche le
ingiurie e il precetto dell'amore si
estende a tutti i nemici; questo è il comandamento della nuova legge: «Udiste
che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico:
amate i vostri nemici e fate del bene a coloro che vi odiano e pregate per i
vostri persecutori e calunniatori » (Mt5,43).
[Gaudium et Spes, n.28]
La Chiesa, poi, pur respingendo in maniera assoluta
l'ateismo, tuttavia riconosce sinceramente che tutti gli uomini, credenti e non
credenti, devono contribuire alla giusta costruzione di questo mondo, entro il
quale si trovano a vivere insieme: ciò, sicuramente, non può avvenire senza un
leale e prudente dialogo. Essa pertanto deplora la discriminazione tra credenti
e non credenti che alcune autorità civili ingiustamente introducono, a danno
dei diritti fondamentali della persona umana. [Gaudium et spes
n.21]
Passando a trattare della nostra
microscopica, sotto un certo profilo, realtà di gruppo di Azione Cattolica in
San Clemente papa, può sembrare che l’impegno del quale ho trattato sia
manifestamente sproporzionato alle nostra forze. E’ un’impressione sbagliata:
infatti l’apocalittica battaglia che decide le sorti dell’umanità del nostro
tempo passa anche per quella piccola parte del mondo in cui abbiamo voce, nelle
nostre famiglie, nel nostro quartiere, nei nostri luoghi di lavoro. Partecipare al nostro lavoro comune in Azione
Cattolica è uno dei modi in cui ci si può preparare per fare la nostra parte
nella direzione che in religione ci è indicata. Come ho detto si tratta infatti
di esprimere una sapienza umana, una
creativa e sapida integrazione di conoscenze profane e di spiritualità per
ideare e realizzare opere che, in quanto riguardanti il mondo fuori dello
spazio liturgico, spettano principalmente a noi fedeli laici. Ma da soli in questo si va poco lontano. Le
prospettive umane individuali sono infatti sempre limitate. Queste cose fanno
affrontate insieme, per arricchirsi
dei punti di vista, della cultura, della fede, delle strategie altrui e anche
per farsi coraggio a vicenda nelle difficoltà e negli insuccessi. E’ così che i
cristiani hanno fatto sin dalle origini.
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27
Un nuovo modello globale di organizzazione e convivenza dell’umanità.
Il modello della famiglia umana.
(2 novembre 2012)
Per molti versi
l’umanità contemporanea si viene organizzando
sulla base di principi religiosi cristiani. Religiosi perché non basati sull’osservazione di come va la natura,
quindi nel senso di soprannaturali. Cristiani perché improntati all’idea di pari dignità di ogni persona umana e ad
una solidarietà compassionevole verso chi
sta peggio. Questo può sembrare paradossale nel momento in cui le Chiese
cristiane registrano una crisi grave delle adesioni nelle società umane più
avanzate, quelle da cui scaturiscano i modelli organizzativi su grande scala.
in realtà non è la visione religiosa delle cose che ha perduto credito
popolare, ma il fondamento mitologico
dell’autorità religiosa, per cui c’è chi si presenta come autorizzato ad
imporre agli altri stili di vita parlando per conto del mondo soprannaturale.
Questo equivale a dire che ai tempi nostri ha meno forza nelle grandi religioni
storiche dell’umanità l’uniformità intesa
come sudditanza ad una autorità sacrale. Di questo fenomeno, da non confondere con la secolarizzazione, vale a dire con
l’indifferenza verso il soprannaturale, si è presa coscienza ai tempi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) e si è
cercato di rimediarvi recuperando, e in un certo senso strutturando
innovativamente per renderla praticabile nella contemporaneità, la concezione
religiosa dell’umanità come popolo di Dio,
basata su un’uniformità fondata su
principi condivisi. In questo contesto l’autorità perde una certa
connotazione di arbitrarietà che era
venuta storicamente ad assumere e si propone come servizio alla verità, per promuovere quel nuovo tipo di uniformità.
Si tratta di un’esperienza che tutti noi fedeli di oggi, se ci pensiamo bene,
abbiamo vissuto nella nostra esperienza di Chiesa, anche in quella
parrocchiale.
Un modello alternativo di organizzazione globale
dell’umanità è quello basato sul riconoscimento delle differenze tra le stirpi
e le società umane e la competizione tra di esse perché emergano le migliori e,
in particolare, una umanità migliore, nel senso di fisicamente, spiritualmente
e intellettualmente più performante e società più potenti e ricche. In questa
prospettiva non tutte le persone umane hanno pari dignità. Questo modello ha
improntato di sé la colonizzazione europea dell’Africa e delle Americhe. Esso
quindi storicamente ha convissuto con il cristianesimo, che pure è fondato su
principi opposti. Il punto di conciliazione tra le due opposte visioni della
vita è stato il concepire la colonizzazione
come evangelizzazione. Il contrasto
tra di esse è emerso con forza quando, all’inizio della colonizzazione delle
Americhe, nel Cinquecento, ci si è resi conto che la colonizzazione stava portando allo sterminio degli amerindi, dei nativi
americani. Analoghi scrupoli sono emersi molto più tardi riguardo allo
schiavismo contro le popolazioni nere dell’Africa.
Il modello basato
sulla diversa dignità delle vite umane e sulla competizione tra stirpi e
società umane si ritrova nella concezione politica nazionalsocialista tedesca
tra le due guerre mondiali. Su di essa venne costruita anche una mistica
religiosa, per giustificare la pretesa di prevalenza del tipo umano
ariano-germanico.
Concezioni basate su
idee in qualche modo analoghe si rinvengono in alcune dottrine economiche
correnti anche oggi, ma senza connotati religiosi espliciti. Ci si rifà ad
estensioni del modello di evoluzione delle stirpi umane basato sulla
sopravvivenza del più adatto proposto da Charles Darwin (1808-1882): queste
ideologie sono chiamate neodarwiniane.
Dopo la catastrofe
della Seconda guerra mondiale (1939-1945) prevalse l’ideologia della pari dignità umana e della solidarietà mondiale per la pace e lo
sviluppo. Essa si rinviene nei documenti del Concilio Vaticano 2°. Ci troviamo quindi a vivere una straordinaria
opportunità per il cristianesimo, in un mondo in cui i principi religiosi cristiani
sono divenuti legge globale dell’umanità. Naturalmente ciò è avvenuto senza
che la nostra religione in sé, quindi con quella che al di fuori delle Chiese
cristiane può essere considerata la sua mitologia
e con la sua organizzazione gerarchica
sacrale, sia stata nuovamente imposta
in qualche modo alle società umane del nostro tempo. Questo
può essere spiegato in vari modi. Innanzi tutto l’esperienza storica europea
aveva dimostrato che il confessionalismo religioso era stato fonte di
sanguinose divisioni. Poi, in un mondo
in cui prendeva piede l’idea di una unità e di una pace fondata su una
solidarietà sorretta da principi diffusi
tra la gente, le autorità religiose non avevano sufficiente consenso popolare.
E, infine, l’idea di una imposizione alle
coscienze contrastava con la comune
dignità umana sulla quale si voleva costruire un futuro finalmente
pacificato, pacifico e pacificante. Può sembrare pericoloso l’aver affidato
grande idealità a fondamento religioso alle masse, ma, almeno da noi in Europa,
questa si è rivelata una buona scelta, visti i sessantasette anni di pace che
abbiamo costruito insieme, una cosa mai
vista nella storia dell’umanità e per la quale ci hanno dato il premio
Nobel.
Poiché stiamo vivendo qualcosa di veramente
nuovo, c’è il problema di pensare e attuare forme di organizzazioni
dell’umanità che rendano stabile il nuovo modello. E’ il lavoro che è in corso da molte parti e, in particolare,
da noi in Europa, verso la quale si è prodotto un gigantesco movimento
centripeto che addirittura ha coinvolto un nostro storico nemico come la
Turchia, erede dell’Impero Ottomano.
La più recente
dottrina sociale della Chiesa, diciamo dal 1944 in avanti, si è spesa molto
nello sforzo di suggerire nuovi modelli di convivenza umana in linea con i nuovi
principi diretti al mantenimento della pace mondiale e allo sviluppo globale di
tutti i popoli. Uno dei più recenti e
importanti contributi è l’enciclica Caritas
in veritate (2009) del papa Benedetto 16°. In essa è proposto il modello dell’umanità intera come famiglia. Si veda ad esempio,al n.7 di quel documento:
Quando la carità lo anima, l'impegno
per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell'impegno soltanto
secolare e politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso s'inscrive in quella
testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara l'eterno.
L'azione dell'uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità,
contribuisce all'edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana. In una società in via
di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non possono non
assumere le dimensioni dell'intera famiglia
umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni, così da dare forma di unità e di pace alla città dell'uomo, e renderla in
qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio.
Questo modello che possiamo dire della famiglia umana, piuttosto
evocativo, presenta alcuni aspetti critici.
Esso si presenta fin
dalle origini della dottrina sociale
della Chiesa, sebbene con minore forza dei tempi più recenti:
Dal passato possiamo prudentemente prevedere
l'avvenire. Le umane generazioni si succedono, ma le pagine della loro storia
si rassomigliano grandemente, perché gli avvenimenti sono governati da quella
Provvidenza suprema la quale volge e indirizza tutte le umane vicende a quel
fine che ella si prefisse nella creazione della umana famiglia.
[Enciclica Rerum novarum (1981)
del papa Leone 13°]
Nella Costituzione Gaudium et spes, del
Concilio Vaticano 2°:
Per questo il Concilio Vaticano II,
avendo penetrato più a fondo il mistero della Chiesa, non esita ora a rivolgere
la sua parola non più ai soli figli della Chiesa e a tutti coloro che invocano
il nome di Cristo, ma a tutti gli uomini. A tutti vuol esporre come esso
intende la presenza e l'azione della Chiesa nel mondo contemporaneo. Il mondo
che esso ha presente è perciò quello degli uomini, ossia l'intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro
le quali essa vive; il mondo che è teatro della storia del genere umano, e reca
i segni degli sforzi dell'uomo, delle sue sconfitte e delle sue vittorie; il
mondo che i cristiani credono creato e conservato in esistenza dall'amore del
Creatore: esso è caduto, certo, sotto la schiavitù del peccato, ma il Cristo,
con la croce e la risurrezione ha spezzato il potere del Maligno e l'ha
liberato e destinato, secondo il proposito divino, a trasformarsi e a giungere
al suo compimento.
Un primo problema sta in questo:
il modello dell’umanità come famiglia richiama
l’esperienza della famiglia come forma di società naturale basata sulla propensione
sessuale delle persone, su finalità di procreazione
e di cura della prole e su una gerarchia
parentale che regola la solidarietà
familiare. Ora, le società umane più vaste come le nazioni o le unioni
sovranazionali si basano su altri principi. In particolare in esse si fanno più
labili le relazioni profonde tra gli individui, per cui esse richiedono una organizzazione politica che è costruita, non presupposta. Inoltre la
solidarietà sulla quale si fonda il loro ordinamento pacifico non scaturisce, se non ideologicamente, da un legame di stirpe. Infine la
difficoltà più seria di tutte: la
famiglia naturale non è una società democratica
e si ritiene, nel nuovo ordine di idee oggi prevalente, che la democrazia
sia indispensabile per il mantenimento della pace universale. Il problema si
propone con estrema forza quando si passa a ragionare dell’intera umanità, fatta di circa otto miliardi di
individui.
E c’è dell’altro.
La nuova
organizzazione che si vuole costruire a livello mondiale deve essere stabile,
quindi destinata a durare per diverse generazioni. La famiglia come piccola
società naturale basata sulla propensione sessuale è destinata fondamentalmente
ad esaurirsi in non più di due generazioni. Delle precedenti si ha labile
memoria, salvo che, per ragioni di casta o di dinastia, ci si incaponisca a
mantenerla. Di solito solo due generazioni sono tra di loro contemporanee, raro
che lo siano i trisnonni.
Le famiglie, inoltre, non
sempre sono società pacifiche e fondate sulla uguale dignità dei propri membri.
Non si dice forse “fratelli, coltelli”? Nella mia esperienza di pratico del
diritto, certe controversie ereditarie tra parenti sono acerrime e
incomponibili.
Infine: i modelli
familiari sono in rapida evoluzione. Di fatto nelle società umane contemporanee
più progredite si viene affermando un modello di famiglia parentale di durata limitata, in molti casi con un solo genitore, e, con l’affermarsi
sociale delle famiglie basate su propensione omosessuale e il diffondersi della
poligamia, si viene creando nel mondo in cui viviamo una pluralità di tipi di famiglia. Quindi la forza evocativa dell’analogia tra la famiglia parentale e la
convivenza dell’intera umanità viene
scemando. Non do qui una valutazione etica del fenomeno, ed è chiaro che
secondo la nostra morale religiosa esso è visto come negativo: sto solo
descrivendolo.
In una prospettiva
religiosa, il modello dell’umanità come famiglia presenta un pregio per la
nostra gerarchia ecclesiale. Esso consiste in questo: essa intende esprimere
una autorità paterna (“papa”, ad
esempio, deriva da un termine greco che significa “padre”); in un’ottica di
analogia familistica essa può quindi presentarsi come fondata su basi naturali,
a prescindere da un consenso della base. Esso però ha anche un altro pregio,
per tutti noi, che lo rende tutto sommato effettivamente appropriato, pur
bisognevole di precisazioni: richiama l’idea di solidarietà incondizionata e
oblativa, fino al rischio della propria vita, nella buona e nella cattiva
sorte, qualcosa di più della semplice amicizia.
Ho parlato di modelli universali, ma si tratta di cose
che vanno costruite sperimentalmente anche a partire da scale molto più
piccole, addirittura microscopiche, come ad esempio può essere considerato, a
confronto con l’intera umanità, il nostro gruppo parrocchiale di Azione
Cattolica. Come viviamo la nostra appartenenza? Parlando con diversi
soci ho avvertito in loro la nostalgia
di tempi in cui le relazioni associative erano più forti. E, d’altra parte, relazioni più forti
significano anche condizionamenti più
forti e, crescendo, si diventa sempre un po’ intolleranti verso cose
simili. Vale la pena di ragionarci su?
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28
Realtà invisibili
(3 novembre 2012)
Fondamentale carattere
della scienza moderna è la capacità di varcare i confini del visibile.
Nessuno ha mai visto un fotone [particella
di energia luminosa]. Nessuno vedrà mai
un sequenza cistronica [parte dell’RNA messaggero, una molecola che svolge
funzioni nella costruzione delle cellule organiche]. Tali entità sono reali, ma ricostruite da una laboriosa indaffarata
convivenza tra prove sperimentali e attività ipotetiche della mente. Essi sono
invisibili disvelati agli occhi dell’intelletto […]. Nella sociologia ci
troviamo in una situazione terribilmente arretrata. Siamo ancora timorosi nel
compiere il salto verso l’invisibile,
già compiuto da duemila anni nella matematica e da oltre cento anni nella
fisica”.
[passo tratto da un articolo di Giorgio Prodi, Lineamenti di una sociologia degli invisibili, citato nel libretto
Giuseppe Dossetti, Eucaristia e Città,
Editrice A.V.E., 2011, a pag.66]
Può accadere che noi
persone di fede si sia presi in giro o, comunque, sottogamba perché ci
occupiamo anche di realtà invisibili. Ci sono uomini di cultura che considerano
la Bibbia e molte altre storie che circolano in religione come delle fiabe.
Altri, pur con meno scienza, fanno loro eco e ci accusano di credulità. Ma,
nella mia esperienza, l’atteggiamento dei più non è di questo tipo. Di solito
infatti la gente crede nel soprannaturale, in genere perché trova più facile
spiegare in quel modo ciò che le accade. Ma trova difficoltà nel credere in un
dio amorevole, benevolo. Pare più rispondente alla realtà di tutti i giorni
l’esistenza di geni, demoni o folletti, e simili, che possono essere favorevoli
o avversi, secondo il loro capriccio. Questa può essere considerata una
religiosità di tipo naturalistico, che risale ai primordi della vita sociale
umana, quando si riteneva che ogni manifestazione del mondo intorno agli esseri
umani fosse mossa da un dio. Essa poi si sviluppò nel politeismo dell’antica
religione latina e greca, che precedette il successo del cristianesimo in
Europa, nel Vicino Oriente e nel Nord Africa e fu da esso combattuta ed
estirpata, almeno nelle sue manifestazioni pubbliche e nelle istituzioni.
Nell’antica Preneste, l’attuale Palestrina, nei dintorni di Roma, venne edificato un grande santuario alla dea Fortuna primigenia, molto venerata dagli
antichi romani. In certi accaniti giocatori alle lotterie e simili, che vediamo
anche nel nostro quartiere, potremmo in un certo senso riconoscere dei seguaci
di quell’antico culto. Come spiegare altrimenti tanta passione in giochi in cui le probabilità matematiche di
vincita sono tanto basse?
Certamente senza un
legame con l’invisibile la nostra non sarebbe una religione. Secondo la nostra
fede, tutto ciò che esiste è stato creato
da una divinità che ama noi esseri umani con amore di padre/madre e questo
nonostante le nostre imperfezioni e, in particolare, la nostra cattiveria.
Questa convinzione trova molte smentite nella realtà naturale. E’ quindi una
fede soprannaturale, che ci porta
a rettificare abbastanza ciò che si
osserva nella natura intorno a noi e
in noi. Lì dove la vita appare ad un certo punto finire, noi, ad esempio, siamo
convinti di una vita eterna.
L’esistenza degli esseri viventi appare dominata dalla violenza. Gli animali si
mangiano gli uni gli altri e anche noi ci nutriamo di altri viventi. Le terre
emerse si spostano generando terremoti. Oceani appaiono e scompaiono. Le stesse
stelle collidono o esplodono. Noi però siamo convinti, per fede, che tutto ciò
avrà, alla fine dei tempi, un compimento beato. Il mondo in cui viviamo
sparirà, certo, ma sarà sostituito da un mondo diverso, preparato per noi e
promesso. Esso non sarà però opera nostra, ma dell’amorevole potenza creatrice
dalla quale deriviamo. Dossetti nel discorso da cui è scaturito quel libretto
che ho sopra citato, invita a non metterla troppo semplice parlando di questo
con gli altri, come se tutto fosse ovvio, chiaro, scontato. La fede, che in
genere da bambini si acquisisce con una certa facilità, confidando nei propri
genitori e nelle persone da loro accreditate, crescendo è messa alla prova. La
religione serve appunto a custodirla e a rafforzarla.
Come ho osservato in
altre occasioni, l’aspetto che va costantemente e sapientemente curato, come
quando, da bambini, si difende pazientemente un castello di sabbia costruito
sulla riva del mare, che l’acqua tende costantemente a sciogliere avanzando
verso la terraferma, non è tanto la convinzione che Dio c’è. Spesso i “non credenti” partono da questo, parlando con le
persone di fede, e trovano poca soddisfazione. Certo, noi portiamo argomenti
razionali a sostegno dell’esistenza del nostro Dio, ma egli rimane pur sempre invisibile. Chi può negarlo? E’ la
stessa Bibbia che a dircelo chiaramente.
Scrive Dossetti, nel
libretto sopra citato, a proposito
dell’Eucaristia:
Il mistero cultuale rende oggettivamente
presente l’evento del sacrificio di Cristo, ma contemporaneamente lo vela:
debbo trapassare il velo e questo mi è possibile solo nella fede, che mi fa
andare oltre le apparenze sensibili e oltre il tempo […]
Nella mia esperienza
di fede, ad un certo punto, viene una voce che noi siamo capaci di udire; viene
dalla storia umana tramite la Chiesa, che l’ha fedelmente custodita nei secoli,
e reca buone notizie. Ci parla infatti di un creatore amorevole e suscita in
noi, nel nostro animo, nella nostra interiorità, una risposta, perché appunto
quella voce è ciò che si attendeva da sempre di ascoltare. E’ stato notato che
noi, nell’evo presente, non vediamo, ma possiamo udire. Detto in termini
esplicitamente religiosi, questo denota l’importanza che attribuiamo a ciò che
sinteticamente definiamo la Parola,
vale a dire a quello che religiosamente ascoltiamo e che ci narra delle realtà
invisibili che sorreggono le nostre vite. Nell’esperienza religiosa è questo che è centrale, come spesso ci
ricorda anche il nostro assistente ecclesiastico nelle nostre riunioni:
ascoltare e comprendere la Parola.
Questa relazione che
abbiamo con il soprannaturale ci cambia e ci arricchisce nello spirito, ma non
ci aggiusta le cose nel mondo in cui
viviamo, che continua ad andare come deve andare in base alle sue dinamiche
naturali. La nostra fede infatti non ha nulla a che fare con la magia. Non
portiamo un dio dalla nostra parte negli affari che abbiamo in corso in società
e riguardo ai problemi che abbiamo con la natura, innanzi tutto con i nostri
corpi, che infatti ad un certo punto ci danno qualche dispiacere, e sempre di
più invecchiando. Attendiamo invece un beato compimento che è completamente
nelle mani di colui nel quale religiosamente confidiamo e al di là di ogni
nostra immaginazione. Non tentiamo di portare un dio sulle nostre vie, ma
cerchiamo la nostra strada verso colui che ci chiama, ci trae a sé e ci attende
alla fine della storia dell’universo.
In conclusione:
quando ci mettiamo a immaginare nuove organizzazioni sociali, anche al fine di
corrispondere a quella benevolenza
soprannaturale che ci sovrasta e ci colma, non dobbiamo dimenticare che il
punto di partenza, sia come individui che nei nostri gruppi, è nella
realizzazione di una spiritualità, lavoro questo non facile perché non si
tratta solo di tirar fuori cose da noi stessi, in particolare dalla nostra
immaginazione e dalla nostra emotività,
ma di inserirci in una tradizione molto antica dalla quale la
Parola è scaturita per noi. Per questo è
stata istituita la Chiesa della quale siamo parte viva, essa stessa realtà
visibile e invisibile, punto di contatto e di mediazione tra il visibile e
l’invisibile.
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29
A occhi aperti
(5 novembre 2012)
“Condizione di qualunque progetto da parte di gruppi cristiani
[…]
Occorre … che siano adempiute molto più di
quanto non sia stato finora tre condizioni precise:
-che questo progetto
sia non solo nominalmente, dire per una “pia fraus” [trad.: per una bugia a
buon fine], ideato e perseguito anche
praticamente, in modo totalmente distinto dalla comunità di fede;
-che esso abbia una
sua genialità creativa (cioè non sia solo una rimasticatura di dottrina e
progetti altrove nati) e abbia una sua validità storica, risponda cioè ad un
momento reale della storia, interpretato non solo con scienza (cioè con
l’intelligenza), ma anche con sapienza (cioè con l’intuizione);
-e che infine esso
nasca da un senso di giustizia disinteressata e soprattutto di carità genuina
verso i compartecipi sociali, specialmente verso le categorie evangeliche
privilegiate (i poveri, gli umili, i piccoli).”
[da: Giuseppe Dossetti, Eucaristia
e città, Editrice A.V.E., 2011, euro 8,00, pag.57]
Nel momento in cui a
noi laici viene richiesto di influire sulla società del nostro tempo per
promuovere certi valori che hanno un
fondamento religioso, dobbiamo chiederci come farlo. Infatti i cristiani
storicamente hanno a lungo improntato della loro fede le civiltà in cui si
trovavano a vivere, in Europa almeno fin dal quarto secolo della nostra era, ma
non tutti i modi in cui lo hanno fatto sono oggi praticabili, sia da un punto
di vista oggettivo, delle forze in campo, sia da un punto di vista etico. Oggi,
ad esempio, non ci affideremmo in questo a un imperatore cristiano o anche solo a una dinastia monarchica cattolica. E non accetteremmo di imporre
alla gente la fede cristiana sotto pena di
sanzioni criminali. Né lanceremmo una crociata contro popolazioni di
scismatici. Si tratta di forme di intervento dei cristiani nelle società del
loro tempo che sono state storicamente attuate. Ai tempi nostri in genere la si
pensa diversamente. Ma non è solo questione del senso comune, dell’opinione
corrente, ma è proprio la nostra Chiesa che si è data leggi diverse, che le
vietano quelle vie. Sono regole che troviamo nei documenti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), i
quali, come ho ricordato varie volte in precedenza, non sono solo testi
edificanti e istruttivi, ma leggi. Per alcuni di essi lo rivela il nome stesso
che è stato dato loro: costituzioni,
decreti. Ma anche quelli che sono stati denominati dichiarazioni hanno la stessa natura. E si tratta di leggi che,
promanando dal Papa in unione con un Concilio ecumenico, hanno una particolare
forza. Queste leggi, nonostante che nella loro stesura si sia avuta particolare
cura nell’evidenziare la continuità con il pensiero precedente dei capi della
nostra Chiesa, con le idee dei più autorevoli scrittori religiosi dei primi
secoli, con le liturgie praticate fin da tempi molto antichi e,
naturalmente, con le Scritture sacre,
divergono molto, quanto alle indicazioni operative, concrete, con quelle che
ebbero vigore in altre epoche della nostra confessione religiosa. La fede è
rimasta sostanzialmente la medesima, ma il modo di vivere dei cristiani nella
storia è molto cambiato. Per altro, a mio parere, il Concilio Vaticano 2° non ha inventato
nulla di ciò che di nuovo si è prodotto. Nelle intenzioni del papa Giovanni
23°, il quale lo indisse, esso aveva come scopo principale un aggiornamento delle leggi della Chiesa a
una realtà che già i fedeli stavano
vivendo e praticando. Il risultato fu però qualcosa di più: quelle leggi furono
concepite in modo da imprimere un movimento
in avanti nel corpo ecclesiale, rendendo possibili ulteriori sviluppi delle
dinamiche in atto, che infatti si produssero. Il magistero e l’azione di
governo del papa Giovanni Paolo 2° ne sono stati straordinarie manifestazioni.
Ma ancora più rilevante, anche se forse meno evidenziata nelle grandi fonti
informative del nostro tempo, è stata la spinta che si è creata nella masse dei
fedeli. C’è stata, nella nostra Chiesa, un profondo mutamento della religiosità
popolare, del quale di solito si sottolineano gli aspetti negativi, ma che ne
ha avuti anche di positivi.
Vorrei evitare, in
queste mie brevi note quotidiane, di ripetere cose che potete leggere, scritte
meglio, con più scienza, in altri testi, ai quali rimando. Ragiono partendo
dalla mia personale esperienza, tenendo presenti le esigenze di lavoro del
nostro gruppo di A.C. . Quello che penso di poter dire è questo. A partire
dalla metà del secolo scorso il ruolo delle masse cattoliche, in particolare
dei laici, è diventato più importante
nella nostra Chiesa. Si richiede alla nostra gente un impegno nella società che
prima non era preteso e veniva addirittura visto con sospetto. Lo si vuole
informato e consapevole. Ma non è solo questo: lo si vuole creativo. Infatti l’assunto che i capi ecclesiali avessero il
segreto della migliore organizzazione delle società civili si è rivelato
fallace. E quando il beato Toniolo (1845-1918) scriveva che la salvezza sarebbe
venuta da una società di santi, non
da diplomatici, dotti o eroi, non si riferiva innanzi tutto alla gerarchia
ecclesiale. Questi nuovi compiti che, come laici, siamo chiamati ad assumere
comportano che si decida anche come lavorare insieme, con piena responsabilità.
Non si tratta più infatti di attuare
nel concreto decisioni di massima prese ai vertici.
In qualche modo,
quella che stiamo vivendo è un’era veramente nuova.
Si è presa, ad
esempio, maggiore consapevolezza della rilevanza religiosa delle realtà profane, di ciò che accade fuori degli
spazi liturgici. In passato si era giunti a una sorta di compromessi tra le
autorità religiose e quelle civili, che condividevano le popolazioni a loro
soggette. Certe questioni, come ad esempio le guerre, rimanevano fuori del
campo del religioso. Popolazioni
cristiane potevano essere arruolate le une contro le altre, i sacerdoti e i
vescovi di ciascuna di esse invocavano il favore divino e prestavano
l’assistenza spirituale ai combattenti e alle loro famiglie, e non si pensava
che qualcuno potesse lecitamente, anche da un punto di vista religioso,
sollevare una obiezione di coscienza in tutto questo. Una volta che, invece, si
decida di intervenire, animati da spirito religioso, bisogna decidere come
farlo tenendo conto che su certe scelte ci si può dividere, ma che, come
Chiesa, bisogna rispettare il comandamento dell’unità del credenti, ma direi di
più, dell’intero genere umano.
Anticipando quello
che mi pare di avere capito, bisogna considerare che sulle questioni sulle
quali la gente di fede ritiene ora di aver voce in capitolo anche sulla base di
moventi religiosi si deve discutere anche
in chiesa. Sarebbe strano che non lo
si facesse, che cioè ognuno su argomenti di tale rilevanza fosse lasciato solo
nel capire e nel decidere. Anche perché
nessuno, da solo, può veramente pretendere di poter ideare o scegliere la
soluzione migliore. L’intelligenza dei fatti collettivi richiede una sapienza collettiva. Ma poi l’attuazione
delle scelte deve essere demandata alla responsabilità di ciascuno, non della
Chiesa, che ha rinunciato a questo tipo di potere dal momento che è espressione
embrionale di una realtà che non è di
questo mondo, e ognuno poi agirà insieme ad altri che compongono i vari
corpi sociali implicati nelle decisioni, in modo laico, inteso come non esplicitamente religioso, in modo da
poter coalizzare il massimo consenso possibile. Pensare di attuare esigenze di
fede con lo strumento di corpi sociali civili riproporrebbe infatti la modalità
desueta e impraticabile dell’impero
cristiano. Mentre rivestire di abiti
religiosi certe soluzioni storiche, certe forme organizzative, certi modi di
trasformare la società e la natura intorno ad essa, contrasterebbe con la
libertà di coscienza.
L’Azione Cattolica,
nel suo percorso formativo, ci consiglia esercizi
di laicità, vale a dire di provare in concreto, nei nostri gruppi, a
prendere in esame le nostre relazioni di fedeli cristiani con i corpi sociali
nei quali siamo inseriti e di capire come si possa fare per esprimere
nell’azione civile le nostre idee a fondamento religioso. Questa è una parte
importante del lavoro in Azione Cattolica e che differenzia molto i nostri
gruppi da quelli molto più centrati, ad esempio, su esperienze di spiritualità
religiosa o di preghiera. In questo Anno
della Fede possiamo però sentirci chiamati a qualcosa di più. Ne parla la
lettera apostolica di indizione. Sappiamo abbastanza della storia della nostra
Chiesa, dei problemi che ha dovuto affrontare, delle soluzioni che di volta in
volta sono state attuate? Questa è una parte importante dell’attività alla
quale siamo stati sollecitati. Non si tratta, quindi, solo di conoscere meglio
il catechismo, fosse anche un’opera
piuttosto estesa come il Catechismo della
Chiesa cattolica, il quale pure è sicuramente un utile punto di
riferimento. Bisogna aprire gli occhi
sul mondo intorno a noi. Se non lo conosciamo bene, non possiamo influire su di
esso. E a volte a chi ci circonda può sembrare che la nostra esperienza
religiosa abbia la realtà di un sogno,
tanto è distaccata dalle dinamiche umane concrete. Eppure in certe storie
bibliche è proprio da certi sogni che
scaturiscono importanti decisioni nell’animo della persona di fede. Come in
ogni cosa, quando si tratta di religione, si tratta di tenere tutto insieme, prospettive religiose e prospettive profane,
il cielo e la terra, pur nella consapevolezza della loro diversità. E’ quello
che Giuseppe Lazzati (1909-1986) definiva unità
dei distinti.
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30
La città dell’uomo
(7 novembre 2012)
“… il concilio ha
fatto quello che, nella storia della chiesa, fino ad allora non era stato
fatto: ha espresso chiaramente quale sia la vocazione del fedele laico,
precisando non tanto il fine (la santità a cui tendere, di cui è pina, in dottrina
e in fatto, la storia della chiesa), quanto la via attraverso la quale tendervi
e giungervi.
Il fine è espresso nelle parole “Per loro
vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio” [ Lumen gentium, n. 31]. La via da percorrere è indicata, con
altrettanta chiarezza: “trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”[Lumen Gentium n.31]
[da: Giuseppe Lazzati, La
città dell’uomo – Costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo,
Editrice A.V.E., 1984, pag.50]
“Col nome di laici si
intendono qui tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello
stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè che, dopo essere stati
incorporati a Cristo col battesimo e costituiti Popolo di Dio e, nella loro
misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo,
per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di
tutto il popolo cristiano.
[…]
Per la loro vocazione è proprio dei laici
cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio.
Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli i doveri e affari del
mondo e nelle ordinarie condizioni di vita familiare e sociale, di cui la loro
esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi
all’interno e a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l’esercizio del proprio ufficio e sotto la
guida dello spirito evangelico, e in questo modo, a manifestare Cristo agli
altri, principalmente con la
testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, speranza e
carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali
sono strettamente legati, in modo che siano sempre fatte secondo Cristo, e
crescano e siano di lode al Creatore e Redentore.”
[Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, del Concilio
Vaticano 2° (1962-1965), cap.4° n. 31, lett.a) e b)]
Le parole della
costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen
Gentium, del Concilio Vaticano 2°,
che ho sopra citato sono uno dei punti fondamentali dei vari ragionamenti e
delle decisioni di quella grande assemblea di vescovi che si riunì tra il 1962
e il 1965. Una novità assoluta nella legislazione nostra Chiesa, come rilevò
Giuseppe Lazzati (1909-1986) nel libro che ho menzionato (purtroppo non più in
commercio). Non certo del tutto una novità nell’esperienza storica dei
cristiani. Bisogna dire però che, a mio parere, solo con i moti europei e
nordamericani di fine Settecento la
questione di un ruolo più attivo in religione della gente comune, di coloro che
quindi non erano capi religiosi riconosciuti, si pose in modo nuovo, rendendo possibili gli sviluppi
che, nella Chiesa cattolica, hanno portato alla situazione dei tempi nostri,
che manifesta ancora potenzialità non sfruttate. I problemi che in merito sono
sorti e che ancora sorgono sono analoghi a quelli che si sono prodotti
nell’evoluzione politica democratica delle società contemporanee. Questo
manifesta con una certa evidenza che si tratta di movimenti della stessa
natura, pur in ambiti diversi. Nel passaggio dalla posizione di sudditi, solo
soggetti a un potere altrui, a quella di cittadini, partecipi delle decisioni
più importanti che riguardano le collettività, c’è chi si sente disorientato,
impreparato, deluso dai risultati ottenuti, sfiduciato nelle prospettive, e
allora guarda con una certa nostalgia al passato, per altro piuttosto
idealizzato, quindi abbastanza distante dalla realtà storica. Infatti nella via
verso la cittadinanza compiuta si incontrano le masse, grandi collettività,
composte di persone che si vuole con la medesima dignità, di gente che reclama
di poter dire la propria e di essere ascoltata. Non sempre è un bello
spettacolo. Decidere insieme, ascoltando le ragioni di tutti e poi però accettando
di seguire il volere di una maggioranza, soprattutto subordinando il bene
proprio personale a quello dell’intera collettività, è difficile, a volte
sfiancante. E’ problematico in particolare avere una visione sufficientemente
affidabile delle cose, perché questo significa perdere tempo e fare uno sforzo per informarsi, cercando di
raggiungere un punto di vista realistico, anche ascoltando chi ne sa di più.
Chi ne sa di più deve da parte sua avere la pazienza di comunicare con gli
altri, anche se ignoranti di certe cose, e di dialogare con loro, anche quando
pongono obiezioni palesemente infondate. La tentazione che c’è sempre è quella
di tagliare corto e, da un lato, di
seguire la gente che pare più decisa nell’imporre la propria volontà e,
dall’altro, di forzare la mano
imponendosi sugli altri sovrastandoli e tacitandoli in qualche modo.
Come c’entra tutto
questo nell’esperienza di un piccolo gruppo parrocchiale di laici come il
nostro? C’entra perché il lavoro per elevarsi, collettivamente, a quella nuova
dignità laicale che è espressa nelle parole della Lumen gentium è ciò che maggiormente caratterizza l’Azione
Cattolica dei tempi nostri. Come si spiega questo? Si tratta di cosa che deriva
da una realtà sociale di impegno di fede che
ha preceduto i deliberati conciliari e di cui l’Azione
Cattolica e le organizzazioni che storicamente la precedettero furono
protagoniste. Le decisioni del concilio vennero infatti viste come un aggiornamento. Ma aggiornamento di
che e verso che cosa? Ad essere aggiornata
è stata la legislazione della nostra
Chiesa; essa fu aggiornata per riconoscere
la bontà di un’esperienza laicale che già esisteva, dall’Ottocento. Questo
significa ammettere che i padri conciliari non furono veramente degli innovatori, ma, appunto degli aggiornatori, e che l’innovazione si era già prodotta e attendeva solo di essere riconosciuta.
Tornerò sulle
questioni della nuova concezione dell’impegno laicale formulata nel corso del
concilio, ma, per rendere meglio l’idea del cambiamento e della sua origine,
voglio riferirmi alla questione, molto grave, dell’antigiudaismo cristiano, una
realtà molto antica e pervasiva.
Chi oggi, tra i
fedeli cattolici, sottoscriverebbe queste parole:
“Niente è più miserabile … di questo popolo che non ha
mancato occasione per rinunciare alla propria salvezza, sono bestie selvagge …
come gli animali, anzi più feroci di loro … il profeta espresse la insania
della loro libidine con una parola che si riferisce agli animali”
scritte a proposito
degli ebrei?
Sono citate nel libro di Gianna Gardenal, L’Antigiudaismo nella letteratura cristiana
antica e medievale, Morcelliana, 2001, a pagine 56 e 57, e attribuite a S.
Giovanni Crisostomo (344-407), il quale le scrisse in due delle sue otto omelie
contro i giudei.
L’antigiudaismo cristiano, ancora piuttosto
marcato nel corso del Novecento, fu ripudiato dalle genti cristiane dopo la
tragica esperienza della persecuzione e dello
sterminio degli ebrei perpetrati dai regimi nazisti e fascisti europei,
prima di esserlo dalla legislazione della nostra Chiesa. Anche in questo caso i
deliberati del concilio furono un aggiornamento,
un tenersi al passo con i tempi in ciò
che essi avevano prodotto di buono.
Per quanto riguarda il nuovo impegno laicale
dei cattolici nella società, in particolare dalle società rette da regimi
democratici, in cui la gente aveva più voce e possibilità di influire sulle
scelte supreme, esso iniziò a manifestarsi nel corso dell’Ottocento, molto
vivacemente, e non venne sempre assecondato dai capi religiosi. Si tratta di
una storia che presentò anche aspetti dolorosi, in particolare in Italia, dove
la frattura con l’organizzazione civile del nuovo stato unitario, retto su basi
democratiche, fu estremamente netta, a causa della cosiddetta questione romana, che riguardava le
rivendicazioni territoriali dei papi sul territorio del Regno d’Italia, in
particolare sulla città di Roma. In generale i papi furono, almeno fino al
1944, piuttosto sospettosi sull’impegno sociale autonomo dei laici cattolici e,
di solito, ammisero un’attività sociale del laicato solo come attuazione
puntuale di deliberati pontifici, principalmente in funzione difensiva del
papato e delle organizzazioni del clero e dei religiosi.
Il fatto che i capi della nostra Chiesa siano
venuti a sancire dopo certi
cambiamenti che si erano già prodotti nel loro popolo non deve però stupire.
Essi infatti hanno formazione prevalentemente teologica e ogni teologia, anche quando appare innovativa
rispetto ad una precedente, non innova veramente, perché ragiona sempre sulla fede della Chiesa,
quindi su qualcosa che già c’è. La
fede è sicuramente creativa, di
questo abbiamo sicura esperienza, non così la teologia. Innovare non è il suo
mestiere. Essa però può dare veste
teologica a un’innovazione, chiarendo, ad esempio, che certi principi, come
la comune dignità degli esseri umani,
sono presenti nella fede delle origini, quindi nel cosiddetto deposito di fede, pur se come
potenzialità storicamente poco o per nulla sfruttate e, innanzi tutto, capite.
Per oggi mi fermo qui. Vorrei invitarvi a
tenere a mente e a riflettere su queste parole della Lumen Gentium: “Per la
loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose
temporali e ordinandole secondo Dio.”. Vi tornerò sopra, riassumendo quello
che in merito mi è stato insegnato in tanti anni di formazione alla fede. Vi
prego di ragionarci su anche voi e, in particolare, di correggere o integrare
quello che su quell’argomento scriverò. In particolare terrò conto
dell’insegnamento di Giuseppe Lazzati, dichiarato Servo di Dio, il primo grado
nel processo di proclamazione di uno dei
santi ufficiali della Chiesa, e del beato Giuseppe Toniolo, la cui esperienza
ho potuto conoscere fin da ragazzo attraverso ciò che ne scrisse in un libro un
mio zio professore. Invoco religiosamente la loro intercessione in questa mia
opera di divulgatore parrocchiale che faccio da ignorante colto, da persona quindi che si è un po’ familiarizzata
con certi concetti, ma senza essere veramente esperta sulla maggior parte di
essi, in particolare nella materia teologica. La mia formazione specialistica è
giuridica.
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Una lunga storia
(8 novembre 2012)
Nei miei precedenti
interventi su cose della nostra fede comune c’erano molti richiami a fatti
storici. Si tratta di un modo di procedere che non è molto diffuso, in
particolare nella fase dell’iniziazione religiosa. E’ una cosa che si può
constatare, ad esempio, nel Catechismo
della Chiesa cattolica, un’opera destinata al grande pubblico su scala
mondiale, e che pure ha avuto una evoluzione storica dalla prima edizione, nel
1993, alla seconda, nel 1997, in particolare sul tema della pena di morte. In
quel testo non emerge con chiarezza, anche se se ne parla, che la Chiesa, nella sua componente “terrestre”,
“nel secolo” come si suole dire, ha avuto una storia, quindi diverse
manifestazioni le quali hanno riguardato anche concezioni molto importanti. Del
resto si tratta di uno scritto su base teologica e la teologia, in particolare
quella cattolica, tende a lavorare per stabilire una continuità con le origini,
in primo luogo perché quella continuità accredita la verità della religione, per il legame molto stretto che nel
cristianesimo si vuole mantenere con il primo maestro, e poi perché essa è in
linea con l’idea che la Chiesa abbia anche una componente soprannaturale in
virtù della quale è sempre la stessa
in ognuna delle sue varie espressioni compresenti sulla Terra e succedutesi
nella storia. Questo qualche volta porta a mettere in secondo piano
l’evoluzione storica che c’è stata anche nelle nostre collettività religiose e,
comunque, a presentarla fondamentalmente solo come una serie di progressi verso una maggiore e migliore
comprensione del messaggio di fede nei quali il passato è comunque tutto
contenuto nei tempi successivi, ponendo così in risalto il dispiegarsi di un
disegno soprannaturale coerente che regge le cose umane. Questa visione è utile
per dare il senso complessivo dell’interpretazione della storia umana come noi
la proponiamo in religione. Può creare qualche problema se però, nel compito
che è proprio dei fedeli laici, vale a dire quello di trattare le cose temporali e di ordinarle secondo Dio, secondo
l’espressione utilizzata nella costituzione Lumen
Gentium del Concilio Vaticano 2° (1962-1965),
quindi, in termini correnti, di
realizzare un’organizzazione delle società umane più in linea con i nostri
ideali religiosi, noi trascuriamo certi dettagli della storia e certi
meccanismi delle cose umane e, in particolare, che il nostro presente per certi
versi ha significato il ripudio di
una parte del passato ed è fatto anche di questo. Bisogna infatti rendersi
conto che noi non costruiamo sul nulla, ma ci inseriamo in dinamiche
preesistenti e utilizziamo il materiale e le persone che ci sono. Giuseppe
Lazzati definì questo lavoro costruire la
città dell’uomo.
Egli scrisse nel
libro La città dell’uomo – Costruire da
cristiani la città dell’uomo a misura d’uomo, Editrice A.V.E, 1984, pag.19:
Tenendo presente l’immagine del “costruire” che guida
la nostra riflessione, è immediato il riferimento all’architetto o
all’ingegnere; al progettista, insomma, che, per prima cosa, vuol rendersi
conto del terreno sul quale costruire l’edificio che gli è commissionato […] E’
questa l’immagine di
quell’indispensabile coscienza di un passato
di cui non [si] può fare a meno […]
Il ricordato
architetto elaborerà poi il progetto dell’edificio commissionato tenendo conto
dei materiali che ha a disposizione e pensando le strutture rispondenti alle
esigenza che, in quel momento e per un certo periodo di tempo, possono
soddisfare meglio coloro che nell’edificio porranno la loro abitazione, i loro
uffici, la loro industria.
Bisogna ragionare molto su questo sapiente costruire nel mondo che ci compete come laici e che è quell’attività che
nella Lumen Gentium viene definita,
con linguaggio teologico, ordinare le
cose temporali secondo Dio. Qualche volta noi tendiamo a concepirci più che
costruttori come dei restauratori di un edificio che c’era
già e che nel tempo ha subito danni. Interroghiamoci: questa idea è affidabile,
realistica?
Io vi propongo questa riflessione: ci sono
nel mondo in cui oggi viviamo tante cose che non c’erano nel passato. Questo
non ha influenza sul nostro lavoro di costruttori
di mondi? Tutto ciò che di nuovo si è prodotto è male?
Queste differenze con il passato non
riguardano solo gli oggetti, i materiali e gli strumenti, ma anche le persone,
le idee e le organizzazioni sociali. Ad esempio, considerate come è mutato, dai
tempi delle prime comunità cristiane, il ruolo delle donne nelle società
occidentali. Quella che nella Palestina di due millenni fa era in un certo qual
senso la regola, vale a dire la discriminazione sociale nei loro confronti, oggi è considerata come un illecito,
perché vietata dalla nostra Costituzione e da altre leggi nazionali, dalla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea (entrata in vigore il 1-12-09) e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1955).
Poiché la nostra azione nel mondo in cui
viviamo ha anche un significato religioso e la nostra fede religiosa ha una sua
importanza nel lavoro che svolgiamo nella società civile, in particolare come
cittadini di una democrazia, anche la storia rientra nel campo dei nostri
interessi specificamente religiosi. Questo significa che, pur attendendo la
manifestazione piena di ciò che nella fede religiosa crediamo, il nostro
atteggiamento nella storia non può essere solo quello dell’attesa. Parafrasando
un simpatica espressione in romanesco che una volta pronunciò in una udienza
pubblica il papa Giovanni Paolo 2°, dobbiamo darci da fare. Questo
darsi da fare richiede appunto di
prendere coscienza di ciò che si muove intorno a noi e delle dinamiche storiche
delle società in cui viviamo, perché non sia sconsiderato, improvvisato,
superficiale e quindi vano o addirittura controproducente. Il Concilio Vaticano 2° ha usato per
rendere questa idea un’espressione che molti sicuramente conoscono: scrutare
i segni dei tempi:
È l'uomo dunque, l'uomo considerato
nella sua unità e nella sua totalità, corpo e anima, l'uomo cuore e coscienza,
pensiero e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione.
Pertanto il santo Concilio,
proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui
di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al
fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale
vocazione.
Nessuna ambizione terrena spinge la
Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito
consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere
testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad
essere servito.
[…]
Per svolgere questo compito, è
dovere permanente della Chiesa di scrutare
i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in
modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi
degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni
reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le
sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico.
[dalla costituzione pastorale Gaudium
et spes]
Ieri ho richiamato la vostra attenzione
sull’espressione trattare le cose temporali per ordinarle secondo Dio (nella costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2°), che, secondo l’interpretazione di Giuseppe
Lazzati, significa costruire, da
cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo; oggi faccio la stessa cosa
con scrutare
i segni dei tempi (nella
costituzione Gaudium et spes), che
significa vivere, da cristiani, ad occhi
aperti nel mondo, consapevoli della sua storia e di ciò che in esso si agita.
Penso che, addirittura, trattandosi di cose che riguardano la nostra religione,
potremmo provare a costruirci sopra una preghiera da mandare a memoria. E
dovremmo riflettere su come fare, nel nostro lavoro associativo, nelle
occasioni che abbiamo di riunirci, per dare uno spazio a questi aspetti.
Ad esempio, nella riunione del martedì abbiamo
uno spazio di meditazione biblica, utilizzando le letture della Messa della
domenica seguente, un altro spazio di riflessione e discussione su temi
ecclesiali: potremmo forse dedicare almeno qualche minuto a quell’esercizio di laicità che consiste nel
prendere coscienza del corso della storia che stiamo vivendo a partire dalla
nostra concreta esperienza, dalle nostre vite. In questo costituisce senz’altro
una ricchezza avere un gruppo nutrito di anziani tra noi, che possono riferirci
del passato non sulla base di quello che hanno letto, ma di quello che hanno
vissuto. E’ una cosa che abbiamo iniziato a fare prima dell’estate. Ricordate
quando Maria Cretella ci ha narrato della sua esperienza di giovane di Azione
Cattolica in tempo di guerra, con gli aerei che, nei tempi di plenilunio,
venivano a bombardare, partendo dalla base britannica di Malta, la ferrovia che
passava vicino al suo paese? Non abbiamo allora apprezzato meglio, a partire da
quella storia così coinvolgente, il lungo periodo di pace che, dalla fine di
quella guerra, abbiamo vissuto in Europa?
Poiché si tratta di un’opera religiosa, anche
se si tratta di recuperare ricordi di
una storia molto concreta che si è vissuta nel mondo profano, vale a dire di
quello che c’è fuori delle nostre chiese, la possiamo affrontare senza certi
assilli che guastano le cose quando le si affronta, ad esempio, negli studi,
con l’ansia degli esami, o in politica, con la premura di sovrastare gli
avversari. Si procederà anche in questo con il ritmo lento e attento di una
preghiera, cercando di far reagire i
fatti di cui facciamo memoria con la nostra fede. Certe volte, quando si
prega intensamente, pare che il tempo si dilati e che quindi basti a dire tutto
ciò che si agita in noi. Allo stesso modo, con il ritmo della preghiera,
dobbiamo ricapitolare la nostra storia e il mondo in cui viviamo, curando molto
i dettagli, senza fretta, nello sforzo di non dimenticare nulla e nessuno,
nell’anelito religioso di venire incontro a tutti. Possiamo agire così nel
presupposto di fede che il beato compimento della storia, in cui confidiamo,
non sarà opera nostra, ma verrà dall’alto. A noi compete solo assecondare
questo movimento, non perché esso dipenda da noi, ma semplicemente per
continuare a farne parte, per assentirvi (questo effettivamente dipende da
noi), in quello che potremmo riassumere con la parola amen.
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Sentirsi responsabili di tutto
(10 novembre 2012)
“Il questa solitudine,
che ciascuno ‘regala’ a se stesso, si perde i senso del ‘con-essere’ … e la
comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre
più piccole …. sino alla riduzione al singolo individuo.
[…]
C’è da chiedersi, a
questo punto, se tali degenerazioni non siano insite nella decadenza del
pensiero occidentale, come sostiene Lévinas [Emmanuel Lévinas, 1905-1995,
filosofo francese]. A suo parere, possono
essere evitate non con il semplice richiamo all’altruismo e alla solidarietà;
ma ribaltando tutta la impostazione occidentale, cioè ritornando alla
impostazione ebraica originale, nella quale si dissolve proprio questa partenza
dalla libertà del soggetto. I figli d’Israele sul Sinai, nel momento fondante
di tutta la loro storia, quando Mosè propose loro la Legge, hanno detto: ‘Faremo e udremo (Es 24,7)’.
Cioè essi scelsero un’adesione al bene,
precedente alla scelta tra bene e male. Realizzarono così un’idea ‘pratica’
anteriore all’adesione volontaria: l’atto con il quale essi accettarono la
Thorà precede la conoscenza, anzi è mezzo e via della vera conoscenza. Questa
accettazione è la nascita del ‘senso’, l’evento fondante l’instaurarsi di una
‘responsabilità irrecusabile’”.
[Dal discorso Una
sentinella nella notte, pronunciato
da Giuseppe Dossetti nel 1994 nell’ottavo anniversario della morte di Giuseppe
Lazzati. Ora in Armando Oberti (a cura), Lazzati,
un cristiano nella città dell’uomo, Editrice A.V.E., 1996, pag.27]
Una delle
caratteristiche dell’esperienza religiosa cristiana è che essa non nasce da una
contrattazione con un dio, per assicurarsene i favori nelle cose della vita.
Non ha quindi molta importanza sapere che cosa si guadagnerà in concreto avendo
fede e che cosa di preciso si dovrà fare per avere un certo risultato. E, in
definitiva, rimangono in secondo piano anche le stesse questioni dell’esistenza
di una controparte soprannaturale,
quindi l’argomento “un dio c’è”, e
dei prodigi che il soprannaturale produce nella storia. Questo è paradossale
agli occhi dei non credenti, i quali invece attribuiscono molta rilevanza a
tutte quelle cose e, pensando di scuotere le convinzioni religiose, fanno
notare che il soprannaturale è invisibile, che non si manifesta nel mondo dal
momento che le cose vanno sempre come devono naturalisticamente andare e che
tutte le nostre storie religiose hanno la consistenza di fiabe, per altro
neppure costruite in modo tanto coerente. Non sono questioni che lasciano
indifferente la persona di fede, certamente la fanno soffrire; è scritto ad
esempio nei salmi, che sono parte della Bibbia: i nostri nemici ridono di noi (Sal 80,7), le lacrime sono il mio pane giorno e notte / mentre mi dicono sempre:
“Dov’è il tuo Dio?” (Sal 42,4). Ma, in definitiva, l’animo religioso sente
di non poter rinunciare a una certa visione della vita, per una questione che
riguarda la giustizia e che apre il cuore: corro
sulla via dei tuoi comandi / perché hai allargato il mio cuore (Sal 119,
32). Non accetta la violenza che vede intorno a sé e non sopporta di fuggirne
la responsabilità rispondendo a quella voce interiore che ode in sé con un “Sono forse io il guardiano di mio
fratello?” (Gen 4,9). Come argomentato da Dossetti, sulla linea di Lévinas,
la nostra adesione religiosa al bene precede qualsiasi contrattazione,
qualsiasi ragionamento di convenienza, è assoluta, non dipende in alcun modo
dal corso naturale delle cose (infatti diciamo che ha origine soprannaturale) e
per questo non è smentita dalle sconfitte, nasce da un sentimento molto forte
di giustizia che origina nello stare con gli altri e che è piuttosto duro
reprimere. Quest’ultimo ha a che fare con la felicità umana. Lo avvertiamo in
noi, ma capiamo che non ha fondamento in noi: infatti siamo cresciuti imparando
a conoscerlo, è oggetto di un insegnamento, che il più delle volte abbiamo
ricevuto fin da molto piccoli. E’ un comando interiore, ma non è costrizione:
esso infatti dà gioia e ha storicamente avuto intense espressioni sociali,
tanto da improntare di sé l’Europa fin dal tempi molto antichi. E’ a questo che
ci si riferisce quando si parla di radici
cristiane dell’Europa.
Ci sono altre forme
di religiosità? Certamente sì. Quindi pensare al fenomeno religioso come un
qualcosa di unitario, perché “si crede in
un dio” è errato. Ciascuna religione ha un suo specifico, in particolare
quelle che hanno avuto una lunga storia. Ma non è solo questo. Anche
all’interno delle singole confessioni, di ciascuna collettività religiosa
esistono molte varianti ammesse. Accade anche nella Chiesa cattolica, la cui
principale caratteristica, nonostante un’opinione corrente, non è l’uniformità.
Nell’Italia di oggi,
oltre alla storica presenza di Chiese cristiane riformate si è aggiunta, per
l’immigrazione, quella di confessioni dell’ortodossia dell’Europa orientale.
Con gli altri cristiani i cattolici condividono, in misura maggiore o minore,
quasi tutto di ciò che nella nostra concezione religiosa è essenziale.
C’è poi l’ebraismo
italiano, una presenza che è coeva con la diffusione del cristianesimo nella
penisola. Dopo oltre millecinquecento anni di discriminazioni e vere e proprie
persecuzioni subite dagli ebrei da parte dei cristiani, il cui inizio si fa
risalire al quarto secolo della nostra era in concomitanza con l’affermarsi del cristianesimo nelle istituzioni
dell’impero romano, a partire dal Concilio Vaticano 2° si sono dischiusi
ai cattolici i tesori del pensiero ebraico, che sempre più spesso vengono
menzionati dai nostri teologi e che sono stati divulgati in ambienti più vasti
da autori come il Levinas, sopra citato da Dossetti.
Sempre per via
dell’immigrazione, dall’Asia e dall’Africa, stanno affermandosi anche da noi
fedi islamiche, le quali sono piuttosto distanti dal cristianesimo, pur
condividendone alcune storie religiose.
Ma il panorama della religiosità in Italia non si esaurisce
qui: conviviamo, ad esempio, con genti che praticano l’induismo, il buddismo e
il sikhismo.
Infine, nella nostra
Italia sono abbastanza diffuse credenze di tipo magico, in cui si pensa di
poter ottenere vantaggi soprannaturali nelle cose della vita mediante certe
pratiche, in particolare certi riti. Fedi di questo tipo hanno preceduto e
accompagnato il cristianesimo e quest’ultimo in genere le ha contrastate, anche
piuttosto duramente.
Ai tempi nostri
appare anche possibile in concreto un’esistenza umana priva di esplicite
convinzioni religiose, dell’adesione a una confessione istituzionalmente
costituita. Su Il Venerdì di Repubblica di questa settimana, Andrea Tarquini,
nell’articolo I senza Dio, riferisce
del fatto che, come scritto dal giornalista polacco Mariusz Szczygiel nel libro
Fatti il tuo paradiso (Nottetempo
editore), solo il 14 % degli abitanti
della Repubblica Ceca si definisce credente
nei sondaggi, questo nonostante che
in quella nazione la vita sociale sia
improntata a forti valori etici. Ma, in definitiva, quel dato non
sorprende perché è tutto sommato in linea con i dati sulla pratica religiosa
nell’Europa del nord, che per altro registra anche valori ancora più bassi.
L’Italia di oggi, con il suo circa 30% di praticanti,
di persone che vanno a Messa la domenica, costituisce in questo una eccezione
(ma la percentuale di coloro che si definiscono genericamente credenti e che mantengono un riferimento
al cristianesimo come religione è molto più alta, superando la maggioranza
assoluta della popolazione).
Dopo il Concilio Vaticano 2° e a seguito dei
principi in esso affermati, possiamo vivere da cattolici con più serenità
l’attuale pluralismo in materia religiosa e instaurare e mantenere rapporti
amichevoli con fedeli di altre religioni e con persone non religiose. Non è
stato sempre cosi, siamone consapevoli.
In particolare, l’iniziativa dell’Anno della Fede, che stiamo vivendo
nella nostra Chiesa, non è stata pensata per contrastare quel pluralismo o per
conseguire una maggiore uniformità nella nostra confessione religiosa. Non c’è
questo nella lettera apostolica di indizione Porta Fidei dell’11 ottobre 2011.
In questo Anno della Fede siamo stati invece
invitati a riflettere, acquisendone maggiore e più precisa consapevolezza, su
ciò che specificamente caratterizza la nostra esperienza religiosa. Abbiamo
infatti la convinzione che il cristianesimo abbia ancora qualcosa da dire e da
fare nel mondo di oggi, che quindi sia possibile e necessaria una nuova evangelizzazione, a partire innanzi tutto da una rinnovato
impegno pubblico nel quale la professione religiosa sia concepita e vissuta
come un atto personale ed insieme
comunitario.
Poiché è venuto ad
avere meno credito nella società, per il pluralismo di cui dicevo,
l’affidamento sacrale nelle autorità religiose cattoliche, che pure mantengono
un ruolo importante come punto di riferimento etico, e nella dottrina da esse
insegnata, sta divenendo più importante l’azione svolta dai fedeli laici nella
società per promuovere valori in linea con la nostra fede religiosa. Essa è
stata finora piuttosto efficace, consentendo una certa pervasività delle idee
religiose nella società, nonostante la diminuzione delle vocazioni sacerdotali
e di quelle religiose. E lo è stato perché non si è limitata alla mera propaganda religiosa e al proselitismo, ma ha agito in concreto per quell’azione di costruzione della città dell’uomo, di cui parlava Giuseppe Lazzati
nei brani che ho citato nei giorni scorsi. Ognuno ha sicuramente in mente
esempi di quello che dico. Questo si è
fatto in tempi che, per vari motivi, non sono stati molto favorevoli allo
sviluppo dell’azione propriamente laicale, tanto che il laicato italiano è
stato definito il brutto anatroccolo
(in Fulvio De Giorgi, Il brutto
anatroccolo, Paoline Editoriale Libri, Saggistica paoline, 2008, euro 16).
L’Azione Cattolica è
da sempre particolarmente impegnata nel miglioramento della presenza dei laici
cattolici nella società del loro tempo, non tanto con il metodo della
contrapposizione, del fare blocco sociale
o del costituire piccole isole di salvati, ma con quello del farsi
evangelicamente lievito o sale per metaforicamente fare crescere e rendere
sapidi in umanità. Una delle ragioni
che possono spingere a un impegno in un gruppo di Azione Cattolica è quella di
voler vivere in questo modo l’impegno di responsabilità religiosa di cui ci si
sente partecipi.
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Costruire la
città dell’uomo come dovere religioso
(12 novembre 2012)
[…]
APPELLO FINALE
Cattolici
81. Noi
scongiuriamo per primi tutti i Nostri figli. Nei paesi in via di sviluppo non
meno che altrove, i laici devono assumere come loro compito specifico il
rinnovamento dell'ordine temporale. Se l'ufficio della gerarchia è quello di
insegnare e interpretare in modo autentico i principi morali da seguire in
questo campo, spetta a loro, attraverso la loro libera iniziativa e senza
attendere passivamente consegne o direttive, penetrare di spirito cristiano la
mentalità della loro comunità di vita. Sono necessari dei cambiamenti,
indispensabili delle riforme profonde: essi devono impegnarsi risolutamente a
infondere loro il soffio dello spirito evangelico. Ai Nostri figli cattolici
appartenenti ai paesi più favoriti Noi domandiamo l'apporto della loro
competenza e della loro attiva partecipazione alle organizzazioni ufficiali o
private, civili o religiose, che si dedicano a vincere le difficoltà delle
nazioni in via di sviluppo. Essi avranno senza alcun dubbio a cuore di essere
in prima linea tra coloro che lavorano a tradurre nei fatti una morale
internazionale di giustizia e di equità.
[dall’enciclica Populorum progressio (termini
latini. Traduzione: Lo sviluppo dei
popoli), del papa Paolo 6°, del 1967]
“Considero l’enciclica Populorum progressio, del papa Paolo 6°,
pubblicata il 26 marzo 1967, di gran lunga il documento del magistero
ecclesiale in materia di dottrina sociale più coinvolgente ed emozionante. Ad
essa si è esplicitamente collegato il papa Benedetto 16° nell’enciclica Caritas in veritate” [traduzione:
l’amore nella verità], del 2009, un altro testo importantissimo.
Potete leggere la Populorum progressio sul WEB a questo indirizzo:
Quando fu pubblicata ne sentii parlare in
famiglia, ma ero troppo piccolo (avevo dieci anni) per capirne l’eccezionale
rilevanza. Da adolescente, negli anni ’70, ne vissi gli ideali e gli sviluppi,
ma non mi curai di conoscerla in dettaglio. Solo da universitario, in FUCI, ne
fui come folgorato. Da allora l’Appello finale che ho sopra trascritto
sta fisso nel mio cuore. Rimpiansi di non aver cercato di capire meglio
l’anziano papa dei miei anni più giovani, che era da poco morto. Era stato
molto criticato, anche tra i suoi. Anch’io avevo avvicinato la sua figura con
un po’ di sufficienza, come spesso usano fare i ragazzi con i molto anziani,
con le persone che appartengono a un altro tempo. Può sembrare strano oggi,
dopo che con il papa Giovanni Paolo 2° ci siamo abituati a folle di giovani che
acclamano il papa. Negli anni ’70 era molto diverso. Fu un’epoca che parve
molto promettente, ma che fu anche tragica, attraversata da conflitti durissimi
e da sconsiderate esagerazioni polemiche. Il papa Montini, fine intellettuale e
profondo conoscitore delle cose del mondo, soffriva. Vedeva la Chiesa che
sembrava sbandarsi, nei contrasti accesi tra rivoluzionari e conservatori.
Intuiva meglio di altri le gravissime conseguenze che potevano derivare
dall’affermarsi di ideologie che svalutavano la famiglia come fonte di
relazioni amorevoli. Nello stesso tempo resisteva a chi proponeva di cancellare
o di neutralizzare l’aggiornamento ordinato dal Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Il dolore interiore che
traspariva dalla sua figura fu scambiato per incertezza dai conservatori. I
rivoluzionari videro in lui un ostacolo al progresso. Eppure egli fu il papa della
Populorum progressio. Si pensava che
fosse un uomo del passato, di un altro tempo: egli fu effettivamente uomo di un
altro tempo, ma del tempo futuro, di questo nostro tempo che stiamo vivendo. Il
gigantesco riequilibrio a livello globale tra popoli un tempo poveri e i popoli
più ricchi, che caratterizza la nostra epoca, è infatti la manifestazione
ancora travagliata e minacciata di un nuovo ordine mondiale che potrebbe
realizzare su scala globale l’era di pace sperimentata da noi europei dalla
fine della Seconda guerra mondiale. Come per ogni cosa umana questo movimento è
suscettibile di regressi e di mutamenti di direzione. La Populorum
progressio ci insegna che è nostro dovere
religioso intervenire nella sua storia per evitare che le cose si mettano
male.
Costruiamo
sulle parole di Paolo 2° una preghiera, una specie di salmo:
Noi laici
rispondiamo all’appello:
assumeremo come nostro compito specifico il rinnovamento dell'ordine temporale;
di nostra libera iniziativa e senza
attendere passivamente consegne o direttive, al fine di penetrare
di spirito cristiano la mentalità delle nostre comunità di vita.
Promuoveremo cambiamenti e le indispensabili delle riforme profonde;
ci impegneremo risolutamente ad infondere in essi il
soffio dello spirito evangelico.
Porremo la
nostra competenza nella nostra attiva partecipazione, in prima linea, alle organizzazioni ufficiali o private, civili o
religiose che si dedicano a tradurre nei fatti una morale
internazionale di giustizia e di equità.
Oggi in genere c’è scarsa
consapevolezza della storia ecclesiale che precede quella del papa regnante. E’
come se la morte di un papa chiudesse un’era.
Quando morì il papa Paolo 6°, il mio
zio professore di Bologna, Achille Ardigò, mi portò su Ponte Sisto, qui a Roma,
che allora era sovrastato da strutture metalliche, delle passerelle pedonali
costruite nell’Ottocento, e, guardando il “Cupolone” mi disse proprio così “E’ la fine di un’era; ogni morte di papa chiude un’era nella storia
della Chiesa”. Con una chiave incise sul parapetto metallico della
passerella la frase “E’ la fine di un’era”,
perché, ogni volta che sarei passato di lì, mi ricordassi di questo concetto.
Ma, circa vent’anni dopo, le passerelle metalliche vennero levate e con esse
anche quella frase, che tuttavia mi porto dentro molto chiaramente.
La Populorum progressio non è
una legge della Chiesa, ma un documento del magistero ecclesiale e contiene
insegnamenti particolarmente autorevoli provenendo da un papa. Quel magistero
non è stato mai revocato; è quindi ancora attuale e vive nella Chiesa di oggi
in vari modi. Quell’enciclica liberò forze potenti nella nostra Chiesa a
livello mondiale. In un certo senso costituì una sorta di ordine di esecuzione
dei deliberati conciliari. Essa conteneva un appello ai popoli della Terra che
non aveva precedenti, in quanto diretto a suscitare a partire da essi stessi un
movimento mondiale per la realizzazione nelle società civili di una pace
fondata sulla giustizia. In particolare esso coinvolgeva i laici cattolici, con
una grandissima apertura di credito nei loro confronti, chiamati ad agire nella
storia senza attendere consegne o direttive dal clero.
In Italia una delle conseguenze più
importanti di quell’appello fu il fondamentale convegno ecclesiale nazionale tenuto
a Roma nel 1976 sul tema Evangelizzazione
e promozione umana, preceduto da una lunga fase di preparazione in cui
tutto il laicato italiano fu coinvolto. Dalla fine degli anni ’60 i concetti di
promozione umana e di liberazione cominciarono ad essere affiancati
a quello di evangelizzazione, nello
spirito della Populorum progressio.
Questo segnò una discontinuità nella storia dell’impegno nella storia dei
fedeli laici italiani. In precedenza infatti essi erano stati prevalentemente
chiamati a un attivismo pubblico in difesa dell’organizzazione del clero, in
particolare in difesa delle prerogative dei papi, dei vescovi, dei sacerdoti,
degli istituti religiosi e per la tutela del patrimonio della Chiesa, ancora
imponente pur dopo le spoliazioni conseguenti all’unità nazionale dell’Italia,
in cui il papato era stato tra le monarchie italiane sconfitte.
Riassumendo molto, si può dire che,
a partire dalla Populorum progressio,
l’azione per la realizzazione della giustizia sociale venne considerata una
forma di evangelizzazione e, anzi, la più efficace tra esse. Si noti, per avere
un’idea della cosa, che l’introduzione di quell’enciclica aveva come titolo: “La questione sociale è oggi mondiale”.
Cercando di dare una valutazione
complessiva agli sviluppi della storia ecclesiale negli anni ’70 si deve
riconoscere che questa nuova prospettiva non entusiasmò la gran parte dei
fedeli cattolici italiani, anche indubbiamente produsse movimenti di tipo nuovo
centrati sull’idea di azione sociale per la promozione umana, in particolare
per l’elevazione degli ultimi, e della
conversione religiosa come esperienza di liberazione. Non si riuscì veramente a
cogliere il nesso tra religione e azione sociale diretta a rimuovere e
sostituire strutture sociali ingiuste. Non si trattò (solo) di resistenze nella
gerarchia ecclesiale locale, ma di una incomprensione molto più radicata e
diffusa. Si possono individuare diverse cause di questo.
La prima, a mio avviso, per quello
che ricordo, fu l’impreparazione del laicato italiano, del quale negli anni ’70
iniziai anch’io ad essere parte attiva. Ricordo che da ragazzo, pur militando
negli scout cattolici, in cui quelle nuove idee circolavano molto, conoscevo
poco della Bibbia, della storia della Chiesa e dei concetti teologici fondamentali.
Per me Chiesa significava liturgie e Sacramenti, i sacerdoti della parrocchia e
il papa.
Una seconda causa è che i cattolici
italiani erano stati storicamente abituati, a volte sotto minaccia di
esclusione ecclesiale, a dipendere molto dalle direttive dei papi.
Infine c’era il fatto che la
democrazia italiana, che costituiva anche, indirettamente, un presidio per
l’organizzazione del clero, era fondata sull’unità politica dei cattolici nella
Democrazia Cristiana. Per realizzarla si era dovuto centrare l’impegno politico
sull’interclassismo, del resto sulla base degli insegnamenti della dottrina
sociale della Chiesa risalente all’Ottocento; tuttavia sulla via della
realizzazione della giustizia sociale emergevano conflitti sociali che
contrastavano con quell’obiettivo. Essi inoltre erano stati storicamente il
terreno dell’impegno politico delle forze socialiste, le quali, benché
nell’Ottocento avessero sviluppato punti di contatto con l’azione sociale dei
cattolici, già in quel secolo ma soprattutto a partire dalla rivoluzione
sovietica in Russia erano state considerate dalla gerarchia cattolica come
avversarie della Chiesa. Nell’Italia degli anni Sessanta, essere cattolici
significava nella maggior parte dei casi votare democristiano per dovere religioso.
La conseguenza era che, se ad un certo punto, per motivi anche religiosi, si
era insoddisfatti della politica democristiana, si era tentati dall’abbandonare
la Chiesa. Bisogna dire che a questa conseguenza si era tentato di rimediare,
intuendo con lucidità i possibili sviluppi storici del Concilio Vaticano 2°, durante la presidenza nazionale dell’Azione
Cattolica di Vittorio Bachelet (1964-1973). In quegli anni, in cui l’Azione
Cattolica era ancora molto forte e diffusa sul territorio, radunando la gran
parte del laicato italiano, si cercò di sciogliere il legame di collateralismo tra l’organizzazione religiosa del laicato
italiano e l’organizzazione politica della Democrazia Cristiana, centrando
l’impegno religioso sulla formazione delle coscienze e rendendo in tal modo
legittimi impegni politici su diversi fronti senza che ne fosse pregiudicata
l’appartenenza ecclesiale. I tempi erano tuttavia prematuri. Solo dopo la fine
dell’Unione Sovietica, a partire quindi dal 1991, si produsse una situazione simile.
In quegli anni si era però già realizzata nella nostra Chiesa la svolta
impressa dal papa Giovanni Paolo 2°. Diciamo che con lui l’impegno laicale
tornò ad essere molto centrato sulla figura del papa. Il papa Giovanni Paolo 2°
ripropose sostanzialmente il modello di impegno storico laicale che era stato
sperimentato nella sua Polonia, nel duro confronto con il regime comunista che
all’epoca dominava quella nazione. In esso era vista con un certo sospetto
l’autonoma azione laicale finalizzata alla realizzazione della giustizia
sociale, in particolare in Occidente, in Europa e nell’America latina. In
quanto essa tendeva ad entrare in polemica con i regimi democratici dai quali
l’Est Europeo attendeva un aiuto per la propria liberazione dal giogo sovietico,
veniva vista come oggettivamente controproducente, quando non realmente
influenzata dagli storici avversari della Chiesa.
Noi oggi viviamo in un’era diversa.
Conosciamo bene i profondi legami di stima, amicizia e collaborazione tra il
papa Giovanni Paolo 2° e l’attuale papa Benedetto 16°. E tuttavia mi pare che,
nonostante superficiali considerazioni correnti, l’attuale papato abbia una sua
particolare caratterizzazione, che, in particolare, ha portato a riaprire via
che sembravano abbandonate. Ad esempio, nell’enciclica Caritas in veritate (2009)
si legge:
esprimo la mia convinzione che la Populorum progressio merita di essere
considerata come « la Rerum novarum dell'epoca contemporanea », che illumina il
cammino dell'umanità in via di unificazione.
Potete leggere l’enciclica Caritas in veritate sul WEB
all’indirizzo:
E’ ridiventato quindi di stretta
attualità l’appello che il papa Paolo 6° rivolse al mondo, e innanzi tutto ai
laici cattolici. Esso riguarda anche noi, del piccolo gruppo di Azione Cattolica
in San Clemente papa. Anche noi infatti abbiamo la possibilità di fare
qualcosa, nei settori di vita sociale in cui siamo inseriti, ad esempio nella
famiglia e nel lavoro, e quindi dobbiamo acquisire consapevolezza della
relativa responsabilità religiosa. La Caritas
in veritate ci mette però in
guardia: il nostro impegno per la giustizia sociale non deve essere
velleitario, deve collegarsi sapientemente con i principi di fede. Innanzi
tutto, quindi, bisogna conoscerli meglio. Ecco quindi il senso dell’iniziativa
in corso dell’Anno della Fede.
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Rinnovarsi sempre, ma custodendo ciò che di vitale si è ricevuto dal
passato
(14 novembre 2012)
Marco Ivaldo, in un
breve saggio dal titolo Lazzati, il
Movimento laureati e il MEIC inserito nell’omonimo fascicolo n.15 di Dossier Lazzati, Editrice A.V.E., 1998,
€ 6,00 (attualmente disponibile in commercio), scrive, riferendosi a un
discorso tenuto da Giuseppe Lazzati il 7 dicembre 1968 nell’Auditorio di
palazzo Pio in Roma e pubblicato sul mensile Coscienza del Movimento
laureati di A.C. lo steso anno:
Traspaiono da questo testo il travaglio
di quegli anni, ardui ma fecondi, le trasformazioni del costume, la crisi del
quadro politico degli anni Sessanta, la complessa ricezione del Concilio nelle
comunità ecclesiali, la ricerca di nuove forme dell’apostolato dei laici,
l’itinerario di ridefinizione dell’Azione Cattolica Italiana con il nuovo
statuto. Lazzati non sfugge a questa problematica. Un’ampia parte del suo discorso
è volta a riprendere esauriente e concreta memoria dei “valori del passato”. Ma
poi egli osserva: “Non possiamo nasconderci le difficoltà innanzi alle quali
l’Azione Cattolica si è trovata e si
trova in questa situazione; talora è sembrato che fosse sopraffatta da
altri tipi di azione, forse più appariscenti o passibili di più definite
misure; la tentazione dell’efficienza immediata l’attira; un certo senso di
vera e propria crisi ha pervaso strati più o meno ampi dei suoi aderenti e l’ha
condotta a quel ripensamento di se stessa, dei propri metodi di formazione e di
azione, dal quale dovrebbe uscire sofferto ma vivo, semplice e dinamico il suo
nuovo statuto [che fu approvato nel
1969 – nota mia]. L’ispirazione idonea,
l’atteggiamento giusto per affrontare la situazione che allora si delineava
Lazzati invita a trovarli in una celebre espressione di un sermone di Ambrogio,
il “De paradiso” [latino. Trad. “Sul paradiso – nota mia], dove il padre e dottore della Chiesa
sostiene che il compito del cristiano è “nova sempre quaerere et parta
custodire” [latino. Traduzione libera mia: “Rinnovarsi sempre, ma
custodendo ciò che di vitale si è ricevuto dal passato]. Bisogna “aprirsi al nuovo senza timori e rimpianti” e insieme occorre
mantenere “fedeltà ai valori che hanno costituito la trama” della storia
dell’Azione Cattolica e hanno “data la misura della sua validità”. Non è lecita
la “pigrizia, fatta anche solo di amore per ciò che è stato”, ma la “smania del
nuovo” non deve “prendere il sopravvento sull’amore del vero e la ricerca di
ciò che vale”.
Cari
amici del gruppo parrocchiale di Azione Cattolica in San Clemente papa e cari
altri amici che avete occasione di leggere queste parole, oggi vi voglio
parlare di questioni associative, che però sono legate ad argomenti più vasti.
Quando, verso la fine degli anni ’70, entrai
nel gruppo FUCI di Roma che si riuniva a piazza S.Apollinare, eravamo una
ventina di universitari, ma ci sentivamo pronti a conquistare in mondo. Quando
il cardinal vicario Poletti ci disse che eravamo i suoi occhi e le sue orecchie
nel mondo universitario, non fummo colpiti dalla sproporzione di forze,
dall’essere noi una percentuale minima degli oltre centomila studenti romani.
Nel nostro gruppo siamo di più dei miei fucini
di allora, ma ci sentiamo un po’ in crisi. Non è così? Passando una volta per i
corridoi della parrocchia, ci ho sentiti definire gruppo anziani. E’ chiaro che può parlare così solo chi non ci
conosce bene. Però è vero che esteriormente possiamo talvolta sembrare effettivamente
un gruppo anziani. Persone più giovani ci sono, ma sono in minoranza. A volte
non vengono alle riunioni del martedì perché impegnate sul lavoro o negli
studi. Io stesso non di rado faccio fatica ad essere in parrocchia alle cinque
del pomeriggio, dopo il lavoro in ufficio, e a volte non ci sono riuscito.
Questa carenza di persone più giovani incide abbastanza anche sul lavoro che ci
proponiamo di fare in Azione Cattolica, anche qui a Monte Sacro – Valli.
Mancano infatti molti stimoli al rinnovamento, che come sosteneva Lazzati sulla
linea di S. Ambrogio, è uno dei compiti propri di noi laici. Ma non è forse
vero che anche l’altro compito, quello di custodire,
ci appassiona di meno? Si va un po’ a memoria, ma la memoria degli anziani
comincia a fare difetto e non si ha tanta voglia di rinfrescarla. Perché è
quando si è chiamati a comunicare
qualche cosa alle persone più giovani che si ripensa più validamente al
passato: questo è un fatto naturale e noi siamo esseri naturali. Ma gli esseri
umani sono capaci anche di uno sguardo soprannaturale. E’ ad esso che ho
chiamato le mie figlie universitarie quando ho proposto loro di aderire al
nostro gruppo di A.C. . Non dobbiamo fidarci delle apparenze: dobbiamo essere
capaci di intuire l’anima negli altri. Questo è un esercizio fondamentale
dell’esperienza religiosa: andare oltre ciò che appare. E le vostre anime, cari
amici del gruppo, sono belle e parlano dei ragazzi e delle ragazze che eravate
e che interiormente ancora siete. Che soddisfazione sentire i più anziani
parlare delle loro esperienze di A.C. in un mondo di molti anni fa, tanto diverso, e per molti versi più
difficile, del nostro di oggi! Un’A.C.
indomita quella loro di un tempo, il cui ardore e il cui attivismo traspare ancora in certe prese di posizione nei discorsi
che si fanno nelle nostre riunioni. Cose che certamente non ci si aspetta in un
gruppo anziani. Ma direi di più: cose che oggi non ci si aspetta neppure dai
giovani. Come mi riferiscono le mie figlie, oggi gli universitari sono spesso
dei conservatori per sfiducia nel cambiamento, non si aspettano nulla di buono
dal futuro. Del resto non è quello che
nei giornali e in televisione si dice sempre loro? Paradossalmente, allora, è
proprio dalla memoria del passato che possono venire stimoli per il
rinnovamento, quello personale e quello della società in cui viviamo.
Pensare religiosamente la storia ha questo di
confortante: non è legato a tempi precisi, a scadenze inesorabili. Possiamo,
religiosamente, curare certi dettagli, così come certe preghiere vengono
recitate molto lentamente, con il ritmo della vita che scorre in noi, con il
ritmo del respiro come insegnavano alcuni maestri di spiritualità monacale. E
non si è nemmeno legati molto all’attualità, ai titoli di testa dei giornali e
dei telegiornali. Possiamo dedicare molto tempo a fatti minimi, così come i
monaci a volte dedicano molto del tempo
non impegnato nelle liturgie alla cura paziente e minuziosa di una pianta o ad
altre faccende minime o che richiedono
grande applicazione per un risultato che verrà magari oltre la loro vita
personale. Facciamolo, però! E’ esperienza comune dei più anziani che i giorni
corrano via più velocemente e che quindi giunga sempre, presto, la sera. Si finisce allora per sdormicchiare molto, lo
ha scritto Carlo Maria Martini in uno dei suoi ultimi libri di spiritualità, Qualcosa così personale, Mondadori, 2009, € 17,50. In
questo Anno della Fede ci viene un
appello forte a scuoterci, a rinnovarci, ripensando, e innanzi tutto motivando
meglio, i nostri ideali religiosi. Poi ci viene chiesto un impegno pubblico che può cominciare, ad esempio,
da questo (del resto siamo persone religiose): pregare perché persone più
giovani partecipino di quegli ideali e ci aiutino, nel nostro gruppo, stando
insieme a noi, a rinnovarci custodendo ciò che del passato merita di essere
conservato. E poi pregare perché, attingendo ai tesori del passato, anche agli
aspetti preziosi delle nostre vite, si abbia qualcosa da comunicare ai più
giovani. Non si costruisce dal nulla: i più anziani, in quanto religiosi
custodi del passato migliore e fedeli memori di quello peggiore, hanno anche,
in un certo senso, il segreto per costruire un futuro all’altezza dei nostri
grandi ideali.
Non è
lecita la pigrizia, fatta anche solo di amore per ciò che è stato, riteneva
Lazzati ed è sorprendente che questa sua convinzione sia rimasta fortissima
anche tra i membri più anziani del nostro gruppo. E questo è ancora più
sorprendente tenendo conto dell’orientamento generalmente un po’ più nostalgico
del passato degli anziani del quartiere.
Trattare
le cose temporali per ordinarle secondo Dio: questo il compito di cui
religiosamente dobbiamo prendere consapevolezza. Si tratta di un impegno
veramente smisurato, come tutto ciò che riguarda Dio. E’ chiaro che sarebbe
anche sproporzionato alle nostre forze se non confidassimo anche in un sostegno
soprannaturale, innanzi tutto per la rigenerazione del nostro gruppo. La
dobbiamo desiderare con molta determinazione e pregare molto perché essa si compia.
L’efficacia storica della nostra azione
dipende dai contatti che riusciamo a stabilire con la società del nostro tempo
e quindi dalla nostra capacità di influire su di essa. Serve gente. Ora, nel
nostro lavoro natura e sopranatura sono strettamente commiste, dunque non si fa
affidamento solo sull’elemento naturale, quindi sulle nostre sole forze umane, ma esse comunque contano e
devono esserci, è legge di natura questa, il mondo è stato creato così: i
nostri grandi ideali, che servono ancora al mondo di oggi, sono incarnati in
noi e hanno bisogno di nuova umanità per continuare a pervadere la società,
perché noi, ad un certo momento, finiremo.
La caratteristica del nostro atteggiamento
verso i più giovani deve avere, a mio parere, questa caratteristica,
conformemente al metodo praticato in Azione Cattolica: non cerchiamo nuove
forze per indottrinarle o per cambiare le loro vite. Noi non abbiamo
infatti la ricetta della felicità per i più giovani. Essi la devono inventare
da se stessi. Noi abbiamo una ispirazione ideale e siamo custodi di una
tradizione di fede che ci spinge avanti,
in un incessante rinnovamento.
Insieme ai più giovani vorremmo quindi ideare e attuare il nuovo che necessita
al mondo di oggi, secondo quell’ispirazione.
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La fede fa scandalo?
(16 novembre 2012)
In molti casi
l’ostacolo alla fede è costituito da una situazione di scandalo, o voluta
falsamente, ad esempio falsità diffuse contro la Chiesa e i cristiani; o per fatti reali. Non crediamo di aiutare i
lontani nascondendo o negando la verità. Se si tratta di errori storici ristabilire la verità; ma se c’è un
autentico scandalo bisogna avere il coraggio di riconoscerlo e di far capire
che la fede non consiste nel negare lo scandalo; ma far comprendere che lo
scandalo è un motivo di più per credere in quel Dio che supera l’ostacolo
rappresentato dalle deficienze e dagli scandali degli uomini, siano essi laici
o uomini di Chiesa o anche Papi
da Per la catechesi ai lontani, articolo di
Giuseppe Lazzati, pubblicato nel 1967 su mensile del Movimento laureati e ora nel fascicolo n.15 di Dossier Lazzati, “Lazzati, il
Movimento Laureati e il Meic, Editrice A.V.E, 1998, € 6,00]
Verso la fine degli
scorsi anni ’60, quando Lazzati scrisse le frasi che ho citato, costituiva un
ostacolo alla vita di fede pensare che nella Chiesa c’erano stati tanti cattivi
esempi, anche da parte di capi religiosi, e che i cristiani si erano resi
responsabili collettivamente di fatti efferati, come guerre, persecuzioni,
schiavismo, predazione delle terre e dei beni di altri popoli e delle loro
stesse vite e altro. Ai tempi nostri mi pare che nel nostro popolo la religione
sia meno apprezzata più che altro perché sembra che sia inutile nelle faccende della propria vita. Le cose sembrano sempre
andare come devono, come ci si aspetta che vadano secondo natura, e non cambia
nulla se uno è religioso o non lo è. I
forti vincono e i deboli perdono, così è sempre stato, si pensa. Forse però, si
argomenta, non è la religione, in generale, a non andare, ma è la religione
cristiana e, in particolare, la sua versione cattolica, così ragionevole, così poco aperta al
prodigio nella vita di tutti i giorni (quanto ci mette, si osserva, a
riconoscere un miracolo o un’apparizione soprannaturale!). In definitiva, si
pensa, la dottrina cattolica sembra
volerci convincere di doverci rassegnare
a ciò che accade: quindi per ora si deve cedere al male prevalente e lasciarsi
schiacciare, poi, in un’altra
dimensione però, avremo il premio. C’è chi allora si affida ad altre versioni
religiose o varianti della fede cristiana, che danno più soddisfazioni sotto
quei profili. Ma c’è anche chi decide di fare a meno del tutto della religione
e si costruisce allora un’etica individuale e collettiva che si basa sul tipo
di società in cui si sente meglio inserito, ottenendone poi un riconoscimento
appagante, come persona buona, onesta.
L’atteggiamento di
chi si lascia alle spalle la religione, che spesso è quella appresa in famiglia
e nelle comunità di riferimento, come può essere un paese, con le sue feste e
le sue costumanze, anche alimentari, può dispiacere, ma noi, nel lavoro che
abbiamo in mente per recuperare coloro che sono diventati i lontani, siamo piuttosto vincolati dai
nostri principi di fede, da quella che crediamo essere la verità sul mondo intorno a
noi e sul soprannaturale. Non possiamo quindi approfittare di quella sorta di
disposizione della gente a credere nell’azione soprannaturale, nel miracolo, che confina abbastanza con la credulità e inventarci
delle storie consolanti ma ingannevoli. Non possiamo dare alla gente quello che
in fondo essa ci chiede: la religione che mette a posto le cose della vita, che
risana tutte le malattie, che allontana la morte, che salva il rapporto con il
coniuge e i figli, che fa trovare o mantiene il lavoro, che ci fa tornare sani
e salvi a casa la sera dopo aver circolato per la città, e cose simili. Né possiamo promettere che essendo buoni,
partecipando diligentemente alle liturgie e pregando molto le cose cambieranno,
che tutti i problemi si risolveranno. Non è questo che ci è stato insegnato in
religione. Ricordate?: ora e nell’ora
della nostra morte… Quando mai ci hanno detto che alle persone religiose
sarebbe andato tutto bene in questa vita?
E io francamente non mi sento nemmeno di proporre, ai sofferenti, l’idea
che il male che capita loro è in realtà il loro bene, anche se essi, proprio
perché non abbastanza religiosi, non riescono a capirlo. Il male rimane male:
poi si può riuscire a dargli un senso
religioso e allora, come è accaduto in certe vite di santi, si può
addirittura ad avere una confidenza con esso che libera dalla paura o giungere
a desiderarlo perché si pensa che attraverso di esso si partecipi alla
redenzione dell’umanità intera, a una grande opera di salvazione. Ed è questo
lo stesso atteggiamento di chi in guerra compie un’azione eroica, altruistica,
a costo della propria vita. Ma si tratta, è chiaro, di una cosa molto diversa
da chi semplicemente tenta di voltare la
frittata e dice sbrigativamente che il
male sofferto (da un altro) è bene per il sofferente, e chi non lo capisce
non ha fede (aggiungendo così sofferenza a sofferenza, alla sofferenza della
vita quella del rimprovero religioso), ottenendo da parte di chi soffre un sentimento
interiore di rivolta che è umanamente del tutto comprensibile.
Come fare allora?
Direi che potremmo farne argomento di dibattito tra noi. Che cosa rispondere all’argomento Dio è inutile? E’ qualcosa
di più forte della considerazione Dio non c’è, che noi risolviamo
obiettando che in realtà Dio non si vede,
ma opera: e quest’ultima è una considerazione pacifica nel pensiero
biblico, mi pare di aver capito.
Lo scandalo è un motivo di più per credere in quel Dio, scrisse
Lazzati nel 1967. Per me è proprio così.
Mi pare così assurda e inaccettabile un’esistenza senza Dio, dominata dalla
cieca violenza delle cose e degli esseri viventi, senza amore-agape, quello che raccoglie pacificamente intorno alla tavola
comune per un bel pasto che nutre e dà gioia, che contro l’idea di una vita
così sento di dovermi rivoltare e proprio da questa rivolta nasce la mia
religiosità. Ma penso che negli altri vi siano tanti altri motivi per i quali
la fede religiosa è diventata l’aspetto fondamentale della loro vita. In questo
Anno della Fede siamo chiamati ad
approfondire questi argomenti, a riscoprire le ragioni del nostro atto di fede.
Chissà che questo possa anche servire ad aiutare coloro che sentiamo lontani in certe loro difficoltà
religiose, quelle che riguardano l’inutilità
di Dio, le quali, in fondo, possono anche scaturire da un certo pessimismo
sulla storia umana e quindi non
riguardare tanto il soprannaturale ma il mondo quaggiù. Poiché la storia umana
è lo specifico campo d’azione di noi laici cattolici, direi che è proprio un
lavoro per noi.
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Fede e promozione umana
(19-11-12)
Il
moltiplicarsi delle relazioni tra gli uomini costituisce uno degli aspetti più
importanti del mondo di oggi, al cui sviluppo molto contribuisce il progresso
tecnico contemporaneo.
Tuttavia il fraterno dialogo tra gli uomini
non trova il suo compimento in tale progresso, ma più profondamente nella
comunità delle persone, e questa esige un reciproco rispetto della loro piena
dignità spirituale. La Rivelazione cristiana dà grande aiuto alla promozione di
questa comunione tra persone; nello stesso tempo ci guida ad un approfondimento
delle leggi che regolano la vita sociale, scritte dal Creatore nella natura
spirituale e morale dell'uomo.
[dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes (latino.Trad.:La
gioia e la speranza) sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n. 23]
Come ho già scritto,
per il metodo seguito nel redigerli, non è facile cogliere con immediatezza le novità nel documenti del Concilio
Vaticano 2°, denominati costituzioni,
decreti e dichiarazioni
secondo un criterio che tenne conto
della forza normativa che si volle attribuire loro, dal punto di vista
giuridico e quindi nelle loro reciproche relazioni e nelle relazioni con altri
atti normativi della Chiesa, e delle finalità pratiche che con essi si volevano
realizzare. Essi infatti furono scritti in linguaggio teologico e la teologia,
in particolare quella cattolica, tende a mettere in risalto la continuità, piuttosto che a esaltare le
novità. E, quando novità ci sono, esse in genere sono presentate come sviluppo o riscoperta di
qualcosa che già c’era prima. Questo modo di procedere è necessario per valutare se il nuovo che si
propone è conforme al deposito di fede
che abbiamo ricevuto dalle origini. Ma non si tratta solo di questo. Si tratta
di capire, nelle varie manifestazioni storiche della nostra fede, come tenere tutto insieme, il presente, il
futuro e il passato, i vivi e i morti, tutti i popoli della terra, secondo il
comandamento religioso ricevuto: ristabilire
l’unità del genere umano. La teologia è riflessione sulla fede comune, nei
suoi fondamenti e nelle sue manifestazioni storiche, compresi anche agli atti
normativi di coloro che nella Chiesa esercitano l’autorità. Ecco perché nei
documenti più importanti del magistero, scritti in linguaggio teologico, quelli
che vogliono essere di orientamento ai fedeli, troviamo tanti riferimenti alla
Bibbia e al pensiero religioso del passato.
Nei documenti più recenti, dall’Ottocento in poi, troviamo riferimenti più
precisi alla storia del loro tempo, in particolare in quelli che si fanno
rientrare nella materia della dottrina
sociale. Un esempio di ciò che ho detto, di quel particolare metodo
nell’argomentare, si può trovare leggendo un documento fondamentale per la fede
del nostro tempo come l’enciclica Caritas
in veritate, del papa Benedetto 16°.
Vi posso confermare
che nei documenti del Concilio Vaticano
2° il nuovo c’è. Ne ho già trattato in altri miei precedenti
interventi, mettendo in risalto, siatene consapevoli, solo di pillole di novità, quindi una piccola parte del nuovo
che c’è.
La novità delle novità può considerarsi
innanzi tutto quello che è stato
definito il metodo conciliare.
Nell’annunciare l’indizione del Concilio ecumenico, il papa Giovanni 23° disse
che avrebbe consultato tutti i vescovi del mondo, perché il lavoro che ci si
proponeva di fare richiedeva di conoscere i punti di vista e di sfruttare le
conoscenze e le capacità di molti. Ora, bisogna capire che questa intenzione del papa veniva
incontro a un moto molto esteso che già
c’era nella Chiesa cattolica, in
tutto il mondo. Il papa Giovanni 23° stesso ne era stato partecipe e volle
darvi voce. Insomma, il Concilio Vaticano
2° può essere considerato il culmine
di un movimento, che comprendeva, come sempre accade nelle cose religiose, vita e pensiero. C’erano state negli
anni passati nuove esperienze di vita di fede alle quali erano corrisposte
anche nuove analisi teologiche. In Europa, in particolare, erano state decisivi le riflessioni e i sentimenti indotti negli anni tra le due
guerre mondiali, che avevano visto, oltre al dominio dei totalitarismi fascisti
e nazisti su larga parte del continente,
anche l’affermarsi della rivoluzione sovietica in una nazione di antica
formazione cristiana come la Russia. Essi avevano trovato una sfogo, dal 1945,
con la vittoria sui regimi fascisti e nazisti europei, nell’epopea della
costruzione di una nuova Europa, che si era articolata, con metodi divergenti e
addirittura confliggenti ma con il dichiarato obiettivo comune della giustizia
sociale come fondamento della pace, sia nella parte occidentale, rimasta sotto
l’influsso della nuova potenza globale statunitense, sia nella parte orientale,
finita sotto il dominio sovietico. Questo intenso lavorio collettivo non era
stato solo tecnica: aveva avuto anche
una marcata componente ideale. Ne
possiamo trovare un esempio nella nostra Costituzione, approvata nel dicembre
1947, dopo un anno e mezzo di confronti assembleari di rilevante livello
culturale ed etico, ed entrata in vigore nel 1948. Semplificando molto,
possiamo dire che quel dibattito ideale coinvolse sempre in maggior misura
anche la Chiesa cattolica, fino ad arrivare ai massimi vertici. Sarei grato a
chi, più a conoscenza di questi fatti, volesse approfondire il tema delle
radici lontane del movimento conciliare
e segnalare testi per approfondirlo. Dal mio (limitato) punto di vista credo di
poter consigliare per avere un’idea di ciò che intendo il libro Esperienze pastorali, di Lorenzo Milani,
pubblicato nel 1957, ancora in commercio, edito da Libreria editrice fiorentina, € 18,00.
E’ vero che
l’annuncio del papa Giovanni 23° di voler indire un concilio ecumenico sorprese i suoi contemporanei, in particolare i
cattolici. Non però perché non si sentisse nel mondo l’esigenza di una cosa
simile, ma perché non ci si aspettava che proprio dal papa romano venisse
questa iniziativa. Infatti, fino ad allora, i papi erano apparsi più
preoccupati di porre limiti ai moti popolari, più che di dar loro strada e
occasioni per manifestarsi. Nuovo era poi il metodo di consultare i vescovi del mondo, come se a Roma non si avesse già
una soluzione pronta per tutti i problemi di cui si sarebbe discusso. Ora,
questa consultazione rea intesa evidentemente a far emergere quel movimento che, come ho osservato, già c’era
e invocava cambiamenti.
Tuttavia nella prima fase preparatoria del concilio si ebbe la sorpresa di
scoprire che i vescovi non ne erano in genere consapevoli. Scrisse lo storico
Giuseppe Alberigo nella sua preziosa Breve storia del concilio Vaticano II,
Società editrice Il Mulino, 2005, € 10,50, ancora in commercio:
Caduta l’ipotesi di consultare i vescovi con
un questionario, il papa fece invitare ciascuno a indicare i problemi e gli
argomenti che il concilio avrebbe dovuto
affrontare. Nei mesi successivi sono arrivati al Vaticano circa duemila
pareri (“vota”) da tutto il mondo. La maggioranza di questi scritti
testimoniava la sorpresa e il disorientamento: Roma non ordinava, ma chiedeva
suggerimenti! Moltissimi hanno auspicato che il concilio si occupasse di argomenti
di modesta portata; ben pochi avevano orizzonti ampi ed erano assuefatti a
prospettive coraggiose.
Tornando alla
citazione dalla costituzione pastorale Gaudium
et spes con cui ho aperto questo
intervento, vorrei invitarvi a porre attenzione a queste espressioni: Il moltiplicarsi delle relazioni tra gli uomini; esige un
reciproco rispetto della loro piena dignità spirituale; approfondimento
delle leggi che regolano la vita sociale;
la Rivelazione cristiana dà grande aiuto alla promozione di questa comunione tra persone. Ora, tenuto
conto di quello che ho osservato nei miei precedenti interventi sulle
caratteristiche ideali delle democrazie contemporanee, quelle parole della Gaudium et spes, espresse in
terminologia teologica, inquadrano il problema fondamentale dei nostri attuali
regimi democratici: una diversa
organizzazione della società basata su nuove relazioni umane scaturite
dall’idea di una comune dignità di tutti gli esseri umani. Mai, prima d’ora, che io sappia, i popoli, intesi come comunioni di persone con
pari dignità e non solo come insiemi di
sudditi di storici despoti o dinastie, erano venuti ad assumere questo rilievo in un
documento ecclesiale cattolico di quell’importanza. E’ quindi veramente un linguaggio nuovo. Il movimento che si
vuole produrre nei fedeli è analogo a quello dal quale sono scaturite le democrazie contemporanee: la promozione umana, vale a dire l’elevazione
delle masse (infatti non si fa distinzione tra le persone umane), mediante
il riconoscimento di una loro comune dignità,
dalla quale deriva l’esigenza di adeguate leggi,
vale a dire il riconoscimento di diritti
umani fondamentali, per un miglioramento della società (nel documento denominata comunione di persone). Questo lavoro, si dichiara, ha fondamento e
quindi rilievo religioso, essendo compreso nei principi fondamentali della fede
(la Rivelazione).
Quali conseguenze?
Direi innanzi tutto che, come molte
altre affermazioni o auspici dei documenti del Concilio Vaticano 2°, quel principio stabilito nella breve frase
che ho citato all’inizio merita un approfondimento.
Anche in questo il Concilio Vaticano 2° non è
stato un punto di arrivo ma, in metafora, un apparato propulsore che ha messo un movimento un corpo sociale, la
Chiesa, che sembrava destinata al progressivo declino nel confronto con i tempi
nuovi, per il fatto di rimanere sempre immobile e quindi, nell’avanzare della
storia, sempre più arretrata.
Prendiamo ad esempio questo
pensiero, che si trova a pag.14-15 di Pass-wor(l)d –percorso formativo per gruppi di adulti, Editrice A.V.E., 2012, €
8,00, il sussidio che l’Azione
Cattolica ci propone per la vita associativa:
La
virtù del discernimento è quella qualità che consente di distinguere in ogni
circostanza cosa convenga fare e, ancor prima, che si può e si deve prendere
una decisione senza restare sempre e solo spettatori della propria vita. Perché
questo discernimenti può essere anche comunitario? Perché l’intera comunità di
battezzati e chiamata alla corresponsabilità: ognuno porta la propria
esperienza, i propri talenti, la propria umanità costruita nei luoghi di
partecipazione e di vita, in famiglia, al lavoro a scuola, con uno sguardo
ampio e l’orizzonte dell’intera comunità. Non è una moda, non ha una logica di democrazia, che non ha posto nella Chiesa, ma
la necessità di mettere all’opera tutti i carismi del corpo della Chiesa.
Siamo veramente certi che, nel momento in
cui si richiedono ai laici azioni collettive di promozioni umane, fondate su un discernimento
comunitario, inteso come distinguere
in ogni circostanza cosa convenga fare, e questo viene considerato loro compito religioso, la democrazia,
nel senso in cui oggi la si intende, non
abbia posto nella Chiesa? Non dico,
ad esempio, per l’elezione di rappresentanti ad un concilio in cui si debba
decidere qualche corollario del dogma trinitario, ma, poniamo, per decidere che
posizione prendere, come comunità di fedeli, quindi collettivamente, nei
confronti di una guerra incipiente, le cui origini risalgano, come sempre
avviene, ad una complicata situazione politica e che, per poter essere sedata,
richiede non solo solenni dichiarazioni ieratiche, ma l’esercizio di una
sapienza e di un’abilità specificamente laicale,
basata su una conoscenza delle dinamiche storiche e una sapienza nel trattarle
che esorbita dal campo specificamente teologico e liturgico.
L’Azione Cattolica si definisce palestra di democrazia, quindi è retta
con metodo democratico, ma naturalmente, pur essendo parte della Chiesa, non
parla a nome della Chiesa. Secondo l’ordinamento delle leggi della Chiesa
possono farlo solo il papa e i vescovi, individualmente o collettivamente, nel
sinodo o nel concilio. Essi tuttavia, sempre più spesso, e anche nella
redazione di importanti documenti del magistero, chiedono la collaborazione di
laici sapienti e tengono conto di ciò che si agita nel corpo ecclesiale, quindi
della storia del loro tempo e delle reazioni che essa suscita tra i fedeli. C’è
quindi un dialogo tra i capi e le loro comunità. Ma queste ultime, come corpi
collettivi, possono esprimere una decisione unitaria veramente affidabile solo
con metodo democratico. E’ lo stesso metodo che è stato utilizzato per formare
e approvare i documenti del Concilio
Vaticano 2°. Per ognuno di essi è riportato il numero di voti favorevoli e
contrari che ha riportato ed è stato approvato il testo votato dalla
maggioranza degli aventi diritto ad esprimersi. Questo anche se poi i documenti
del Concilio Vaticano 2° sono entrati
in vigore in quanto promulgati (approvati,
decretati, stabiliti) dal Papa.
Pongo una questione sulla quale
discutere, non do soluzioni.
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Il conflitto come
esperienza religiosa
(19 novembre 2012)
Anni fa uscì un film
dal titolo Saving private Ryan – Salvate
il soldato Ryan. In esso si racconta di una pattuglia di soldati
statunitensi che, scelta tra i militari sbarcati in Normandia nell’invasione
degli eserciti Alleati del giugno 1944,
ha avuto la missione di rintracciare e riportare in patria un soldato semplice
americano che aveva diritto all’esonero, per essere l’ultimo ancora in vita di
quattro fratelli partiti militari per la guerra in Europa. All’inizio c’è una
sequenza che mette in scena lo sbarco su
una spiaggia della Normandia dei componenti di quella pattuglia. Di fronte alla
violenza estrema e alla morte tutt’intorno vengono presentati vari
atteggiamenti religiosi dei soldati americani. C’è che invoca la Madonna, chi
recita il Padre nostro e c’è un tiratore scelto che, nel prendere la mira
pronuncia le parole dell’inizio del salmo 144:
Benedetto il Signore,
mia roccia,
che addestra le mie
mani alla guerra,
le mie dita alla
battaglia,
e poi, pam!, spara e colpisce il nemico.
Nel
vedere questa scena, le parole del salmo in bocca a una combattente che sta per
uccidere mi hanno colpito, eppure indubbiamente erano appropriate alla
situazione.
La nostra Chiesa nel
corso della storia è rimasta molto
spesso coinvolta direttamente o indirettamente in eventi bellici. Ricordo, tra
i molti episodi storici, la sanguinosissima guerra combattuta da una
federazione di stati cristiani, coalizzati sotto le insegne pontificie (era
Papa Paolo 5°), contro l’impero Ottomano, nel Cinquecento e culminata con la battaglia navale davanti a Lepanto (1571 – Lepanto si trova nella
Grecia occidentale). In genere non vi ha trovato difficoltà, almeno
fino agli anni della Prima Guerra Mondiale (1914-1918).
Si ricorda in merito
la Lettera del Santo Padre Benedetto 15°
ai capi dei popoli belligeranti (1917)
Chi ha seguito l'opera
Nostra per tutto il doloroso triennio che ora si chiude, ha potuto riconoscere
che come Noi fummo sempre fedeli al proposito di assoluta imparzialità e di
beneficenza, così non cessammo dall'esortare e popoli e Governi belligeranti a
tornare fratelli, quantunque non sempre sia stato reso pubblico ciò che Noi
facemmo a questo nobilissimo intento.
[…]
In
sì angoscioso stato di cose, dinanzi a così grave minaccia, Noi, non per mire
politiche particolari, né per suggerimento od interesse di alcuna delle parti
belligeranti, ma mossi unicamente dalla coscienza del supremo dovere di Padre
comune dei fedeli, dal sospiro dei figli che invocano l'opera Nostra e la
Nostra parola pacificatrice, dalla voce stessa dell'umanità e della ragione,
alziamo nuovamente il grido di pace, e rinnoviamo un caldo appello a chi tiene in
mano le sorti delle Nazioni. Ma per non contenerci sulle generali, come le
circostanze ci suggerirono in passato, vogliamo ora discendere a proposte più
concrete e pratiche ed invitare i Governi dei popoli belligeranti ad accordarsi
sopra i seguenti punti, che sembrano dover essere i capisaldi di una pace
giusta e duratura, lasciando ai medesimi Governanti di precisarli e
completarli.
E
primieramente, il punto fondamentale deve essere che sottentri alla forza
materiale delle armi la forza morale del diritto. Quindi un giusto accordo di
tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e
garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento
dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi,
l'istituto dell'arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo e
norme da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o
di sottoporre le questioni internazionali all'arbitro o di accettarne la
decisione.
Stabilito
così l'impero del diritto, si tolga ogni ostacolo alle vie di comunicazione dei
popoli con la vera libertà e comunanza dei mari: il che, mentre eliminerebbe
molteplici cause di conflitto, aprirebbe a tutti nuove fonti di prosperità e di
progresso.
[…]
Quanto
ai danni e spese di guerra, non scorgiamo altro scampo che nella norma generale
di una intera e reciproca condonazione, giustificata del resto dai beneficai
immensi del disarmo; tanto più che non si comprenderebbe la continuazione di
tanta carneficina unicamente per ragioni di ordine economico. Che se in qualche
caso vi si oppongano ragioni particolari, queste si ponderino con giustizia ed
equità.
Sono
queste le precipue basi sulle quali crediamo debba posare il futuro assetto dei
popoli. Esse sono tali da rendere impossibile il ripetersi di simili conflitti
e preparano la soluzione della questione economica, così importante per
l'avvenire e pel benessere materiale di tutti gli stati belligeranti. Nel
presentarle pertanto a Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei
popoli belligeranti, siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle
accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta
tremenda, la quale, ogni giorno più,
apparisce inutile strage.
Un episodio
significativo del cambiamento di mentalità si ebbe quando il papa Paolo 6°
incaricò l’internunzio apostolico
mons.Francesco Lardone di restituire al governo della Turchia, in persona del
ministro degli esteri, lo stendardo dell’ammiraglio Muezzinzad Alì Pascià catturato
agli ottomani durante quella battaglia che era conservato in Vaticano, consegna
che fu eseguita il 5-3-1965 ad Ankara – Turchia. Ecco come il Papa, il 19-1-
1967, descrisse le intenzioni di quel gesto in una lettera al nuovo
ambasciatore della Turchia presso la Santa Sede:
Sotto il pontificato del
Nostro predecessore Giovanni XXIII, avevamo appreso con viva soddisfazione che
si stabilivano le relazioni diplomatiche tra la Sede Apostolica e il Suo Paese,
e questo aveva incontrato la Nostra piena approvazione. Tali relazioni sembra a
Noi che fino ad oggi si siano sviluppate in un’atmosfera di reciproca
comprensione e di amicizia; e non possiamo che congratularcene, mentre ne è una
nuova conferma la recente elevazione del Delegato, poi Internunzio in Turchia,
al rango di Pro-Nunzio Apostolico.
Poiché
Noi stessi desideravamo manifestare in qualche modo i Nostri sentimenti, con un
gesto che potesse essere gradito alle Autorità della Turchia contemporanea, è
stata per Noi una gioia restituire un antico stendardo, preso al tempo della
battaglia di Lepanto, che, da allora, si conservava nelle collezioni del
Vaticano.
Questo
Le dice, Signor Ambasciatore, quali siano le disposizioni che Ci animano nei
riguardi della Sua grande e bella Nazione. Crediamo di poterle garantire che i
membri della Chiesa Cattolica, che abitano sul Suo territorio, professano la
fedeltà più sincera alle Autorità del Paese. Se la Chiesa si preoccupa che i
Poteri civili riconoscano sempre ai suoi figli i loro diritti e ne assicurino
la piena libertà di azione, Essa non intende certamente sminuirne gli obblighi
di cittadini e di sudditi. Anzi, la fede ch’essi professano impone loro il
dovere di non essere secondi a nessuno in tutto ciò che riguarda l’attaccamento
alla Patria, e il giusto rispetto, dovuto alle legittime Autorità.
Nelle epoche che hanno preceduto la Prima
guerra mondiale, i conflitti bellici venivano considerati facenti parte della
natura dell’umanità, in quanto degradata dal peccato e bisognosa di redenzione,
cose inevitabili come la morte stessa e destinate ad essere superate alla fine
dei tempi. Ancora nell’Ottocento il papato impegnò propri eserciti in guerre
italiane (Prima guerra d’Indipendenza – 1848/1849; difesa di Roma nel 1848 e
nel 1870). Successivamente si orientò per una posizione di neutralità, almeno
fino al 1944 (Radiomessaggio natalizio di Pio 12°). Nel corso della
contrapposizione tra blocco delle potenze influenzate dagli Stati Uniti
d’America e il blocco influenzato dai sovietici parteggiò per il primo. Nel
1968 il cardinal Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, si dimise dopo le
polemiche causate da una sua presa di posizione contro il bombardamenti
statunitensi in Vietnam (fonte: Lorenzo Bedeschi, Il cardinale destituito, Gribaudi, 1968 – titolo non più in
commercio). Dopo la fine dell’Unione Sovietica e della contrapposizione per
blocchi, il papato è diventato una potenza di pace, anche se non del tutto
pacifica, in quanto, con Giovanni Paolo 2°, è giunto ad invocare interventi
militari umanitari, come durante la
crisi tra la Serbia e il Kossovo secessionista (1996-1998).
Le dinamiche conflittuali sono ancora un grave
problema irrisolto nella nostra confessione religiosa. Conflitti ci sono sempre
stati, fin dalle origini, nella Chiesa e intorno alla Chiesa. In genere,
storicamente, i cristiani e anche la Chiesa, intesa come papi e vescovi, vi hanno partecipato, senza confidare di
poterli prevenire. E’ molto recente l’idea di poter riuscire a farlo. Essa risale
alla fine della Seconda Guerra mondiale. Per riuscirci si confida negli
ordinamenti democratici, in cui i popoli hanno più voce. Il paradosso è questo: il magistero confida nella
democrazia come fonte di relazioni pacifiche, evidentemente ritenendo che i
popoli, liberi da despoti, si orientino per la pace, ma nella sua
organizzazione diffida profondamente della democrazia, perché in fondo ritiene
che i supremi principi non siano in buone mani se lasciate a quelle dei popoli.
L’insegnamento attuale del magistero, che in questo non è cambiato da quello
più antico, è che la logica della democrazia non ha posto nella Chiesa.
All’interno della nostra Chiesa le dinamiche conflittuali, talvolta assai
aspre, in genere vengono negate; la via principale per risolverle è il cercare
il favore dell’autorità sovraordinata.
Nel momento in cui si confida nella democrazia
per promuovere la pace nel mondo bisogna però prendere coscienza che il metodo
democratico non nasconde, ma porta alla luce i conflitti e le loro ragioni. Nel
dialogo ragionevole tra fautori di opposte fazioni si cerca innanzi tutto di
far emergere ciò che unisce e, facendo forza su di questo e, in particolare,
sul rispetto della dignità degli avversari, si cerca poi di giungere a
decisioni condivise. Quando ciò non è possibile, la regola è che decida per
tutti la maggioranza. I soccombenti si impegnano ad accettare tale decisione
perché non sono mai in questione i principi fondamentali della convivenza
civile, quelli che sono sottratti agli arbitri delle maggioranze. Si tratta di
ciò che rientra nei diritti umani fondamentali. Questo metodo richiede che nel
conflitto si abbia comunque un’etica, delle regole morali. Questo accade anche
nell’esperienza religiosa del conflitto, anche se ai tempi nostri se ne ha meno
coscienza. Oggi ad esempio può essere difficile accostare l’esperienza umana di
un personaggio storico come santa Giovanna d’Arco, una santa combattente.
Eppure in religione potremmo essere facilitati per il fatto che nella Bibbia,
in particolare nell’Antico Testamento, ci sono moltissime storie di guerre,
vissute in un orizzonte etico.
Dall’esperienza storica, anche recente, come
quella dei gruppi resistenziali cattolici combattenti tra il ’43 e il ’45, può
trarsi l’insegnamento che il vero pacifico non è quello che elude o nega i conflitti
che ci sono, o si limita a subirli passivamene, ma che invece vi partecipa con
spirito religioso. Questa azione può essere vista, sull’esempio dell’esperienza
democratica, come finalizzata alla promozione umana, al miglioramento degli
assetti sociali. In questo essa può avere una valenza religiosa. L’ispirazione
etica può portare al rifiuto di certe tecniche convenzionali di conflitto e, ad
esempio, all’impiego delle tecniche non violente che per la prima volta sono
state esposte da Ghandi.
Comunque, se nel perseguimento della pace le
masse devono avere un ruolo, e oggi la dottrina sociale della Chiesa ritiene
che debbano averlo, l’obiettivo a cui si mira richiede l’impiego del metodo
democratico. Ritenendo diversamente le masse possono trasformarsi rapidamente
anche in quelle bestie spaventose di cui scrissero gli antichi, quindi in folle
violente e sanguinarie che frequentemente hanno dato nella storia il peggio di
sé.
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Una riunione “politica”
(23-11-12)
Per ragioni di
lavoro non ho potuto partecipare alla riunione del gruppo dello scorso 20
novembre. Mi è stato riferito che è stata molto interessante. Ci si è
confrontati sul temi politici, in vista delle prossime elezioni per il rinnovo
del Parlamento, in particolare
sull’ideologia comunista e sul suo carattere ateo, sul confronto tra i
programmi di Obama e Romney alle passate elezioni presidenziali statunitensi e
tra i programmi proposti dalla destra e dalla sinistra politica, qui in Italia,
alle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento.
La politica entra in
chiesa? Certo che deve entrarci, perché, specialmente dopo le decisioni assunte
nel Concilio Vaticano 2°, all’impegno nella società civile, e quindi pure a
quello politico, viene riconosciuta una valenza anche religiosa. Religione e
politica, fede e ideologia civile, non sono mondi che non si toccano mai, per
cui una persona possa passare con disinvoltura dall’uno all’altro e viceversa
semplicemente cambiandosi d’abito ed assumendo in ciascun ambiente un contegno
diverso, come quando, usciti dall’ufficio, si va allo stadio e si fa il tifoso.
I nostri capi religiosi ci hanno inoltre avvertito: non dobbiamo confidare di
poter avere da loro la soluzione di tutti i problemi della nostra civiltà:
Se l'ufficio della gerarchia è
quello di insegnare e interpretare in modo autentico i principi morali da
seguire in questo campo, spetta a loro [ai laici], attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente
consegne o direttive, penetrare di spirito cristiano la mentalità della loro
comunità di vita.
[dall’enciclica Populorum progressio – 1967 – del papa
Paolo 6°].
Ragionare sulla società è un compito
necessariamente collettivo. Nessuno, da solo, senza compagni, può pretendere di
avere una visione completa dei problemi, specialmente in società complesse e
molto popolate, composte globalmente di sette miliardi di individui le cui vite
sono sempre più strettamente connesse (così argomentava la filosofa Hanna
Arendt). Quando ci si confronta sulla politica con spirito di dialogo, quello
che consente di prendere in esame le ragioni di tutti, occorre poi farlo con
metodo democratico, quindi innanzi tutto rispettando la pari dignità di
ciascuno. Questo non toglie che chi ne sa di più, per cultura ed esperienza,
potrà dare un contributo maggiore al dibattito, ma solo se renderà quello che
dice accessibile anche a chi ne sa di meno, non pretendendo quindi di essere
obbedito in virtù di un’autorità riconosciuta a priori alla stregua di un
titolo nobiliare. Certe volte anche i sapienti si ingannano e le virtù dei
semplici illuminano dotti sofismi.
In ambito religioso e in particolar modo tra i
cattolici c’è il problema di che ruolo riconoscere in questo ai preti. Sarebbe
strano escluderli da questi temi, proprio loro che hanno tanti tesori di
sapienza e di etica da comunicare. Essi hanno quindi facoltà di parola, ma con
pari dignità con gli altri laici che partecipano al dibattito. Questo deve
essere molto chiaro. Come laici dobbiamo resistere alla tentazione di seguirli
per spirito di obbedienza religiosa, anche se, erroneamente, ci venisse d
richiesto di farlo. Ragionando diversamente si costruirebbe un partito dei preti, in cui chi ubbidisce
eluderebbe in fondo le proprie
responsabilità storiche di cittadino. Sappiamo poi che la nostra Chiesa rifiuta
di essere organizzata democraticamente: un partito
della Chiesa introdurrebbe una forza non democratica nel governo della
nazione. Il mantenimento di una organizzazione democratica della società è invece
una delle principali responsabilità dei cittadini, la base della pacifica
coesistenza civile.
Sappiamo del resto che l’organizzazione del
clero storicamente non sempre ha espresso decisioni illuminate in materia
politica, essendo stata spesso bloccata dal timore di rompere con i potenti di
turno e di subire persecuzioni contro il suo personale o espropriazioni o
danneggiamenti di suoi beni (che in Italia costituiscono un patrimonio
imponente). In generale si è attestata, specialmente dall’Ottocento in poi su
posizioni attendiste, a volte opportuniste, se non francamente reazionarie,
timorose del nuovo. Nel Novecento hanno fatto eccezione i papi da Giovanni 23°
in poi. In Italia dobbiamo sempre avere ben presente l’esempio storico della Conciliazione con il Regno d’Italia, stipulata dai capi della nostra Chiesa nel
1929 con il dittatore Mussolini. Molti laici illuminati del tempo l’avevano
vivamente sconsigliata e poi se se sono vergognati. Con il senno del poi la
possiamo considerare una pagina veramente controversa nella storia della nostra
Chiesa. Quei Patti hanno pesato, e
molto, sui destini della cattolicità italiana, e non in senso positivo. Vennero
superati solo nel 1984. Prima di allora, in forza del Concordato lateranense,
le cui disposizioni vennero quasi interamente sostituite con l’accordo del
1984, vescovi, preti e religiosi non avrebbero potuto intromettersi in alcun
modo in politica. Quel Concordato venne a contrastare con la Costituzione
italiana entrata in vigore nel 1948 che non consentiva una discriminazione dei
cittadini su base religiosa. Tuttavia, per espressa disposizione
costituzionale, i rapporti tra la Repubblica italiana e la Chiesa continuarono,
fino al 1984, ad essere regolati dai patti del 1929, pur se certe norme
limitative caddero progressivamente in desuetudine. Con il protocollo
addizionale all’accordo del 1984 di revisione del Concordato lateranense la
Santa Sede e la Repubblica italiana si diedero reciprocamente atto di non
considerare più in vigore il
principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione
cattolica come sola religione dello Stato italiano. [art.1 del protocollo
addizionale]. Si pose in tal modo
rimedio a una decisione che non era più accettabile neppure nel 1929 e che
nondimeno era stata condivisa in sede di stipula degli accordi del 1929, i
quali, fra l’altro, istituirono a Roma la Città del Vaticano, strutturata come
un vero stato, con un piccolo esercito, giudici propri e, oggi, anche un solo
suo prigioniero, come sappiamo dalle cronache.
Ai tempi nostri la
Chiesa cattolica italiana, intesa in senso stretto come organizzazione
strutturata per l’esercizio di attività religiose, ha suoi specifici interessi
politici che riguardano le a) erogazioni che riceve dalla Repubblica Italiana,
le quali ammontano ogni anno ad oltre un miliardo di euro, alle quali si
aggiungono altre elargizioni che sotto varia forma le pervengono per altre vie
da organizzazioni statali o da altri enti pubblici (in particolare per la
conservazione dell’imponente patrimonio architettonico ed artistico di sua
proprietà), b) il regime fiscale delle sue attività, c)le erogazioni che le
pervengono per attività sanitarie svolte da strutture religiose in convenzione
con il Servizio Sanitario Regionale e c) gli aiuti che intenderebbe ottenere
per le attività nel settore dell’istruzione privata svolta da enti religiosi.
In questo campo, come è agevole intendere in base ai principi generali, non vi
è per il fedele che in quanto cittadino italiano abbia la possibilità di influire
sulla politica l’obbligo religioso di
aderire a tutte le pretese dell’organizzazione del clero. Si tratta di valutare
priorità che richiedono di considerare realisticamente tutte le attività svolte
dallo Stato e dagli enti pubblici che funzionano su base di partecipazione
democratica in relazione alle risorse disponibili e alle esigenze comuni,
innanzi tutto di chi sta peggio. Noi fedeli cattolici non siamo, in questo, una
sorta di sindacato cattolico o
addirittura una lobby (vale a dire un
gruppo di pressione politica) in difesa di quegli interessi particolari. Questo
rileva in particolare in un’epoca, come quella che stiamo vivendo,
caratterizzata da una progressiva diminuzione delle risorse destinate ai
servizi pubblici.
La Chiesa cattolica
italiana, intesa come i suoi capi, i vescovi italiani, ha anche una piattaforma
di richieste specificamente politiche in alcuni settori dell’organizzazione
della società civile. Esse, in particolare riguardano: a) la disciplina legale
dell’aborto volontario, che si vorrebbe abolire; b) la disciplina legale del
divorzio, che si vorrebbe abolire o rendere meno facile da ottenere; c) la
disciplina legale della procreazione assistita, quindi della fecondazione al di
fuori dell’utero nei casi in cui la coppia di aspiranti genitori abbia
difficoltà a generare, con il correlato problema della sorte da dare agli
embrioni generati in soprannumero, disciplina che si vorrebbe molto
restrittiva; c) la disciplina legale delle famiglie composte da persone
omosessuali, che si vuole impedire; c)la
disciplina legale dell’interruzione di terapie non più utili e della
respirazione artificiale e dell’alimentazione e idratazione artificiale nel
caso di persone in coma irreversibile o che, sebbene non in quella condizione,
si trovino in gravi condizioni di menomazione fisica e chiedano la sospensione
di quegli ausili per porre fine a sofferenze non più necessarie a fini
terapeutici, per morire con dignità, secondo natura, disciplina che si vorrebbe
molto restrittiva. Su questi temi la posizione dei capi cattolici è fortemente
minoritaria nella popolazione italiana. Le materie del divorzio e dell’aborto
sono state già, nel 1974 per il divorzio e nel 1981 per l’aborto, sottoposte a
referendum abrogativi e le leggi che le contemplavano sono state mantenute in
vigore dalla volontà popolare. Da allora molti indici sociali denotano che il
consenso popolare a quegli istituti si è fatto ancora più forte. E’ esperienza
comune di coppie di fedeli cattolici che divorziano (anche se nel caso di matrimonio
religioso si parla di cessazione degli
effetti civili del matrimonio, perché le leggi religiose considerano ancora
indissolubile il vincolo religioso tra i coniugi), tanto che anche il recente
Sinodo mondiale dei vescovi (ottobre 2012) ne ha trattato, auspicando
un’apertura verso le persone che dal punto di vista religioso vivono in una
condizione irregolare a seguito di divorzi. Nella mia esperienza è piuttosto
comune anche il ricorso all’aborto volontario in strutture pubbliche da parte
di donne cattoliche. Lo possono confermare i sacerdoti che, abilitati a
rimuovere la scomunica che consegue di diritto alle pratiche abortive, operano
nei grandi santuari religiosi italiani. Sulle leggi riguardanti il divorzio e
l’aborto la Democrazia Cristiana, il grande partito dei cattolici italiani
cessato come esperienza unitaria agli inizi degli anni ’90, anche se si ritiene
che giuridicamente sopravviva ancora per questioni procedurali relative alla
sua trasformazione nel 1994 in Partito Popolare, si trovò in minoranza in
Parlamento già in epoche in cui il consenso alle tesi dei vescovi era maggiore.
Comunque, su tutte quella piattaforma politica dei nostri capi religiosi, i
cattolici, pur in minoranza, nella nuova realtà bipolare prodottasi dal 1994,
con una forte de-ideologizzazione di tutte le formazioni politiche, sono
riusciti spesso ad influire nel senso desiderato dai vescovi, con alleanze
informali al di là degli schieramenti politici di appartenenza. I risultati
qualche volta non possono essere considerati pienamente soddisfacenti. La legge
sulla procreazione assistita è incorsa in censure di incostituzionalità ed è
dubbia la sua conformità alla Convenzione di Strasburgo sui diritti umani e
allo stesso diritto dell’Unione Europea. Il ritardo nella regolazione
legislativa del fenomeno dei nuovi tipi di famiglia, che si sono affiancati a
quella naturale fondata sul
matrimonio tra uomo e donna, ha impedito di dare stabilità e certezza a
rapporti non illeciti che già ci sono nella società e non ha risposto a una domanda
di normazione che espressamente viene dalle persone coinvolte. Anche la nuova
disciplina sul cosiddetto accanimento
terapeutico, che sta per essere varata, ha sollevato molte critiche, anche
in ambito cattolico.
Bisogna considerare,
in merito alla piattaforma politica,
di cui ho detto, che tutte le attuali principali formazioni politiche sono
altamente laicizzate, nel senso di scarsamente connotate dal punto di vista
religioso, tranne piccole formazioni che ancora si richiamano all’esperienza
democristiana e alla dottrina sociale della Chiesa. La vera differenza tra
destra e sinistra è che a destra si ammette la libertà di opinione tra i
parlamentari, mentre a sinistra si tende
a imporre ai parlamentari scelte che non vanno nel senso desiderato dai nostri
capi religiosi. Questa è stata la causa
di alcune defezioni di parlamentari cattolici dalla sinistra. Quelle
materie, tuttavia, non sono al centro del dibattito politico di oggi.
Nessun partito politico di un qualche rilievo si propone di realizzare
integralmente questo programma politico
dei nostri vescovi, perché in Italia, su quelle idee, non c’è consenso maggioritario e, anzi, su alcuni temi il consenso si
va riducendo sempre più. Talvolta vi si fa riferimento in politica, ma
spesso ciò appare strumentale ad ottenere un appoggio politico
dall’organizzazione religiosa, senza una vera condivisione dei moventi ideali.
In passato ci sono stati effettvivamente indizi di tentativi di uno scambio
politico su singole e limitate questioni,
su questa o quella proposta di legge, nel senso di promettere un certo orientamento parlamentare su questa o quella
proposta di legge a fronte di un consenso politico della Chiesa verso certe
formazioni. Per quanto mi riguarda, penso che non vada comunque mai perso di vista
il contesto generale; occorre sempre considerare, tenendo conto della
situazione reale della nazione, che cosa si vada a produrre con alleanze
contingenti di quel tipo, posto che, come ho detto, la piattaforma politica dei
vescovi riguarda aspetti marginali della politica di oggi. Bisogna chiedersi
che cosa si produrrà per quanto riguarda gli altri aspetti politici, che, ad
esempio, riguardano anche gli impegni bellici della nazione, l’equità fiscale e
i servizi pubblici che consentano ai meno ricchi una vita dignitosa. Sarebbe
accettabile, ad esempio, barattare un’azione di interdizione parlamentare su
singole proposte di legge con un impoverimento delle classi svantaggiate, alle
quali tradizionalmente la destra politica è meno sensibile (consideriamo in
merito le questioni e prese di posizioni emerse nel confronto politico negli
Stati Uniti tra Romney e Obama)?
Per quanto riguarda
la tematica del comunismo ateo,
osservo innanzi tutto che parlare genericamente di comunismo non rende bene l’idea di ciò a cui ci si vuole riferire. Storicamente infatti vi
sono stati molti comunismi e non
tutti sono stati atei, in particolare
quelli che regolano la vita di alcune società primitive. L’idea di mettere in
comune i beni in attesa della manifestazione del soprannaturale in cui si
confidava era presente anche in alcune della comunità cristiane delle origini;
se ne parla negli Atti degli apostoli.
Tuttavia, nonostante che qualcuno definisca comunistico
quel modo di organizzazione di gruppo, non si può parlare a quel proposito
di comunismo, perché era assente in
quella esperienza l’idea di instaurare un nuovo ordine di tutta la società.
I comunismi di
impronta marxista, dei quali di solito si vuole parlare quando si parla di comunismo ateo, furono in genere effettivamente
antireligiosi in quanto anticlericali. Essi consideravano infatti la religione,
quindi la fede nel soprannaturale organizzata in una collettività strutturata,
come un imbroglio organizzato dai preti ai danni dei ceti più poveri, per
mantenerli sottomessi a gruppi di
privilegiati con i quali il clero era in combutta, sopendo su basi fideistiche ogni conato di rivolta.
Noi, con spirito religioso, sappiamo naturalmente che la fede non è un inganno,
ma certamente nella storia vi sono state epoche in cui il clero ha appoggiato i
dominatori delle società contro masse sottomesse ad ordinamenti ingiusti.
L’affermazione della democrazia, in particolare, è avvenuta anche contro la Chiesa cattolica, ricordiamolo
bene, la quale solo nel 1944 ha
accettato il regime democratico come quello preferibile.
Fu fortemente
antireligiosa l’ideologia sovietica, tanto da propagandare l’ateismo tra le
popolazioni dominate. Ma non tutti i comunismi furono allo stesso modo
antireligiosi e anticlericali.
In particolare il
comunismo italiano si è caratterizzato per un significativo apporto dei
cattolici (si veda ad esempio la figura di Franco Rodano), specialmente dopo la
Seconda guerra mondiale. Nel 1946 con una modifica dell’art.2 dello statuto del
Partito comunista italiano venne consentita l’adesione al partito anche a
coloro che non professavano l’ideologia marxista leninista, ma condividevano il
programma del partito. Ciononostante anche la sola iscrizione al quel partito o
il sostenerlo vennero ufficialmente
dichiarati peccato mortale, passibile anche di scomunica come forma di
apostasia, con un provvedimento del 1949 del Sant’Uffizio (una congregazione della Curia Vaticana che oggi ha
diversa denominazione). Nel 1976 il segretario del Partito Comunista Italiano
dichiarò di accettare l’adesione dell’Italia all’Alleanza Atlantica (che
all’epoca si contrapponeva al sovietico Patto di Varsavia) e nel 1977, durante
la celebrazione a Mosca del sessantesimo anniversario della Rivoluzione
d’Ottobre, esplicitò al cospetto dei massimi leader comunisti del mondo la peculiarità del
comunismo italiano e la presa di distanza dall’esperienza sovietica. Nel 1979,
durante il 15° Congresso, venne modificato l’art.5 dello statuto del Partito
comunista italiano che faceva obbligo agli iscritti di conoscere e praticare
l’ideologia marxista leninista. Da questo momento può considerarsi venuta
definitivamente meno la pregiudiziale antireligiosa di quel partito, anche se
permaneva indubbiamente una sospettosità anticlericale determinata essenzialmente
dagli schieramenti politici dei vertici della Chiesa cattolica, in sede
nazionale e internazionale, e, in parte, anche dall’idea che in genere i preti tendessero a stare con i padroni e promuovessero una pacificazione sociale
intesa come sottomissione ad un ordine sociale ingiusto. Nel corso della
presidenza Gorbaciov dell’Unione Sovietica, dopo la crisi dei regimi europei
vassalli dei sovietici (a partire dal 1989) e con la fine dell’Unione sovietica
(1991), il Partito comunista italiano ha subito profonde metamorfosi, espresse
anche nel cambiamento della denominazione e del simbolo, nell’accettazione
della democrazia interna, nel ripudio del monolitismo, tanto che andò incontro
a diverse scissioni, e, infine, alla fusione con formazioni di diversa
ispirazione e tradizione. Oggi nessuno dei gruppi che sono derivati dal quel
processo di metamorfosi, frazionamento e fusione, benché alcuni di essi
mantengano la denominazione comunista, si rifà alle ideologie antireligiose e
anticlericali di matrice sovietica. Tutti, in particolare, hanno pienamente accettato l’ideologia
democratica contemporanea. Possiamo quindi concludere che oggi il comunismo ateo non è tra le proposte
politiche in lizza per le prossime elezioni. Mette conto di farne ancora menzione
in un dibattito sull’attualità politica?
Questa evoluzione del
comunismo italiano comincia a non essere più nota nemmeno agli italiani.
Possiamo pretendere che ne abbiano consapevolezza, ad esempio, gli immigrati
che giungono da noi da ogni parte del mondo? C’è in questo un compito da
svolgere, per chiarire bene le cose, in vista di un maggiore reale loro
coinvolgimento nelle questioni italiane, che possa preludere anche
all’acquisizione della cittadinanza. Ad esempio, per un ucraino parlare di partito comunista può suonare veramente
minaccioso, perché il suo modello di riferimento è il PCUS (Partito comunista dell’Unione sovietica
di un tempo).
Posto quindi che
a)non sarebbe degno della nostra comune cittadinanza politica determinarsi, nel
voto prossimo, sulla base di direttive od ordini precisi ricevuti dal clero e
non veramente condivisi, b) che la piattaforma politica dei nostri capi religiosi
è tutto sommato marginale e non
ha nessuna possibilità di essere attuata nelle attuali dinamiche democratiche,
potendosi al massimo esercitare un’influenza per attenuare certi estremismi e
che c) il comunismo ateo non c’entra nulla con la politica di oggi,
quali sono i temi centrali della prossima campagna elettorale?
A mio parere sono
due: rendere più coerente la struttura istituzionale della Repubblica,
correggendo certi eccessi di autonomia locale che sono derivati dalle politiche
del cosiddetto federalismo e in
particolare, ristrutturando il sistema e i poteri degli enti pubblici minori
che governano porzioni locali del territorio nazionale e consentendo al governo
nazionale di intervenire con maggiori poteri nel sistema delle autonomie
locali; contrastare la criminalità organizzata che sembra essere riuscita ad
infiltrare la politica, venendo a costituire una minaccia per l’ordinamento
democratico della nazione; individuare interventi per rivitalizzare l’economia
nazionale e, al tempo stesso, per mantenere un accettabile livello di servizi,
in particolare nel sistema sanitario e in quello scolastico, pur continuando a
seguire la linea di contenimento della spesa pubblica e di riduzione del debito
pubblico convenuta in sede di Unione europea. La crisi della finanza pubblica,
correlata a quella dell’economia nazionale, lascia meno spazi di azione. Per
questo i programmi delle varie formazioni in lizza non divergono molto e la
competizione tra di loro si fa su giornali, televisione e internet
essenzialmente sulla base della personalità dei candidati. Tuttavia differenze
ci sono, quanto ai risultati sperati. Bisogna solo avere la pazienza di
ragionare sui dati. Perché, ad esempio, tutti si propongono di ridurre “le
tasse”, ed è chiaro che di questo beneficerebbero i più ricchi che hanno
aliquote più alte e redditi maggiori, ma se poi le tasse fossero ridotte veramente
di molto mancherebbero le risorse per assicurare i servizi pubblici universali,
vale a dire che si vuole destinati a tutti, anche ai meno ricchi, sulla base di
certi livelli di prestazioni. Mi riferisco in particolare ai trasporti
pubblici, alla manutenzione delle strade, agli ospedali e alle scuole.
Concludo dicendo che
uno dei fondamentali esercizi di laicità
che la nostra associazione ci propone di fare è proprio quello di acquisire,
nel dialogo con gli altri, maggiore consapevolezza dei problemi della società
in cui viviamo, al di là delle solite parole
d’ordine e frasi fatte che non
accrescono di nulla la nostra conoscenza delle cose, tendendo a farci assumere
decisioni d’impeto invece che sulla base di mature e ragionevoli
considerazioni, in cui tener conto non solo del nostro particolare interesse, o
di quello della nostra Chiesa, ma anche di quello ti tutti gli altri.
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38
Noi e la storia. Chi siamo veramente?
(28 novembre 2012)
Su quale bilancia si
pesa la vita di un uomo? Secondo quale ordine si tirano le somme, da cui
risultano il guadagno e la perdita di questa vita, e appare chiaro il suo senso
ultimo? Di fronte alla natura non si può parlare di bilancia, perché tutto va
come deve andare secondo la sua legge intrinseca. Ma nell’uomo l’agire e
l’essere sono affidati alla libertà, e libertà significa che si può fare
qualcosa di giusto, ma anche di sbagliato, che si può preservare qualcosa ma
anche che qualcosa si può corrompere. Qual è dunque la bilancia, e quale
l’ordine?
[In: Romano Guardini,
La Rosa Bianca, Morcelliana, 1994, pagine
84, € 8. Commemorazione di Sophie e Hans
Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell, Willi Graf e prof. Dr Huber* – discorso pronunciato
a Tubinga il 4-11-1945]
*membri del gruppo di resistenti tedeschi La Rosa Bianca, giustiziati dal regime
nazista nel 1943.
Di solito quando si
pensa all’espressione scrutare i segni
dei tempi, che venne usata nella costituzione pastorale Gaudium et spes (n.4) del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), si
pensa ai tempi correnti, a quelli che stiamo vivendo nell’oggi. Il grande
insegnamento del papa Giovanni Paolo 2° (regnante dal 1978 al 2005) fu di
considerareil dovere di fare memoria veritiera anche del passato, per
discernere anche in esso ciò che merita di essere preso ad esempio e quello che
invece deve essere lasciato alla storia come manifestazione non più attuale o
addirittura negativa: si tratta del lavoro che egli chiamò di purificazione della memoria.
In
un certo senso siamo abituati a farci narrare la nostra storia di collettività
religiosa dai nostri capi, ma questo non rientra nel compito che riteniamo
essere esclusivamente loro. Tutti siamo chiamati a ragionare sulla nostra
storia, in particolare noi laici che abbiamo il compito specifico di ordinare secondo Dio le realtà temporali,
vale a dire di costruire, in ciò che è umanamente possibile, un ambiente e una
società dove gli esseri umani possano essere felici, secondo le nostre
prospettive religiose.
Non si tratta
naturalmente di mettersi al posto di Dio e di anticipare presuntuosamente il
giudizio finale sull’umanità e sui singoli suoi membri, evento sul quale in
questo tempo liturgico di Avvento poniamo particolare attenzione. Poiché però
noi non siamo stati creati dal nulla e in un nulla, ma siamo nati una
determinata storia nella quale ci siamo progressivamente inseriti con un ruolo
sempre più attivo e dalla quale siamo stati anche determinati e condizionati,
innanzi tutto in ciò che si definisce la cultura del nostro popolo, il
complesso di concezioni, abitudini, schieramenti, modi di esprimersi e via
dicendo, è nostro dovere, anche
religioso, darne una valutazione, che ci riguarda da vicino, in quanto ha ad
oggetto una esperienza di cui siamo parte.
Nella coscienza
religiosa si è sempre saputo che intere società possono andare contro i valori religiosi: è questo anche
l’insegnamento biblico. Molto più recente è la consapevolezza di doversi
attivare religiosamente per combattere quelle che vengono definite strutture sociali di peccato. Questa
espressione si trova in particolare nel magistero degli anni ’80 del papa
Giovanni Paolo 2°. Certe organizzazioni della società, intese come istituzioni
o movimenti, favoriscono o inducono al peccato, cioè a violare doveri
religiosi. E’ un fenomeno che i cristiani hanno sperimentato fin dalle origini,
fin da quando le istituzioni dell’impero romano pretendevano da loro l’ossequio
religioso agli dei antichi. Ai tempi nostri abbiamo preso coscienza che lo schiavismo fu una struttura di peccato,
ma si è trattato di una evoluzione culturale piuttosto lunga e travagliata. E’
stata considerata una struttura di peccato quella dei movimenti che inducevano
alla lotta di classe, ma
parallelamente, e su base biblica, si è anche presa maggiore consapevolezza che
pure l’ingiustizia su base classista,
dunque quella di coloro contro i quali si dirigeva la lotta di classe, è una
struttura di peccato. Nel 2000, durante il Grande Giubileo che si celebrò
quest’anno, si assistette a una spettacolare evoluzione di questa concezione:
la Chiesa, guidata dal Papa, si impegnò a riflettere su ciò che nel proprio
impegno storico aveva costituito struttura di peccato, proponendosi di
distaccarsene.
Di solito, quando
riflettiamo sulla nostra esperienza religiosa, tendiamo a schierarci tra i buoni e poi partiamo con varie critiche,
più o meno veementi, che riguardano quelli che non la pensano o non fanno o non
sono come noi e facciamo loro la morale. Non sto a fare esempi, perché
sicuramente ciascuno li ha in mente.
Pensiamo di essere gente pacifica, ma in realtà l’Italia ha un corpo di
spedizione militare in Asia. Facciamo parte della parte più ricca dell’umanità
e siamo piuttosto preoccupati del processo globale di ridistribuzione di una
parte delle ricchezze del mondo che si sta producendo a favore di popoli che
solo recentemente sono usciti dal sottosviluppo. E se dovessimo fronteggiare
strutture sociali di peccato che furono quello che schiacciarono i resistenti
tedeschi del gruppo della Rosa Bianca,
come ci comporteremmo. Innanzi tutto: saremmo capaci di esprimere una
veritiera, coraggiosa ed efficace critica sociale?
Qualche volta, quando
si parla dell’impegno dei laici cattolici nel mondo, li si pensa un po’ come
dei piazzisti del sacro, dei
venditori porta a porta di religiosità, sulla base delle indicazioni espresse
dai capi della ditta, del loro catalogo. Si ha qualche difficoltà nel
vederli invece impegnati un una riflessione creativa che riguardi anche i
principi e i valori, sulla base del
lavoro di purificazione della memoria e di approfondimenti personali che facciano
reagire fede e vita. Questo accade all’interno della nostra Chiesa, ma anche
fuori di essa. Spesso la persona di fede viene vista come un soggetto
eterodiretto e incapace di autonomia di giudizio. Un credulone affascinato dal
sacro.
Riprendere in mano i
documenti del Concilio Vaticano 2° può far apparire la sproporzione tra gli
impegni che, già negli anni Sessanta, si ritenne di affidare al laicato e ciò
che poi si è fatto in questo campo. E tuttavia dobbiamo tener conto che un
lavoro religioso non è condizionato dalle forze concretamente disponibili
in campo o dal tempo che si ha a
disposizione per agire. Esso vive nella prospettiva degli ultimi tempi ed è
sempre svolto nella prospettiva dell’Avvento. Per quanto effettivamente la
nostra buona disposizione d’animo e i nostri sforzi concreti contino, e siano
manifestazione della nostra adesione interiore alla fede comune, il compimento
di tutto non dipenderà da noi e c’è tutto il tempo che occorre per fare quello
che si deve.
Anche il piccolo
gruppo dei resistenti della Rosa Bianca, che agiva anche in una prospettiva
religiosa, non fu paralizzato dal considerare la scarsità del numero dei propri
aderenti rispetto al mostro sociale contro il quale si dirigeva la loro critica
sociale. A maggio ragione non dobbiamo esserlo noi, del gruppo parrocchiale di
A.C. in San Clemente papa, che viviamo, tutto sommato, in tempi tanto meno
complicati e pericolosi. Forse dovremmo però riscoprire l’entusiasmo dei nostri
anni di gioventù, questo sì. E pregare che il nostro lavoro sia continuato
anche da gente più giovane, nel nostro stesso filone ideale. Anche il
sacrificio della Rosa Bianca fu
fecondo in questo senso.
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39
La parrhesia* evangelica
(29 novembre 2012)
*parrhesia:
vocabolo del greco antico. Significa franchezza, libertà nel parlare. Parlare
pubblicamente, apertamente, coraggiosamente
…in condizioni di
innegabili (ma non imprevedibili) necessità, piuttosto che tacere tutti,
occorre che qualcuno si assuma l’iniziativa –non per velleità di protagonismo,
ma con cuore umile e mosso solo da “parrhesia” evangelica- di professare
pubblicamente la legge evangelica dell’amore e del rispetto dovuto ad ogni uomo
“Parlerò delle tue testimonianze davanti ai re
e non ne avrò vergogna” (Sa 119,46)
E
poiché ciò avvenga occorre che –nelle forme e con lo spirito dovuti, sempre di
più nell’educazione interna e nella formazione della Chiesa di Cristo di faccia
spazio non solo ai singoli episcopati, orientandoli a una coscienza eclesiale
propria ma non nazionalista, veramente “cattolica” ma che anche si dia respiro
alle grandi componenti in cui si articolano le Chiese locali, specialmente le
loro associazioni qualificate di laici: perché divenga sempre più vero quello
che si dice, e cioè che ai laici particolarmente spetta intervenire
direttamente nella costruzione politica e nella organizzazione della vita
sociale, agendo di propria iniziativa e cooperando con gli altri cittadini
secondo la specifica competenza e sotto la propria responsabilità.
…occorre
compiere una revisione rigorosa di tutto il proprio patrimonio culturale e
specialmente religioso, purificandolo radicalmente da ogni infiltrazione
emotiva e da ogni elemento spurio che non attenga al nucleo essenziale della
fede e che possa favorire anche solo in maniera indiretta ritorni
materialistici o idealistici capaci di alimentare miti classisti, nazionalisti,
razzisti ecc.
[Da Non restare in silenzio mio Dio, di
Giuseppe Dossetti, introduzione scritta per il volume di L. Gherardi, Le Querce di Monte sole; ora in Giuseppe Dossetti – La parola e il silenzio
– Discorsi e scritti 1986-1995, Paoline Editoriale Libri, 2005, €22,00]
Su certi temi religiosi è inutile cercare istruzioni nei vari catechismi in
commercio. Si tratta infatti di materie sulle quali ancora si discute e si
sperimenta e non si è ancora trovata una posizione stabile, se non definitiva.
In particolare questo accade per quanto riguarda l’impegno religioso nei laici nella storia per influire
sulla costruzione degli ambienti umani e delle società.
Occorre riassumere brevemente alcuni punti che
ho trattato precedentemente:
-alle origini, diciamo nei primi
quattro secoli della nostra era, le Chiese cristiane
erano ben distinte dalle istituzioni civili, alle quali prestavano obbedienza in ciò che non contrastava
con doveri religiosi ma sentendosi come
stranieri (“ogni terra straniera è per
loro patria, e ogni patria è terra straniera”,
citazione dalla Lettera a Diogneto,
scritto anonimo che si fa risalire
alla fine del secondo secolo della nostra era);
-dal quarto secolo il cristianesimo
diviene l’ideologia unificante dei sistemi politici
delle nazioni dominate dalle istituzioni imperiali romane e poi, nell’Europa occidentale dei sistemi
politici succeduti al crollo delle istituzioni imperiali
romane; in questa nuova situazione si instaura una dialettica, fatta di accordi e scontri tra le autorità
religiose e quelle civili, in cui i popoli vengono
in rilievo essenzialmente quali sudditi di una specie di condominio in cui è molto importante stabilire chi comanda nelle varie questioni, a seconda
che abbiano rilievo esclusivamente o prevalentemente religioso o rilievo civile; oggi può sembrare
strano, ma, in queste dinamiche e concezioni,
la pace tra i popoli non è un
veramente un valore nella prassi politica,
compresa quella delle autorità religiose; non lo è neanche l’autodeterminazione dei popoli (le
concezioni democratiche contemporanee sono
molto lontane);
-Dal Cinquecento comincia ad affermarsi
l’idea che i sistemi sociali possano essere
mutati per corrispondere ad esigenze razionali. Si tratta dei movimenti ideali precursori delle
concezioni democratiche contemporanee. In
queste epoche i popoli cristiani sono dominati da monarchie ereditarie, che si sentono minacciate dalle nuove
idee. Il Papato solidarizza con le dinastie
monarchiche diventa una forza di
reazione. Questo atteggiamento si
inasprisce di fronte ai sommovimenti politici della fine del Settecento e poi nell’Ottocento. I movimenti democratici
vengono essenzialmente concepiti dai
Papi come fonte di disordine sociale e di disubbidienza anche alle autorità religiose. In Italia la
situazione è particolarmente grave perché l’unità
nazionale si costruisce anche contro il Papato, che domina Roma. Le ultime condanne papali della democrazia, sia
pure orientata in senso cristiano,
risalgono agli inizi del Novecento;
-la situazione muta molto con
l’esperienza delle due Guerre Mondiali del Novecento
(1914/1918; 1939/1945) e, in particolare, in nel confronto con i regimi totalitari fascisti e nazisti
(la Chiesa cattolica invece in quel periodo non
fece esperienza diretta del
totalitarismo sovietico, in quanto quest’ultimo dominava nazioni cristiane ortodosse); in quell’epoca
comincia a diventare centrale il
tema del perseguimento della pace
universale e perpetua non più solo
mediante accordi con i capi delle nazioni (che con i capi fascisti, nazisti non avevano funzionato e che non si era
neppure potuto iniziare a intavolare con
i capi sovietici), ma attraverso un’azione collettiva di masse illuminate;
-da quell’esperienza, dalla quale la
posizione morale del Papato esce gravemente
pregiudicata pur se la nuova Europa era andata strutturandosi anche in base si riallaccia a principi cristiani soprattutto per merito di movimenti laicali che, allontanandosi dall’atteggiamento prudenziale del Papato, avevano partecipato alla resistenza europea contro i fascismi e i
nazismi, scaturì un diverso
atteggiamento verso la democrazia, vista ad un
certo punto come una forza che poteva impedire il riaffacciarsi dei totalitarismi. Richiamo il celebre
Radiomessaggio Natalizio del 1944 del papa
Pio 12°:
“Il
problema della democrazia
Inoltre — e questo è forse il punto più
importante —, sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel
cocente ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come
risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di
fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente.
Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di
un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono un sistema
di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.
Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla
guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima,
forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse mancata la
possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il
mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che
affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre
creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi è forse
da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene
largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più
efficacemente ai destini degli individui e della società?”
-Bisognerà però
arrivare agli anni Sessanta, al Concilio Vaticano 2° (1962- 1965)
e all’enciclica Populorum
Progressio (1967) del papa Paolo 6°,
perché il Papato chieda ai popoli
cristiani una autonoma e originale iniziativa dei
laici cattolici per la realizzazione di
un ordine giusto e pacifico.
Siamo arrivati ai tempi nostri,
caratterizzati da discussioni e sperimentazioni sul tema dei rapporti tra
impegno religioso, promozione umana,
in particolare elevazione degli umili, e
contrasto di strutture
sociali di peccato, in esso compresa la liberazione
degli oppressi. Il fine è di pacificare la società costruendo ordini
sociali fondati sulla giustizia (per il legame che biblicamente si vuole vedere tra giustizia e pace).
Tuttavia si è vista che un’azione di pacificazione
di questo tipo può non essere del tutto o per nulla pacifica, richiedendo di combattere le forze che promuovono e
mantengono l’ingiustizia. In Italia questa è stata appunto l’esperienza storica
delle forze cattoliche che aderirono alla resistenza armata al fascismo e
all’occupante nazista, tra il ’43 e il ’45: si definivano ribelli per amore.
Il più notevole tentativo di
costruire un movimento di quel tipo, che si situasse tra l’organizzazione
ecclesiale in senso proprio e le organizzazioni della società civile, non
caratterizzate religiosamente, è stato quello delle varie teologie della liberazione, che originarono negli anni Sessanta e vennero duramente contrastate e represse,
in particolare sotto il Papato di Giovanni Paolo 2°, per motivi prettamente
teologici e per motivi politici, in quanto le si sospettava di cedimento alle
ideologie marxiste e di assecondare i disegni sovietici nell’America latina.
Negli anni ’80 e ’90 abbiamo assistito ad un
forte attivismo politico internazionale, nel senso di cui dicevo, da parte del
papa Giovanni Paolo 2°. Esso lasciò poco spazio ad autonome iniziative laicali.
Si affermò in questo il modello di impegno laicale della Polonia, molto legato
al collegamento con i vescovi. In Italia, dopo la fine dell’esperienza unitaria
democristiana, poco spazio è stato lasciato ai laici e sui temi specificamente
politici con rilevanza religiosa ha inteso esercitare un’azione di coordinamento
la Conferenza Episcopale Italiana. Negli ultimi due anni ha ripreso ad essere
molto attiva anche la Segreteria di stato Vaticana, qualche volta con
iniziative che divergevano dalle concezioni della Conferenza Episcopale
Italiana. Insomma, il laicato italiano è continuato ad essere quel brutto anatroccolo di cui ha parlato
Fulvio De Giorgio nel suo bel libro omonimo del 2008.
Un momento di particolare tensione si ebbe al
tempo del referendum abrogativo in merito ad alcune norme della legge sulla
procreazione assistita (2005), in cui la gerarchia cattolica aveva,
indirettamente naturalmente, consigliato l’astensione, per non far raggiungere
il numero minimo di votanti perché la consultazione fosse efficace e invece
diversi cattolici decisero di andare a votare, pur votando contro l’abrogazione
della legge (che era conforme alle concezioni dei vescovi). Volarono parole
grosse tra laici schierati su posizioni opposte. Chi era conosciuto come
cattolico e andava a votare veniva visto come in aperto dissenso con la
gerarchia. In quell’occasione si manifestò chiaro il problema aperto
dall’attivismo autonomo che si era iniziato a pretendere dai laici cattolici:
esso doveva necessariamente svolgersi con metodi democratici e quindi
rispettando la dignità morale e la libertà di coscienza di ciascuno. Questa
convinzione fa fatica ad affermarsi nella nostra Chiesa, dominata da una
gerarchia che rifiuta il metodo democratico nei compiti che sono suoi propri,
ma è costretta a tollerarlo nell’azione nella società, se vuole veramente
coinvolgere le masse nello sviluppo di una società ispirata a valori religiosi.
Le cose si sono complicate ulteriormente per
l’alta laicizzazione delle attuali formazioni politiche, per cui l’adesione a
un determinato orientamento religioso, ad esempio alla dottrina sociale della
Chiesa, non è più presentato come caratterizzante e da tutti si fa professione
di tolleranza e multiculturalismo. Ma sono più complicati anche i problemi e i
dilemmi davanti ai quali ci si trova. Vi è la necessità di ragionare bene sulle
cose e sugli effetti delle proprie decisioni, in uno spirito che, in
democrazia, non può tener conto solo degli interessi della propria parte, fosse anche la propria Chiesa, ma
del bene di tutti i consociati. E allora certi sbrigativi appelli a votare
questo o quello, che sicuramente verranno anche in occasione delle prossime
elezioni politiche, come sono venuti nel passato, vengono accolti spesso con
fastidio, perché gli anni del dopo Concilio non sono stati senza effetto e
quindi non si tollera più umiliarsi nell’atteggiamento di sudditi di un potere
indiscutibile, fosse anche a base sacrale, ma ci si sente impegnati a un
atteggiamento responsabile che impone di capire e di convincersi bene sui vari
temi. L’autorità, nelle cose della politica e, in genere, della costruzione
delle società umane, la Città dell’uomo di
Lazzati, non va data per scontata, ma deve essere conquistata giorno per giorno
con buoni argomenti ed esempi edificanti.
L’Azione Cattolica si sente particolarmente
impegnata nell’azione di formazione delle coscienze necessaria per svolgere
responsabilmente la missione che ai laici compete nel mondo di oggi.
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Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli