Cose
da sapere per iniziare a praticare la democrazia - 4
1. «Ricordiamo a tutti come non basti nemmeno
avere un governo per poter guidare il Paese. Occorre – questo Paese –
conoscerlo davvero, conoscerne e rispettarne la storia e l’identità» ha detto l’altro ieri il cardinale Gualtiero
Bassetti nella sua relazione a vescovi italiani riuniti nell’Assemblea generale
della Conferenza episcopale italiana. Si era nel mezzo delle procedure
istituzionali per scegliere una guida degli italiani. L’esortazione suona anche
come un monito. In sostanza: aver avuto un maggior numero di voti alle
elezioni, e quindi avere la legittimazione giuridica al governo, non basta.
Perché? Capirlo è essenziale per fare tirocinio di democrazia. Ce lo insegna
ora il capo dei vescovi, ma rientra nell’ABC
della politica. Dovrebbe poter
essere appreso nelle scuole di politica democratica, delle quali però la
politica sembra non occuparsi. Lo si fa invece nella Chiesa cattolica, in
particolare nelle università religiose e in istituzioni come la nostra Azione
cattolica. Questo perché le une e le altre non hanno di mira solo il sapere, né il potere per il potere, ma anche la trasformazione in meglio della società nel senso della giustizia insegnata dalla fede.
Anni fa il filosofo Karl
Popper (1902-1994), nel libro Cattiva
maestra televisione (allegato nel 1994 alla rivista Reset) [tuttora in commercio dal 2002 in traduzione italiana, edito da
Marsilio, €8,50], sostenne che, visto l’influsso dei programmi televisivi sulla
cultura popolare, sarebbe stato necessario che chi faceva televisione ottenesse
una patente. Non sarebbe opportuno qualcosa di simile anche per chi fa
politica, specialmente in ruoli importanti, nazionali? In fin dei conti la vita
di tutti noi dipende in parte rilevante da ciò che si comanda ai vertici dello
stato. Eppure, è stato osservato da molti commentatori politici, ai tempi
nostri non si ritiene più necessaria una particolare formazione alla politica. “Tutto è politica”, si cominciò a
sostenere negli anni ’70, l’epoca della mia adolescenza. Da questo consegue che tutti sanno fare politica? In
effetti ciascuno di noi è un attore politico, nel senso che con tutto ciò che
fa influenza la politica e, in questo senso fa
politica. Si esce di casa in massa
tra le sette e le otto del mattino, ciascuno in base ad una sua decisione che
però dipende anche dall’orario fissato per lui per l’inizio del lavoro, e si
crea un problema politico: il traffico cittadino. Esso condiziona la vita di
tutti, e non solo per il tempo in più che si perde per arrivare, ma, ad
esempio, per la minaccia alla salute costituita da certi componenti nocivi
microscopici che si sprigionano dalla massa dei veicoli in movimento.
Risolverlo richiede una programmazione, decisioni politiche, da imporre con
autorità: anche questa è politica. Però, per decidere bene, occorre più
sapienza. Ma deliberare non basta.
Occorre anche suscitare un consenso di massa per certe decisioni. A Roma i più
si fermano quando il semaforo è rosso, ma potrebbero anche passare impunemente
perché non c’è un vigile ad ogni incrocio. Ci si ferma perché si pensa che sia
giusto così, per non rimanere ferito e per non fare male agli altri. Si è
creato un consenso molto vasto su questa regola. Non dappertutto è così. E non
sempre è così, nella stessa nostra città. A certe ore della notte le violazioni
sono di più. C’è poco traffico. Perché fermarsi, quando ci si è accertati che
non passa nessuno? Accade lo stesso, certe volte, ai semafori solo pedonali. Se
non si rischia lo scontro con altri veicoli si è meno cauti. E i pedoni? Si
pensa che si fermeranno per non essere investiti. Ma ci sono in giro gli
anziani, i disabili, i bambini, gente che è meno pronta ad avvertire e scansare
il pericolo. Si cerca allora di convincere gli automobilisti a rispettare
sempre gli ordini impartiti automaticamente dai semaforo, ad dare quindi un
consenso più intenso. Ma anche di fare lo stesso con i pedoni e altri utenti
della strada, ad esempio i ciclisti. Anche questa è politica. Ma per suscitare
questo consenso occorre conoscere la gente, in un senso che però significa più
del sapere come è fatta, come la pensa e
che cosa fa in genere. Non si tratta di osservarla come farebbe un antropologo.
Si tratta di sapere avere con essa delle relazioni sociali per cui si sia effettivamente
accreditati di una certa autorità e, in definitiva, si riesca ad essere
obbediti anche senza la minaccia imminente di una sanzione e un poliziotto a
vigilare da ogni parte. I sociologi definiscono questo effetto come una legittimazione sociale, distinguendola da quella giuridica, che consegue a certe
procedure istituzionali per le quali uno riesce ad essere nominato ad un certo
incarico che comporti autorità. Negli anni ’80
i sociologi osservarono che il sistema politico italiano era in piena crisi di legittimazione sociale. Fu il
decennio in cui fiorirono intensamente scuole di politica. Era la via giusta per
recuperarla, ma, mi pare, con si ebbe sufficiente perseveranza. Ad un certo
punto si seguirono altre strade. Io per qualche tempo, da universitario, partecipai ad una di quelle
scuole di politica, animata dal
giornalista romano Paolo Giuntella (1946-2008). Una delle più note scuole di
politica dell’epoca fu quella organizzata a Palermo dai padri gesuiti padre
Bartolomeo Sorge ed Ennio Pintacuda, che produsse effetti rilevanti per la
città, che ancora si avvertono. Ancora una volta: la Chiesa maestra di
politica.
Se un’autorità politica
non ha la capacità di suscitare intorno alle sue decisioni una legittimazione
sociale, l’istituzione che essa controlla non ha presa tra la gente e il
settore della società che giuridicamente le è affidato va per fatti suoi, si
sfalda e, se non riesce spontaneamente a trovare un ordine diverso, crolla. Per
farsi una sensazione emotiva di una situazione simile, consiglio di acquistare
il dvd con il film Titanic, del 1997,
diretto dal regista James Cameron, con Leonardo Di Caprio e Kate Winslet. E’
basato su un naufragio realmente avvenuto nel 1912, nell’Oceano Atlantico, al
largo di Terranova. Ma il film racconta che cosa succede quando affonda una
società e non si riesce a recuperare un ordine diverso per salvarla. C’è un
evento traumatico. Per un po’ sembra non essere avvenuto nulla. Poi tutto
comincia a cambiare, e le cose vanno sottosopra. Ma questo, da punto di vista
sociale, potrebbe non essere il peggio. Potrebbe subentrare un ordine violento
e oppressivo, come accade dove una mafia riesce a dominare. E’ storicamente
accaduto e potrebbe succedere ancora.
A volte, quando non si
hanno né la pazienza né la voglia di conoscere,
si va per le spicce e si cerca di dominare.
Questo è più facile con le tecnologie di cui oggi disponiamo. La gente crea reti sociali sul WEB
e pensa di interloquirvi liberamente. Invece ci sono agenzie che, con raffinate
tecniche di psicologia sociale, riescono a influirvi, cambiando le opinioni
della gente. Lo scandalo Facebook recentemente divenuto di pubblico dominio
consiste sostanzialmente in questo. E chi controlla quella rete sociale ha
ammesso il peggio, vale a dire che effettivamente dati immessi in quella rete sono stati
sfruttati a quei fini. Si è impegnato a fare in modo che questo non si ripeta. La
democrazia telematica corre il rischio di essere inquinata, di
non essere vera democrazia, ma una forma
di manipolazione di massa. Questo accade perché il senso critico della gente
nell’interagire sul WEB sembra affievolirsi.
Sento dire talvolta: “peggio di così non può andare”. Chi ricorda la storia studiata a scuola, sa
che non si può fare affidamento su questa convinzione. Del resto il detto
popolare non dice “il peggio non è mai
morto”? Realisticamente bisogna invece riconoscere che, sicuramente, peggio di così può andare. Ad esempio va
peggio nella Turchia di oggi, afflitta da una crescente e inarrestabile
inflazione. I soldi della gente sembrano svanire prima di essere spesi. Lì non
ci sono le autorità monetarie dell’Unione Europea a correggere ciò che non va. La
Turchia non è riuscita ad ottenere l’adesione all’Unione, che pure aveva
richiesto pressantemente. L’Italia ha vissuto un periodo così negli anni ’70.
Al termine del decennio l’inflazione raggiunse il 21%. In quegli anni mio padre
andò in pensione da un impiego statale con un ottimo trattamento. Ma in pochi
anni fu costretto a riprendere a lavorare come commercialista perché
l’inflazione se lo era tutto mangiato. Chi non riusciva a integrare in qualche
modo la pensione, era costretto a ridurre, anche di molto, il tenore di vita. Nel
2017 l’inflazione è stata calcolata allo 0,90 %. I soldi, in Euro, non
svaniscono più. Un italiano che, come me, è vissuto negli anni ’70 dovrebbe
apprezzarlo e parlarne ai più giovani, come appunto sto facendo ora.
2. Di che
cosa è fatto un Paese? E’ fatto di un
popolo, quindi di gente, stanziato in un certo ambiente naturale, che per noi è
l’Italia geografica, con una certa cultura, che
comprende anche le istituzioni.
Con cultura non si intende sono la sapienza
intellettuale, quella che si impara sui libri. Ogni tanto lo ricordo. Secondo la definizione di Edward Burnett Taylor in "Primitive Culture" (=la cultura dei primitivi), Murray,
Londra, 1871):
"Cultura o civiltà è un insieme
complesso che include la conoscenza, le credenze,
l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come
membro della società".
Se ne trova un'altra definizione al n.53 della
costituzione La gioia e la speranza - Gaudium
et spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965):
"Con il termine generico di «cultura» si vogliono
indicare tutti quei mezzi con i
quali l'uomo affina ed esplicita le molteplici sue doti di anima e corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo
stesso con la conoscenza ed il
lavoro; rende più umana la vita sociale
sia nella famiglia che nella
società civile, mediante il progresso
del costume e delle istituzioni; infine,
con l'andare del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze ed
aspirazioni spirituali, affinché possano
servire al progresso di molti, anzi di
tutto il genere umano. Di conseguenza la cultura presenta necessariamente un aspetto storico
e sociale, e la voce «cultura» esprime spesso un significato sociologico ed etnologico. In questo senso si parla di pluralità delle culture. Infatti
dal diverso modo di far uso delle cose, di lavorare, di esprimersi, di praticare la religione e di
formare i costumi, di fare le leggi, di creare
gli istituti giuridici, di sviluppare le scienze e le arti e di coltivare il bello, hanno origine le diverse condizioni
comuni di vita e le diverse maniere di
organizzare i beni della vita. Così pure si costruisce l'ambiente storicamente definito, in cui ogni uomo, di qualsiasi
stirpe ed epoca, si inserisce, e
da cui attinge i beni che gli consentono di promuovere la civiltà."
La cultura si
impara anche, ma non solo, a scuola. C’è
una scuola di vita. Quella cultura che è
importante conoscere per ottenere una legittimazione sociale si impara vivendo
tra la propria gente, conoscendola veramente. Ma, è questo è
molto importante, non si conosce in quel senso se non ciò che si ama. Una guida
del popolo, insegnano i nostri vescovi, dovrebbero accostarlo con animo di
genitore, materno/paterno. Ma, aggiungo, e questo forse non sempre lo può dire
esplicitamente un vescovo per i suoi doveri di stato, occorre anche una
relazione d’amore analoga a quella che si sperimenta tra i sessi: si conosce il popolo di cui ci si innamora.
Nelle Scritture c’è un libro, il Cantico dei Cantici, che tratta appunto di
questo. I nostri vescovi vorrebbero essere tra noi guide fatte così, padri-pastori innamorati di noi. Il Buon Pastore, sul
modello evangelico, dà la vita per il gregge. E, è scritto, non c’è amore più
grande di questo: dare la vita per chi si ama. La buona politica è fatta anche, ed essenzialmente, di
questo.
Di questi
tempi si sente molta gente importante che parla a nome del popolo: “Il
popolo vuole questo”, “Il popolo vuole quello”. Il popolo siamo tutti noi,
che idealmente viaggiamo tutti insieme su questa grande nave che si trova in
acque agitate e pericolose è che è
l’Italia. Non viaggiamo tutti in prima classe. Sul Titanic, di cui dicevo prima, c’erano i signori della prima classe
e i migranti dell’ultima classe, con le cabine nella stiva. Nel film, al
manifestarsi del disastro, sono i primi che l’equipaggio tenta subito di mettere in salvo, i signori della prima
classe. Poi gli altri riescono a liberarsi e ad andare sul ponte e allora si cerca
di dare priorità a donne e bambini, secondo criteri umanitari. Ma la folla
preme, ad un certo punto è il caos. Si scopre che le scialuppe di salvataggio
non bastano. Per il gran disordine non si riesce a calarle in acqua. Mentre il
vascello si spacca e inizia ad inabissarsi, e il mondo va sottosopra,
un’esperienza tragica vissuta in Italia nel naufragio della nave Concordia nel
2012, vicino all’isola del Giglio, tutti cercano di rimanere fuori dell’acqua
aggrappandosi alle strutture della nave ormai persa, quella dalla quale dipende
la loro sopravvivenza, che però alla fine va sotto, in una rovina sempre più
veloce con il procedere del disastro. Così accade anche quando crolla uno stato.
Gli italiani vissero un’esperienza simile tra il 1943 e il 1945.
Diversi
rivoluzionari, come fu in India Mohandas Karamchand
Gandhi (1869-1946), detto Mahatma,
“grande anima”, iniziarono la loro epopea politica con un lungo viaggio tra
la propria gente. Non bastano conoscenze virtuali fatte sul WEB. In quel mondo finto nessuno in
genere non ci si mostra come realmente si è. Non ci si incontra veramente. E non si riesca ad amare chi si incontra in
quel modo. E quindi non lo si conosce,
nel modo in cui serve in politica.
Tuttavia per quanto si viaggi non è alla
nostra portata conoscere tutti. Ce se
ne può fare solo un’idea schematica, realistica in quanto tratta da esperienze
di relazioni reali e nei limiti in cui lo è. Ma quelle relazioni saranno sempre
parziali, per quanto numerose siano. Non siamo dei. Siamo esseri viventi
limitati. La religione ci insegna a contare i nostri giorni e a imparare così l’umiltà
nel vivere. I sociologi e gli economisti
sondano continuamente, con l’aiuto di metodi statistici, le relazioni tra la
gente, delle quali è fatta la società. Cercano di averne un’immagine affidabile, ma essa muta sempre e nessuna autorità riesce ad averne il pieno
dominio, per quanta legittimazione sociale riesca ad aggiungere a quella
giuridica. Ogni autorità pubblica è solo uno degli attori di questo sistema
molto complesso di relazioni sociali. Lo si scopre presto, dal primo giorno in
cui si incaricati di qualche potere pubblico. Il tempo e le forze non bastano
per fare quello che ci si era proposti. A quel punto, se non si ama a sufficienza, ci si concentra su ciò che è di
immediato proprio interesse: il mantenimento del potere per il benessere
proprio e di quelli della proprio cerchia. Ogni autorità tende a questo se non
corretta da un sistema di limiti-valore, si corrompe. Se però si comincia già senza dare sufficiente importanza ai valori,
la degenerazione è molto più veloce.
La nostra vita, ai nostri tempi più che in
ogni altra epoca, dipende da questo gigantesco e in gran parte oscuro sistema
di relazioni sociali, sul quale, per le sue dimensioni e la sua complessità, le
autorità pubbliche riescono ad intervenire solo in parte. Nessun vero totalitarismo è più possibile. Ma certamente i poteri pubblici possono
influenzare significativamente, nel bene o nel male, la vita di una società. Le
cose vanno senz’altro male quando se ne ha un’immagine non affidabile e allora
le decisioni della politica possono fare molto danno, come quando, in acque
pericolose, non ci si dà tanta pena per le montagne di ghiaccio che vengono
segnalate.
Da ciò che dicono alcuni politici, essi
sembrano talvolta poco consapevoli di ciò che ho osservato. Pensano a nuovi
inizi, come se si potesse veramente ripartire da zero, in uno spazio vuoto.
Ricominciare da capo non è mai possibile. Ci si avvicenda al timone. Ma che
competenza ha il comandante? Per alcuni
chiederselo non è più importante. Si taglia, si modifica, qualcosa cambia, ma
se poi si interferisce imprudentemente, per insufficiente conoscenza, con elementi strutturali, quelle relazioni
sociali più forti e importanti che tengono in piedi l’insieme, come un muro
portante o la gabbia di travi in cemento armato negli edifici più recenti? Certi
disastri nel corso di lavori di ristrutturazione edilizia sono causati da
questo.
Non c’è in giro sufficiente consapevolezza
che il popolo non è una realtà unitaria, come se tutti
fossero nella società nella stessa condizioni, nelle stesse relazioni. Ci sono,
ad esempio, gli sfruttati e gli sfruttatori, questi ultimi una minoranza
privilegiata, i primi una maggioranza che subisce per vari motivi una
condizione ingiusta. Storicamente i privilegiati tendono a prevalere tra la
gente di governo. Non è sempre stato cosi nella nostra democrazia repubblicana. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei, si dice. E’ un buon metodo. Per giudicare una
persona e per sapere da che parte sta in società è consigliabile vedere con chi
si è accompagnato. Che tipo di pastore è: è uno che mira a sfruttare economicamente
il gregge, o si sforza di essere come il Buon Pastore evangelico, che dà la
vita per il gregge? Chi ama veramente? Con chi sta, con gli sfruttatori o
con gli sfruttati?
Non è
detto che chi comanda riesca ad ottenere ciò che vuole. Ma se riesce a mettere
le mani sui poteri dello stato ha molti
strumenti per farlo. Uno stato come l’Italia ha potenti strumenti di coercizione
di massa, le Forze Armate, le Forze di
polizia. In Italia storicamente sono rimaste sempre, in genere, fedeli alle
istituzioni. Ma in altre parti del mondo, e anche vicino a noi, ad esempio in
Grecia a cavallo tra gli anni ’60 e ’70,
è andata diversamente. La degenerazione è sempre possibile. Si produsse
in parte durante il regime fascista mussoliniano, dagli anni Venti agli anni
Quaranta del secolo scorso.
Nessun essere umano è un’isola, lo scrisse il
mistico statunitense Thomas Merton, in un libro che vi consiglio di leggere
[edito da Garzanti, €11,90]. Nasciamo e ci formiamo in uno strato della società
e da quello possiamo elevarci al governo di tutti solo superando visioni
di parte e facendoci carico dei problemi
di tutti, anche se, ad esempio, ci siamo trovati in società tra i privilegiati. Ci si può riuscire solo amando, come ci esortano a fare i nostri vescovi e
come anche loro cercano di fare. A volte, così, ci si può immedesimare nella
condizione di chi sta peggio, provare empatia, e quindi poi decidere anche
tenendo conto quel punto di vista, quelle vite. E’ diverso il caso della
politica che si proponga di risolvere i problemi della società allontanando o discriminando quelli che manifestano problemi.
Devo dire che in certa politica brutale di
oggi, quella che minaccia sfracelli in particolare verso i più bisognosi, non
mi riesce a riconoscere gente innamorata del suo popolo, ma al più persone che
cercano complici. Non amici, complici. Si
è complici solo per fare il male.
Un cristiano il male lo ripudia: né è tentato, ma cerca di allontanarsene. Non uccidere!, il comandamento di
sempre, fa parte della legge santa, ma oggi non sembra avere più la stessa
forza in società. Questo male che circola minaccia l’integrità sociale e le
istituzioni. Il violento non conosce,
detesta, odia. E la società che guida viene poi su male. Accadde nel fascismo storico, che guidò gli italiani
nella catastrofe di una guerra ingiusta, in cui si fu dalla parte degli
aggressori. Facciamolo noi, prima che
altri lo facciano a noi, sostanzialmente si disse, come anche oggi si
riprende a dire. Ignorare la storia porta
a essere condannati a ripeterla, sostenne lo scrittore Primo Levi.
La politica più bellicosa sembra fare meno
paura perché prende di mira da un lato gli stranieri bisognosi che sono
arrivati da noi, gente diversa da noi, e dall’altro l’Europa,
vale a dire gli altri Europei. Dunque gli italiani non se ne sentono
minacciati. Si sentono tutti da un stessa parte, ricchi e poveri, sfruttatori e
sfruttati. Si sentono legati dalle regole europee, che anche l’Italia ha
contribuito a deliberare nell’interesse di tutti, e, in particolare, costretti
a prendersi cura di migranti poveri che da noi sono indesiderati, e poi impediti
dal manovrare la moneta come si fece negli anni ’70 (con le conseguenze che ho
ricordato). Sospettano un imbroglio dietro le parole di chi dice che occorre
essere più virtuosi, per non fare crollare tutto. Che, per creare ricchezza, la
moneta va governata virtuosamente: non basta stamparla. Pensano
che l’Italia, da sola, come è sola oggi la Turchia, potrebbe fare meglio. Mio zio Achille,
sociologo all’epoca piuttosto ascoltato, negli anni 70, parlò, a proposito di opinioni simili, come di un degrado levantino, di un’Italia spinta
verso, appunto, il vicino Oriente. Non lo riteneva positivo.
Si cercano in Europa, intendendo quella
fuori dei nostri confini, le origini di mali che in realtà vanno individuate proprio nella nostra Europa, in Italia, fondamentalmente
causati da squilibri creati da una politica dei redditi che ha privilegiato chi già aveva di più. E’
il tema delle diseguaglianze crescenti, che in genere sociologi ed
economisti richiamano con preoccupazione, poco ascoltati, come il grillo parlante della favola di Pinocchio. Rimanendo da
soli, facendoci isola da penisola che siamo, staccandoci dall’Europa solidale,
rimarrebbero tra noi, senza possibilità
di correzione, tutti i problemi che hanno generato ciò che ci affligge.
Sono i propositi di violenza contro chi sta peggio in
società che dovrebbero urtare maggiormente l’animo nostro, di gente di fede.
Trascrivo di seguito l’accorato insegnamento
di Joseph Ratzinger - Benedetto 16°, che ho trovato nell’antologia Liberare la libertà - Fede e politica nel
Terzo Millennio, Cantagalli, 2018, €18, a pag.20, nel capitolo Il
Venerdì Santo della storia: uno sguardo sul Ventesimo secolo:
«Non è un caso che la fede in Dio
parta da un capo ricoperto di sangue e ferite, da un Crocifisso; e che invece l’ateismo
abbia per padre Epicuro, il mondo dello spettatore sazio.
D’improvviso balena l’inquietante, minacciosa
serietà di quelle parole di Gesù che abbiamo spesso accantonato perché le
ritenevamo sconvenienti: è più facile che un cammello passi per la cruna di un
ago, che un ricco entri nel Regno dei Cieli. Ricco vuol dire uno che ‘sta bene’,
uno cioè che è sazio di benessere materiale e conosce la sofferenza solo dalla
televisione. Proprio di Venerdì Santo non vogliamo prendere alla leggera quelle
parole che ci interpellano ammonitrici. Di sicuro non vogliamo e non dobbiamo
procurarsi dolore e sofferenza da noi stessi. E’ Dio che infligge il Venerdì
santo, quando e come vuole. Ma dobbiamo imparare sempre più -e non solo a
livello teorico, ma anche nella pratica della nostra vita- che tutto in buono è
un prestito che viene da Lui e ne dovremo rispondere davanti a Lui. E dobbiamo
imparare -ancora una volta, non solo a livello teorico, ma nel modo di pensare
e di agire- che accanto alla presenza reale di Gesù nella Chiesa e nel
Sacramento, esiste quell’altra presenza reale di Gesù nei più piccoli, nei
calpestati di questo mondo, negli ultimi, nei quali egli vuole essere trovato
da noi. E, anno dopo anno, il Venerdì Santo ci esorta in modo decisivo ad
accogliere questo nuovamente in noi.»
Per un credente, ogni atto di
discriminazione, di esclusione, di abbandono è un atto empio.
Mario Ardigò - Azione
Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli