Azione
Cattolica: fede religiosa e democrazia
Terza parte
(Le prime due parti sono state pubblicate nei post che precedono)
di Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa -
Roma, Monte Sacro, Valli
edizione settembre 2017, con nuovi materiali
40
Eterno presente o apertura verso un
futuro diverso
(30 novembre 2012)
41
Sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente
e rilevanza religiosa della democrazia
(1 dicembre 2012)
42
La pace universale come finalità religiosa
(3 dicembre 2012)
43
Che fanno i laici cattolici nel mondo?
(3 dicembre 2012)
44
Laicità dello stato: nuovo fronte religioso?
(9 dicembre 2012)
45
Civiltà cristiana e Azione Cattolica
(15 novembre 2012)
46
L’incontro della Chiesa col mondo
(23 dicembre 2012)
47
Cattolicesimo forza di progresso?
(29 novembre 2012)
48
Fede religiosa, forza di progresso
(4 gennaio 2013)
49
Noi, la Chiesa e la società nella crisi
(7 gennaio 2013)
50
Un processo continuo di liberazione
(8 gennaio 2013)
51
Pace come promozione umana
(13-1-13)
52
Unita’/comunione nella Chiesa e promozione umana
(13 gennaio 2013)
53
Scrutare
i segni dei tempi
(15 gennaio 2013)
54
Fede cristiana: speranza
credibile e onesta o pia illusione?
(17 gennaio 2013)
55
La Chiesa vuole rinnovare il mondo
(19 gennaio 2013)
56
Democrazia, difficile virtù
(22-3-16)
57
Dottrina sociale, liturgia e Concilio Vaticano 2°
(23-3-16)
58
Convincersi della democrazia
(24-3-16)
59
Democrazia dei cristiani, democrazia di tutti
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40
Eterno presente o apertura verso un futuro diverso?
(30 novembre 2012)
Da parte di Abramo
dunque … emerge una disponibilità all’accoglienza dei tre uomini, dei tre
stranieri che, inesplicabilmente, si trovano improvvisamente davanti a lui. La
tradizione mistica di Israele qualificherà questa disponibilità come bontà o carità
(“chesed”) ... li riceve: non come dei simili o degli uguali, ma come esseri
misteriosi … e di grande importanza. […] Il presente di Abramo …
improvvisamente è messo allerta da un mistero. Li riceve come se dei visitatori
fossero, per principio, sempre messaggeri dell’Eterno, esseri che bisogna
servire senza chiedersi se lo meritano. Messaggeri che per di più dovrebbero
essere serviti prima di Colui che li ha inviati. Il che sembra –in ogni caso
qui- il modo migliore per servirLo. [… ] Il presente … si trova liberato dalle
limitazioni insopportabili e mortali perché si mostra capace di essere toccato
dal mistero dell’altro, dalla sua presenza discreta e inafferrabile.
In questo racconto della Torà è questo mistero
che fa dell’altro un inviato dell’Eterno
–un angelo- e non è il fatto di aspettarsi dall’altro che risponda finalmente
al mio desiderio e sia lo strumento della mia soddisfazione che porta a vedervi
un angelo. [… ]
Ricevere un angelo –il soffio e le parole
dell’Eterno incarnati, fugacemente, qui e ora, in un uomo, in uno straniero – è
dunque prendere delle iniziative –
preparare da bere e da mangiare –senza cercare prima di familiarizzarsi con
l’identità dell’altro e ancor meno chiedersi come trarne profitto per sé ,,, è
considerare l’altro … irriducibile a ogni conoscenza che si pretenda di avere
di lui.
[…] Il racconto studiato qui mostra come,
grazie all’accoglienza di questo mistero, la chiusura nel presente si schiude e
come ciò che sembrava impossibile è annunciato come possibile, la novità,
l’avvenire, la nascita di un figlio […] Infatti solo l’alleanza della Parola e
della carne fa vedere a una persona ciò che, fino a quel momento, restava
invisibile, impercettibile o senza presenza di carne.
[In: Catherine Chalier, Angeli
e uomini, Giuntina, 2009, pag.53-55; commento al racconto biblico di Gen
18,1, l’apparizione ad Abramo di tre uomini alle querce di Mamré]
Uno dei pregi
maggiori che alcuni pensatori del passato hanno visto in alcuni tipi di
religiosità è l’apertura al futuro, all’inaspettato. Nel cristianesimo è l’aspetto della speranza che ha colpito particolarmente
anche fuori del nostro mondo.
In religione si
confida di essere liberati dalla morte e di essere salvati dalla pena eterna.
Quando accadrà questo? Nessuno lo sa, ci viene insegnato; è scritto. Nei
travagli dell’oggi siamo convinti però che qualcosa è cambiato, proprio nel
mondo in cui viviamo, con la nascita di Gesù, migliaia di anni fa. E che alla
fine dei tempi si avrà il compimento beato di tutto ciò che nella fede
religiosa crediamo, con il ritorno glorioso di Cristo. Nel frattempo siamo però
invitati a non rimanere inattivi. Bisogna rimanere vigili e pronti, come le
sentinelle nella notte (così sosteneva Dossetti). In particolare bisogna scrutare i segni dei tempi, come fanno
gli agricoltori nel loro mestiere, per capire quando è tempo di seminare e
quando di raccogliere. Ma c’è di più: abbiamo la possibilità di influire sul
corso dei tempi, su come vanno le cose nel mondo, e, in particolare noi laici,
siamo stati invitati a farlo dai padri del Concilio Vaticano 2° e i nostri capi
religiosi non cessano di ricordarcelo. Questa nostra attività sembra che non
abbrevierà di un secondo il tempo che manca alla fine di tutto, ma manifesta il
nostro assenso a ciò che religiosamente crediamo, è il nostro concreto amen.
A parole sembra tutto
facile, nella pratica molto meno. Chi decide che cosa si fa per cambiare il
mondo? Il Papa e i vescovi, i quali hanno formazione prevalentemente teologica
e ci chiedono aiuto in tutto il resto? Decidiamo a maggioranza? E se poi le
maggioranze, come è accaduto, si pervertono e, invece di tendere a ciò che
conta, pensano prevalentemente al proprio tornaconto? E se non andiamo
d’accordo su ciò che deve fare, come mantenere l’unità della nostra
collettività religiosa?
Come ho scritto, si tratta di temi sui quali soluzioni soddisfacenti
non sono state ancora trovate, a mio parere naturalmente.
Nella nostra parrocchia, ad esempio,
convivono stili di religiosità molto diversi, che in qualche campo sono
addirittura contrastanti. Alla fine allora si tende a stare con chi la pensa
come noi e si fanno molte chiacchiere, spesso malevole, sugli altri. Una
ricerca sul WEB ci convincerà facilmente che circolano in rete le accuse più
tremende contro gli avversari, e sono sotto accusa addirittura Papi e Concili
ecumenici.
Non è che al di fuori
della Chiesa le cose vadano meglio. Si parla in merito di estesa frammentazione sociale e di corporativismo. Ognuno pensa per se e, di scontro in scontro, si
arriva solo a provvisori compromessi.
Un esempio storico di
ciò a cui voglio riferirmi lo abbiamo nella Palestina contemporanea.
Proprio lì, in luoghi sacri a tre religioni, sembra rivivere l’esperienza
desolante della biblica Babele. E anche noi cattolici pretendiamo di dire la
nostra al massimo livello, concludiamo accordi, intavoliamo trattative. Ma con
che risultati, poi? La mia spiritualità è poco legata a quei posti, che mi
sembrano anche piuttosto inospitali come ambiente naturale, visti con gli occhi
di un italiano. L’unico luogo a cui sono legato emotivamente è il “mare” di
Galilea, che è tanto simile al lago dove vado in vacanza d’estate, quello di
Bolsena. Ma capisco che il mio è un
punto di vista particolare, limitato, e che ci sono buoni motivi religiosi per
occuparsi di quelle terre. Farlo pacificamente sembra però piuttosto difficile
e la storia ce lo ha confermato e lo conferma ancora.
Eppure l’attesa del
futuro, la vera speranza, può avere
in fondo solo natura religiosa.
Un primo atteggiamento
che vorrei provare a sperimentare è confrontarsi con gli altri senza
preventivamente calcolare i vantaggi
che ci verrebbero da un’alleanza con loro o, viceversa, gli svantaggi. E’
l’insegnamento che la Chalier ricava, sulla base della riflessione dei saggi
ebrei, dal racconto biblico dell’incontro misterioso di Abramo alle Querce di
Mamre. Quindi di cogliere negli altri ciò che supera l’utilità materiale che le
loro vite possono darci.
La religione ci dà la
capacità di uno sguardo soprannaturale che consente di cogliere ciò che prima
restava invisibile, impercettibile, e che quindi veniva trascurato. E’ così che
ho spiegato alle mie figlie la protezione che i cattolici vogliono fornire a
organismi umani che non hanno ancora o non hanno più la capacità di entrare in
relazione con noi nei consueti modi degli esseri umani. E questo a prescindere
da altre questioni più complicate come quelle che riguardano l’anima e via
dicendo. Ma anche nei riguardi dei morti, di quelli che dal punto di vista
scientifico non vivono più, che mi capita di incontrare spesso in certi miei
turni di lavoro, l’animo rimane incredulo di fronte alla realtà fisica della
fine, del disfacimento dei corpi, della cosificazione dell’essere umano,
disgregabile in pezzi minuti nelle pratiche autoptiche, e, potente, emerge
l’esigenza di aderire alla promessa di salvezza che in religione abbiamo
accettato e professato.
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41
Sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente e rilevanza
religiosa della democrazia
(1 dicembre 2012)
…l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto
stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove
cresce quel corpo della umanità nuova che già riesce ad offrire una certa
prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba
accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del regno di
Cristo, tuttavia, tale progresso, nella
misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, è di grande
importanza per il regno di Dio.
Ed infatti quei valori, quali la dignità dell’uomo, la comunione fraterna e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della
natura e della nostra operosità dopo che li avremo diffusi sulla terra
nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di
nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando il
Cristo rimetterà al Padre “il regno eterno e universale: che è regno di verità
e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di
pace” [ dal Prefazio alla festa del Cristo Re]. Qui sulla terra il regno è già
presente, in mistero; ma non la venuta del Signore, giungerà a perfezione.
[ dalla costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n.39 Terra nuova e cielo nuovo, del Concilio Vaticano 2° -1962/1965]
Il tempo che ogni
martedì dedichiamo alla riflessione sui temi dell’Anno della Fede è troppo poco per un vero aggiornamento, se già
certe cose non le abbiamo conosciute e assimilate molto prima, nel corso della
nostra vita. Può al più dare spunti per ulteriori approfondimenti. Siamone
consapevoli: se vogliamo esercitare utilmente il diritto di parola che ci viene
riconosciuto su certi temi, dobbiamo fare uno sforzo per apprendere, innanzi
tutto leggendo i documenti che oggi generano i dibattiti più attuali. Potremmo
quasi dire che ci competono compiti a
casa. Ma non si tratta solo di questo. Poiché questa è azione religiosa ne dobbiamo fare materia di preghiera, perché ogni cosa sia vista,
pensata e agìta, come è scritto nel brano della Gaudium et spes che ho sopra trascritto, nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto.
Molti anni fa, quando facevo ancora le
medie, mio zio Achille, che era un importante sociologo italiano, piuttosto
seguito anche nel mondo cattolico, mi parlò della discesa della Gerusalemme celeste (Ap 21), nuovo cielo e nuova terra. All’epoca ero
molto appassionato di fantascienza, leggevo ogni due settimane i fascicoli
della collana Urania, e mi figurai la
cosa come una grandissima astronave che atterrava da noi. Mi sorprese che uno
scienziato come mio zio, una persona che nel suo lavoro era molto legata al dato statistico,
all’immagine realistica delle società del suo tempo attraverso sondaggi
condotti con metodi precisi e razionali, si appassionasse a cose come quella.
Per me, allora, la religione significava la Messa la domenica e le altre feste
tradizionali, le preghiere al mattino e alla sera (quando me ne ricordavo), non
eccedere in certe abitudini personali che i preti deploravano, fare quello che
i miei genitori mi dicevano, confessarmi ogni tanto. Non immaginavo che ci
fosse molto di più. La società andava come andava e io stavo ancora imparando a
vivere in essa, non mi passava per la mente di cambiarla. Pensavo anche che,
tutto sommato, mi era capitato di nascere tra gente buona. Poteva andarmi peggio. Sapevo che c’erano
anche i cattivi e quelli che soffrivano, ma li situavo in regioni lontane.
Della morte avevo un’immagine vaga, in genere collegata ai film eroici di
guerra, in cui si facevano belle morti,
nel senso di apprezzate dagli altri. “…adesso
e nell’ora della nostra morte” erano soltanto parole per me, frasi mandate
a memoria.
Certe idee ho
cominciato a capirle e ad apprezzarle veramente solo crescendo.
Dunque c’è, in religione, un lavoro da fare. Non c’è solo la parte, come dire, liturgica. E non si tratta solo di sforzarsi di non cedere agli
istinti. C’è una fatica che dobbiamo sobbarcarci ed essa riguarda il mondo in
cui viviamo, il tempo presente. Essa
consiste nell’ordinare meglio la società
in cui siamo inseriti. Perché è fatica? Perché, in genere, le società resistono ai cambiamenti, tanto più in
quanto sono fondate sull’ingiustizia, quindi su privilegi di alcuni rispetto ad
altri. Non è questa anche la vostra esperienza?
Questo lavoro nella
società, ci dice il Concilio Vaticano 2° sulla base della tradizionale
teologia, non è senza importanza per il regno di Dio. Ma, come? Non doveva venire dal cielo, la santa città, la nuova Gerusalemme, già tutta pronta per noi, come una sposa pronta per andare incontro
allo sposo? La nostra idea religiosa è che ciò che avremo costruito sulla
terra secondo i precetti di fede lo ritroveremo ai tempo del compimento beato, illuminato e trasfigurato. Capiremo
quindi che esso era già una manifestazione del regno beato, eterno e
universale. Cose come la dignità delle
persone umane, la comunione fraterna, la libertà. Siamo ben consapevoli,
naturalmente, dei limiti insiti in tutte le nostre costruzioni, per cui, qui e
ora, non ci azzarderemmo mai a dire il regno è qui. Confidiamo, ma senza
poterne avere la sicurezza, che certe cose che facciamo possano averci a che
fare: è questo il mistero di cui si
parla nel brano che ho sopra citato. Ma perché mistero? Perché, anche se contemplando l’opera nostra non possiamo,
in fondo, concludere, come nel Sesto giorno, che è cosa molto buona (Gn 1,31), perché non ci illudiamo e ne vediamo
le imperfezioni, tuttavia l’animo nostro
è pur sempre pieno, religiosamente, non tanto razionalmente, di speranza, confidando che ciò che per
mezzo nostro è stato generato dal contatto con un appello soprannaturale, poi sarà portato a
termine, quindi al compimento, da colui che ci ha chiamati e attirati verso di
sé.
Ora, bisogna prendere
coscienza che in quel brano della Gaudium
et spes ci sono cose che appartengono da sempre alla tradizione cristiana e
cose nuove. Queste ultime le possiamo considerare come manifestazione viva di
quel lavoro di cui si parla nel brano
medesimo. La cosa veramente nuova è l’appello
a tutti coloro ai quali il Concilio volle rivolgersi, vale a dire a tutte le persone umane [Gaudium et spes, 2], alla
sollecitudine nel lavoro per il progresso delle società umane verso la dignità
delle persone umane, la comunione fraterna e la libertà, attraverso nuovi e
migliori ordinamenti.
Vogliamo approfondire un po’ di più? Come
potremmo dire in modo diverso gli obiettivi di quei nuovi e migliori ordinamenti sociali indicati nella
Gaudium et spes? Butto lì: uguaglianza,
fraternità, libertà, i principi cardine delle democrazie moderne.
Si legge
nella nota 793 del Compendio della
dottrina sociale della Chiesa (2004)
793« Libertà, uguaglianza, fraternità » è stato il motto della
Rivoluzione francese. « In fondo sono idee cristiane » ha affermato Giovanni
Paolo II, nel corso del suo primo viaggio in Francia: Omelia a Le
Bourget (1º giugno 1980), 5: AAS 72 (1980) 720.
Per
oggi finisco qui. Per riflettere su certe cose serve tempo. Quando parlo con
gli altri non noto una grande consapevolezza della natura anche religiosa del lavoro che si fa in democrazia per il
miglioramento della società. Anzi sento spesso contrapporre religione e
democrazia ed alcuni con compiacimento proclamano che la logica della democrazia non ha posto nella Chiesa. Ne siamo
proprio sicuri?
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42
La pace universale come finalità religiosa
(3 dicembre 2012)
Tutti gli uomini quindi sono chiamati a questa cattolica unità del
popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in
vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri
credenti in Cristo, si infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia
di Dio chiama alla salvezza.
[dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium – n.13 -, del Concilio Vaticano 2°]
La prima volta che
mi posi veramente il problema della pace come finalità religiosa fu quando
partecipai, la sera dell’ultimo dell’anno del 1981, a una Marcia della pace che fu percorsa qui a Roma, dal Colosseo a piazza
San Giovanni e che terminò con la Messa nella basilica lateranense. All’inizio pronunciò un breve discorso il rabbino capo di Roma prof.
Elio Toaff e il tema che svolse fu quello del rapporto tra pace e giustizia: non si poteva
essere vera pace senza giustizia e la vera giustizia non era quella dei
compromessi che si fanno nelle storie umane ma quella religiosa.
Negli anni ’70, che
pure erano stati piuttosto turbolenti in Italia, si era parlato molto di pace nel mondo giovanile, ma in genere
non se ne era colto il senso religioso e questo nonostante la dottrina sociale
della Chiesa cattolica e il Concilio Vaticano 2° l’avessero molto messo in
risalto. Il mondo all’epoca era diviso in due blocchi, quello capitalista e quello
comunista, e la Chiesa cattolica veniva annoverata nel primo. Nella società
italiana, poi, la Chiesa cattolica veniva vista come alleata di chi comandava,
in politica con la Democrazia Cristiana, nelle relazioni di lavoro con i
padroni, tanto che c’era l’uso di chiedere raccomandazioni di lavoro al
parroco, quando non c’era di meglio.
Il problema è che, in
genere, il conseguimento della giustizia
richiede una lotta, non è una cosa naturale nelle società umane. In esse i
rapporti vengono strutturati sulla base della forza delle componenti che si scontrano per l’affermazione dei
propri interessi. Questo lega la stabilità delle società umane all’impiego
della forza e quindi, come conseguenza, la possibilità del mutamento di un
ordine sociale all’esercizio di una forza maggiore. Le democrazie contemporanee
sono i regimi politici in cui si fa un minor impiego della forza, ma anch’esse
si sono affermate con la forza, per scardinare ordini politici precedenti, i
quali resistevano al cambiamento.
Ma anche se si riuscisse
a realizzare un ordine giusto esso
tuttavia non potrebbe fare a meno di prevedere l’impiego di una certa forza, per resistere a sua volta a
cambiamenti prodotti dall’aggressione opportunistica di chi voglia di più per
sé o per il proprio gruppo. Nell’antichità romana si era soliti ricordare il
detto secondo il quale se si vuole la
pace, bisogna preparare la guerra, ma poi quel tipo di pace sarebbe
veramente tale? Tacito scrisse la celebre frase, a proposito della politica
romana: fanno un deserto e lo chiamano
pace.
Il problema della
pace universale è piuttosto recente. Risale fondamentalmente al periodo storico
in cui si affermò il movimento filosofico detto dell’Illuminismo, nel
Settecento. L’idea che in questo movimento per la pace universale possano
essere coinvolti tutti i popoli della terra, anche, per dire, gli
aborigeni o le genti socialmente meno sviluppate, è ancora più recente: risale
al periodo tra le due guerre mondiali del Novecento. Le immani stragi che ne
conseguirono, che non si erano mai verificate in alcun altro periodo della
storia dell’umanità, e soprattutto la possibilità concreta di stragi ancora
maggiore derivanti da un conflitto con l’impiego di armi nucleari, portarono
alla revisione delle idee che si avevano sul problema della guerra. Fino ad
allora la guerra, vista essenzialmente come manifestazioni di conflitti tra
dinastie regnanti, non era stata un vero problema per la Chiesa cattolica, che
vi si era, anzi, trovata spesso invischiata e, in ogni caso, aveva sempre voluto
dire la propria sulle guerre che coinvolgevano potenze europee. Del resto nella Bibbia ci sono molte guerre,
alcune che vengono presentate come giuste,
quelle a beneficio degli israeliti e dell’unità del loro popolo, e altre malvagie, quelle contro gli israeliti e
che comportano la divisione di quel popolo. Fondamentalmente l’ideologia
cattolica sulla guerra si era sempre rifatta a quell’ordine di idee.
Nell’Apocalisse, l’ultimo libro del Nuovo Testamento e della Bibbia cattolica,
si narra di molte guerre sanguinose e si situa alla fine dei tempi l’avvento
della pace religiosa, ma non come opera degli esseri umani, ma come iniziativa
portentosa soprannaturale, per cui la nuova Città
dell’uomo la si vedrà venire dall’alto, già tutta pronta, adorna come la sposa
per lo sposo.
Nelle guerre tra
popoli in prevalenza cristiani, i rispettivi preti e religiosi parteggiavano
per i propri stati e i propri eserciti, invocando il soccorso divino per le
pretese nazionali. Alla fine delle guerre, nelle nazioni dei vincitori si
celebravano Messe di ringraziamento per la vittoria e pochi vi videro un’incongruenza religiosa,
mentre il filosofo tedesco Emanuele Kant (1724-1804) vi scrisse sopra pagine
roventi nella sua opera Per la pace perpetua (1795). Secondo lui
si sarebbero invece dovute celebrare Messe funebri e riti penitenziali per
ricordare i tanti morti che la pace era costata sui due lati del fronte e,
soprattutto, l’insuccesso della ragione umana che non era riuscita se non con
quella barbarie a regolare i rapporti tra nazioni.
Un precursore come
don Lorenzo Milani entrò in contrasto con i cappellani militari per discorsi
come quelli e, quando si disse a favore dell’obiezione di coscienza su basi
anche religiose al servizio militare, fu messo sotto processo penale. Si era negli anni Sessanta, e si era già dopo il Concilio Vaticano 2°.
Il modo in cui nel
Novecento la Chiesa manifestò per un certo tempo la sua adesione alla pace fu quello della neutralità. Dopo la Seconda guerra
mondiale esso risultò profondamente insoddisfacente. Si disse, ad esempio, che
non era stato detto e fatto abbastanza di fronte all’enormità del disegno
criminale hitleriano dello sterminio delle popolazioni ebraiche europee,
manifesto fin dall’inizio come proposito e noto alla Santa Sede anche nella
fase attuativa attraverso i suoi canali diplomatici.
Rimanere neutrali è un modo debole di
promuovere la pace: semplicemente si
cerca di non accrescere le ragioni di conflitto e di non portarvi nuovi
combattenti, ma si rimane sostanzialmente indifferenti sulle cause della
guerra, che in genere si fondano su pretese ingiustizie sociali.
Dopo la Seconda
guerra mondiale la Chiesa cattolica parteggiò apertamente per il blocco
capitalista, che si contrapponeva a quello sovietico, in cui si era apertamente
avversi alla religione e al clero. Si vide un senso religioso allo stallo per
cui le grandi potenze nucleari, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, si
trovavano nelle condizioni di dover evitare un conflitto globale con l’impiego
di armi nucleari per il concreto pericolo di sterminare le loro stesse
popolazioni. Si trattava in effetti di un paradosso: la pace poteva essere
mantenuta mantenendo un equilibrio nelle armi più devastanti che andava sempre
situandosi al rialzo.
In Europa si andò
ideando un ordinamento diverso da quelli che avevano preceduto nella storia
dell’umanità, nel quale la pace fosse
mantenuta attraverso una forma di collaborazione e di integrazioni dei popoli.
Questo processo vide protagonisti politici cattolici, ma non la gerarchia
cattolica, in genere piuttosto sospettosa verso iniziative del genere. Essa
infatti ragionava essenzialmente, nella politica internazionale, in termini diplomatici e una nuova entità europea
sovranazionale sarebbe stato un altro organismo con cui patteggiare un
accomodamento, una specie di nuovo concordato,
qualcosa che metteva in questione gli accordi che già in varie parti si erano
raggiunti con gli stati nazionali.
In questo periodo, e
ancora oggi, l’idea di un’istituzione di promozione della pace universale che
la gerarchia cattolica ha è quella di una potenza sovraordinata a tutte le
altre potenze, capace di imporre una sorta di polizia internazionale per il
mantenimento della pace. Essa confida
molto nell’organizzazione delle Nazioni
Unite. Si è visto però che quest’ultimo organismo, che realizza una forma
di effettiva concertazione permanente tra nazioni, è in definitiva alla mercé
delle potenze maggiori, che oggi non sono più solo le potenze vincitrici della
Seconda Guerra mondiale. E la concertazione di maggior rilevo è quella che si
assume nel Consiglio di sicurezza in occasione di crisi internazionali, quando
viene data l’autorizzazione a una superpotenza militare di intervenire in un
teatro di guerra, come ripetutamente accaduto negli anni passati.
L’ordinamento
pacifico su cui si fonda l’idea europea è profondamente diversa, perché la si
vuole fondare dal basso e, in particolare, attraverso la realizzazione in
concreto di diritti umani fondamentali e di una comune dignità delle persone
dei popoli coinvolti nel processo di pacificazione. Questa soluzione si è
dimostrata capace di mantenere la pace in Europa dal 1945, tra popoli che si
erano storicamente combattuti per secoli, anche su basi religiose. Essa ha
anche determinato un moto centripeto, per cui i popoli d’intorno chiedono di
unirsi a quelli che si sono già in tal
modo federati. Addirittura questo moto ha coinvolto un popolo erede di
uno storico nemico come la Turchia, islamica.
Attualmente la
dottrina sociale della Chiesa oscilla tra l’idea di una pace mantenuta con la
forza da un’autorità mondiale e quella realizzata a partire da popoli
profondamente federati. La prima soluzione è conforme alla storica tradizione diplomatica della nostra Chiesa, quindi
alla sapienza con cui ha saputo intavolare di volta in volta trattative con i
sovrani, la seconda presenta l’incognita della volontà popolare. La gerarchia
cattolica è piuttosto diffidente verso quest’ultima, tanto da rifiutare la democrazia come metodo organizzativo al
proprio interno. Eppure è proprio dalla pace come obiettivo culturale dei
popoli che sono venuti i migliori risultati, lì dove si è avuto un disarmo degli spiriti che ha reso
inutili le armi materiali. La convergenza dei popoli ha prodotto l’abbattimento
di storiche e sanguinose frontiere come quelle tra l’Italia e l’Austria o tra
la Francia e la Germania. Ma il suo fondamento ideologico, pur dovendo molto
alle idee religiose dei cristiani, in particolare a quelle che erano state meno
sviluppate nella storia europea, non coincide totalmente con la dottrina
cattolica e, anzi, su certi punti può addirittura contrastare con essa, in
particolare in sviluppi recenti, come quelli che riguardano le libertà
religiose o la discriminazione su base sessuale.
C’è inoltre il
problema di costruire un nuovo ordine economico, fondato su principi di
giustizia sociale ma anche di efficienza economica. Questo è prettamente un
lavoro in cui devono impegnarsi i laici cattolici, ma che succede quando sono
in questione interessi economici della Chiesa cattolica intesa come
organizzazione?
Per la prima volta
nella storia i cattolici sentono che la questione della giustizia come
fondamento della pace universale coinvolge anche la loro Chiesa, la sua
struttura e i suoi interessi come organizzazione sociale. In particolare è
centrale il tema del ruolo delle donne, le quali, con varie argomentazioni,
vengono tenute fuori dai centri di elaborazione della dottrina comune. Ma
vengono in rilievo molte alte questioni che sono rimaste irrisolte e che in qualche
modo possono essere riassunte nel dibattito sull’appartenenza ecclesiale come unica via di salvezza. Questa è stata
storicamente l’occasione di infiniti conflitti a base religiosa.
In queste settimane
sono stati tra noi membri del movimento che si è formato intorno alla comunità
ecumenica di vita religiosa di Taizé, in Francia. Lì è concretamente dimostrata
e prefigurata la possibilità di una coesistenza pacifica tra diverse idealità
religiose cristiane che, dal punto di vista teologico, non è invece ancora del
tutto scontata.
Nel processo ideale
di unificazione europea la gerarchia è stata come trascinata dagli eventi, non
ne è stata protagonista. La dottrina sociale in merito è ancora insufficiente.
In questo noi laici siamo chiamati ad avere oltre che un ruolo esecutivo, un ruolo ideativo, a pensare un modo nuovo di essere persone religiose nella
nuova Europa. Poi, come sempre è accaduto, seguiranno la teologia e la
dottrina, per sancire ciò che si sarà dimostrato valido.
Azione cattolica è anche tutto
questo. Non consiste solo nel portare
gente in chiesa. E’ un compito molto complesso nella società del nostro
tempo. E’ un lavoro che supera le capacità del nostro piccolo gruppo
parrocchiale? In realtà no, perché noi ragioniamo religiosamente. Così come
nella Messa pensiamo di rendere presente l’unica Chiesa universale, allo stesso
modo possiamo ragionare tra noi sentendoci parte dell’intera umanità, per
escogitare, secondo la terminologia del filosofo e giurista Norberto Bobbio, le
vie della pace (1966, ripubblicato da
Il Mulino nel 2009).
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43
Che fanno i laici cattolici nel mondo?
(3 dicembre 2012)
Col nome di laici si
intende qui l’insieme dei cristiani ad esclusione dei membri dell’ordine sacro
e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere
stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella
loro misura, resi partecipi dell’ufficio
sacerdotale, profetico e regale di Cristo, compiono nella Chiesa e nel mondo,
la missione propria di tutto il popolo cristiano.
[…]
Per la loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio
trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e
lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale,
di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico,
e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la
testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro
speranza e carità. A loro quindi
particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali,
alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano
costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e al Redentore.
[Dalla Costituzione dogmatica Lumen Gentium (n.31), del Concilio
Vaticano 2° (1962-196)]
Vi propongo come pio
esercizio per questa settimana di imparare a memoria i due brani della Lumen Gentium che ho sopra riportato.
Sono legge molto importante della nostra Chiesa. E contengono alcune delle
affermazioni più rilevanti del Concilio
Vaticano 2°. Dalla mente devono scendere nell’anima e poi di nuovo devono
tornare alla mente, per progettare il futuro con la determinazione che è
richiesta dal carattere religioso dell’impegno a cui siamo chiamati.
Abituati forse ancora
a considerare Chiesa il Papa, i
vescovi, i sacerdoti e i loro stretti collaboratori, i monaci e le monache, i
frati e le suore, dobbiamo sforzarci ora di figurarci l’immane massa di
persone, quasi un miliardo di cattolici, che compone il resto, quella parte del Popolo
di Dio che viene denominata il
laicato (l’espressione, usata in questo senso, risale agli scritti di San
Clemente papa, I secolo della nostra era, al quale è intitolata la nostra
chiesa parrocchiale).
L'occasione immediata della lettera schiude
al Vescovo di Roma la possibilità di un ampio intervento sull'identità della
Chiesa e sulla sua missione. Se a Corinto ci sono stati degli abusi, osserva
Clemente, il motivo va ricercato nell'affievolimento della carità e di altre
virtù cristiane indispensabili. Per questo egli richiama i fedeli all'umiltà e
all'amore fraterno, due virtù veramente costitutive dell’essere nella Chiesa:
“Siamo una porzione santa”, ammonisce, “compiamo dunque tutto quello che la
santità esige” (30,1). In particolare,
il Vescovo di Roma ricorda che il Signore stesso “ha stabilito dove e da chi
vuole che i servizi liturgici siano compiuti, affinché ogni cosa, fatta
santamente e con il suo beneplacito, riesca bene accetta alla sua volontà... Al
sommo sacerdote infatti sono state affidate funzioni liturgiche a lui proprie,
ai sacerdoti è stato preordinato il posto loro proprio, ai leviti spettano dei
servizi propri. L'uomo laico è legato agli ordinamenti laici” (40,1-5: si noti
che qui, in questa lettera della fine del I secolo, per la prima volta nella
letteratura cristiana, compare il termine greco “laikós”, che significa “membro
del laos”, cioè “del popolo di Dio”).
[dalla meditazione svolta dal papa Benedetto 16° all’udienza
generale del 7-3-07]
La valorizzazione dell’impegno
religioso dei laici è uno dei temi
chiave lanciati da padri
conciliari soprattutto per sviluppi futuri, che ancora sono in corso.
Naturalmente considerare quasi
come un resto la gran massa dei
fedeli, detratti i membri dell’ordine
sacro e i religiosi, è una particolare prospettiva che risente del metodo della
teologia di ordinare le argomentazioni. Per la gran parte della storia della
chiesa i laici sono stati poi considerati essenzialmente come sudditi della potestà religiosa
esercitata dal clero, allo stesso modo in cui lo erano, nel campo civile, delle
dinastie regnanti e dei loro vassalli e funzionari. In effetti i Papi ebbero
anche, e ancora hanno sebbene in un ambito poco più che simbolico, la
condizione giuridica di monarchi, ad un certo punto equiparati come dignità
agli imperatori, ai re dei re, e i vescovi ebbero effettivamente la condizione
di feudatari e così i capi degli ordini religiosi maschili. Un suddito onora il
proprio Signore e gli ubbidisce e lo serve. Il potere religioso trovava
limitazione in quello politico civile e storicamente si ebbero varie
combinazioni tra gli stessi, con accomodamenti e anche conflitti. La gente del
popolo era, come dire, oggetto di una sorta di condominio tra autorità religiose e civili. Questo assetto c’era
nella Bibbia e, in particolare, nel Vangelo? Diciamo che ci si costruì una
teologia sopra, imposta ai fedeli laici per vincolo di obbedienza religiosa. Il
Concilio Vaticano 2° consacrò al massimo livello un profondo
ripensamento (già in corso da diversi anni), il quale naturalmente venne
espresso in termini teologici, collegandolo alle Scritture e alla Tradizione,
ma fondamentalmente originò dall’esperienza storica dei movimenti laicali
cattolici nell’Ottocento e nel Novecento e dalla constatazione che solo l’azione
di masse illuminate poteva contrastare i moventi ed esordi di conflitti
catastrofici come quelli che si erano prodotti in Europa fin al 1945. Ricordo
di nuovo il Radiomessaggio natalizio del 1944 del papa Pio 12°, la prima
manifestazione pubblica della nuova mentalità:
Queste moltitudini,
irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi
invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai
incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere
l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel
turbine disastroso della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il
ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci
garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi è forse
da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene
largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più
efficacemente ai destini degli individui e della società?
Forse, per una certa pigrizia e
rassegnazione, che anch’io, ormai cinquantacinquenne, comincio ad avvertire, pensiamo al nostro
impegno religioso come un farci
intrattenere con discorsi edificanti e belle liturgie. E invece dovremmo
essere costruttori di mondi, questo
appunto significa l’espressione trattare
le cose temporali ordinandole secondo Dio. E lo dobbiamo fare in modo
creativo, perché si tratta di cose per i tempi nuovi. Con competenza e guidati dallo spirito evangelico. E’ qualcosa che viene anche espresso anche con
il concetto di regnare. Ma siccome
dobbiamo farlo tutti insieme e
pacificamente, lo dobbiamo fare democraticamente
rispettando la dignità di ciascuno, compresa la libertà e la franchezza (in
greco parrhesia) di espressione. Ne
siamo consapevoli?
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44
Laicità dello stato: nuovo fronte religioso?
(9 dicembre 2012)
1. Il Discorso alla città pronunciato lo
scorso 6 dicembre 2012 dal cardinale arcivescovo di Milano Angelo Scola sul
tema L’editto di Milano:initium
libertatis (l’editto era quella del 313 dell’imperatore romano Costantino
che concedeva libertà di culto e di professione religiosa pubblica ai
cristiani) interroga sull’apertura di un nuovo fronte religioso in materia di laicità e aconfessionalità dello
stato.
Aconfessionalità dello stato significa che lo stato non riconosce
come propria alcuna religione, in
particolare quella cattolica, e quindi non si impegna a integrarla nel proprio
sistema di potere, anche solo come sistema
di valori etici.
Nello Statuto del Regno d’Italia del 4-3-1848 e nel Trattato Lateranense dell’11-2-1929 (uno
dei due accordi che sono noti come Patti
Lateranensi; l’altro è il Concordato)
era previsto, con forza di legge (ai Patti
Lateranensi fu data esecuzione nel Regno d’Italia con legge n.810 del 1929)
che la religione cattolica, apostolica romana fosse l’unica religione dello stato.
Con l’Accordo di
revisione del Concordato Lateranense del 1984, la Repubblica Italiana e la Santa
Sede:
·
tenuto
conto del processo di trasformazione
politica e sociale verificatosi in Italia negli ultimi decenni e degli sviluppi
promossi nella Chiesa dal Concilio Vaticano 2°
·
avendo
presenti da parte della Repubblica italiana, i principi sanciti dalla
Costituzione, e, da parte della Santa Sede, le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano 2° circa la libertà
religiosa e i rapporti fra la Chiesa e la comunità politica, nonché la
nuova codificazione del diritto canonico:
nell’art.1 del Protocollo
addizionale di quell’accordo, stabilirono:
·
“Si considera non più in vigore il principio,
originariamente richiamato dai Patti
Lateranensi,della religione cattolica come sola religione dello Stato.”
L’aconfessionalità della Repubblica Italiana si ricava poi
ulteriormente dal fatto che tutte
le confessioni religiose sono dichiarate
libere davanti alla legge (art.8, 1°
comma della Costituzione). La posizione della Chiesa cattolica risulta
particolarmente rafforzata in quanto la si dichiara con norma costituzionale
(art.7 della Costituzione), indipendente e sovrana nel proprio ordine, quindi un vero e proprio potere autonomo, di cui
lo staterello di quartiere Vaticano vorrebbe essere una sorta di
rappresentazione, e in quanto, con
l’art.7 della Costituzione si è prodotto un riconoscimento costituzionale del
diritto concordatario e, innanzi tutto, del principio
concordatario, che esclude modifiche unilaterali da parte dello stato, per cui si ritiene anche che il diritto
concordatario cederebbe solo dinanzi ai principi supremi dell’ordinamento dello
stato.
Il principio di laicità dello stato è qualcosa di più
della semplice aconfessionalità dello
stato. Significa che la dignità
civile dei cittadini non deve essere discriminata sulla base della religione
professata.
Ricordo, ad esempio,
che quando mio padre mi mandò a Dublino, negli anni ’70, per imparare un po’ di
inglese, all’epoca, nelle contee settentrionali ancora sotto dominio
britannico, si era nel periodo dei cosiddetti Troubles, dei moti degli irlandesi di religione cattolica che
lamentavano di essere discriminati nell’organizzazione statale e nell’economia
nazionale a motivo della loro religione.
Il principio di
laicità dello stato si ricava dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione ed
è considerato un principio supremo
dell’ordinamento della Repubblica italiana, capace di prevalere anche su
norme di rango costituzionale, ““uno dei
profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della
Repubblica” (sentenza della Corte costituzionale n.3 del 1989).
Per i principi di aconfessionalità
e laicità dello Stato le religioni non possono ottenere che lo stato imponga ai cittadini le loro norme
etiche e le proprie visioni del mondo.
Esse dovranno conquistarsi autorevolezza conquistando il consenso delle
persone. Comunque nessuna maggioranza
religiosa potrà mai ledere il principio di laicità e quello di aconfessionalità
dello stato, a meno di fare una rivoluzione,
di rovesciare uno dei principi supremi della Repubblica.
L’accordo di
revisione del Concordato Lateranense concluso
nel 1984 menziona i deliberati del Concilio
Vaticano 2°.
Nella Costituzione
pastorale Gaudium et spes sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo, al n.76 è enunciato il principio della laicità
dello stato:
·
La
comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel
proprio campo
Segue tuttavia un temperamento che corrisponde anche
all’attuale concezione delle nostre autorità religiose:
·
Ma tutte e
due, anche se a titolo di verso, sono a servizio della vocazione personale e
sociale degli stessi uomini. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio
di tutti in maniera tanto più efficace, quanto più coltiveranno una sana
collaborazione tra loro, secondo le modalità adatte alle circostanze di tempo e
di luogo.
Questa formulazione è
stata ripresa nell’art.1 dell’Accordo del 1984 di revisione del Concordato Lateranense:
·
La
Repubblica italiana e la Santa sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa
cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani,
impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti per la
promozione dell’uomo e il bene del Paese.
I conseguenti problemi (che ci sono sempre
quando organizzazioni che si riconoscono reciprocamente lo stato di poteri devono necessariamente
coesistere, condividendo, al modo condominiale, dei sudditi) si sono fatti più
acuti in Italia per tre ragioni:
·
il decremento della popolazione che si riconosce
cattolica (secondo una statistica pubblicata ieri si tratta di poco più del
60%);
·
la vasta inosservanza pratica da parte di chi si
riconosce cattolico dei precetti religiosi riguardanti l’esercizio della
sessualità (compresa quella omosessuale), la contraccezione, l’indissolubilità
del matrimonio;
·
il favore di larga parte dei cattolici a una
regolazione giuridica di forme di famiglia diversa da quella tradizionale
(basata su matrimonio eterosessuale tendenzialmente di lunga durata) e di
limitazioni su base volontaria a sussidi meccanici o farmacologici alla
sopravvivenza in condizioni di sofferenza estrema in cui non vi è alcuna
prospettiva di miglioramento;
·
il vasto dissenso, anche tra i cattolici e
specialmente in periodi crisi, all’aumento delle erogazioni di fondi pubblici a
sostegno di attività della Chiesa cattolica e di altre confessioni religiose e
a forme di esenzione fiscale che riguardano in particolare molte attività
svolte da organizzazioni della Chiesa cattolica;
·
l’aumento, a seguito di imponenti fenomeni
migratori, di fedeli appartenenti ad altre confessioni religiose, i particolare
a confessioni islamiche e cristiane ortodosse.
La Chiesa cattolica
appare oggi particolarmente preoccupata sulle seguenti questioni:
·
la progettata introduzione di una disciplina
giuridica del matrimonio tra persone omosessuali, con la conseguente
possibilità di adozione di figli;
·
l’equiparazione, ai fini degli interventi
pubblici di sostegno, alle famiglie tradizionali basate sul matrimonio
eterosessuale tendenzialmente di lunga durata ad altri tipi di famiglia, basate
sulla semplice convivenza o su forme di matrimonio omosessuale;
·
il potenziamento della rete delle strutture
sanitarie in cui possano essere praticati gli interventi di interruzione
volontaria della gravidanza (allo stato assai carente in alcune Regioni, in
particolare del Meridione);
·
l’autorizzazione al commercio di farmaci
abortivi, che consentano l’interruzione volontaria della gravidanza senza
interventi chirurgici invasivi;
·
la possibilità sempre più larga, a seguito di
sentenze dichiarative di incostituzionalità della legge in materia di
fecondazione assistita, di ricorrere a diagnosi di salute degli embrioni
realizzati al di fuori dell’organismo della donna e ancora da impiantare, in
modo da selezionare quelli non
affetti da patologie rilevabili;
·
la possibile introduzione di una disciplina
giuridica sulla eliminazione, o impiego a fini di ricerca, degli embrioni
prodotti in soprannumero nel corso di procedure di fecondazione assistita;
·
la revisione in peggio di esenzioni fiscali ad
attività svolte da organizzazioni della Chiesa cattolica o ad essa collegate,
in particolare nel campo assistenziale, scolastico e sanitario;
·
il diniego di finanziamenti, sotto varie forme
giuridiche, a organizzazioni scolastiche della Chiesa cattolica o ad esse
collegate;
·
la progettata introduzione di norme giuridiche
in materia di fine vita che attribuiscano al malato grave la decisione finale
dell’interruzione di sussidi meccanici o terapeutici alla sopravvivenza in caso
di patologie gravi, irreversibili e che creino grandi sofferenza, sia sulla
base di una volontà espressa al momento in cui si pone il problema, sia su
volontà anticipatamente espressa in un atto che debba valere per un momento futuro, al realizzarsi di certe
condizioni, sia sulla base della ricostruzione della presumibile volontà del malato
in base a certe sue manifestazioni di pensiero prodotte nel corso della sua
vita.
·
l’esclusione di manifestazioni esplicitamente
cristiane (Crocifisso, Presepio, preghiera, visita di autorità religiose) nelle
scuole pubbliche con forte presenza di alunni di altre confessioni religiose o
non avvalentisi dell’insegnamento della religione cattolica.
Complessivamente si tratta di
quel principio di valori che il papa
Benedetto 16° ha dichiarato come non
negoziabili. Si discute abbastanza su che cosa si debba intendere come non negoziabili. E’ stato fatto
osservare che in democrazia non esistono temi non negoziabili, su cui quindi non si possa dialogare e discutere.
In sede costituente lo si è fatto anche sui principi fondamentali della
Repubblica, come quello di laicità dello stato. Quell’espressione è stata
intesa anche nel senso che in nessun caso si devono appoggiare partiti che non
si impegnino espressamente a realizzare quei valori secondo l’interpretazione che di essi dà in concreto la
gerarchia cattolica. Ma, oggi, i partiti maggiori non sono disposti ad
accogliere in tutto la volontà dei capi religiosi cattolici in materia e
questo in quanto le posizioni espresse dalla gerarchia in quelle materie che ho
ricordato è in genere più o meno minoritaria tra gli elettori, anche tra quelli
cattolici. La differenza è tra quelli
che manifestano in materia agnosticismo e lasciano libertà di scelta ai propri
parlamentari e quelli che invece seguono una linea precisa, divergente da
quella del Papa e del vescovi, e pretendono fedeltà dalla propria forza parlamentare.
Si è anche inteso quel non negoziabili
come un invito al massimo impegno per ottenere concretamente il miglior
risultato possibile, ma in realtà si tratterebbe di una contraddizione in termini, perché questo
risultato non potrebbe essere raggiunto se non mediante un negoziato, sia pure particolarmente agguerrito su certi punti sensibili.
2. Con il Discorso
alla città del 6 dicembre 2012 il cardinale arcivescovo di Milano, Angelo
Scola, sembra voler aprire un vero e
proprio fronte con le istituzioni
pubbliche. Le accusa di agnosticismo verso la verità.
Le accusa di voler promuovere, in tal modo, una propria visione del mondo (da lui definita mondovisione), in cui la religione e Dio non hanno parte. Propone
quindi di rivedere le interpretazioni che si sono date della dichiarazione Dignitatis humanae, del Concilio Vaticano 2°, in cui è stato
proclamato che “l’adesione alla verità è possibile solo in maniera volontaria e
personale e la coercizione esterna è contraria alla sua natura”. Queste condizioni non sono in realtà realizzabili, proprio per
l’interferenza di uno stato che, facendo professione di neutralità,
impone di fatto una propria mondovisione, con la forza derivante dalla
propria pervasiva e autorevole organizzazione.
Scola
giunge ad affermare che il contrasto in atto non è, come generalmente si crede,
tra credenti di diverse religioni, ma tra le religioni e le culture
secolariste di cui si fanno portatori gli stati che finiscono in tal modo
per proporre una propria mondovisione alternativa a quella delle
religioni.
Secondo il cardinale, per come ho capito, la
libertà religiosa non può essere disgiunta dallo sforzo di ricercare la
verità, compito nel quale anche lo stato deve impegnarsi, innanzi tutto per
distinguere tra religioni e sette
(queste ultime da considerarsi al di fuori della tutela della libertà
religiosa?)
·
“D’altra parte, ci si deve chiedere a quali
condizioni un “gruppo religioso” può rivendicare un riconoscimento pubblico in
una società plurale interreligiosa e interculturale. Siamo di fronte alla
delicata questione relativa al potere dell’autorità pubblica legittimamente
costituita di distinguere una religione autentica da ciò che non lo è.”[discorso
citato, n.2]
e poi
per discernere tra le proposte religiose quelle che meglio corrispondono
all’edificazione del bene comune. Secondo Scola occorre quindi ripensare il tema della aconfessionalità dello Stato nel
quadro di un rinnovato pensiero della libertà religiosa. In questo
il cardinale, dopo aver dichiarato che il cattolicesimo popolare ambrosiano è
affetto da profonde fragilità,
conclude:
·
Il nostro
è un tempo che domanda una nuova, larga cultura del sociale e del politico. I
molti frammenti ecclesiali e civili che già oggi anticipano la Milano del futuro sono
chiamati a lasciar trasparire il tutto. L’insieme deve brillare in ogni
frammento a beneficio della comunità cristiana e di tutta la società civile.
Vita buona e buon governo vanno infatti di pari passo.
3. Il discorso del cardinale, con la prospettazione di un
conflitto tra culture statali secolariste, in esse
compresi i principi supremi di laicità
dello stato e di aconfessionalità
dello stato, è suscettibile di aprire una gravissima crisi tra le
istituzioni democratiche della Repubblica e le confessioni religiose,
coinvolgendo i rispettivi credenti, costretti a scegliere tra fedeltà
costituzionale e fedeltà religiosa ai propri capi. Prima di rassegnarsi a un
disastro del genere, la persona di fede dà corso a tutte le proprie risorse
razionali e di discernimento per capire se è possibile un diverso sviluppo.
Innanzi tutto: in
Italia non è in questione la libertà
religiosa. Qualcuno trova veramente limiti nell’espressione privata e
pubblica della propria fede? Io, pur esse noto come cattolico “praticante” non
ne ho trovato nessuno. In questi ultimi anni si sono insediati nel mio
quartiere numerosi islamici, provenienti dal continente indiano, e anche loro
non hanno trovato difficoltà nell’espressione della loro fede. A due passi da
casa mia c’è una delle più grandi e belle moschee europee e un altro centro di
preghiera islamico è stato aperto proprio nella via in cui abito. Alcune donne
islamiche girano velate e nessuno ci fa caso, così come le non islamiche
circolano vestite come credono e nessuno le rimprovera.
In parrocchia ho
detto che bisogna stare più attenti al linguaggio che si usa, anche nella
liturgia, perché offendere gli dei altrui è ancora vietato (art.724, 1° comma-
illecito amministrativo), così come è vietato l’incitamento alla
discriminazione su base religiosa (art.3 della legge n.654 del 75- reato). Quando ero bambino ricordo che ci si prendeva
spesso gioco di certe consuetudini islamiche (si pensi a certi film con
protagonista Totò): ora non è più
possibile farlo.
Detto questo. il vero problema è che alcune
norme etiche promulgate dall’autorità religiosa cattolica sono venute a
contrastare con l’etica pubblica. Quest’ultima trova il suo fondamento in
movimenti diffusi nella società (che trovano credito anche tra molti cattolici)
i quali hanno espresso democraticamente una forza parlamentare che si è
determinata di conseguenza. Pensare di riuscire a convincere le autorità
pubbliche, con un discorso razionale, che la verità è una sola, precisamente quella sostenuta dalla Chiesa cattolica e,
inoltre, che quest’ultima su certe questioni deve avere maggiore voce in
capitolo, perché migliore di altre
confessioni religiose è irrealistico. Pretendere di riuscirci
con la forza è irrealistico (tenendo conto degli orientamenti della maggioranza
degli elettori) e, in fin dei conti, anche immorale,
in quanto contrasta con principi fondamentali sanciti con forza di legge della
Chiesa durante il Concilio Vaticano 2°. Riuscirci negoziando la propria forza ecclesiale di influenza elettorale (che in Italia si
stima intorno al 10% dell’elettorato) con i gruppi che, opportunisticamente non
per convinzione, si impegnino a seguire i desideri della gerarchia in certe
questioni, in particolare nell’impedire novità
legislative sgradite potrebbe essere
considerato umiliante per i cattolici democratici, tale da ricacciarli in una
condizione di minorità dalla quale faticosamente sono emersi.
Mia opinione
La mia opinione è che occorra
sempre negoziare, ma non per uno scambio politico-elettorale, ma per proporre con
sapienza le ragioni e i metodi che su ogni tema controverso consentano di
arrivare a soluzioni condivise che rispettino a pieno la dignità delle persone
umane, rifuggendo in particolare gli estremismi ideologici. Questo si potrà
fare nei vari schieramenti politici in cui i cattolici si sono attualmente
divisi, salvo poi recuperare l’unità quando si tratterà di decidere su certi
determinati temi sensibili in cui i cattolici hanno maturato convinzioni
comuni.
Concludo osservando è che,
nella mia opinione, andranno inevitabilmente riducendosi certe incrostazioni di
confessionalismo cattolico che ancora permangono nel costume delle istituzioni
pubbliche italiane e che, del pari, saranno inevitabilmente superate le
discriminazioni su basi sessuale che ancora travagliano il dibattito
legislativo, in particolare in materia di normative riguardanti le famiglie. A
questo punto tutto, nella mia visione, l’impegno dei cattolici dovrebbe essere
centrato sull’impegno a mantenere gli spazi di libera e pubblica espressione
della loro fede religiosa (compresi quelli negli spazi e nelle istituzioni
pubbliche, senza tuttavia imporli ai diversamente credenti) e nella particolare
tutela della famiglia tra uomo e donna fondata su un matrimonio tendenzialmente
stabile in vista della generazione della prole.
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45
Civiltà cristiana e Azione
Cattolica
(15 novembre 2012)
A cavallo tra
l’Ottocento e il Novecento la polemica tra il movimento dei cattolici
denominato “guelfo”, perché nella spaccatura tra Regno d’Italia e Papa
cattolico seguita alla presa di Roma nel 1870 parteggiava per il Papa, e gli
altri movimenti politici che animavano all’epoca la società civile italiana
riguardò in particolare la questione del conflitto
di civiltà. I cattolici consideravano sé stessi come i veri eredi delle
glorie della nazione e portatori di un ordine sociale fortemente radicato nel
popolo, minacciato dall’orientamento liberale delle istituzioni del nuovo stato
unitario. A quell’epoca vi era effettivamente una larga base sociale che
condivideva le idee guelfe e che, a
lungo, rimase per tale motivo esclusa dalla partecipazione politica alle nuove
istituzioni democratiche del Regno d’Italia.
I movimenti
precursori dell’Azione Cattolica e l’Azione Cattolica, nel corso della sua
articolata storia, si adoperarono per sanare quel contrasto e per conquistare
ai cattolici la piena cittadinanza civile. Questo risultato fu conseguito
realmente solo tra il 1946 e il 1948, con la stabilizzazione del regime
democratico scaturito dall’abbattimento cruento del regime fascista e con la partecipazione fondamentale delle
forze democratico cristiane italiane (in particolare nell’Assemblea
Costituente), a lungo emarginate nella Chiesa cattolica all’epoca della
dominazione fascista e dei compromessi raggiunti in quei tempi infausti dalla
gerarchica cattolica con il Mussolini.
Per certi versi,
nonostante che, nel sistema dei diritti umani, importanti principi religiosi
siano venuti a costituire le basi delle nuove istituzioni europee, quel
conflitto sembra oggi rinascere, in particolare sulle questioni della laicità
degli stati e del principio di non discriminazione delle persone su basi
religiose e sessuali.
E’ stato notato che
permangono in Italia importanti elementi di confessionalismo nelle istituzioni
e che, in particolare, la gerarchia cattolica pretende che le sia riconosciuto
un ruolo preminente nella collaborazione con le istituzioni pubbliche, in modo
corrispondente allo speciale regime giuridico che le viene riservato dall’art.7
della Costituzione. Essa inoltre ritiene di poter giungere a certe conclusioni
di natura anche politica sulla base di discorsi razionali
incontrovertibili e quindi di dover
avere udienza non solo per argomentazioni fideistiche, opinabili per i non
credenti, ma per la forza della ragione rettamente esercitata.
E’ chiaro però che la
situazione italiana è caratterizzata da:
-un pluralità
di opinioni politiche tra i cattolici, che evidentemente non può essere risolta da quegli argomenti
razionali;
-una diminuzione
sensibile, di circa trenta punti percentuali, delle persone che dichiarano di accettare le regole
della confessione religiosa cattolica e una
percentuale molto minore dei praticanti
(persone che vanno regolarmente a
Messa la domenica e nelle feste comandate)
che seguono effettivamente in
tutto quelle regole, soprattutto in materia sessuale e matrimoniale;
-un forte
aumento di persone per le quali la religione non è una questione particolarmente importante, perché non
sentono la necessità di ricorrervi spesso
nella loro vita quotidiana, salvo che in alcune occasioni cerimoniali (nascita, matrimonio, morte);
-un forte
aumento di fedeli di altre religioni, in particolare di confessioni islamiche e cristiano ortodosse;
-la marcata
insofferenza delle donne verso le residue forme di discriminazione nella Chiesa cattolica;
-la sempre più
marcata insofferenza dei giovani verso pratiche pastorali troppo autoritarie nei loro confronti;
-il potente
emergere del movimento contro la discriminazione sociale delle persone omosessuali.
Manca quindi, nel
contesto sociale di oggi, la base sociale
per sostenere in conflitto di quella natura, vale a dire per ripristinare una specie di ordine sociale cristiano, di una civiltà cristiana, secondo le opinioni
della gerarchia cattolica. Ma, in realtà, a parte alcune questioni specifiche,
che si fanno rientrare nel tema complessivo dei valori non negoziabili (contraccezione, aborto, procreazione
assistita, divorzio, patti matrimoniali tra omosessuali, manifestazioni di
volontà per il fine vita, sussidi alla scuola cattolica) la Chiesa cattolica,
pur con la sua complessa e articolata
dottrina sociale, non è più nemmeno portatrice di un progetto di società complessivamente valido per i nostri tempi,
anche considerando la sola Europa. Nell’attuale epoca di crisi globale le
istituzioni sovranazionali, in particolare l’Europa Unita, stanno costruendo
nuove modalità di intervento per il governo e la risoluzione dei problemi che
si sono manifestati. In questa dinamica può prevedersi che tutte le residue
forme ingiustificate di discriminazione tra le persone verranno gradatamente
rimosse, divenendo addirittura illecite.
Naturalmente rimane
un possibilità di influenzare i movimenti in corso nelle società civili, ma questo
deve necessariamente farsi non su basi fideistiche, non condivise all’esterno
della cerchia dei più volenterosi praticanti,
ma con argomenti razionali, tenuto conto però che questo metodo in genere non
consentirà mai di arrivare ad una e una sola conclusione che si imponga agli
altri per forza di ragione. Questo non accade sempre neanche nella matematica,
figuriamoci nei fatti sociali. Sarà quindi sempre necessario, su certe
questioni, un negoziato responsabile,
in cui l’identità di gruppo potrà valere come argomento sulla base dei buoni
risultati eventualmente conseguiti (non per l’argomento Dio lo vuole). In materia di discriminazione su base sessuale noi
cattolici non ne abbiamo molti. Piuttosto l’argomento che, a mio parere, va
sfruttato molto è quello del principio di precauzione, per cui intorno a realtà
umane sulle quali si sa ancora poco e che sono suscettibili di sviluppi
catastrofici, occorre imporre una serie di limiti per evitare che i pericoli
supposti si avverino. In questo lavoro l’Azione Cattolica può senz’altro
svolgere un’opera positiva, essendo stata fin dall’origine aperta ai tempi
nuovi e impegnata a comprenderli in una prospettiva cristiana, non invece
chiudendosi in un intransigentismo settario che porta solo soddisfazioni effimere.
Purtroppo questa esperienza di metodo non è più patrimonio culturale di larghe
fasce della popolazione dei più volenterosi nostri praticanti, che del resto lo ammettono francamente, essendosi formati in un diverso ambiente
ecclesiale.
Vi è la necessità
quindi, in particolare nelle nostre riunioni settimanali, di riprendere
migliore conoscenza del senso del lavoro e dell’associarsi in Azione Cattolica,
che, a differenza di un qualsiasi gruppo parrocchiale di spiritualità, riguarda
la religione e la spiritualità ma anche l’impegno nella società civile. Non si
tratta di seguire un catechismo,
quindi di farsi spiegare da altri
quello che si deve sapere, fare o non
fare, ma di scoprire insieme, capendo bene la società del nostro tempo,
ciò che è meglio fare.
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46
L’incontro della Chiesa col mondo
(23 dicembre 2012)
Nel 1982 un amico mi condusse alla
presentazione dell’ultimo volume degli scritti di mons. Enrico Bartoletti,
vescovo che ebbe un ruolo fondamentale, quale segretario della Conferenza
Episcopale Italiana, nell’attuazione del Concilio Vaticano 2°. L’opera
completa, in quattro volumi, era stata curata da don P.G.. So che ora è parroco
in Toscana. Quel giorno un suo amico e collaboratore, che era sacerdote e
svolge anch’egli il suo ministero in Toscana, mi diede da leggere tutti i
quattro libri e io lo feci. Non ebbi più occasione per chiedergli se intendesse
riaverli indietro. Da allora fanno parte della mia biblioteca, mi hanno sempre
accompagnato dove ho abitato e mi sono stati preziosi per formare la mia
spiritualità e, innanzi tutto, per capire il clima di quel Concilio.
Nel quarto volume
dell’opera citata, intitolato La Chiesa e
il mondo, ho trovato questa citazione, da un discorso che mons.Bartoletti tenne nel gennaio 1962 (nella fase
preparatoria del Concilio) al Movimento
Laureati Cattolici, che oggi si chiama MEIC-
Movimento ecclesiale di impegno culturale:
“E giacché il primo
incontro della Chiesa col mondo avviene in noi, che già siamo in lei, e pur
portiamo la cultura, e istanze, le incertezze del mondo, si tratta di offrirci
alla Chiesa in consapevole disponibilità, perché inizi o rinnovi in noi il suo
compito di penetrazione e di santificazione”.
Per
intendere la portata anticipatrice di queste considerazioni, bisogna figurarsi
la Chiesa come era a quell’epoca. Era un’organizzazione che vedeva in prima
fila il Papa e i vescovi, la gerarchia, poi i
loro collaboratori, i preti, e poi, come quasi come truppe scelte, gli
istituti religiosi, frati, monaci, suore e monache. Tutte le altre persone, gli
altri fedeli, erano oggetto di una normazione di carattere giuridico e morale:
si diceva loro che cosa dovevano fare e si pretendeva che lo facessero. Al più
si ammettevano libertà di dettaglio, per tradurre meglio nella società quello
che si era deciso in alto. Naturalmente c’erano eccezioni. Proprio nel Movimento Laureati Cattolici, che
all’epoca era una delle organizzazioni professionali
dell’Azione Cattolica, ci sforzava di
formarsi meglio, di approfondire le questioni, di dare un contributo più ampio.
Questo in particolare dopo che il cattolici, nell’Europa ricostruita dopo al
disfatta del nazismo tedesco e dei vari fascismi suoi alleati, avevano avuto
tanta parte nelle riconfigurazione delle istituzioni pubbliche e dei principi.
Le attese (e i
timori) maggiori erano per quello che saremmo diventati noi laici, dopo tanti secoli di posizione subordinata
nelle cose religiose, anche se riguardavano poi le cose del mondo, di ciò che si muoveva fuori dello
spazio liturgico.
Nel corso degli anni
’50, sulla scorta di riflessioni avviate già nei precedenti anni ’30 in
Francia, si pensava che l’efficacia dell’azione della Chiesa nella storia
sarebbe stata in futuro molto più condizionata dall’atteggiamento dei laici.
Da alcuni si temeva
una deriva protestante dei cattolici,
ma, in realtà, movimenti analoghi si erano prodotti anche in alcune Chiese non
cattoliche. Ad esempio nel movimento promosso negli Stati Uniti d’America da
Martin Luther King, pastore della Chiesa Battista.
Certe storiche
divisioni tra cristiani erano state spesso già superate nella pratica. E in
molte cose il Concilio Vaticano 2° più che essere un aggiornamento a ciò che si
muoveva nel mondo, fu semplicemente
un aggiornamento a ciò che si era già prodotto nella Chiesa cattolica.
Bisogna dire che,
dopo un inizio piuttosto effervescente e promettente, qualcosa venne meno nello
slancio sulla strada indicata dal Concilio Vaticano 2°, i cui deliberati, più
che bisognosi di essere attuati chiamavano
ad essere sviluppati. Ci furono
resistenza da varie parti, ci furono insufficienze in molti, in particolare nei
laici. Talvolta si assistette, nelle sperimentazioni che vennero promosse, a
una clericalizzazione dei laici e a
una laicizzazione dei preti e dei
religiosi. Questi ultimi entrarono in crisi, non riuscendo più a inquadrare
bene il senso del loro ruolo nella Chiesa, mentre i laici, spesso anche per
remore clericali, stentarono a conquistare il campo loro proprio, di ordinare
secondo i principi religiosi le cose del mondo, in cui erano immersi, di cui
erano coautori e partecipi.
Ci furono aspre
controversie negli ambienti laicali più impegnati, delle quali oggi solo i più
anziani serbano lo spiacevole ricordo. Non merita nemmeno di perderci ancora
tempo su, visto che ai tempi nostri sono divenute insignificanti. Ma
certamente, specialmente nella realtà italiana, i laici si sono formati a due scuole con obiettivi divergenti, per cui, quando in parrocchia ci
si trova insieme e si cerca un accordo sulle cose da fare e specialmente su
come manifestarsi all’esterno, la differenza di impostazione si sente. In
realtà oggi si pensa di solito che occorra agire dall’interno della società in
cui si vive, come lievito, che fa crescere l’impasto ma non è più riconoscibile
nel prodotto finale, e nello stesso tempo anche rendersi presenti come gruppi
sociali organizzati. Sempre più spesso assistiamo a vaste convergenze tra
gruppi che in passato si guardavano piuttosto in cagnesco.
Una parte del lavoro
che dobbiamo fare in Azione Cattolica, per la nostra vocazione specifica, è di
fare unità, di promuovere l’amicizia e la comprensione tra chi vive la fede nei
tanti modi in cui lo si può legittimamente fare, senza che ci si scambi
arbitrariamente scomuniche o simili.
L’altra parte di quel
lavoro è di capire meglio le società in cui viviamo e in cui democraticamente
abbiamo diritto di parola e di scelta, senza scegliere la via della separazione
settaria, nel presupposto che tutto il male sia fuori della nostra Chiesa e che
il mondo in cui viviamo sia la città del
diavolo destinata alla perdizione.
C’è infine un ultimo
lavoro che occorre fare, e che è la parte forse più dolorosa del nostro
impegno, che è quello della purificazione
della memoria, del riconoscimento franco e veritiero del male che, come Chiesa vivente sulla Terra, è stato
storicamente fatto, per sterilizzare i conati reazionari che vorrebbero
riproporre infelicemente ciò dal quale solo di recente, in particolare sotto la
guida del Papa Giovanni Paolo 2°, ci siamo distaccati. Non illudiamoci che sia
un compito facile. Né che l’arrendevolezza ai voleri altrui, spacciata per
ubbidienza gerarchica, sia la via più virtuosa. In questo si dovrà praticare la
virtù della fortezza, della fermezza sui principi acquisiti. E questo sforzo è
tanto più difficile perché sono stati veramente tanti i secoli bui dai quali
velocemente, nella seconda metà del Novecento ci siamo distaccati come
confessione religiosa. L’Azione Cattolica ha fatto parte
storicamente del movimento laicale che ha spinto per questo risultato, trovando
udienza nei capi religiosi. Ricordiamo che le radici del Concilio Vaticano 2°
affondano addirittura nei moti religiosi dell’Ottocento.
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47
Cattolicesimo forza di progresso?
(29 novembre 2012)
Dalla Costituzione dogmatica
Lumen Gentium sulla Chiesa, del
Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.36
I fedeli perciò devono riconoscere la natura profonda di tutta la creazione, il suo
valore e la sua ordinazione alla lode di Dio, e aiutarsi a vicenda a una vita più santa anche con opere propriamente
secolari, affinché il mondo si impregni dello spirito di Cristo e raggiunga
più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace. Nel compimento universale di questo
ufficio, i laici hanno il posto di primo piano. Con la loro competenza
quindi nelle discipline profane e con la loro attività, elevata
intrinsecamente dalla grazia di Cristo, portino efficacemente l'opera loro,
affinché i beni creati, secondo i
fini del Creatore e la luce del suo Verbo, siano
fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla cultura civile per
l'utilità di tutti gli uomini senza eccezione, e siano tra loro più
convenientemente distribuiti e, secondo la loro natura, portino al progresso
universale nella libertà umana e cristiana. Così Cristo per mezzo dei
membri della Chiesa illuminerà sempre di più l'intera società umana con la sua
luce che salva.
Inoltre i laici, anche consociando le forze,
risanino le istituzioni e le condizioni del mondo, se ve ne siano che provocano
al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e,
anziché ostacolare, favoriscano l'esercizio delle virtù. Così agendo
impregneranno di valore morale la cultura e le opere umane. In questo modo il campo del mondo si trova
meglio preparato per accogliere il seme della parola divina, e insieme le porte
della Chiesa si aprono più larghe, per permettere che l'annunzio della pace
entri nel mondo.
Ai tempi nostri probabilmente la
definizione del cattolicesimo come forza di progresso non troverebbe un
generale consenso. Eppure è proprio questo, in fondo, il fine che durante il
Concilio Vaticano 2° si pensò di assegnare all’azione dei laici nelle società
in cui vivono e operano. Ne è un esempio il brano della Costituzione dogmatica Lumen Gentium (trad. dal latino: Luce per le genti) che ho sopra
trascritto. Possiamo considerarlo una novità in un documento della gerarchia
ecclesiale, tenendo conto delle precedenti millenarie prese di posizione in
merito.
Come ho osservato in
altri miei interventi, non è facile, leggendo le deliberazioni del Concilio
Vaticano 2°, individuare quelle parti che contengono sviluppi innovativi.
Questo accade in particolare in un documento di particolare rilevanza,
normativo, come la Costituzione dogmatica citata, che riguarda la Chiesa. Ad
uno sguardo superficiale tutti i temi che solitamente si facevano rientrare in
questo argomento sono esposti nell’ordine consueto. Infatti troviamo le parti
che spiegano di dove, da chi e come la Chiesa originò, la ripartizione dei
compiti in esso, da chi e come
l’autorità in essa venga esercitata, il carattere sacro di alcune funzioni,
come quelle del papa, dei vescovi e dei preti, le caratteristiche dell’impegno
dello stato religioso, la posizione degli altri fedeli, la missione della
Chiesa nella società del suo tempo, vale a dire in quello che nel gergo
teologico viene definito il mondo o
anche il mondo profano.
Eppure le novità ci
sono, anche se esse non vengono mai presentate come idee che si contrappongono
alla precedente tradizione, in particolare a
quella che riguarda i principi fondamentali, ma, al limite, come
scoperta, o riscoperta, di potenzialità di bene che storicamente erano state
poco capite o praticate. E ciò anche quando, sostanzialmente, si viene a
ripudiare qualcosa di male che si riconosce esserci stato nel passato.
E’ solo con il Grande
Giubileo dell’anno 2000, indetto e guidato dal papa Giovanni Paolo 2°, che si
giunge a richiedere a tutti, come
esercizio specificamente religioso, un lavoro particolare per raggiungere una
memoria storica veritiera sull’azione della Chiesa del mondo e il ripudio, vale a dire l’impegno a non
riproporli in futuro, di certi modi di essere, di organizzarsi, di entrare in
relazione con le altre persone, individualmente considerate o nei gruppi in cui
sono inserite vitalmente.
Le conseguenze sono
state molto rilevanti, perché i principi normativi del Concilio Vaticano 2°
sono stati fecondi e hanno ispirato molteplici sviluppi, che, in larga parte,
corrispondevano a modi di vivere la religiosità che si erano già affermati, più
o meno largamente, tra i fedeli e che attendevano solo di essere riconosciuti
in un documento normativo della gerarchia. Questo in particolare ha riguardato
i compiti dei laici cattolici, anche se su questo tema in genere c’è ancora
insufficiente consapevolezza e ciò per vari motivi.
Il primo è di ordine
culturale: mentre per i sacerdoti e i religiosi è previsto e obbligatorio un
processo di formazione continua, questo non è previsto per i laici, dopo il
periodo dell’iniziazione ai Sacramenti nell’infanzia e nell’adolescenza, che di
solito termina con la Cresima, se non ancora prima, con la Prima Comunione.
Il secondo
motivo è di ordine organizzativo: poiché
nella Chiesa cattolica i principi morali e di organizzazione e le linee guida
delle varie attività vengono formulati da appartenenti all’Ordine Sacro, quindi
dal clero, è ovvio che abbiano avuto il massimo risalto le questioni che
riguardavano questa parte qualificata dei fedeli, innanzi tutto per mantenere
un loro ruolo preminente in ogni settore e poi per conservare l’integrità della
struttura gerarchica del clero, centrata su centri di potere sostanzialmente
monarchici, con temperamenti di collegialità a vari livelli. Lo scopo è di
rendere coerenti su scala mondiale
gli insegnamenti religiosi, le liturgie e l’organizzazione ecclesiale, in modo,
in particolare, che la Chiesa appaia parlare con una sola voce, diventando
manifestazione dell’unità dei fedeli, secondo il comandamento ricevuto
evangelicamente.
Il terzo motivo è che
spesso i laici sono appagati da una religiosità meramente liturgica, e in
particolare sacramentale, della quale essi, sebbene coinvolti molto
profondamente nella loro interiorità, sono partecipi ma non protagonisti, in
quanto in tale campo emerge e prevale la missione del clero. Del resto, per
millenni è solo questo che, in definitiva, si è preteso dai laici, vale a dire
da chi non era prete, vescovo, monaco o monaco, frate o suora.
Le società civili, e
le loro popolazioni, erano lasciate al dominio di monarchi, con i quali la
Chiesa, a diversi livelli, tramite suoi plenipotenziari, e al massimo livello
in persona dei papi, entrava in relazione innanzi tutto per garantire spazi di
libertà alla propria organizzazione (clero e religiosi, con esenzioni e
privilegi che riguardavano le persone e i beni) e poi per assicurarsi il
riconoscimento di un potere spirituale sui sudditi dei monarchi civili,
venendosi in tal modo a realizzare una sorta di condominio sulle posizioni assoggettate al trono e all’altare. I due tipi di potere, quello civile e quello
religioso, venivano poi a sostenersi a vicenda, specialmente dove il monarca
civile riconosceva quella cattolica come unica
religione ammessa nel suo dominio e/o le autorità della Chiesa riconoscevano la
qualifica di cattolica a una dinastia
monarchica civile. Per queste relazioni politiche
tra autorità civili e religiose, la critica sociale su base religiosa, di cui
si trovano tanti esempi nell’Antico Testamento e che quindi aveva una salda
base biblica, era in genere scoraggiata dalle autorità religiose, perché
avrebbe messo in crisi quegli accordi, a volte semplici armistizi piuttosto
precari, raggiunti con le autorità civili. Ad esempio nel documento normativo
denominato Sillabo (=elenco),
allegato all’enciclica Quanta Cura (1864)
del papa Pio 9°, con l’indicazione di quelli che la dottrina cattolica riteneva
essere i principali errori del tempo, si dichiarava erronea l’idea che fosse
logico negare obbedienza e anzi
ribellarsi ai prìncipi legittimi.
L’esperienza delle
due guerre “mondiali” combattute nel Novecento manifestò l’insufficienza dei
princìpi che erano stati seguiti per millenni nelle relazioni con i capi delle nazioni, secondo
l’espressione utilizzata dal papa Benedetto 15°, nel 1917, nel chiedere di
fermare l’inutile strage in cui si
era risolta la Prima Guerra mondiale.
Il primo di quei due
conflitti bellici catastrofici era stato iniziato da monarchi cristiani e combattuto fra popoli di
antica civiltà cristiana. Il secondo era stato scatenato da despoti
rivoluzionari che si erano avvalsi in modo nuovo dei popoli assoggettati, non
più come storici sudditi di una dinastia, ma come espressioni di una nuova
condizione umana di dominatori, in virtù della quale avevano il diritto, come
sorta di stirpi elette, di predare e soggiogare il mondo. Qualcosa di simile
aveva travolto la dinastia imperiale cristiana russa, portando all’ordine
sovietico, in cui la religione era considerata una impostura di classe per
tenere soggiogata la parte subalterna delle popolazioni. Risolutiva, in
entrambe le guerre mondiali, era stata l’azione della democrazia statunitense,
la quale aveva fondamenti religiosi espliciti ma che, nello stesso tempo, era
struttura con un’organizzazione politica pluralista. Ad essa, nel pensare
l’Europa che sarebbe sorte dopo la fine dei totalitarismi guerrafondai nazisti
e fascisti, si cominciò a guardare come esempio di coesistenza pacifica di
popoli con diverse tradizioni etniche, culturali, linguistiche, religiose. E’
questo il momento il cui, anche sulla scorta di antecedenti storici risalenti
all’Ottocento, comincia a prodursi nella Chiesa cattolica quel movimento che
ebbe piena manifestazione molto più tardi, negli anni Sessanta, in particolare
con il Concilio Vaticano 2°.
In Francia e in
Italia ci si stava ragionando fin dagli anni ’30, sullo spunto del pensiero dei
filosofi Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier.
Maritain intervenne
nel Concilio Vaticano 2° quale rappresentante degli intellettuali e in tale
veste ricevette uno specifico messaggio del Papa.
L’idea era che la
sfida lanciata dai regimi popolari totalitari, quello nazista tedesco, i
diversi fascismi europei e il regime comunista sovietico, non poteva essere
vita con i metodi e i principi del passato, quindi con la riproposizione della
restaurazione di una civiltà cristiana europea retta da un condominio di
dinastie civili e di monarchi religiosi, ma che occorresse coinvolgere più
profondamente, non solo chiamandole all’ubbidienza, le masse dei popoli
europei, rendendole protagoniste della costruzioni di civiltà, intese innanzi
tutto come istituzioni politiche, economiche e sociali, che non configgessero
con gli ideali di sempre della cristianità.
Una prima pronuncia
in questo senso della gerarchia cattolica al massimo livello si trova nel
radiomessaggio natalizio del 1944 del papa Pio 12°, che ho più volte citato, in
cui ci si chiede se gli sconvolgenti avvenimenti dei decenni passati avrebbero
potuto essere evitati se i popoli europei avessero avuto più voce in regimi
democratici.
Questa lunga premessa
è stata necessaria per comprendere il senso del brano della costituzione Lumen Gentium che ho trascritto
all’inizio. Ci ritornerò sopra in altri interventi. Vorrei però che chi legge
lo facesse interiormente proprio, direi quasi mandando lo a memoria.
La prima
caratteristica di questa che è giuridicamente una legge fondamentale della
nostra Chiesa, parte di un documento normativo molto importante, è che non pone divieti e non indica nemmeno precisi obblighi di fare, come, ad esempio, nel
Decaloco, quando si prescrive di non
rubare (obbligo negativo – di non fare) o di
santificare le feste (obbligo positivo – di fare).
Il discorso che viene
sviluppato in quel brano è in sostanza un
appello, una chamata ad un lavoro, rivolto in primo luogo ai laici, a coloro che quindi non fanno
parte del clero o dei religiosi (frati e suore, monaci e monache).
Si riconosce ai laici
una competenza, vale a dire un
insieme di conoscenze e di saper fare, nelle discipline profane, che sono tutte quelle che non sono comprese
nella teologia, in cui sono formati il clero e i religiosi. Li si chiama ad
essere, come persone singole ma ance associandosi, forze di progresso a
beneficio non solo della Chiesa cattolica, ma di tutti gli esseri mani senza
eccezione.
Ecco in che cosa
consiste l’auspicato progresso: a)nel far progredire i beni creati mediante il
lavoro umano, la tecnica e la cultura civile; n) nella giustizia distributiva,
perché i beni creati aumentati e migliorati dall’azione umana, siano più
convenientemente distribuiti perché aia fonte di libertà umana e cristiana per tutti. L’obiettivo finale è risanare le istituzioni e le condizioni
del mondo, perché siano rese conformi alle norme
di giustizia e in tal modo favoriscano, anziché ostacolare, l’esercizio
delle virtù e, in particolare, quelle predicate nell’evangelizzazione dei
popoli.
In sostanza l’appello
è per operare per un progresso
tecnologico, culturale, civile e sociale, se del caso cambiando anche le
istituzioni, perché a tutti gli esseri umani sia aperta la via delle virtù
nella libertà. Questa è definita come opera di illuminazione dell’intera società umana e l’utilizzo di questa
espressione è analogo a quello che ne fecero gli illuministi nel Settecento. Solo che nella prospettiva cattolica
non si vede contraddizione tra la luce portata dalla ragione e la luce portata
da Cristo.
Se volessimo
individuare dal brano citato della Lumen
Gentium delle parole d’ordine, potremmo individuarle in queste: progresso, libertà, giustizia sociale, unità
per risanare il mondo comprese le sue istituzioni sociali, virtù, illuminazione
religiosa. Esse non sono rivolte
dalla gerarchia cattolica (solo) ai capi
delle nazioni, ma in primo luogo a tutti i fedeli laici. E’, a mia conoscenza la
prima volta che accadde nella storia della Chiesa in un documento normativo
della gerarchia. Vi invito a verificare la correttezza di questa mia
osservazione.
Certamente nel
passato nella dottrina del magistero di era fatta questione del buon governo, ama gli insegnamenti era
rivolti essenzialmente ai capi delle
nazioni e, a partire dall’enciclica Rerum
Novarum di Leone 13° (1891), alle parti sociali, imprenditori e lavoratori,
invitate a trovare una composizione dei reciproci interessi essenzialmente
nello spirito di non sfruttare le classi lavoratrici a tal punto dallo
spingerle alla rivolta. La giustizia
sociale, come la intende ai nostri giorni a partire da movimenti politici
che si diffusero nell’Ottocento, era estranea a questa prospettiva.
Bisogna precisare
che in questo la Chiesa cattolica, scrivendo sue norme fondamentali, non
intese, all’improvviso, aggiornarsi a come andava il mondo, corrispondendo in
tal modo alle attese di molta gente. Non è di questo aggiornamento che si è
trattato. In realtà la Chiesa cattolica, nella sua dottrina teologica e nella
sua normazione, si aggiornò a come essa era
già diventata nel corso dell’Ottocento e del Novecento, soprattutto
nell’impegno alla costruzione della nuova Europa dopo la catastrofe bellica
degli anni ’40. Già i cattolici si stavano infatti da tempo impegnando nel
senso auspicato dalla Lumen Gentium,
trovando però difficoltà nella normazione e nella teologia ufficiale della loro
Chiesa. In qualche modo, in questo campo, i
deliberati conciliari vennero
semplicemente a ratificare e a sistemare teologicamente, creando una
continuità dogmatica tra il passato e il presente, ciò che già i laici erano diventati e stavano facendo.
E infatti questo che
fu effettivamente un significativo cambio di rotta nel magistero gerarchico no
fu effettivamente avvertito come una novità, mentre fecero molta più
impressione le riforme che, dopo il Concilio Vaticano 2° e sulla base dei suoi
deliberati, vennero attuate nella liturgia della Messa: in questo campo infatti
fu effettivamente introdotto un rito diverso, pur se articolato nelle parti
tradizionali, e, soprattutto, iniziarono ad essere usate le varie lingue
nazionali dei popoli cristiani, in luogo del solo latino liturgico.
Concludo questo
intervento scrivendo che il difficile per noi laici non è tanto il capire gli
appelli che ci sono venuti dal Concilio Vaticano 2°, ma, esercitando
collettivamente le competenze che si sono proprie, ciascuno ragguagliando gli
altri sulle proprie specifiche e acquisendo dagli altri notizie sulle loro
(nessuno infatti nel mondo di oggi è capace di interloquire validamente su
tutto), capire il mondo in cui viviamo
per individuare come farlo progredire verso una migliore giustizia sociale,
per rimuovere gli ostacoli all’esercizio delle virtù e, innanzi tutto, quello
che è costituito dalla mancanza di libertà, determinata dall’ignoranza e dal
bisogno.
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48
Fede religiosa, forza di progresso
(4 gennaio 2013)
L’angelo è … il
messaggero che, secondo le immagini bibliche, collegando il cielo alla terra,
annuncia a un essere umano che la Parola divina che l’ha creato vive ancora nel
suo intimo più profondo, anche nel momento della sua disperazione.
L’esteriorità è dunque necessaria a
questa speranza, essa aiuta a combattere il destino, a imporsi su di esso e a
crescere. Per coloro i quali non
percepiscono angeli nella loro esistenza quotidiana così spesso tormentata,
questa esteriorità – dice il Rabbi di Gur – proviene dalle parole della Torà.
Sono esse che hanno la forza stupefacente di rinnovare il desiderio di vita in
ognuno. Questa esteriorità talvolta prende anche la forma della voce di
un’altra persona, che, proponendo parole di vita a colui o a colei che si trova
imprigionato nel labirinto delle sue sofferenze e del suo male, non sa più
trovarle. Ma in ambedue i casi, e del resto uno non esclude l’altro, è
necessario affinché quella persona le intenda e colga il filo di chiarore che
gli viene teso –attraverso parole udite da una voce che non è la sua – che
quella persona resti attenta a ciò che quelle parole vengono a toccare in lei:
quel punto di speranza non domato, quella certezza, non verosimile rispetto al
tempo e alla natura, che la vita può ancora vincere sulla morte e sulla notte,
malgrado le prove e la tenacia degli scacchi subiti.
[da Caterine Chalier, Angeli
e uomini, Giuntina, 2009, pag.62]
Ai tempi nostri, e
anche nell’insegnamento catechistico, si è piuttosto cauti nel proporre una
visione religiosa della vita, pensando che poi possa risolversi,
nell’interpretazione personale, in qualche tipo di stranezza per cui mediante
certe pratiche liturgiche o ad esse somiglianti, o comunque mediante una disciplina personale,
si confidi di poter cambiare, quasi magicamente, la realtà intorno a sé. Si
preferisce parlare della santità personale come risultato del confidare nella
Parola di Dio, la quale però, nelle situazioni concrete che si presentano, non
è facile da individuare e allora poi si finisce per consigliare di fidarsi
dell’interpretazione che ne dà la Chiesa in persona del clero o addirittura dei
capi della comunità a cui si è più legati. Ecco quindi che una parte di quelli
che sono stati raggiunti dal messaggio religioso si allontanano dalla comunità
in cui l’hanno ascoltato, cercando l’autonomia e la libertà di pratica e
giudizio. Questo pregiudica l’efficacia propria dell’azione laicale, che ha
bisogno di gente per essere attuata, essendo anche un lavoro collettivo, ma
anche della possibilità di sviluppare in concreto concezioni particolari,
adatte ai vari problemi che si affrontano, facendo quindi reagire in modo
originale e autonomo fede religiosa e vita concreta, senza però aspettative
eccessive quanto a felicità qui su questa terra.
Sarebbe bello poter
dire che se si ha fede si è felici, in qualsiasi situazione ci si trovi, ma non
è vero che questo accada sempre. Anzi, per ciò che mi è stato dato di
sperimentare accade piuttosto di rado e non penso nemmeno che ci si debba
sentire in colpa per questo, perché non si è felici pur essendo parte di una
collettività religiosa e avendo in misura maggiore o minore una fede religiosa.
E’ vero che invece i cambiamenti in
meglio della vita delle persone possono dipendere da azioni, individuali e
collettive, a fondamento religioso, nel senso di motivate non sulla base di
come vanno di solito le cose, quindi su un realismo materialista, ma su
considerazioni paradossali, fondate su come vorremmo che fosse il mondo, quindi
su un’esigenza interiore che ci fa essere diversi perché collegata all’idea di
essere creature, non un accidente
della natura, quindi esseri dotati di una speciale dignità. E’ qualcosa che,
come scritto nel brano che ho sopra riportato, giace e opera nel nostro intimo
più profondo ed è a volte suscitato, riportato alla superficie della coscienza,
dall’esterno: qualcuno la descrive come esperienza angelica, per altri è il
contatto con le scritture sacre, per altri ancora si tratta della voce di
un’altra persona o di un’altra situazione in cui ci si trova. E’ allora che si
risveglia in noi “quel punto di speranza
non domato, quella certezza, non verosimile rispetto al tempo e alla natura,
che la vita può ancora vincere sulla morte e sulla notte, malgrado le prove e
la tenacia degli scacchi subiti.” E che si comincia a costruire un mondo
nuovo, in cui le tante cose dolorose della realtà che viviamo e che pure è
appunto la realtà siano superate e
migliorate. Ad esempio una società basata sul principio di uguaglianza intesa
come pari dignità, una cosa che in natura
semplicemente non c’è, come ricordavano gli schiavisti contro le obiezioni
degli abolizionisti. Tra gli esseri umani c’è stato sempre chi ha sfruttato e
chi è stato sfruttato, osservavano. Eppure questa realtà umana storica dello schiavismo è stata contrastata sulla
base di motivazioni in fondo religiose, quindi paradossali, almeno fin dal
Cinquecento, e dal Settecento con particolare efficacia, e ha portato
l’abolizionismo a prevalere a livello globale. E ciò anche se nella Bibbia,
composta di scritti composti in tempio piuttosto antichi, in cui lo schiavismo
era realtà giuridica accettata non c’è una parola esplicita contro di esso,
dico un appello alla rivolta contro
di esso. Eppure il movimento contro lo schiavismo, specialmente nell’Ottocento,
ebbe anche motivazioni religiose cristiane (pur avendone avute anche di
analoghe le pratiche schiavistiche degli Europei contro gli africani e i nativi
americani).
A una persona più
giovane di me che ha lasciato le consuetudini di fede respinta dal fideismo
irriflessivo che le era stato proposto, non attesterei mai che recuperando la
fede sarà felice su questa Terra, ma certamente le farei notare che su basi
religiose, dunque di ribellione contro le cose come normalmente vanno, in
particolare in natura, potrebbe capitarle di collaborare a cambiare in meglio
il mondo, in particolare nello sviluppo dei diritti fondamentali dell’uomo nel
pensiero e nella pratica. La nostra fede non ci impone di rassegnarci ad accettare
le cose come vanno e a ritenerle volontà di Dio, anche se si trattasse, ad
esempio, di una malattia grave o di un altro accidente “naturale”. L’altro
giorno sono stato in visita ad un centro oncologico e alle persone che ho
incontrato in sala d’attesa davanti agli ambulatori non avrei mai fatto questo
discorso. Né avrei promesso che, seguendo certi riti, Dio le avrebbe salvate. O
che, comunque, anche nella prospettiva della morte avrebbero trovato la
beatitudine, la felicità. La mia infatti non è una fede consolatoria o di rassegnazione,
ma di ribellione, di rivolta, a partire da una realtà affrontata senza facili illusioni. E’ vero tuttavia che, in
una prospettiva religiosa, in particolare cristiana, si può dare un senso a ciò
che ci accade e quindi si può essere portati ad agire di conseguenza: questo
rafforza il sentimento della propria dignità di fronte a una realtà sociale o
naturale che invece porta a deprimerla. Fa bene e porta a fare il bene. Non mi
sentirei di dire che accada sempre e
non ne faccio una colpa a quelli ai quali non accade. Per un malato grave, ad
esempio, la fede può essere solo un problema in più da affrontare e talvolta il
problema della teodicea, di
giustificare l’operato di Dio nel mondo, quindi il mondo come risultato di creazione, può superare effettivamente
le nostre forze. Ma di solito nella sofferenza è ancora possibile, come scrive
la Chalier, percepire un filo di chiarore,
e ciò sovente deriva da un’esperienza francamente religiosa, di voce o
situazione che risveglia una convinzione paradossale, che riguarda “parole di vita a colui o a colei che si
trova imprigionato nel labirinto delle sue sofferenze e del suo male, non sa
più trovarle”.
Il primo dovere
religioso del laico è quello di capire
realisticamente ciò che sta succedendo, per lui la fede non è quindi un fattore
anestetizzante, e poi di agire per
realizzare un mondo diverso (ordinare le
cose temporali secondo Dio, nel gergo teologico). In particolare è questo
appello, non di rassegnazione, che viene ai laici, e a tutti gli esseri umani
di retta volontà, dal Concilio Vaticano 2°
e dai documenti del magistero che si sono proposti di svilupparne i
deliberati.
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49
Noi, la Chiesa e la società nella
crisi
(7 gennaio 2013)
Il duro inverno che si prepara per tutti gli italiani, ma più carico di
sacrificio per i disoccupati, pensionati e lavoratori a redditi bassi e medi,
per le famiglie con più figli piccoli, ispira a noi il senso di una severa
provvidenzialità di questo eccezionale convegno. E ciò non solo per la
sollecitazione a rinnovate opere di diaconia della Chiesa. Ma perché è l’intero
rapporto della Chiesa con la società italiana e col mondo che viene in primo
piano. E non più solo o tanto per riferimento alle profonde trasformazioni del
sistema sociale e politico italiano, nel passato prossimo immediato, ma
soprattutto per la sfida che la crisi economica, istituzionale e culturale pone
al presente e al prossimo futuro nella società e civiltà italiana.
Il nostro paese è in incombente pericolo di
precipitare in un nuovo periodo di decadenza, secondo una triste regolarità
della nostra storia. C’è già chi si rassegna. Ed è forse proprio contro la
inclinazione anche di molti cattolici alla rassegnazione che questo convegno acquista
ora la sua drammatica attualità.
Tra le non molte interpretazioni complessive
della situazione attuale della società italiana, che ho trovato tra i documenti
di risposta pervenuti dalle diocesi, da singole comunità e gruppi di lavoro di
Chiese locali [nella fase preparatoria – nota mia], da associazioni nazionali cattoliche e da qualche comunità cosiddetta
di base – la rassegnazione non trova però spazio.
Il senso di gran lunga prevalente delle
risposte sul tema generale del rapporto fra la Chiesa e la società italiana, è
che occorre accrescere il mutuo aiuto tra Chiesa e mondo nello spirito della
“Gaudium et spes”. E proprio la ricerca, da parte della cattolicità italiana,
di vie e modi e obiettivi specifici, per una congiunta e non contraddittoria azione,
di annuncio del Vangelo e di impegno per la giustizia e per la partecipazione
alla trasformazione del mondo, configura lo specifico apporto della Chiesa alla
società profana.
[Dall’intervento del sociologo Achille Ardigò (1921-2008) al
convegno ecclesiale “Evangelizzazione
e promozione umana”, tenutosi a Roma dal 30 ottobre al 4 novembre del 1976
– in Evangelizzazione e promozione umana
– atti del convegno ecclesiale – Roma 30 ottobre/4 novembre 1976, Editrice
A.V.E, 1976]
Le parole che ho sopra
trascritto sembrano scritte per i giorni nostri, perché descrivono un problema
della nostra Chiesa che è ancora attuale e che riguarda il modo di entrare in
relazione con il mondo al di fuori degli spazi liturgici, e invece risalgono a
trentasei anni fa. Che significa questo?
Significa che un lavoro che si era iniziato a fare negli anni ’70 fu interrotto
e che ora può essere ripreso, perché le condizioni per farlo si sono fatte
nuovamente favorevoli, in particolare dopo l’appello rivolto ai fedeli e al mondo
nell’enciclica Caritas in veritate
del papa Benedetto 16°.
Che cosa è la nostra
Chiesa? Non parlo naturalmente della sua origine, della sua natura e delle sue
finalità sotto il profilo teologico,
della fede comune professata nella tradizione. Ma di ciò che è dal punto di
vista sociale, delle relazioni come collettività con il mondo in cui è
storicamente inserita. Questo è un argomento molto importante per decidere che fare per fare progredire la società
arricchendola con i principi evangelici che riguardano la vita comune.
Non vi aspettate che
vi dia qui delle risposte. Le chiedo io a voi. Vorrei che se ne discutesse
nelle nostre riunioni infrasettimanali. Mi piacerebbe che a questo dibattito
prendessero parte anche coloro che negli anni passati si sono allontanati dalla
vita della parrocchia e anche coloro che sono entrati in polemica con la Chiesa
come è ora e lo dicono francamente, ma tuttavia nella loro interiorità
apprezzano ancora, al di là di quelle critiche anche dure, un discorso
religioso.
Siamo, ad esempio,
una ditta per la propaganda del sacro? Siamo una federazione di collettività che in
senso molto lato condividono una certa cosmologia religiosa e certi miti e che
fanno vita separata, considerando con un po’ di sospetto le esperienze altrui?
Siamo una federazione di organizzazioni caritative? Siamo una collettività che
vuole dare una giustificazione religiosa alla società come è ora e sostenerla
contro le critiche e gli attacchi che ci vengono dall’esterno? Siamo papa-men/women, vale a dire
un’organizzazione che ha come scopo principale sostenere l’azione del Papa nel
mondo di oggi e in particolare in Italia? Siamo dei rivoluzionari che pensiamo
di avere la ricetta giusta per cambiare il mondo rovesciando i principi
perversi su cui esso si fonda? Siamo gruppi di oranti che pensano di ottenere
il cambiamento del mondo con la preghiera incessante? Che cosa sono i preti, i
vescovi e il Papa per noi? In che cosa i preti si differenziano dagli
assistenti sociali, dagli psicologi, dagli psichiatri e dagli insegnanti delle
scuole? Quale autorità riconosciamo loro, di fatto?
In questo Anno della fede queste domande mi
sembrano importanti. Possiamo aspettarci che la risposta ci venga dall’azione
catechistica svolta nella Chiesa, che quindi altri ci dicano che cosa
siamo o come dovremmo essere? O dovremmo, come punto di partenza,
riconoscere francamente come abbiamo
voluto essere finora e capire se questo modo
di essere è sufficiente in relazione ai principi che proclamiamo e che,
come non cessano di ripeterci i vescovi, hanno informato di sé e ancora
informano di sé in particolare l’Europa (il tema delle cosiddette radici cristiane)?
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50
Un processo continuo di
liberazione
(8 gennaio 2013)
Se c’è, come non può
non esserci nel mondo un processo continuo di liberazione, la Chiesa, il
cristiano con la Chiesa e per la Chiesa, deve essere presente in questo
processo di liberazione. In che modo? Con la triplice azione sacramentale che è
propria della Chiesa e del cristiano.
[…]
Con la parola.
Nel processo di
liberazione e di promozione umana che è nel mondo, la Chiesa e il cristiano
deve essere innanzi tutto presente con la parola di Dio.
[…]
Con la vita.
La Chiesa. … e il
cristiano nella Chiesa non può accontentarsi di parlare di liberazione, non può contentarsi di parlare alla liberazione; la Chiesa attraverso i suoi membri, secondo lo
stato e le condizioni di ognuno, secondo le capacità e la vocazione di ognuno,
deve partecipare al processo di liberazione dell’uomo.
[…]
Con il sacramento.
Ma infine…è con i sacramenti che la Chiesa
deve portare nel mondo la liberazione totale e integrale operata da Cristo.
[ da La Chiesa sacramento di Cristo e segno e
strumento di liberazione, relazione tenuta il 27-6-73 a Terni dal vescovo
Enrico Bartoletti – all’epoca segretario generale della CEI, in Enrico Bartoletti, La Chiesa nel mondo – a
cura di Pietro Gianneschi, Editrice AVE, 1982].
Lo scritto che ho sopra riportato rende bene
il clima degli anni immediatamente dopo il Concilio Vaticano 2°. La Chiesa
cattolica, a lungo considerata essenzialmente una forza di contenimento sociale e personale, se non una
organizzazione francamente reazionaria, veniva concepita in modo nuovo, nel
senso che come fedeli ci si assegnava compiti nuovi, religiosamente motivati,
in un mondo in cui era generale l’ansia di elevazione di popolazioni o strati
di popolazioni fino ad allora considerati fatalmente destinati alla sofferenza
e alla minorità.
Bisogna dire che di certi temi in Italia si parlava
accostandoli piuttosto da lontano, ad esempio di quello dell’elevazione e
liberazione delle popolazioni del cosiddetto Terzo Mondo, in Africa e in Asia.
Ai tempi nostri, in cui strati di popoli africani e asiatici sono migrati dalle
nostre parti, i problemi si sono fatti più concreti.
E’ necessario anche aggiungere che il disegno
conciliare prevedeva un ruolo molto più attivo dei fedeli laici in questi nuovi
compiti. Il convegno ecclesiale Evangelizzazione
e promozione umana, dell’ottobre/novembre 1976 volle progettare un lavoro
di preparazione di questa parte della Chiesa, nella sua totalità, non in alcune
sue porzioni particolarmente illuminate. L’impostazione cambiò abbastanza sotto
il pontificato del papa Giovanni Paolo 2°, che aveva in mente un altro modello
di presenza dei fedeli laici nella società in cui
vivevano. In Italia, comunque, si ebbero frutti: ad esempio, negli anni ’80,
nell’impegno dei laici siciliani contro le organizzazioni mafiose.
Oggi, se consideriamo chi siamo, noi cattolici, visti nel nostro complesso e parlando
francamente, dobbiamo considerarci prevalentemente una forza di liberazione e promozione umana, o una forza di contenimento, o ancora una forza di reazione, gente che quindi vuole tornare ai tempi di prima?
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51
Pace come promozione umana
(13 gennaio
2013)
Dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
“In tutte
quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo
a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste.
E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri
nello Spirito Santo, e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra
». Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la
Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene
temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le
ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di
buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda
infatti di dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono state date in
eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e
offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che
adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza
soste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo
capo, nell'unità dello Spirito di lui.
In virtù di
questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a
tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le
singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo
comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non
solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di
funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per ufficio,
essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro fratelli, sia
per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso,
tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i
loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della
Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro
il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione
universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò
che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E
infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima
comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse
materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i
beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: « Da
bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a
servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a
questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace
universale; a questa unità
in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli
altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la
grazia di Dio chiama alla salvezza.”
Dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano
2° (1962-1965), n.4:
“E mentre il
mondo avverte così lucidamente la sua unità e la mutua interdipendenza dei
singoli in una necessaria solidarietà, violentemente viene spinto in direzioni
opposte da forze che si combattono; infatti, permangono ancora gravi contrasti
politici, sociali, economici, razziali e ideologici, né è venuto meno il
pericolo di una guerra capace di annientare ogni cosa.
Aumenta lo
scambio delle idee; ma le stesse parole con cui si esprimono i più importanti
concetti, assumono nelle differenti ideologie significati assai diversi.
Infine, con
ogni sforzo si vuol costruire
un'organizzazione temporale più perfetta, senza che cammini di pari passo il
progresso spirituale.
Immersi in così
contrastanti condizioni, moltissimi nostri contemporanei non sono in grado di
identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli dovutamente con le
scoperte recenti.
Per questo
sentono il peso della inquietudine, tormentati tra la speranza e l'angoscia,
mentre si interrogano sull'attuale andamento del mondo.
Questo sfida
l'uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta.”
Dalle relazione tenuta da mons. Enrico Bartoletti (1916-1976, dal 1972
Segretario generale della C.E.I.) al seminario della Caritas italiana del 27-4-73. In Enrico Bartoletti, La Chiesa nel mondo, Editrice A.V.E., 1982,
pag.123.
Ecco allora
quello che è la Chiesa o per lo meno
quello che ella è virtualmente e potenzialmente e quello che ella deve di
continuo divenire: una comunità, una
comunione di uomini amati da Dio e che hanno la capacità per il dono dello
Spirito che è stato loro concesso di trasfondere, di manifestare, di realizzare
questo amore di Dio per gli uomini verso i loro fratelli. Innanzi tutto
verso coloro che Dio ha chiamato a partecipare alla medesima sorte, ad essere
membra vive della medesima Chiesa; per poi essere disposti ad amare tutti gli
uomini: “ogni uomo è mio fratello”.
Se noi comprendiamo questo e se non ripetiamo pappagallescamente lo slogan
dell’amore che risolve tutto, ma arriviamo a comprendere la radice profonda
che costituisce l’essenza intima e autentica della Chiesa come comunità di
credenti, come comunione di coloro che Cristo ha redento, allora veramente noi
abbiamo della Chiesa e quindi di noi stessi un’altra visione. Noi comprendiamo
che se questa è l’essenza profonda della Chiesa, se questa è la sua realtà di
base, la sua intima connessione interiore, se questo in fondo è il suo mistero,
rivelare questo mistero al mondo non è altro che realizzare la Chiesa: noi per
primi e poi via via a cerchi concentrici la Chiesa sparsa nel mondo. Sicché gli uomini dovrebbero poter dire: ecco,
Dio non ha abbandonato il mondo, Dio non abbandona gli uomini, Dio non ha
abbandonato la storia perché ha messo nel mondo e nella storia dopo Cristo Gesù
nell’amore dello Spirito, questi uomini, cioè la Chiesa che vuole il mondo
secondo il progetto di Dio, manifestando al mondo l’amore che Dio ha avuto per
lui.
Intendere la Chiesa comunità
pacificante è stata una delle idee forti che si sono manifestate nel Concilio
Vaticano 2° (1962-1965).
Bisogna considerare che sul tema
della pace non la si è sempre pensata allo stesso modo nella Chiesa, in
particolare dopo il Concilio Vaticano 2° c’è stata una veloce evoluzione verso
le concezioni che oggi sono diffuse dal magistero.
Il tema della pace, nei documenti
conciliari, si lega poi a quello del ruolo dei laici, perché, poiché la pace è
cosa da realizzare nel mondo profano, nello spazio che c’è fuori dei templi
dove dominano le azioni liturgiche, essa venne vista come compito
principalmente laicale. L’obiettivo politico che il magistero da decenni indica
per l’instaurazione e il mantenimento della pace tra i popoli è quello di un’autorità
mondiale, universalmente riconosciuta e accreditata, che possa svolgere una
sorta di polizia di pace, nel senso
di mediare la pace, ma anche di imporla di fatto, nel caso che i
conflitti non si risolvano consensualmente. E’ stato osservato che
un’organizzazione con un potere così grande potrebbe costituire, nel caso di
degenerazioni, un pericolo per la libertà dei popoli e delle persone. In
realtà, dal punto di vista politico, il magistero confida, per la realizzazione
di un ordine pacifico, in una accordo tra
autorità costituite, con una cessione di
sovranità ad un’autorità superiore. E’ un ordine di idee che troviamo
espresso anche nella Costituzione della nostra Repubblica, nell’art.11:
L’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in
condizione di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali a tale scopo.
In
realtà un’autorità mondiale di questo tipo non è stata ancora realizzata.
L’esperienza europea di pacificazione continentale, che l’anno scorso ci è fruttata il Nobel per la pace, è basata molto su una progressiva convergenza
dei costumi dei popoli oltre che sull’azione di autorità a vario livello,
secondo il principio, riconosciuto anche dalla dottrina sociale della Chiesa,
della sussidiarietà. In questo quadro
ha avuto molta importanza la penetrazione sociale di costumi democratici,
intesi sia come forme partecipate e pacifiche di decisioni su temi di interesse
comune sia come affermazione concreta dei diritti umani fondamentali.
Il lavoro di pacificazione può farsi
rientrare nell’impegno di promozione
sociale, quindi di progresso umano, che è stato dato come obiettivo
fondamentale al laicato cattolico nel corso del Concilio Vaticano 2°. Negli
scritti che ho sopra riportato, due tratti da documenti conciliari e l’ultimo
da un intervento fatto in sede di esecuzione degli impegni conciliari, non sono
indicate specifiche modalità o specifici interventi. Programmare come
realizzare la pace in concreto, con ideazioni originali basate sull’attenta
considerazione del contesto sociale umano ( lo scrutare i segni dei tempi), è infatti una parte del compito dei
laici, che, nella visione conciliare, deve essere svolto cercando l’unione con
tutti le altre persone bene intenzionate.
Pace, in senso religioso, non è solo
assenza di conflitti, ma l’instaurazione di un ordine sociale in cui la
personalità degli esseri umani possa affermarsi liberamente e pienamente,
secondo il vero bene di ciascuno. E questo è un altro campo in cui potrà
esercitarsi l’azione laicale.
Nei discorsi religiosi e su base
biblica, si collega la pace e la giustizia, intendendo che una vera pace potrà
essere realizzata solo in un ordine sociale giusto. E tuttavia,
realisticamente, non è garantito che dalla giustizia derivi sempre la pace
nelle società umane, in cui si manifestano sempre, ad un certo livello, delle
devianze rispetto all’ordine costituito, talvolta sulla base esclusivamente
degli appetiti e degli interessi individuali e di gruppo. Questo significa che
per il mantenimento della pace occorrerà
sempre l’esercizio, in un certo grado, della forza, della violenza. Ma, in una
prospettiva religiosa, si può pensare di ridurre al minimo questo aspetto e,
comunque, di prevedere che l’esercizio della forza debba farsi solo con
procedure che consentano di mantenere in ogni caso il rispetto delle persone
umane, secondo ciò che ci si propone nei sistemi giudiziari delle democrazie
avanzate, sia in sede di accertamento di violazioni, sia nell’attività di
punizione dei colpevoli.
Mons. Bartoletti metteva in guardia
dal parlare con troppa disinvoltura di amore
come fonte della pace. La pace è un compito collettivo che richiede un impegno
concreto di ideazione e attuazione, non può pensarsi che essa scaturisca, quasi
magicamente, dal parlare di amore.
Pacificare le società umane non è
sempre facile e questo è constatabile anche senza pensare su scala globale o
nazionale. Pensiamo ai contrasti che vi sono talvolta in una comunità
parrocchiale o tra parenti o tra condòmini, quindi in ambiti piuttosto
limitati. E’ qui che si può cominciare a fare un tirocinio nell’arte di essere operatori di pace. In un contesto come
quello del nostro quartiere, in cui comincia a manifestarsi una certa presenza
di stranieri, fedeli di altre religioni, giunti dall’Europa orientale e dall’Asia, l’integrazione sociale degli
stranieri può essere un altro campo per esercitarsi in quel lavoro. Ma, nelle
realtà sociali più prossime, ci sono altri motivi di tensione che possono
essere presi in considerazione per un’azione pacificatrice su base religiosa.
Naturalmente come gruppo parrocchiale composto in prevalenza di adulti e
adultissimi dobbiamo fare i conti innanzi tutto con le nostre concrete capacità
di intervento. Ci sono, ad esempio, delle occasioni di tensione a sfondo
politico tra gruppi giovanili diversamente orientati sui quali non abbiamo la
possibilità di intervenire, fino a quando non riusciremo ad attrarre gente più
giovane. Si tratta di un problema serio, ma al di fuori della nostra portata.
A proposito di gente più giovane, sarebbe bello poter entrare di nuovo in contatto
con le tante persone più giovani che, formatisi in religione nella nostra
parrocchia, non la frequentano più, forse essendo rimasti a vivere in zona.
Anche questo farebbe parte di un’opera di pacificazione, se si fossero
allontanati per qualche motivo di risentimento o di rancore nei confronti della
nostra comunità. Molti sono impegnati
nel lavoro o nello studio quando il gruppo si riunisce. Io stesso ho talvolta
difficoltà a partecipare ai nostri incontri. E anche gli impegni di famiglia
possono ostacolare un impegno extradomestico in certi orari. Sentiamo però la nostalgia e il bisogno di
queste persone più giovani, ci piacerebbe conoscere le loro storie. Come ho
detto altre volte, non agiamo in questo da piazzisti
del sacro, siamo solo persone che vogliono cambiare il mondo in cui vivono
per renderlo migliore, più accogliente per gli esseri umani, secondo grandi
principi. Un lavoro che si fa in modo religioso, vale a dire ben consci della
sproporzione delle nostre forze rispetto all’obiettivo. Eppure, passo dopo
passo, sbagliando e correggendosi, una Europa pacificata è pure sorta dai
millenni bui delle guerre continue!
Non abbiamo la pretesa, noi del
gruppo parrocchiale di AC di San Clemente papa, di cambiare magicamente la vite
degli altri. La cura degli altri, la sollecitudine verso di loro, richiede un
impegno enorme anche per salvare una sola vita, come ben sappiamo noi che
stiamo facendo l’esperienza di genitori. Ecco perché la pacificazione sociale,
che passa anche il prendersi cura degli altri
a fini di giustizia, è necessariamente un compito collettivo, e non solo,
ma un compito in cui devono essere coinvolte le masse.
Ma, in definitiva, lo sforzo che si
fa in un gruppo limitato come il nostro ha pur sempre un senso, segna innanzi
tutto un progresso spirituale, che,
come contagio, può diffondersi nella società intorno a noi, nei punti in cui
entriamo in contatto con essa.
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52
Unita’/comunione nella Chiesa e promozione umana
(13 gennaio 2013)
Dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
“In tutte quindi le nazioni della terra è
radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli
prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i
fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo,
e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il
regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il
popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di
qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le
risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e
accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di
dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono state date in eredità le
genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e offerte
(cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna
e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa
cattolica efficacemente e senza soste
tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo,
nell'unità dello Spirito di lui.
In virtù di
questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a
tutta la Chiesa, in modo che il tutto e
le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno
sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di
Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si
compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per
ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro
fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato
religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio
stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla
comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni,
rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede
alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme
veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma
piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa,
vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e
le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a
condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole
dell'Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno
di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a
questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace
universale; a questa unità
in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli
altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la
grazia di Dio chiama alla salvezza.”
Da “Una Chiesa in
ricerca, in servizio, in crescita”, intervento di p.Bartolomeo Sorge al Convegno ecclesiale “Evangelizzazione e
promozione umana”, tenutosi a Roma dal 30-10-76 al 4 -11-76, in Evangelizzazione e promozione umana – atti
del convegno ecclesiale, Editrice A.V.E., 1977:
“…se le due funzioni
di servizio, proprie della Gerarchia e dei laici, sono tra loro chiaramente
distinte, non sono però separate e devono trovare la loro sintesi nella unità
organica della comunione ecclesiale, dell’unica missione evangelizzatrice. Il
vero contributo della evangelizzazione alla promozione umana non sarà mai opera
della Gerarchia o dei laici separati tra loro, ma per essere adeguato deve
passare attraverso il servizio della comunità ecclesiale unita. Perciò, oggi in
Italia il primo problema da risolvere per tradurre efficacemente nei fatti il
nesso intrinseco tra evangelizzazione e promozione umana (tante volte ribadito
dal convegno) è quelle della realizzazione di una piena comunione ecclesiale”.
Venerdì prossimo
inizierà la settimana per l’unità dei cristiani e, quando parliamo di questo
tema, pensiamo alle diverse confessioni cristiane che ancora hanno
organizzazioni separate mentre, nella visione cattolica, le si vorrebbe tutte
legate a un unico pastore, al mondo in cui esse vogliono essere sottomesse ad
un unico Signore.
Tuttavia il problema
dell’unità sussiste anche all’interno della nostra stessa confessione
religiosa. Esso si è fatto più pressante nel corso degli sviluppi del Concilio
Vaticano 2°, come indica il brano della relazione del 1976 del padre Sorge che
ho sopra trascritto. Dell’accentuazione del pluralismo organizzativo laicale ha
fatto le spese in particolare l’Azione Cattolica, la quale negli anni ’70 e ’80
ha visto ridursi molto i propri associati e ai tempi nostri vede addirittura
messo in discussione il proprio ruolo di collaborazione primaria con il Papa e
i vescovi e di principale articolazione dell’azione laicale nella Chiesa.
Ad esempio nella
nostra parrocchia possiamo facilmente constatare come l’Azione Cattolica non
sia più, da tempo, la principale articolazione del laicato. Ad essa si è
sostituita l’organizzazione del Cammino
Neocatecumenale la cui storia, la cui azione e i cui punti di vista nella
Chiesa e nel mondo hanno caratteristiche
piuttosto distanti da quelle dell’Azione Cattolica. Insomma l’Azione Cattolica da casa di tutti è
diventata nella parrocchia un gruppo fortemente minoritario. Oggi la nostra
parrocchia e altre che hanno subito dinamiche simili assomigliano a una
confederazione di vari gruppi in precario equilibrio, in cui non c’è una vera comunicazione
tra le varie parti che coesistono intorno alla chiesa parrocchiale e svolgono
varie attività nella liturgia, nell’azione caritativa e nella formazione.
L’unità in definitiva si fa intorno ai sacerdoti e, in particolare, al parroco.
Come ho cercato di
riassumere nei miei precedenti interventi l’Azione Cattolica, nelle varie forme
organizzative che ha avuto dall’inizio del Novecento, nasce storicamente per
l’esigenza dei laici cattolici di partecipare di più all’edificazione della
società del loro tempo, in particolare sfruttando le opportunità offerte dai
sistemi politici democratici. Con il tempo questo ha comportato il pensare
anche in modo nuovo il ruolo del laico nella Chiesa e nel corso del Concilio
Vaticano 2° è stato assecondata questa dinamica. Dopo il Concilio Vaticano 2°
l’Azione Cattolica ha fatto dello sviluppo dei principi conciliari uno dei suoi
principali obiettivi. Tutto questo accadeva in epoche in cui si sentiva una
certa frizione tra i principi religiosi e quelli secondo i quali era
organizzata la società civile. Una delle ragioni del decremento della
partecipazione all’Azione Cattolica può essere vista nel venir meno
dell’importanza di questo contrasto. Non si tratta solo dell’emergere del
fenomeno della secolarizzazione, per cui certe convinzioni religiose hanno
avuto meno forza nella società e vengono riservate fondamentalmente ai momenti
rituali e cerimoniali della società, ma proprio del fatto che la società
civile, venutasi finalmente consolidandosi intorno a principi democratici, tra
i quali quello della libertà religiosa, sembra richiedere di meno un attivismo
dei fedeli laici, che allora possono, come dire, concentrarsi sugli aspetti più
prettamente spirituali della fede. Ad un certo punto si è sentita di meno l’esigenza dell’unità di
pensiero e azione nell’Azione Cattolica, mentre certe richieste e indicazioni
che venivano formulate dal Papa e dai vescovi hanno trovato altri modi di
essere proposte nella sede civile e in quella politica. Ecco quindi che
l’esteso pluralismo delle organizzazioni del laicato cattolico italiano ha
potuto svilupparsi senza più remore di sguarnire il fronte comune. Questo ha
fatto emergere un elemento che nell’Azione Cattolica si cercava di contenere,
vale a dire le diverse concezioni della società e dell’umanità nel suo
complesso che ci sono nel laicato cattolico. Perché se è chiaro che da un punto
di vista dogmatico e liturgico ci si ritrova ancora in unità, le cose cambiano
quando si cominciano a fare programmi su come le cose devono andare nella
società, sul modo in cui porsi nei confronti di altre componenti della società,
sul modo in cui vivere una buona vita cristiana e poi, principalmente, sul problema
degli alleati che si vogliono avere per fare
progredire la società, vale a
dire in quella che, nel gergo nostro, chiamiamo promozione umana. Tutto questo accade senza i toni drammatici del
passato, in cui in ogni cosa era in gioco veramente la libertà della Chiesa e
della sua azione di evangelizzazione, come quando ci si confrontava duramente con le ideologie liberali, fasciste o socialiste che esprimevano un’azione di
forte contrasto con le organizzazioni religiose cattoliche. E’ una dinamica che
si è fatta sentire particolarmente a partire dagli anni ’80: all’epoca si
individuava una cultura della mediazione,
impersonata dall’Azione Cattolica, e una cultura della presenza, della quale erano viste come portatrici varie organizzazioni, tra le quali
il Cammino Neocatecumenale. In genere
si ritiene che sotto il pontificato di Giovanni Paolo 2° per l’Italia la Chiesa
abbia scelto il metodo della presenza.
Oggi si è ormai perso il senso di questo
diversità di visioni e di prospettive, perché le varie organizzazioni hanno
imparato a collaborare, specialmente a livello nazionale. Tuttavia esso attraversa
ancora, di fatto , il nostro laicato, quando, ad esempio, ci si conta e allora
ci sono quelli per i quali i cattolici, considerati come presenza di testimonianza religiosa
effettiva, sono un piccolo resto, una minoranza, e coloro per i quali i
principi religiosi informano ancora di sé la società perché tuttora la
pervadono e la dirigono, anche se su certi aspetti, come nelle questioni delle
relazioni sessuali, c’è un vasto dissenso pratico con i principi insegnati dal
magistero.
Certamente siamo
chiamati all’unità e ad un’unità di tipo particolare che chiamiamo comunione. Innanzi tutto siamo chiamati
a parlare delle nostre scelte con gli altri con i quali ci sentiamo di dover
essere in comunione. Mancano però di
solito le sedi e i luoghi per farlo, perché ognuno se ne sta nel proprio gruppo
separato.
Ma non è detto che poi, parlando, discutendo, si
arrivi effettivamente a deliberazioni comuni, anche se uno degli esercizi di
laicità che ci vengono consigliati nel progetto formativo dell’A.C. è proprio
in questo senso: arrivare democraticamente a decisioni comuni condivise.
Bisogna riconoscere però che il metodo democratico, che si è ampiamente
affermato nelle società civili della nostra Europa, stenta ad essere praticato
nella nostra Chiesa, che, del resto, protesta orgogliosamente la propria
a-democraticità. Insomma, la piena comunione ecclesiale è ancora di là da
venire, mi pare.
Uno dei luoghi in cui
essa potrebbe manifestarsi è proprio l’organizzazione dell’Azione Cattolica, la
quale appunto non ha le caratterizzazioni forti
di altri gruppi e pratica il metodo
democratico. Essa potrebbe anche essere il centro in cui potrebbero iniziare a
convergere coloro che nel passato hanno scelto altre strade per esprimere il
proprio impegno religioso nella società civile, al di fuori di organizzazioni
ecclesiali, e addirittura coloro che si sono staccati dalla comunità
parrocchiali per polemica, rancore o risentimento.
Se però guardiamo
alla nostra realtà di gruppo vediamo che quel traguardo è molto lontano
dall’essere realizzato. In realtà è in forse la nostra sopravvivenza
associativa, se non riusciremo ad attrarre forze nuove nel nostro lavoro.
Eppure esso sarebbe ancora importante nella Chiesa, perché nella Chiesa la democrazia è ancora un problema. C’è
ancora un contributo che potremmo dare alla crescita dell’insieme e, purtroppo,
non ci sono altre organizzazioni che si occupano di fare il lavoro al quale
storicamente l’Azione Cattolica si è impegnata, che possiamo sintetizzare
efficacemente nell’idea dell’evangelizzazione come promozione umana e della
promozione umana come evangelizzazione.
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53
Scrutare i segni dei tempi
(15 gennaio 2013)
Dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano
2° (1962-1965):
Pertanto il santo Concilio,
proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui
di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al
fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale
vocazione.
Nessuna ambizione terrena spinge la
Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito
consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza
alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito.
LA CONDIZIONE DELL'UOMO NEL MONDO
CONTEMPORANEO
4. Speranze e angosce.
Per svolgere questo compito, è dovere
permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo,
così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni
interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro
relazioni reciproche. Bisogna
infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue
aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico. Ecco come si possono
delineare le caratteristiche più rilevanti del mondo contemporaneo. L'umanità vive oggi un periodo nuovo della
sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente
si estendono all'insieme del globo. Provocati dall'intelligenza e
dall'attività creativa dell'uomo, si ripercuotono sull'uomo stesso, sui suoi
giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e
d'agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale, i
cui riflessi si ripercuotono anche sulla vita religiosa.
Come accade in ogni crisi di crescenza, questa trasformazione
reca con sé non lievi difficoltà.
L’Azione Cattolica è
particolarmente impegnata non solo ad attuare
i deliberati del Concilio Vaticano 2°, ma a svilupparne
tutte le idee innovative, in particolare quelle che riguardano il ruolo dei
laici nella Chiesa e nel mondo e che assecondarono una trasformazione che già
si era prodotta nel corso dell’Ottocento e del Novecento. Non dobbiamo
nasconderci che questo non è, nella Chiesa di oggi, l’unico modo di considerare
ciò che si debba fare nel dopo Concilio.
Ci sono anche tendenze e movimenti in senso contrario, vale a dire in senso reazionario. C’è insomma chi ha
nostalgia della Chiesa-di-prima,
anche se probabilmente ormai sono pochi a serbarne memoria affidabile. Ciò in
particolare accade con riferimento alla liturgia e al modo di proporsi al
mondo in cui i cristiani vivono, a ciò
che si muove fuori dello spazio specificamente liturgico. Qui mi interessa in
particolare la seconda questione.
Riassumendo molto,
le posizioni che prevalsero durante il Concilio Vaticano 2° furono quelle
piuttosto fiduciose nelle trasformazioni che le civiltà umane stavano subendo
in vari campi, in particolare in quelli della scienza e della tecnica e della
politica. Si aveva la consapevolezza di problemi, anche gravi, che venivano
producendosi e si capiva che essi riguardavano o avrebbero riguardato anche gli
aspetti religiosi della vita umana, si aveva quindi consapevolezza di trovarsi
in un tempo di crisi, in una fase di passaggio, ma si era ottimisti sui
risultati di questo processo. Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra trascritto si parla infatti di crisi di crescenza con riferimento ad
esso. Si volle quindi aprire gli occhi e
il cuore a quello che accadeva nel mondo, per capirne le opportunità
religiose di bene. Si usò a questo proposito l’espressione evangelica scrutare i segni dei tempi, parlandone
come di un dovere permanente per la Chiesa: anch’essa la troviamo nel brano
che ho sopra riportato. Ora, bisogna considerare che, storicamente, questa può
essere considerata una novità rispetto alle posizioni precedenti del
magistero. E giunse in un tempo in cui
ancora sussisteva l'Unione Sovietica, una delle principali minacce per le
visioni religiose diffuse nel mondo, un sistema politico in cui si faceva
propaganda attiva di ateismo, e si era ancora nel tempo della cosiddetta guerra
fredda, la contrapposizione anche militare tra i due blocchi politici
dominati dagli Stati Uniti d'America e dall'Unione Sovietica che tuttavia non esplodeva in una conflitto guerreggiato,
in una nuova guerra mondiale, per il
timore dell'annientamento globale a causa dei tremendi effetti distruttivi di
una guerra combattuta con l'impiego di armi nucleari. Tuttavia bisogna
ricordare che, dopo la morte dell'egemone russo Stalin, si era anche nel tempo
in cui sembrava che si aprissero nuove prospettive di pace mondiale. Anche
l'impossibilità pratica di una nuova guerra mondiale venne considerata da
alcuni (ad esempio dal politico cattolico Giorgio La Pira) come un segno provvidenziale. Dovettero però
passare altri trent'anni perché queste speranze di vera distensione a livello
mondiale divenissero infine realtà.
Fino al Settecento la
Chiesa cattolica fu piuttosto integrata
con il mondo in cui viveva, ne era parte autorevole e attiva, ma generalmente
al modo in cui lo erano le potenze di quelle epoche, vale a dire attraverso i
suoi capi o, comunque, i suoi esponenti principali: Papa, vescovi, altro clero,
religiosi. Un ruolo religioso ebbero alcune dinastie profane. Il resto del
popolo dei fedeli generalmente si limitava ad obbedire, così come faceva con i
suoi signori delle nazioni.
A partire dal
Settecento la situazione mutò rapidamente. Non furono tanto e non solo i
fondamenti ideali del pensiero religioso ad essere messi in questione, ma il
potere temporale della Chiesa, vale a dire la sua capacità di influenza sul
mondo in cui viveva. Di fronte a queste contestazioni, che poi vennero
cristallizzandosi nei movimenti liberali e socialisti, la Chiesa reagì con un
moto di opposizione e di contrasto in quasi tutto il mondo in cui la sua azione
era consentita, con l’eccezione degli Stati Uniti d’America per la
particolarità dell’ideologia rivoluzionaria di quella entità statale, che aveva
mantenuto saldi legami con fondamenti religiosi cristiani. Questo modo di
proporsi al mondo culminò in due momenti: l’elencazione legislativa degli
errori del tempo, contenuta nel documento denominato Sillabo, allegato all’enciclica Quanta
Cura, promulgata nel 1864 dal papa Pio 9°, la condanna del movimento cosiddetto
modernista, contenuta nell’enciclica Pascendi Dominicis gregis, promulgata
nel 1907. Con specifico riferimento alla situazione italiana si aggiunse il
divieto fatto ai cattolici, dopo la conquista di Roma da parte del Regno
d’Italia sabaudo, di partecipare alla vita politica, impartito con
provvedimento della Penitenzieria
Apostolica (un ufficio della Santa Sede) del 1870, confermando un
precedente provvedimento del 1868 di altro ufficio della Santa Sede. Con
l’enciclica Graves de communi, promulgata
dal papa Leone 13°, del 1901, venne condannata esplicitamente l’idea di una
politica democratica cristiana.
Possiamo considerare come espressione dello stesso modo di intendere le cose
anche la conclusione, nel 1929, dei Patti
Lateranensi con il regime fascista italiano: benché presentati come conciliazione con il Regno d’Italia,
quindi con il mondo profano, essi assecondarono di fatto le tendenze
reazionarie diffuse in quel tempo in Italia, che in particolare colpivano i
movimenti liberali, socialisti e, in genere, ogni tendenza democratica. La
situazione cominciò lentamente a cambiare dopo la Seconda guerra mondiale,
sotto il pontificato del papa Pio 12°, non tanto con riferimento alla posizione
del magistero, ma ai contributi che, di fatto, venivano dati dai laici
cristiani alla costruzione del nuovo mondo. Le idee che trovarono espressione
nei deliberati conciliari furono elaborate nei vent’anni precedenti.
Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra riportato
viene chiarito il senso dell’espressione scrutare
i segni dei tempi: essa vuole dire conoscere e
comprendere il mondo in si vive, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo
carattere spesso drammatico.
La Chiesa nei secoli precedenti si era
considerata e dichiarata maestra di
umanità, come ancora ritiene di
essere. Generalmente però aveva dedotto i propri insegnamenti in materia
dalla propria tradizione teologica. Dal Concilio Vaticano 2° in poi si è
proposta di avere una visione più realistica del mondo fuori dello spazio
liturgico, per capirlo meglio. In questo lavoro ha riconosciuto una specifica
competenza dei laici, i quali in precedenza era considerati generalmente degli esecutori delle deliberazioni del
magistero. Possiamo notare, in particolare, come questa concezione abbia molto
influito sull’elaborazione della dottrina sociale della Chiesa, in particolare
dall’enciclica Populorum progressio,
promulgata dal papa Paolo 6° nel 1967.
La concezione ottimistica dell’andamento delle cose del mondo espressa nei
deliberati del Concilio Vaticano 2° è andata piuttosto temperandosi durante il
pontificato del papa Giovanni Paolo 2°. Egli fu certamente uno dei maggiori
artefici degli sviluppi conciliari, ma era portatore, specialmente negli ultimi
anni del suo regno, di una visione pessimistica sull’umanità sua contemporanea,
vista come soggiogata da potenze di morte. Ho letto che fu abbastanza forte in
questo l’influsso del pensatore eclettico ortodosso russo Vladimir Soloviev
(1853-1900), il quale pronosticava l’avvento dell’Anticristo nell’apparente progressismo
delle tendenze sociali moderne e che era portatore di una visione di stampo
religioso fortemente pessimistica sul
mondo del suo tempo. In quest'ordine di idee abbiamo quindi oggi dei movimenti
che idealmente agiscono come piccolo
resto in opposizione a un mondo malvagio, dando molto risalto agli aspetti
negativi e antireligiosi delle civiltà contemporanee. Come in certe fasi del
cristianesimo delle origini allora ci si ritrae, di fronte a una supposta
ostilità o vera e propria persecuzione del mondo di oggi, in piccole comunità
di impronta familiare, quindi autoritaria, in cui si cerca di vivere un
cristianesimo integrale sorretto dall’amicizia e dalla solidarietà degli altri
aderenti che condividono le stesse idee e lo stesso impegno di vita.
Con l’enciclica Caritas in veritate, promulgata nel 2009 dal papa Benedetto 16°, la
tendenza si è di nuovo invertita.
Non che nella Chiesa cattolica non
possano avere cittadinanza forme di vita comunitaria improntate all’idea del piccolo resto: esse anzi ci saranno
sempre, in particolare nella vita comunitaria degli istituti di vita religiosa.
La Chiesa cattolica, nonostante ciò che comunemente si crede, ha un ordinamento
fortemente pluralistico, in cui da sempre
sono ammesse molte varietà di interpretazione del cristianesimo, pur nella
condivisione di alcuni principi comuni, in particolare di quelli che
specificamente vengono denominati dogmi di fede. Ma, dato l’ordinamento democratico
della gran parte delle società civili contemporanee, è importante che vi sia
chi si occupa di partecipare ad esse per sostenere i punti di vista religiosi
non solo con la modalità della testimonianza
di vita, ma anche con quella della partecipazione attiva per influire
articolando i principi religiosi, i valori, in forme che possano essere
condivise anche da chi religioso non è (secondo la tecnica della mediazione
culturale) e collaborando ai processi di trasformazione sociale che
comunque vengono incontro alle istanze religiose, come ad esempio quella della
pace universale tra i popoli e della universale libertà religiosa.
Capire il mondo è fatica, non
nascondiamocelo. Per i più anziani è poi più semplice chiudersi in una
religiosità familiare che richiama quella della loro infanzia, centrata
prevalentemente sulle liturgie parrocchiali e sulla spiritualità personale. Ma,
devo dire, i più anziani del nostro gruppo di Azione Cattolica dimostrano
invece lo spirito indomito laicale della loro gioventù e in questo a volte sorprendono i più
giovani, i quali sono più facili allo scoramento.
Bisogna riconoscere che nell’opera
di comprendere meglio il mondo più si è più il risultato è migliore. E ciò è
ancora più vero se in questo lavoro sono coinvolte persone appartenenti a
diverse generazioni che tuttavia sono disposte al dialogo reciproco. Nel nostro
gruppo di Azione Cattolica mancano le persone più giovani. Finisco quindi, come
spesso mi accade di fare, con un appello ai più giovani perché prendano parte a questo nostro lavoro,
nella consapevolezza che esso non consiste tanto in un ritornare, quindi in un moto reazionario,
ma nel costruire il nuovo, un mondo come, anche dal punto di vista religioso,
non c’è mai stato nel
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54
Fede cristiana: speranza credibile e onesta
o pia illusione?
(17 gennaio 2013)
Preghiera di Paolo VI per la Messa funebre per Aldo Moro (13 maggio 1978
– San Giovanni in Laterano)
Ed
ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa
pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per
esprimere il “De profundis”, il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore
con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce.
Signore, ascoltaci!
E chi può ascoltare il nostro lamento, se non
ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra
supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio,
innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito
immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per
lui, per lui.
Signore, ascoltaci!
Fa’, o Dio, Padre di misericordia, che non
sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della morte, ancora
intercede tra i Defunti da questa esistenza temporale e noi tuttora viventi in
questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non è vano il
programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la nostra vita
sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa promessa realtà.
Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio, noi li rivedremo!
Signore, ascoltaci!
E intanto, o Signore, fa’ che, placato dalla
virtù della tua Croce, il nostro cuore sappia perdonare l’oltraggio ingiusto e
mortale inflitto a questo Uomo carissimo e a quelli che hanno subìto la
medesima sorte crudele; fa’ che noi tutti raccogliamo nel puro sudario della
sua nobile memoria l’eredità superstite della sua diritta coscienza, del suo
esempio umano e cordiale, della sua dedizione alla redenzione civile e
spirituale della diletta Nazione italiana!
Signore, ascoltaci!
Interrompo gli interventi sui temi del
Concilio Vaticano 2° per proporre una riflessione sulla base del dibattito che si è articolato nella riunione di martedì
scorso del nostro gruppo.
La fede religiosa ci salva dalla sofferenza
dandole un senso, si è detto. Eppure spesso siamo piuttosto angosciati da ciò
che ci accade e lo sono stati anche dei Papi in alcuni momenti della loro vita.
Ho sopra trascritto la preghiera che il papa Paolo 6° recitò nel corso della
messa funebre per Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana, suo
amico personale, ucciso quattro giorni prima da un’organizzazione terrorista di
impronta comunista, le “brigate rosse”, dopo un lungo sequestro di persona.
Una delle accuse più tremende rivolte alla
nostra religione è di essere una organizzazione dedita a una pia frode, che
prospetta realtà soprannaturali immaginarie per lenire sofferenze reali invece
che porvi rimedio per quanto possibile, disperando di riuscirvi o rinunciando a
farlo per vigliaccheria o addirittura per collusione con gli oppressori e
aggressori. Si tratta di un’obiezione molto dura perché, dal punto di vista
storico e sociologico ha qualche fondamento di verità, anche se, nella nostra
spiritualità, ci convinciamo che in definitiva è infondata.
Noi, da credenti, non ci facciamo illusioni
sulla consistenza ed effettività del male e del dolore nella vita degli esseri
umani: costituiscono effettivamente un grosso ostacolo sulla via della fede, simile alla grossa pietra rotolata
all’ingresso del sepolcro di Cristo, secondo l’espressione usata dal papa
Paolo 6°. Se certamente la fede religiosa
può essere uno dei modi per reagire alle avversità, in alcuni casi essa
può addirittura essere di impaccio sulla strada della resistenza e allora ce se
ne libera. Ma, di solito, quello che in certe condizioni personali difficili si
rifiuta non è la vera fede, ma una sua approssimazione insufficiente, il
fideismo. Tuttavia non dobbiamo sottovalutare le difficoltà che anche da
credenti ben formati si incontrano in certe condizioni di contrasto e di
dolore. La nostra infatti è una fede religiosa paradossale, che quindi non
trova definitive conferme
nell’osservazione del realtà intorno a noi, anche se la magnifica complessità
della natura suggerisce l’idea di un disegno
intelligente che si spera essere anche amorevole,
visto che l’amore nella natura c’è. La caducità delle cose e dei viventi e
l’incessante lotta di questi ultimi per la sopravvivenza e, anche oltre questo,
per prevalere a spese di altri possono anche sorreggere convinzioni opposte.
Per quanto poi ci si ragioni molto su e ci cerchi di dimostrare in concreto che
le cose, in conclusione, vanno per il meglio, è solo nella spiritualità
interiore profonda che noi troviamo il fondamento della nostra speranza
religiosa, alla quale, per quanto osteggiata nel mondo come effettivamente va,
sentiamo di non poter rinunciare, pur mantenendo una visione realistica delle
cose, quindi non chiamando bene il male per poi superficialmente concludere che
tutto è bene. Piuttosto, e qui richiamo una espressione che lo scrittore
Bernanos usò nel romanzo Diario di un curato di campagna (1936), possiamo arrivare ad ammettere che tutto è grazia, che insomma, pur con
tutte le sue avversità e con la prospettiva certa della morte, la vita
umana, la nostra vita, merita di essere
vissuta, che le cose belle che ci sono capitate non ce le siamo in fondo
meritate ma ci sono state come donate e che, nella prospettiva della gioia che
è al fondo del vivere, riusciamo ad accettare quella realtà di dolore che
sembra ineliminabile dalla nostra esistenza e addirittura l’idea della fine.
Naturalmente in religione c’è molto di più di questo, ma non darei per scontato
che tutti riescano ad arrivarci con facilità:
ad agevolare in questo i credenti serve appunto la nostra organizzazione
religiosa, in cui ci si sorregge gli uni gli altri. E’ bello riuscire a
concludere, secondo le espressioni usate dal papa Paolo 6°: Non è
vano il programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la
nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa
promessa realtà.
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55
La Chiesa vuole rinnovare il mondo
(19 gennaio 2013)
Dal decreto Apostolicam Actuositatem (traduzione dal
latino: L'attività apostolica)
sull'apostolato dei laici, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)
L'opera di redenzione di Cristo ha per natura sua come fine la salvezza
degli uomini, però abbraccia pure il
rinnovamento di tutto l'ordine temporale. Di conseguenza la missione della
Chiesa non mira soltanto a portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli
uomini, ma anche ad animare e perfezionare l'ordine temporale con lo
spirito evangelico. Il laici dunque, svolgendo tale missione della Chiesa, esercitano il loro apostolato
nella Chiesa e nel mondo, nell'ordine spirituale e in quello temporale. Questi
ordini sebbene distinti, tuttavia sono così legati nell'unico disegno divino,
che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una
creazione nuova: in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto alla fine del
tempo. Nell'uno e nell'altro ordine il
laico, che è simultaneamente membro del popolo di Dio e della città degli
uomini, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana.
In queste poche righe
del decreto conciliare Apostolicam
Actuositatem, del Concilio Vaticano 2°, sono concentrati alcuni principi
molto importanti e anche molto controversi nella storia della nostra
confessione religiosa.
Innanzi tutto,
iniziamo a tradurre i termini che vengono utilizzati nel documento, i quali, a
loro volta, sono una traduzione dal testo originale scritto in latino
ecclesiastico moderno.
Che cosa è l'ordine temporale? E' il mondo in cui
viviamo, l'ambiente naturale e
sociale. Lo si distingue dall'ordine spirituale che, nella terminologia
teologica, è quello della fede, in cui
il soprannaturale tocca la realtà naturale e, in particolare, interagisce e
dialoga, con noi viventi qui sulla Terra. Questi due ordini da sempre sono
stati considerati distinti per i
cristiani, e, da un certo punto in poi, diciamo più o meno, dal terzo secolo
della nostra era, però anche legati.
Il cristianesimo
nasce nella Palestina del primo secolo, in un popolo di cultura e religione
ebraica ma sotto occupazione militare e politica romana. La situazione politica
del tempo non era tranquilla. La rivolta covava, ma c'erano periodi in cui
bisognava organizzare una convivenza in qualche modo pacifica. L'idea di distinzione
origina da questa situazione, per cui, ad un certo punto, dinanzi al problema
dell'ossequio preteso dalle autorità degli occupanti, invece di risolversi per
la guerra ai romani, all'opposizione dura,
si deliberò di dare "A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel
che è di Dio". Cesare era
l'imperatore romano: anche in seguito gli imperatori romani mantennero questo
appellativo, così come altri monarchi dei tempi successivi (Zar è un forma contratta di Cesare). Parlando di Dio in quel contesto ci si volle riferire
ai doveri specificamente religiosi.
Nei primi secoli,
quelli dell'opposizione e della persecuzione, il modo della distinzione prevalse. Poi il
cristianesimo, con un processo durato circa due secoli, si integrò nell'ordine
politico dell'impero romano. In questa epoca comincia a porsi il problema del legame, vale a dire dell'influenza dei
principi religiosi, oggi diremmo dei valori,
sull'ordinamento politico e civile della società. Non è che, prima di allora,
le società dominate dall'impero romano non fossero religiose: non dobbiamo fare
l'errore di considerare quelli che, secondo la terminologia un po' intollerante
dei secoli dell'affermazione politica del cristianesimo nell'impero romano,
chiamiamo i pagani fossero atei.
Tutto al contrario, i pagani dell'ellenismo
e della latinità erano molto religiosi. Altrimenti non si spiegherebbe perché costruirono tutti quei
grandi e magnificenti templi, molti dei quali sono giunti fino a noi. Il fatto
è che le religioni precristiane diffuse nell'impero romano avevano principi
molto diversi da quelli cristiani, anche se poi alcuni loro aspetti, in
particolare quelli liturgici, furono assimilati dal cristianesimo. Basti
pensare al titolo di pontefice che si
dà al Papa e che richiama il massimo sacerdozio religioso dell'antica Roma pagana.
La dialettica, che
ebbe storicamente anche evoluzioni drammatiche, tra il papato romano e gli
imperatori, e i monarchi, politici in genere, che si succedettero in Europa
nelle nazioni divenute cristiane si basò tutta sul rapporto tra distinzione e legame.
Il problema non è mai stato del tutto risolto. Nelle ere delle monarchie
assolute, quelle in cui i popoli erano considerati una sorta di proprietà
ereditaria delle dinastie regnanti o, al più, figli in una famiglia politica
autoritaria di cui il monarca era come il padre (voglio ricordare che
l'appellativo di Papa, attribuito al monarca assoluto della nostra confessione
religiosa, deriva dal vocabolo greco pàpas,
che significa papà), si era
instaurato una sorta di condominio sui sudditi, tra i papi (sovrani nello spirituale) e i monarchi civili (sovrani nel temporale) ed esso, come
succede nei condomini negli edifici, era travagliato da continue controversie,
aggravate dal fatto che fin da epoca remota i papi furono anche sovrani propriamente temporali
(un simulacro di questa realtà è in qualche modo l'attuale Città del Vaticano,
a Roma). Ancora oggi, di fronte a certe pronunce del Papa che investono
problemi morali implicati nella legislazione politica sorgono problemi.
L'accusa di papismo cattolico
ostacolò a lungo la via ai candidati cattolici alla presidenza degli Stati
Uniti d'America, superata solo al tempo dell'elezione di John Kennedy.
Questioni analoghe costarono la vita all'inglese san Tommaso Moro (1478-1535),
importante ministro e consigliere del re
Enrico 8°.
Nella visione antica
del legame tra temporale e spirituale,
pace si otteneva quando i sovrani nei due ordini riuscivano a trovare
un'intesa. Ciò fatto, la rivolta contro il principe in un ordine era
considerata illecita anche dal principe dell'altro ordine. Questo ordine di
idee portò dal Settecento la Chiesa cattolica, intesa in particolare come
gerarchia del clero, a schierarsi, in genere,
con le dinastie civili contro i moti popolari democratici. In questo
costituisce una eccezione il caso degli Stati Uniti d'America, ordinamento
politico in cui però all'origine prevalevano i principi religiosi di
confessioni originate alla Riforma e i cattolici, quando iniziarono ad
arrivare, in particolare con l'immigrazione irlandese, polacca e italiana erano
emarginati.
Dal Settecento, rinnovamento dell'ordine temporale, vale a dire della società
civile, significò in genere, nelle nazioni europee soggette a monarchie
assolute e nei popoli a loro assoggettati, rivoluzione.
I primi a farla, in senso moderno, furono i coloni britannici del Nord America,
nel 1776. La Chiesa cattolica non fu mai storicamente favorevole alle rivoluzioni, anche se nella teologia
ufficiale tomistica c'erano principi anche per decidere quando rivoltarsi a un
sovrano ingiusto. Ma in particolare si è dimostrata avversa alle rivoluzioni democratiche come quelle che
portarono alla deposizione delle dinastie regnanti con le quali aveva concluso
accordi favorevoli. Ancora oggi vediamo talvolta ricevuti in Vaticano con onori
particolari gli eredi di antiche dinastie regnanti ormai senza più alcun
potere.
L'assimilazione alle
monarchie assolute iniziò però ad essere vissuta con fastidio dai papi da un
certo momento in poi, diciamo dai tempi del Concilio Vaticano 2°. Essi, ad
esempio, cominciarono a sentirsi a disagio nei momenti liturgici in cui,
secondo un'antica tradizione, dovevano indossare il fastoso copricapo detto tiara o triregno, che reca tre corone, una sopra l'altra, incastonate in
una sorta di turbante dorato, simbolo dell'essere, in vari sensi, anche in
quello politico, re dei re.
E' chiaro che la
prospettiva è molto diversa nel brano della Apostolicam
Actuositatem che ho sopra citato. Qui
l'idea di rinnovamento delle
società civili è addirittura centrale. Non c'è l'immagine della Chiesa come regno, ma come popolo. Infatti, storicamente, negli ultimi tre secoli il rinnovamento è scaturito da azioni di
popolo. Ma anche l'immagine degli ordinamenti politici è diversa da quella
di un tempo: essi vengo denominati città degli
uomini, espressione cara a Giuseppe
Lazzati e che richiama l'idea contemporanea di sovranità popolare. Insomma si tratta di una rappresentazione in
cui, con riferimento all'idea di rinnovamento
delle società civili, sono tramontati i monarchi
e sono sorti i popoli.
La pace tra cielo e
terra non è poi più affidata ad un accordo condominiale
tra monarchi del temporale e dello spirituale, ma a un'altra realtà che in
passato era guardata con grande sospetto, quando pretendeva di sindacare gli
ordini di sovrani: la coscienza.
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56
Democrazia, difficile
virtù
In religione si ha di solito difficoltà a
pensare alla democrazia come ad una virtù. In un certo senso la si subisce e
perciò, quando se ne parla, si cerca di mettere in guardia i fedeli dalle sue
degenerazioni e, in definitiva, si suggerisce di rimettersi al giudizio della
gerarchia del clero, un’organizzazione non solo non democratica, ma addirittura
antidemocratica. E, infatti, si ripete
abbastanza spesso che le nostre collettività non sono delle democrazie (ed in effetti così come sono
organizzate non lo sono) e non si
capisce che questo non è un loro aspetto di cui andare fieri, ma un loro
problema, perché, appunto, la democrazia è una virtù.
Considerando che tra il 1944 e il 1991 la democrazia è entrata anche nella
dottrina sociale della Chiesa, nel senso che la si considera una condotta
politica virtuosa, dopo che, fin dagli esordi dei processi democratici moderni,
a fine Settecento, la si era sostanzialmente assimilata all’eresia e
condannata, bisognerebbe insegnare la democrazia nella nostre collettività di
fede, e soprattutto praticarla.
Democrazia non è solo la regola per cui la
decisione comune è quella maggioritaria. Significa, prima di tutto, libertà di
coscienza e di parola, rispetto degli altri, processi decisionali preceduti da
un dibattito franco, aperto, completo, informato, responsabilità dei capi verso
i governati, temporaneità delle funzioni di comando, e soprattutto un
particolare impegno a quella che Ghandi (Mahatma
- “grande anima”, politico indiano vissuto tra il 1869 e il 1948) definiva non - menzogna e che significa non tanto
dire sempre la verità, perché noi non possediamo la verità e sempre la dobbiamo cercare come a
tentoni, ma ripudiare la menzogna, ciò che sappiamo non essere la verità. In
religione significa, ad esempio, rinunciare ad impiegare, per asservire le
persone, ai molti effetti speciali di tipo magico-spirituale che possono essere
impiegati e storicamente lo sono stati ma che hanno collegamenti assai labili
con la verità, come quando si promette al sofferente la guarigione da mali
fisici o morali in cambio di sottomissione acritica, e rinunciare all’idea di ricostruire gli altri secondo un certo nostro modello
promettendo la felicità.
Bisognerebbe fare scuola di democrazia a
partire dai bambini della prima iniziazione religiosa, quando scoprono
l’amicizia. La democrazia ha molto a che fare con l’amicizia, perché presuppone
la condivisione di valori forti ancor prima che inizino i processi decisionali.
Questi valori sono appunto quelli implicati nell’amicizia tra gli esseri umani,
il riconoscersi reciprocamente bisognosi gli uni degli altri, quella dimensione
relazionale che ci fa crescere, come ci è stato spiegato nel primo incontro del
ciclo Immìschiati sulla dottrina sociale della Chiesa, per cui
non si ha cuore di rinunciare a nessuno. E’ per questo che la democrazia, prima
di studiarla sui libri, occorre viverla e innanzi tutto scoprirla nelle relazioni
con gli altri. Questo significa che occorre farne tirocinio. E, innanzi tutto,
imparare a non diffidarne.
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57
Dottrina
sociale, liturgia e Concilio Vaticano 2°
I
documenti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) sono leggi per la nostra
confessione religiosa e contengono importanti disposizioni in materia di
liturgia e di dottrina sociale. Le novità più rilevanti apparvero essere, fin
dai primi anni, quelle in materia di liturgia. Ma anche la dottrina sociale
venne profondamente innovata.
Nell’Ottocento, quella che consideriamo “la” dottrina sociale, ma che in realtà
ne è storicamente l’ultima propaggine, iniziò ad occuparsi dei fenomeni
democratici che si venivano manifestando in Europa, animati da spirito di
libertà e di giustizia sociale. Se ne occupò per contrastarli. Entrò subito in
polemica, fin dall’enciclica Le novità del papa Pecci
del 1891, con il liberalismo e il socialismo. Questa polemica non è ancora
sopita, tanto che è stata ripresa dai relatori nel corso del primo incontro del
ciclo Immischiati, nella nostra parrocchia.
Durante
il Concilio Vaticano 2° si corresse il tiro. La libertà di coscienza del
liberalismo e l’impegno per la giustizia sociale del socialismo divennero virtù
anche in senso religioso.
Nello
stesso tempo si cercò di avvicinare la liturgia al popolo, consentendo molto
più ampiamente l’uso delle lingue nazionali in luogo del latino, che era
diventato un grosso ostacolo alla formazione religiosa dei fedeli mediante la
partecipazione alle azioni liturgiche, in particolare alla Messa. Per volontà
del papa Montini l’uso della lingua nazionale divenne poi la forma normale
delle liturgie con la partecipazione dei laici, al di fuori degli ambienti
monastici o della Curia Vaticana e di altri ambienti particolari.
Per
quanto riguarda il rito della Messa, i saggi del Concilio così scrissero nella
Costituzione Il Sacro Concilio:
48. Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come
estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo
bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra
consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si
nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la
vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con
lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di
Cristo, siano perfezionati nell'unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio
sia finalmente tutto in tutti.
La
partecipazione attiva alla liturgia era collegata all’impegno per la giustizia
che si ritenne di promuovere nei fedeli laici: per lavorare nella società per
infondervi i principi religiosi, per ordinarla secondo Dio, come
venne scritto nella Costituzione Luce per le genti
n.31 Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio
trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio.
i laici
dovevano essere adeguatamente preparati e la liturgia era un’occasione molto
importante per farlo.
Il
nuovo ruolo dei laici di fede nella società disegnato dai saggi del Concilio
spiega perché negli anni successivi venne accettata anche la democrazia come
virtù politica e religiosa insieme, in un processo conclusosi nel 1991 nelle
affermazioni teoriche, con l’enciclica Il Centenario del
papa Wojtyla, ma ancora in corso nei suoi sviluppi pratici.
Nell’incontro Immìschiati sulla persona è stato detto che la
dottrina sociale non è una terza via tra liberalismo e socialismo ed è vero. In
realtà si tratta di una mediazione culturale della nostra fede che recepisce,
ibridandoli, principi liberali e principi socialisti. Ne costituisce una
sintesi, costruita per rendere compatibili le loro principali istanze con la nostra
fede religiosa. In un’ottica di fede si è però respinta l’idea che ognuno
sia libero di fare di sé stesso e degli altri tutto ciò che è possibile fare,
perché noi non siamo dei, ma solo creature fragili. E’ questa è
sicuramente la realtà.
Nell’Ottocento
la via democratica era ancora molto di là da venire in religione.
Il
nazionalismo del Regno d’Italia privò i Papi del loro piccolo regno nell’Italia
centrale ed essi la presero molto male.
Il
Regno d’Italia era retto da un sistema politico che integrava conservatorismo,
autoritarismo, nazionalismo e liberalismo. Nel primo dopoguerra si vide però
che di quest’ultimo poteva fare a meno. Ma, insomma, ai tempi dell’insorgere
del contenzioso con il Papato si presentava come uno stato democratico, anche se
l’elettorato era piuttosto selezionato, tra i soli uomini di un determinato
censo o con un livello minimo di istruzione (che all’epoca era di pochi). Fatto
sta che il Papato, nella polemica con il Regno d’Italia, intese promuovere un
movimento del popolo minuto, che, sebbene a suo avviso insidiato da un
arrogante e presuntuoso ceto politico irreligioso, tuttavia era ancora custode
delle buone e antiche tradizioni italiane. Represse coloro, prevalentemente
appartenenti ai ceti colti, che cercavano una via per vivere attivamente
le istituzioni democratiche del Regno, come Romolo Murri, il promotore a fine
Ottocento del movimento politico della democrazia cristiana, e
anche l’ideatore del nome e del concetto di tale politica, e cercò
di mantenere le masse lontane dalle istituzioni politiche dello stato,
per utilizzarle come strumento di pressione per riavere ciò che gli era stato
tolto con la guerra del 1870 per la presa di Roma. Volle così dimostrare di
avere mantenuto una sovranità sugli italiani. La prima
dottrina sociale della Chiesa si presenta quindi come un insieme di norme date
da un sovrano, il Papa, al suo popolo. Non era ammessa alcuna partecipazione
all’elaborazione di quei principi sociali, sebbene le encicliche sociali non
siano mai state il frutto di un lavoro solitario dei Pontefici, ma sempre
un lavoro collettivo, a più mani, perché i Papi hanno una
formazione prevalentemente teologica, anche se, ad esempio, persone come
Montini e Wojtyla si intendevano pure di filosofia. La repressione dei ceti
colti dei laici di fede determinò che la religione apparisse cosa da incolti.
In più, i fedeli erano indotti a non partecipare alle elezioni politiche e così
si trovavano nella stessa condizione degli analfabeti, esclusi dal parteciparvi
a causa della loro condizione di ignoranza. Fu con Giuseppe Toniolo, agli inizi
del Novecento, che si cominciò, faticosamente, a cercare di andare in altra
direzione, dando una formazione ai fedeli laici, ed anche alle donne dal primo
dopoguerra. L’Azione Cattolica, nata per essere un più docile strumento alla
politica papale in Italia rispetto alla rissosa Opera dei Congressi, indotta a
sciogliersi d’autorità nel momento di più acceso scontro tra intransigenti (contrari
alla partecipazione alle istituzioni democratiche) e democratici,
divenne lo strumento di questa elevazione delle masse che proseguì, nelle
organizzazioni intellettuali del gruppo, anche dopo il compromesso del papato
con il regime fascista, che consentì di chiudere la questione
romana, le rivendicazioni papali di uno stato nel Lazio, con l’istituzione
della Città del Vaticano e con risarcimenti di notevole entità. Dalle file
dell’Azione Cattolica uscirono molti dei politici che governarono l’Italia dopo
la sconfitta del regime fascista mussoliniano e fino al 1994 (ma anche oltre).
L’ideologia di questi politici democratici cristiani fu
modellata sulla dottrina sociale della Chiesa, ma anche contribuì a modellarla.
Questo contributo laicale fu riconosciuto dai saggi del Concilio che lo
inserirono nella loro nuova dottrina sociale.
Ecco ad
esempio che cosa si legge nella Costituzione Luce per le genti al n.37:
I pastori, da
parte loro, riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici
nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia
affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e
margine di azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche
di propria iniziativa. Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo
le iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine,
rispettino e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città
terrestre.
Da questi
familiari rapporti tra i laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi
per la Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso della
propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente
vengono associate all'opera dei pastori. E questi, aiutati dall'esperienza dei
laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali
che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con
maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo.
Sia
nella liturgia che nelle cose sociali, il metodo indicato dal saggi dell’ultimo
Concilio fu quello di promuovere la partecipazione del popolo. La liturgia e la
dottrina sociale non furono più solo affare del clero. Ma la partecipazione di
tutti richiede di fare tirocinio di democrazia. In questo siamo ancora piuttosto
indietro.
Da un
lato la gerarchia del clero diffida profondamente del popolo, sempre visto sul
punto dell’apostasia e bisognoso che qualcuno gli inculchi (questo
è il tremendo verbo che viene spesso utilizzato nel gergo clericale) i principi
di vita buona. Dall’altro nel popolo sorgono ciclicamente capi e capetti che
cercano di imporre la propria volontà (spesso in buona fede, ma non sempre) con
la forza del numero o della loro veemenza.
In
particolare si ha sempre difficoltà a confrontarsi con il pluralismo sociale e
religioso dei nostri tempi.
Le cose
si sono molto complicate nella società italiana di oggi. Per molti italiani è
impossibile tornare a una fede religiosa che non è
mai stata quella della loro tradizione, perché provengono dall’ortodossia
orientale e da altre confessioni cristiane, dall’islamismo, dall’induismo, dal
buddismo, dallo sikhismo e via dicendo. E il maggior livello di istruzione
della gente, raggiunto per merito del sistema scolastico pubblico, ha
comportato che su molte questioni di coscienza non si
sia più disposti all’obbedienza acritica. Nessuno in genere,
neanche le donne che in passato sono state le fedeli più docili,
è più disposto adabitare ambienti sociali in cui gli è
vietato di mettere bocca, di proporre cambiamenti. Inoltre certe umiliazioni
non le si sopportano più, come quelle che colpirono, e ancora talvolta
colpiscono, coloro che hanno avuto problemi coniugali. Ma anche i fedeli
considerati di serie B perché non hanno raggiunto certi traguardi di perfezionamento.
Così,
ad esempio, si è insofferenti, è accaduto nella nostra parrocchia, a usi
liturgici, come la Veglia di Pasqua super-prolungata all’uso neocatecumenale e
infarcita della simbologia di quel movimento, che ostacolano la partecipazione
di tutti e la comprensione di ciò che accade. Non ci si va più e non ci si
pongono tanti problemi, e tanti saluti alla partecipazione e alla formazione.
La
partecipazione attiva nella società del nostro tempo richiede la democrazia, e
innanzi tutto il rispetto degli altri, perché ci troviamo a vivere in un
contesto sempre più pluralistico. Per capirlo bene occorre guardarlo sotto
diversi punti di vista, è necessaria una vasta collaborazione. Nessuno, ai
tempi nostri, può sapere tutto di tutto, salvo che in settori
superspecialistici, ma per questo sempre più limitati. Come scrisse Pierre
Riches in un bel libro di tanti anni fa (Note di catechismo per ignoranti
colti, Mondadori, non più in commercio) al più riusciamo ad essere ignoranti
colti. Insieme ci sforziamo di superare i nostri limiti individuali.
La sapienza degli altri ci arricchisce e viceversa. Confrontando le conoscenze
e le opinioni, le correggiamo. E’ questo che si fa nel dialogo: ci si
mette in relazione gli uni con gli altri, chiarendosi. Questo è l’inizio della
democrazia.
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58
Convincersi
della democrazia
Ho
imparato la democrazia in FUCI, tra gli universitari cattolici, a cavallo tra
gli anni ’70 e gli anni ’80 del secolo scorso, anni duri, anni in cui furono
assassinati due grandi esponenti del movimento cattolico-democratico, Aldo
Moro, tra in fondatori della nostra nuova Repubblica nel secondo dopoguerra e
tra i principali artefici di varie fasi di rinnovamento della democrazia
italiana, ucciso nel 1978, e Vittorio Bachelet, tra i rifondatori della nostra
Azione Cattolica, ucciso nel 1980. Divenne evidente il carattere
antidemocratico dei moti insurrezionali dell'epoca motivati da costruzioni
ideologiche comuniste: la democrazia italiana, però, a quei tempi riprese a
funzionare e il pericolo, lentamente, nel corso degli anni ’80, fu vinto. Di
solito si fanno finire quelli che vengono definiti anni di piombo con
l’omicidio di Roberto Ruffilli, altro esponente del cattolicesimo democratico,
nel 1988. A quei tempi egli era impegnato in un disegno di riforma dello stato
democratico.
Di
fronte al pericolo, si ricostituirono dei legami sociali, si riprese fiducia
gli uni negli altri, questo cambiò il clima sociale della nazione, pur in
un’epoca di duri conflitti sindacali. Ci fu una risposta giudiziaria ai crimini
politici, ma non avrebbe avuto successo senza questa nuova situazione nella
società italiana.
La FUCI
storicamente è stato l’ambiente sociale della nostra fede che più si è
dedicato, fin dalle origini, a fare tirocinio di democrazia. Fu fondata a fine
Ottocento, qui a Roma, dal democratico cristiano Romolo Murri,
prete e attivista politico, in un tempo in cui ai cattolici era
ancora vietata la politica in Italia, e allora la si doveva praticare come una
generica azione sociale.
Quello
degli universitari è un mondo favorevole al tirocinio democratico, perché il
tempo in cui si studia all’università è il momento in cui si avverte più
acutamente il bisogno degli altri, la propria non autosufficienza. Fino al
liceo il mondo può stare in manuale e sembra di avere tutto lo scibile umano
nella propria piccola libreria domestica. All’università si approfondisce, si
entra nei particolari, e più lo si fa, più si capisce di riuscire a controllare
settori sempre più limitati della conoscenza, per cui, per fare ciò che ci si
aspetta da una persona di cultura, occorre interagire con gli altri, che si
sono concentrati in altri settori e hanno ciò che serve per completare il
proprio lavoro. Bisogna, in questo dialogo con gli altri, fare uno sforzo per
far capire i risultati della propria ricerca, traducendoli dal proprio gergo
specialistico, e anche per capire quella altrui. In sostanza, all’università
più si sa e più si capisce quanto non si sa. Sapere di non sapere venne
considerato da un antico saggio greco come la sapienza più grande. Ma lo è
anche il sapere, il rendersi conto, di ciò
che non si sa, quindi uscire dal generico e individuare bene i propri
limiti, per capire che cosa occorre, quale collaborazione cerare, per andare
avanti. E' in quel momento che si comincia a ricercare chi possa aiutare a
superare quei limiti. Il vero sapiente è sempre alla ricerca (Ricerca è
la rivista dei fucini). Nel momento in cui si capisce di avere bisogno degli
altri per superare i propri limiti nasce anche la democrazia. Infatti per
interagire con gli altri occorre creare il contesto giusto, praticare un certo
metodo.
Non si
può praticare la democrazia quando si pensa di sapere tutto ciò che serve e si
è convinti che gli altri non solo non servono, ma costituiscono anche un
pericolo, o comunque un fastidio, perché tendono a mettere in dubbio certe
sicurezze. Allora si cerca di imporre agli altri la propria visione, così come
avviene certe volte nelle riunioni condominiali, e si finisce per litigare
inutilmente: la cosa comune poi ne risente, si deteriora, perché non c’è
accordo su come farne la manutenzione. L’incapacità di democrazia degrada la
società, che richiede un lavoro comune per sostenersi, e innanzi tutto un impegno,
di molti. Fino al Settecento la democrazia veniva considerata in religione, ma
sulla base di un antico pensiero greco, una forma di disordine e di
allontanamento dalla verità. La democrazia, come oggi la intendiamo, nel senso
di potere di tutti, ha invece bisogno di ordine, di chiarezza, e
anche di fiducia reciproca e di rispetto.
All’origine
della democrazia c’è l’amicizia: in un certo senso possiamo considerare la
democrazia come una forma di amicizia. Si deve riconoscere di aver bisogno
dell’aiuto degli altri ed essere disposti a lavorare insieme a loro per il bene
di tutti, irraggiungibile senza la collaborazione di tutti. Si deve rispettare
ma anche essere rispettati. E sforzarsi di farsi capire, come si fa tra amici.
Questo collegamento con l’amicizia spiega perché in religione si è cominciato a
collegare la democrazia con quella particolare benevolenza amicale che
definiamo carità e che rimanda al concetto sottostante al
termine del greco antico agàpe, vale a dire a un lieto
convito in cui ce n’è per tutti.
Se la
democrazia è una forma di amicizia, si capisce come non si possa praticarla
veramente per via telematica. Occorre incontrarsi faccia a faccia e fare
esperienza concreta gli uni degli altri. In questo incontro ci si svela e si
possono avere sorprese piacevoli e spiacevoli, ma comunque in genere si hanno
sorprese. Finché gli altri rimangono una linea di caratteri sul video servono a
poco. D’altra parte conoscerli veramente è impegnativo, in tutti i sensi:
richiede uno sforzo, una pazienza nell’avvicinarli e conoscerli, e una fatica,
un tempo da trascorrere insieme. E’ così che però si costruisce la società, si
creano legami duraturi.
Se lo
stare insieme dipende solo dalla comune soggezione ad un qualche gerarca,
culturale, politico, religioso e via dicendo, ha basi labili. Perché il legame
vero è solo con il punto di riferimento gerarchico non tra le persone alla
base. Ecco perché l’ingenuo attuale papismo delle nostre collettività religiose
serve a poco sia per formare la gente, sia per rinsaldare le nostre esperienze
sociali.
Certe
volte ci si incontra, in religione, e tutto si risolve in un gridarsi gli uni
gli altri le parole d’ordine dei rispettivi gerarchi di riferimento. A che
serve? Si rimane estranei come prima, con in più molto risentimento.
Un
universitario per la prima volta nella sua vita viene posto di fronte alla
realtà così com’è veramente, ed essa è complessa. Tutte le semplificazioni
degli studi precedenti si rivelano ciò che sono, vale a dire, appunto,
semplificazioni, una base di partenza. Scopre che ci sono molte
interpretazioni, ma che la realtà le supera tutte, anche perché è in movimento,
evolve. La cultura segue la realtà, ma ne è anche parte, ed evolve anch’essa.
Questo è vero anche per tutte le verità, comprese quelle ritenute fondamentali,
della nostra fede. E’ per questo che si scrive tanto di teologia. Se tutto
fosse così semplice come talvolta viene presentato, non servirebbe.
Il
primo passo per affrontare il pensiero sociale della nostra fede è il convincersi
della democrazia, perché questo è stato il principale traguardo raggiunto dalla
dottrina sociale nel corso del Novecento. La democrazia è infatti la via per
influire nelle società pluralistiche dei nostri tempi per cercare di infondervi
i grandi principi ideali della nostra fede. Non ce n’è un’altra perché non è
possibile dominare culturalmente da gerarchi religiosi, in un impero religioso,
un mondo di otto miliardi di persone sempre più mescolate tra loro. Ma la
democrazia non è ancora di casa, in genere, nelle nostra collettività
religiose, ad esempio nella nostra parrocchia. In religione la si pratica in
circoli intellettuali come la FUCI. Ma in realtà non dovrebbe essere così,
perché la democrazia è per tutti, ed è solo così che è
veramente efficace.
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59
Democrazia dei cristiani, democrazia di
tutti
(30-3-16)
[dal libro:
Pietro Scoppola, La democrazia dei cristiani - Il cattolicesimo
politico nell’Italia unita - intervista a cura di Giuseppe Tognon,
Laterza, 2005, €10,00, disponibile in commercio]
Domanda: Ma
ci sarà un ruolo significativo per i cattolici nella vita politica italiana di
domani?
SCOPPOLA:
Certamente, anche se sarà diverso da quello che svolsero in passato, al momento
dell’Unità d’Italia nel 1861, quando restarono esclusi dallo stato liberale e
mortificati proprio perché cattolici, o alla caduta del fascismo nel ’43,
quando assunsero la responsabilità di guidare un paese sconfitto e lacerato
verso la libertà e lo sviluppo.
Il loro
futuro sarà di sostenere la democrazia, che è in difficoltà e che ha bisogno di
una profonda ispirazione etica e religiosa. Non da soli, insieme agli altri
credenti, alla migliore tradizione laica e alle tradizioni popolari delle
sinistre europee, ma ancora una volta decisivi per l’Italia e per l’Europa.
La
Democrazia cristiana è stato il partito dei cattolici italiani, l’espressione
più riuscita della loro maggiore età politica, lo strumento del loro enorme
potere e insieme della loro crisi, come sempre accade nella storia umana.
Ma oggi
il problema è la democrazia di tutti e la maturità del cattolicesimo politico
italiano si misurerà proprio nella capacità di abbandonare la nostalgia per la
Democrazia Cristiana per un proprio partito esclusivo, e di lavorare piuttosto
per la democrazia dei cristiani, che è la democrazia di tutti (pag.3-4).
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Quand’è che si entra veramente in società? Un primo momento importante è quando
si trova un lavoro stabile. L’altro è quando si forma un famiglia coniugale,
basata su un rapporto d’amore coniugale, più stabile perché si pensa
anche a dei figli. In genere, ai tempi nostri, ci si arriva intorno ai
trent’anni.
E
quand’è che si hanno le prime esperienze veramente sociali, al di fuori della
famiglia, nella società generale, che di solito coincidono con la
scoperta dell’amore sessuale, la base della famiglia coniugale? Per me è
accaduto al terzo anno delle superiori, a sedici anni.
I
trentenni di oggi hanno compiuto sedici anni nel 2002. Il libro di Scoppola da
cui ho tratto la citazione sopra trascritta è stato pubblicato nel 2005. E’ un
testo da universitari. I trentenni di oggi potrebbero averlo avuto tra le
mani appena pubblicato. Scoppola parla della Democrazia Cristiana, il partito
dei cattolici, finito dieci anni prima. Una realtà della quale un universitario
della metà del primo decennio degli anni 2000 non aveva mai avuto personale
esperienza, anche se era citata in un capitolo o due dei libri di storia per le
superiori.
Un
trentenne di oggi, allora, potrebbe effettivamente credere, se non avesse avuto
tra le mani quel testo di Scoppola o altri libri del genere, che in Italia i
cattolici abbiano vissuto sotto il dominio dei laici, intesi come gli
irreligiosi, i non credenti. Invece i cattolici, dal 1946, hanno dominato la
politica italiana, ininterrottamente sino ad oggi, prima con lo strumento di un
partito e poi, dalla metà degli anni ’90, mediante un’azione di pressione
politica attuata direttamente dalla Conferenza Episcopale Italiana per il
tramite di gruppi di pressione transpartitici.
Di
solito si ricordano le leggi sul divorzio (1970) e sull’interruzione volontaria
della gravidanza (1978) come casi di sconfitta delle posizioni politiche dei
cattolici. Sono stati gli unici due casi in cui ciò è avvenuto, nella storia
della Repubblica democratica. E in realtà non si trattava di una sconfitta
dei cattolici, perché si trattò di leggi ampiamente condivise dai
cattolici, come dimostrarono i successivi referendum promossi su di esse, ma di
una sconfitta della politica della gerarchia cattolica.
Un
terzo caso simile potrebbe darsi nel caso della legge sulle unioni civili delle
persone omosessuali e sulle unioni di fatto, che ancora è in gestazione.
L’azione di interdizione politica della gerarchia cattolica aveva sino ad ora
impedito l’approvazione di qualsiasi legge in materia, e dunque anche il suo
vaglio di costituzionalità, che aveva travolto la legge sulla fecondazione
assistita del 2004, pesantemente condizionata dall’azione politica della
gerarchia cattolica. Anche nel caso delle unioni civili omossessuali e delle
unioni di fatto i sondaggi evidenziano un ampio consenso della maggioranza
degli italiani, cattolici compresi. Se la legge fosse approvata, e non è ancora
sicuro che lo sia, e si andasse ad un referendum, probabilmente sarebbe
democraticamente confermata dalle urne.
Tutto
il resto della politica italiana, nell’era della Repubblica, è stato costruito
con il contributo determinante della politica dei cattolici, e secondo la loro
volontà, ispirata in maniera preponderante alla dottrina sociale della Chiesa,
in particolare a quella successiva agli anni Sessanta, epoca dalla quale si
attenuò molto l’orientamento in genere reazionario che l’aveva caratterizzata
dalla fine dell’Ottocento e in cui si fece più sensibile l’influenza del
pensiero laicale in varie discipline, in particolare l’economia, l’antropologia
e la sociologia.
L’idea di trovarsi in uno stato ostile ai cattolici è quindi del tutto falsa.
Ecco perché Scoppola parlò del partito dei cattolici come
lo «strumento del loro enorme potere».
Il
potere dei cattolici italiani raggiunse il suo massimo livello nel regime
democratico post-fascista. Fu sorretto da un’ideologia originale, riconducibile
al pensiero di politici come Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Giuseppe
Dossetti, Aldo Moro, che colmava le grandi lacune della dottrina sociale in
materia di democrazia. Quest’ultima fu accettata pienamente dalla gerarchia
cattolica solo con l’enciclica Il Centenario, del 1991,
del papa Wojtyla. Ma nei testi della dottrina sociale la democrazia non viene
trattata in dettaglio. La si presenta genericamente come una forma di potere
del popolo che richiede partecipazione. Ma come si debba partecipare non è
precisato. In genere si è molto attenti a fissarne dei limiti nei confronti
della gerarchia del clero e in materia di trasformazioni sociali. La gerarchia,
in genere, diffida del popolo; e spesso non comprende bene la vita della
gente, i suoi problemi, le sue aspirazioni. Vive in un universo
autoreferenziale. E poi sente il pensiero democratico come un pericolo per il
suo stesso potere, perché essa non è organizzata democraticamente e addirittura
se ne vanta, non vuole esserlo (ma le spiegazioni che dà in merito non sono
molto convincenti). Questo spiega anche perché il tirocinio democratico non
rientra in genere tra le esperienze che vengono proposte ai fedeli nelle
collettività di base. Lo si pratica, ad esempio, nei circoli intellettuali
della FUCI e del MEIC, due movimenti scaturiti dall’Azione Cattolica che in
questo si sono particolarmente specializzati.
In
realtà la democrazia, come ai tempi nostri la intendiamo, è una forma di
governo delle società umane molto particolare, perché è strettamente legata
alla giustizia, la comprende al suo interno. Nelle altre forme di potere essa
può essere al più un orientamento morale, rimanendo sempre qualcosa di esterno:
in quei casi la legge suprema del potere è il potere stesso, il mantenimento
del potere, e di fronte ad essa la giustizia recede. Viene praticata se e nella
misura in cui serve al mantenimento del potere, alla creazione di un consenso
sociale, al mantenimento della pace sociale. La democrazia, il potere di tutti,
invece, vive della giustizia, perché non si può governare tutti senza
essere giusti, senza riconoscere a tutti la
medesima dignità sociale, il medesimo diritto alla vita e alla ricerca della
felicità. Senza giustizia si ricade nelle altre forme di potere, non
democratiche: la democrazia degenera. La democrazia è essa stessa una forma di
giustizia, perché dà veramente a ciascuno il suo, riconosce ad ogni essere
umano la dignità che gli compete. Ma non solo: la democrazia indica come essere
giusti in ogni campo, è anche un importante criterio di orientamento morale,
oltre che politico. La giustizia sociale come nei nostri tempi la intendiamo
non può derivarsi direttamente da un testo sacro formatosi migliaia di anni fa.
Questo crea qualche problema alla dottrina sociale, intesa
come forma di teologia. Ed in effetti il riconoscimento del valore della
democrazia è recentissimo in quella dottrina, lo possiamo considerare una
conquista dell’altro ieri. La teologia, quindi, specialmente quella dei
nostri capi religiosi, ancora si è poco familiarizzata con la democrazia.
Questo rende ancora difficile, talvolta, spiegare teologicamente come
una vita di fede possa esprimersi anche in democrazia, in particolare nella
collaborazione a politiche democratiche. E questo anche se la pratica sociale e
il pensiero politico dei fedeli hanno da molto tempo superato queste
difficoltà, contribuendo addirittura a costruire la nostra nuova Europa,
fondata su democrazia e giustizia sociale.
Io
che ho fatto il liceo ai tempi della Democrazia Cristiana, il partito dei
cattolici, o il partito cristiano come lo definì un altro
fine intellettuale del nostro mondo, Gianni Baget Bozzo, non ho difficoltà a
capire come la vita di fede possa sostenere un pensiero e un’azione politica da
esprimersi in un contesto e con metodi democratici. Un trentenne di oggi
dovrebbe forse ripartire da capo.
Innanzi tutto occorre fare realisticamente i conti con la storia. Respingere
certe interessate falsificazioni, correnti nel nostro mondo, secondo le quali i
cattolici vivrebbero nell’Italia democratica al modo degli antichi Israeliti
sotto il regno dei Faraoni egiziani. La Repubblica democratica post-fascista è
stata costruita come la vollero i cattolici e anche la sua crisi ha radici nel
mondo cattolico, ed è innanzi tutto crisi del pensiero democratico
espresso dalle nostre genti di fede. Un cattolico dovrebbe quindi sentire una
particolare responsabilità per ciò che sta accadendo in politica. Tutto
questo è necessario in
politica. Non basta brandire il Compendio della Dottrina sociale della
Chiesa come una sorta di Libro delle Giovani Marmotte,
in cui pretendere di trovare risposta a tutti i problemi politici. Quel testo
può essere solo un inizio. Serve per orientarsi tra le fonti, i vari testi dei
Papi dai quali origina la dottrina sociale. Ma poi bisogna andare a leggere i
testi di riferimento, oggi tutti disponibili sul WEB sul portale
<www.vatican.va>. Per accorgersi che la dottrina sociale ha avuto uno
sviluppo storico, è cambiata rapidamente nel giro di poco più di un secolo,
il tempo che intercorre tra l’enciclica Le Novità, del 1891, del
papa Pecci, e la Laudato si’, del 2015, del
papa Bergoglio, che esprime una dottrina sociale molto innovativa. E quindi,
per poi approfondire ulteriormente. In questo tempo di sviluppo della
dottrina sociale, le novità dei tempi hanno inciso
moltissimo. Esse sono venute per la massima parte dal mondo dei laici, intesi
come le persone non inquadrate nel clero o nei religiosi. Tuttavia questa
realtà non ha trovato ancora riconoscimento nella dottrina
sociale che è rimasta, appunto, una dottrina,
vale a dire una branca della teologia che diffonde un pensiero il quale
pretende di essere obbedito per l’autorità, non democratica, di chi lo emana.
Questa realtà normativa è poco adatta al pensiero
sociale diffuso in quella dottrina, che sempre richiede verifiche e
sperimentazioni, sempre richiede processi democratici.
Non so
quanti sarebbero disposti, ad esempio, a condividere questa affermazione,
riportata nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n.
227, riprendendo pronunce del papa Wojtyla:
“Le unioni di
fatto, il cui numero è progressivamente aumentato, si basano su una falsa
concezione della libertà di scelta degli individui e su un’impostazione del
tutto privatistica del matrimonio e della famiglia”.
Questa
sentenza non corrisponde a ciò che vedo realizzato in società. Ed è anche
inutilmente insultante verso chi ha realizzato unioni coniugali non
formalizzate in un matrimonio, religioso o civile, ma comunque stabili e
feconde in tutti i sensi. Non rende giustizia a quelle
unioni. Non riconosce dignità a coloro che le esprimono. E infatti non è uscita
da un pensiero democratico, ma dagli autocrati della dottrina sociale. E' stato
scritto che essi appaiono sempre in ritardo rispetto alle conquiste sociali.
Alla
democrazia è essenziale un pensiero sociale che sia sviluppato democraticamente,
vale a dire nel libero confronto e nel dialogo tra le persone. Altrimenti non
si possono fare progetti, anche perché la conoscenza affidabile sfugge. E l’immischiarsi in
politica lascia, allora, un po’ il tempo che trova, come si dice.
O si
vorrebbe che la gente, imparando la dottrina sociale della Chiesa, ritornasse
ad essere il braccio secolare della gerarchia, il suo strumento di pressione in
politica, secondo il progetto originario dei Papi? Ecco, appunto questo
l’esperienza di politica democratica della Democrazia Cristiana volle superare.
Come
persone di fede non possediamo la verità, ogni soluzione
giusta, sui fatti sociali e politici. Le soluzioni devono essere ricercate nel
confronto democratico, in quella che Scoppola definiva la democrazia di
tutti. Il filosofo Aldo Capitini ne parlava come di Omnicrazia, che
significa la stessa cosa, e la vedeva attuata attraverso Centri di orientamento,
in cui capire e scegliere nel confronto e dialogo democratici.
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