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Nella grande politica
(6-6-16)
Incollo
di seguito il testo di un discorso tenuto il 3 giugno scorso dal papa Francesco
a magistrati convocati a Roma da tutto il mondo dalla Pontificia Accademia
delle scienze. In esso ha ripreso il tema della necessità di immischiarsi nella
politica e, in particolare, in quella “grande”. Ha parlato anche della
necessità di liberare i giudici da pressioni indebite, politiche e di altra
natura.
I primi
commentatori delle parole di Bergoglio hanno notato il riferimento alla
"grande" politica più che quello alla libertà dei giudici. Entrambi
però sono importanti e connessi e rappresentano delle novità nell'ideologia
proposta negli ultimi anni alle collettività di fede che riconoscono l'autorità
religiosa del vescovo di Roma.
Più o
meno dal Sesto secolo della nostra era la Chiesa cattolica come complesso di
istituzioni è stata uno dei più importanti attori politici europei; questo in
particolare a partire dal secondo millennio, da quando si è costituita come un
impero religioso ad ordinamento feudale. Quindi è sempre stata "in
politica", e in quella "grande". Dove sta la novità?
La
novità sta nel fatto che nelle parole di Bergoglio quell'impero non c'è più.
Lui per primo ne ha rifiutati i segni andando a vivere in albergo, invece che
nella reggia romana dei pontefici.
Ci sono
i popoli e ci sono delle esigenze di giustizia, in particolare delle sofferenze
da lenire, ci sono delle vittime a cui dedicare "grande attenzione".
C'è un ordine sociale da cambiare per esigenze di giustizia. Un compito che
viene evocato come una "buona onda", "dall'alto in basso e
viceversa, dalla periferia al centro e viceversa, dai leader fino alle comunità
e dai popoli e dall'opinione pubblica fino ai più altri livelli
dirigenziali", dove quei "viceversa" sono molto importanti,
perché in passato non se ne faceva conto e tutto colava dall'alto: dall'alto in
basso e dal centro alla periferia.
In
quest'ottica sembra quasi che dal giudice si pretenda molto di più di quello
che egli è autorizzato a fare, anche negli ordinamenti di tipo democratico:
qualcosa che pare una rivoluzione sociale, da fare agendo insieme, in comunità,
per "aprire brecce, vie nuove di giustizia". E' perché Bergoglio,
prendendo lo spunto dall’udienza a quei magistrati, sembra aver considerato il
giudice come un modello di cittadino democratico e ha in realtà invitato tutti a
farsi giudici dell'ordine sociale esistente e a farlo liberamente, contrastando
i condizionamenti indebiti e innanzi tutto quello della corruzione,
avendo come guida la giustizia e non le "strutture di peccato"
che dalla giustizia lo allontanano, perché la giustizia è il primo attributo della
società, che senza di essa non dà felicità e pace. Bisogna ricordare che la
Chiesa cattolica-istituzione è stata, e ancora per certi versi è, uno dei più
potenti centri di pressione politica in senso proprio, con critiche che non
hanno risparmiato i giudici accusati talvolta di voler creare un
nuovo diritto per fini di giustizia (gli ultimi episodi risalgono solo a
qualche settimana fa, in Italia). Il ragionamento di Bergoglio può quindi
essere considerato anche un'autocritica: egli in fondo ha imparato la lezione
dell'illuminismo, ma ne ha anche assimilate di altre. Può liberare forze
potenti in quella che può essere considerata attualmente anche la più
importante compagine politica italiana, l'unica non ancora allo stato liquido o
semi-liquido.
Venendo
veramente da un altro mondo, egli recupera un discorso iniziato da Montini a
cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, un forte appello all'azione politica
per la riforma sociale, presentata come dovere religioso:
" Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli - locale,
regionale, nazionale e mondiale - significa affermare il dovere dell'uomo, di
ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di
scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città,
della nazione, dell'umanità" [lo scrisse nel 1971 nel documento
"L'80° Anniversario"].
"Giustizia,
libertà, azione collettiva per il cambiamento sociale": ora in religione
se ne riprende a parlare, ma le si è apprese da altri, a partire dall’Ottocento.
Un capo religioso di oggi sostiene che non se ne può fare a meno, che bisogna
riscoprirle. Molti invece le avevano sepolte, e forse dimenticate, forse
sottovalutate come eccessi di gioventù, nelle loro biblioteche. C'è, mi pare,
tutta una tradizione da recuperare. Un lavoro da fare anche in religione, per
l’importante azione politica che la fede vissuta collettivamente produce, ma
anche perché i principi religiosi incidono sia sugli obiettivi sia sui metodi.
“La politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno
cristiano al servizio degli altri.”, scrisse anche Montini nel documento che ho
sopra citato. La definì “una testimonianza personale e collettiva della serietà
della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini”
tale da rendere necessario “inventare forme di moderna democrazia non soltanto
dando a ciascun uomo la possibilità di essere informato e di esprimersi, ma
impegnandolo in una responsabilità comune.” E’ questa responsabilità alla
luce della fede che rende esigente l’impegno politico come
valore anche religioso.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
INTERVENTO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AL VERTICE DI GIUDICI E MAGISTRATI
CONTRO IL TRAFFICO DELLE PERSONE UMANE E IL CRIMINE ORGANIZZATO
[VATICANO, 3-4 GIUGNO 2016]
Casina Pio IV
Venerdì, 3 giugno 2016
Buonasera. Vi saluto cordialmente
e rinnovo l’espressione della mia stima per la vostra collaborazione nel
contribuire al progresso umano e sociale, di cui la Pontificia Accademia delle
Scienze Sociali è capace.
Se mi rallegro di tale contributo
e mi compiaccio con Voi, è anche in considerazione del nobile servizio che
potete offrire all’umanità, approfondendo sia la conoscenza di questo fenomeno
così attuale, ossia l’indifferenza nel mondo globalizzato e le sue forme
estreme, sia le soluzioni dinanzi a tale sfida, cercando di migliorare le
condizioni di vita dei nostri fratelli e sorelle più bisognosi. Seguendo
Cristo, la Chiesa è chiamata a impegnarsi. Ossia, non vale l’adagio
dell’Illuminismo secondo il quale la Chiesa non deve mettersi in politica; la
Chiesa deve mettersi nella “grande” politica! Perché — cito Paolo VI — la
politica è una delle forme più alte dell’amore, della carità. E la Chiesa è
anche chiamata a essere fedele alle persone, ancora più quando si considerano
le situazioni dove si toccano le piaghe e la drammatica sofferenza, nelle quali
sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede; situazioni in
cui la vostra testimonianza come persone e umanisti, unita alla vostra
specifica competenza sociale, è particolarmente apprezzata.
Nel corso degli ultimi anni non
sono mancate importanti attività della Pontificia Accademia delle Scienze
Sociali sotto il vigoroso impulso della sua Presidente, del Cancelliere e di
alcuni collaboratori esterni di grande prestigio, che ringrazio di cuore.
Attività in difesa della dignità e libertà degli uomini e donne di oggi e, in
particolare, attività volte a sradicare la tratta e il traffico di persone e le
nuove forme di schiavitù come il lavoro forzato, la prostituzione, il traffico
di organi, il narcotraffico, la criminalità organizzata. Come ha detto il mio
predecessore Benedetto XVI, e come io stesso ho affermato in diverse occasioni,
questi sono veri e propri crimini di lesa umanità che devono essere riconosciuti
come tali da tutti i leader religiosi, politici e sociali e plasmati nelle
leggi nazionali e internazionali.
L’incontro con i
leader religiosi delle principali religioni che oggi
influiscono nel mondo globale, il 2 dicembre 2014, come pure il vertice degli
amministratori e dei sindaci delle città più importanti del mondo,
il 21 luglio 2015, hanno espresso la volontà di questa Istituzione di
perseguire l’eliminazione delle nuove forme di schiavitù. Serbo un ricordo
particolare di questi due incontri, come anche dei significativi seminari dei
giovani, tutti su iniziativa dell’Accademia. Qualcuno potrebbe pensare che
l’Accademia debba muoversi piuttosto in un ambito di scienze pure, di
considerazioni più teoriche: e questo risponde certamente a una concezione
illuministica di quello che deve essere un’Accademia. Un’Accademia deve avere
radici, e radici nel concreto, perché altrimenti corre il rischio di fomentare
una riflessione liquida, che si vaporizza e non arriva a niente. Questo
divorzio tra l’idea e la realtà è chiaramente un fenomeno culturale del
passato, e più precisamente dell’illuminismo, ma che ha ancora la sua
incidenza.
Ora, ispirata dagli stessi
aneliti, l’Accademia vi ha convocato, giudici e pubblici ministeri di tutto il
mondo, con esperienza e saggezza pratica nello sradicamento della tratta, del
traffico di persone e della criminalità organizzata. Siete venuti qui in
rappresentanza dei vostri colleghi con il lodevole intento di progredire nella
piena consapevolezza di tali flagelli e, di conseguenza, di rendere manifesta
la vostra insostituibile missione dinanzi alle nuove sfide che ci pone la
globalizzazione dell’indifferenza, rispondendo alla crescente richiesta della
società e nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali. Farsi carico
della propria vocazione significa anche sentirsi e proclamarsi liberi. Giudici
e pubblici ministeri liberi: da che cosa? Dalle pressioni dei governi; liberi
dalle istituzioni private e, naturalmente, liberi dalle “strutture di peccato”
di cui parla il mio predecessore san Giovanni Paolo II, in particolare della
“struttura di peccato”, liberi dal crimine organizzato. So che subite
pressioni, subite minacce in tutto questo; e so anche che oggi essere giudici,
essere pubblici ministeri, significa rischiare la pelle, e ciò merita un
riconoscimento al coraggio di quelli che vogliono continuare a essere liberi
nell’esercizio della propria funzione giuridica. Senza questa libertà, il
potere giudiziario di una nazione si corrompe e semina corruzione. Tutti
conosciamo la caricatura della giustizia per questi casi, no? La giustizia con
gli occhi bendati, alla quale cade la benda tappandole la bocca.
Fortunatamente, per l’attuazione
di questo complesso e delicato progetto umano e cristiano, cioè liberare
l’umanità dalle nuove schiavitù e dal crimine organizzato, che l’Accademia
realizza seguendo la mia richiesta, si può anche contare sull’importante e
decisiva sinergia con le Nazioni Unite. C’è una maggiore consapevolezza di ciò,
una forte consapevolezza. Sono lieto che i rappresentanti dei 193 Paesi membri
dell’ONU abbiano approvato all’unanimità i nuovi obiettivi di sviluppo
sostenibile e integrale, in particolare il numero 8.7, che recita: «Adottare
misure immediate ed efficaci per eliminare il lavoro forzato, porre fine alle
forme moderne di schiavitù e alla tratta di esseri umani e assicurare il
divieto e l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro infantile, inclusi il
reclutamento e l’uso di bambini soldato e, al più tardi entro il 2025, porre
fine al lavoro infantile in tutte le sue forme». Fin qui la Risoluzione. Si può
ben dire che realizzare tali obiettivi sia ora un imperativo morale per tutti i
Paesi membri dell’ONU.
Perciò occorre generare un moto
trasversale e ondulare, una “buona onda”, che abbracci l’intera società
dall’alto in basso e viceversa, dalla periferia al centro e viceversa, dai
leader fino alle comunità, e dai popoli e dall’opinione pubblica fino ai più
alti livelli dirigenziali. La realizzazione di ciò esige che, come hanno già
fatto i leader religiosi, sociali e i sindaci, così anche i giudici prendano
piena consapevolezza di tale sfida, sentano l’importanza della propria
responsabilità davanti alla società e condividano le proprie esperienze e buone
pratiche e agiscano insieme — è importante, in comunione, in comunità, che
agiscano insieme — per aprire brecce e nuove vie di giustizia a beneficio della
promozione della dignità umana, della libertà, della responsabilità, della
felicità e, in definitiva, della pace. Senza cedere al gusto della simmetria,
potremmo dire che il giudice sta alla giustizia come il religioso e il filosofo
alla morale, e il governante o qualsiasi altra figura personalizzata del potere
sovrano alla politica. Ma solo nella figura del giudice la giustizia si
riconosce come il primo attributo della società. Ed è una cosa che va
recuperata, perché la tendenza sempre più forte è quella di “liquefare” la
figura del giudice attraverso le pressioni e le altre cose che ho menzionato
prima. E tuttavia è il primo attributo della società. Appare nella stessa
tradizione biblica, non è vero? Mosè ha bisogno di istituire 70 giudici perché
lo aiutino, giudichino i casi. È il giudice a chi si ricorre. E anche in questo
processo di liquefazione, gli aspetti contundenti, concreti della realtà
interessano i popoli. Ossia, i popoli hanno un’entità che dà loro consistenza,
che li fa crescere, avere i propri progetti, accettare i propri fallimenti,
accettare i propri ideali; però stanno anche soffrendo un processo di
liquefazione, e tutto quello che è la consistenza concreta di un popolo tende a
trasformarsi nella semplice identità nominale di un cittadino. E un popolo non
è lo stesso di un gruppo di cittadini. Il giudice è il primo attributo di una
società di popolo.
L’Accademia, convocando i giudici,
aspira solo a collaborare in base alle proprie possibilità, secondo il mandato
dell’ONU. È opportuno ringraziare qui quelle nazioni che, tramite gli
Ambasciatori presso la Santa Sede, non si sono mostrate indifferenti o
arbitrariamente critiche, bensì, al contrario hanno collaborato attivamente con
l’Accademia per la realizzazione di questo vertice. Gli ambasciatori che non
hanno sentito tale necessità o che se ne sono lavati le mani o che hanno
pensato che non era poi così necessario, li aspettiamo alla prossima riunione.
Chiedo ai giudici di realizzare la
propria vocazione e missione essenziale: stabilire la giustizia senza la quale
non c’è ordine né sviluppo sostenibile e integrale, e neanche pace sociale.
Senza dubbio, uno dei più grandi mali sociali del mondo odierno è la corruzione
a tutti i livelli, che debilita qualsiasi governo, debilita la democrazia
partecipativa e l’attività della giustizia. A voi giudici spetta fare
giustizia, e vi chiedo una speciale attenzione nel fare giustizia nell’ambito
della tratta e del traffico di persone e, di fronte a ciò e al crimine
organizzato, vi chiedo di guardarvi dal cadere nella ragnatela delle
corruzioni.
Quando diciamo “fare giustizia”,
come voi ben sapete, non intendiamo che si debba cercare il castigo di per sé,
ma che, quando si comminano pene, queste siano date per la rieducazione dei
responsabili, in modo tale che si possa dare loro una speranza di reinserimento
nella società. Ossia, non c’è pena valida, senza speranza. Una pena chiusa in
se stessa, che non dà luogo alla speranza è una tortura, non è una pena. Su
questo mi baso anche per affermare seriamente la posizione della Chiesa contro
la pena di morte. Chiaro, mi diceva un teologo che nella concezione della teologia
medievale e post-medievale la pena di morte conteneva la speranza: «li
affidiamo a Dio». Ma i tempi sono cambiati e non è più così. Lasciamo che sia
Dio a scegliere il momento... La speranza del reinserimento nella società:
“neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa
garante” (San Giovanni Paolo II, Evangelium vitae,
n. 9). E se questa delicata congiunzione tra giustizia e misericordia — che in
fondo è preparare per un reinserimento — vale per i responsabili dei crimini
contro l’umanità come per ogni altro essere umano, a fortiori vale
soprattutto per le vittime che, come indica il loro stesso nome, sono più
passive che attive nell’esercizio della loro libertà, essendo cadute nella
trappola dei nuovi cacciatori di schiavi. Vittime tante volte tradite nel più
intimo e sacro della loro persona, cioè nell’amore che aspirano a dare e a
ottenere, e che le loro famiglie devono loro o che viene loro promesso da
pretendenti o mariti, i quali invece finiscono col venderle nel mercato del
lavoro forzato, della prostituzione o del traffico di organi.
I giudici sono chiamati oggi più
che mai a dedicare grande attenzione ai bisogni delle vittime. Sono loro le
prime a dover essere riabilitate e reintegrate nella società, e per loro si
devono perseguire in una lotta senza quartiere trafficanti e carniferos,
i carnefici. Non vale il vecchio adagio: «Sono cose che esistono da che mondo è
mondo». Le vittime possono cambiare e di fatto sappiamo che cambiano vita con
l’aiuto dei buoni giudici, delle persone che le assistono e di tutta la
società. Sappiamo che non poche di queste persone sono uomini e donne avvocati
e politici, scrittori brillanti o hanno incarichi di successo per servire in
modo valido il bene comune. Sappiamo quanto sia importante che ogni vittima
trovi la forza di parlare del suo essere vittima come di un passato che ha
superato coraggiosamente essendo ora un sopravvissuto o, per meglio dire, una
persona con qualità di vita, con dignità recuperata e libertà assunta. Riguardo
a questo tema del reinserimento, vorrei raccontare un’esperienza empirica. Mi
piace, quando vado in una città, visitare il carcere. Ne ho visitati diversi. È
curioso, senza voler offendere nessuno, ma la mia impressione generale è stata
che le carceri in cui il direttore è una donna vanno meglio di quelle in cui il
direttore è un uomo. Questo non è femminismo, è curioso. La donna ha, riguardo
al tema del reinserimento, un olfatto speciale, un tatto speciale che, senza
perdere energie, per ricollocare queste persone, per reinserirle. Alcuni lo
attribuiscono alla radice della maternità. Ma è curioso, lo dico come
esperienza personale, vale la pena rifletterci. E qui in Italia c’è un’alta
percentuale di carceri dirette da donne, molte donne, giovani, rispettate e che
sanno trattare con i detenuti. Un’altra mia esperienza personale è che alle
udienze del mercoledì non è raro che partecipi un gruppo di detenuti — di una o
l’altra prigione — portati dal direttore o dalla direttrice; stanno lì. Sono
tutti gesti di reinserimento.
Voi siete chiamati a dare speranza
nel fare la giustizia. Dalla vedova che insistentemente chiede giustizia (Lc 18,
1-8) alle vittime di oggi, tutte alimentano un anelito di giustizia, come
speranza che l’ingiustizia che attraversa questo mondo non sia l’ultima realtà,
non abbia l’ultima parola.
A volte può essere di giovamento
applicare, secondo modalità proprie di ciascun paese, di ogni continente, di
ogni tradizione giuridica, la prassi italiana di recuperare i beni
criminosamente acquisiti dai trafficanti e dai delinquenti, per offrirli alla
società e, in concreto, per il reinserimento delle vittime. La riabilitazione
delle vittime e il loro reinserimento nella società, sempre realmente
possibile, è il bene più grande che possiamo fare a loro, alla comunità e alla
pace sociale. Certo, il lavoro è duro. Non termina con la sentenza. Termina
dopo, facendo sì che vi siano un accompagnamento, una crescita, un
reinserimento, una riabilitazione della vittima e del carnefice.
Se c’è una cosa che attraversa le
beatitudini evangeliche e il protocollo del giudizio divino con cui tutti
saremo giudicati secondo il Vangelo di Matteo (cap. 25), è il tema della
giustizia: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, beati quelli che
soffrono per la giustizia, beati quelli che piangono, beati i miti, beati gli
operatori di pace, benedetti dal Padre mio quelli che trattano il più bisognoso
e il più piccolo dei miei fratelli come me stesso». Essi o esse — e qui è il
caso di riferirci in particolare ai giudici — avranno la ricompensa più grande:
possederanno la terra, saranno chiamati e saranno figli di Dio, vedranno Dio, e
gioiranno eternamente insieme al Padre.
In tale spirito oso chiedere ai
giudici, ai pubblici ministeri e agli accademici di continuare la loro opera e
realizzare, nei limiti delle loro possibilità e con l’aiuto della grazia, le
felici iniziative che onorano il loro servizio alle persone e al bene comune.
Grazie!
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61
Il partito del Papa
Con
l’enciclica Laudato si’, dell’anno scorso, Bergoglio ha
diffuso un progetto integrato di riforma della società contemporanea, un vero e
proprio manifesto politico. Esso deve essere discusso democraticamente, ma
proprio per la fonte da cui proviene è difficile farlo in religione, e al di
fuori dei contesti religiosi non lo si fa perché non interessa. Infatti
il partito del Papa non ha seguito in Italia. Il nostro
è stato il Paese che dal 1948 al 1994 è stato dominato da un artito
cristiano ed è stato impressionante constatare che nelle ultime
elezioni cittadine non solo nessuno dei movimenti che le animavano si è
richiamato a quella tradizione, ma che anche nessuno ha affrontato il tema di
Roma come città della fede, e questo nonostante il Giubileo in corso. Nessuno
si è richiamato ai temi politici della Laudato si’, che
probabilmente è poco conosciuta anche negli ambienti di fede, e anche laddove è
conosciuta viene presentata attenuandone l’impatto specificamente politico.
Sembra che, assuefatti all’imponente letteratura pontificia, si sia considerato
distrattamente un documento in cui invece ogni parola è importante perché segna
un cambiamento di rotta e l’apertura di nuove opportunità. Si dà uno sguardo ai
titoli, si legge qualche brano scelto traendolo dai commentatori, e poi si
aspetta il prossimo documento, che infatti è venuto con
l’esortazione Letizia dell’amore.
Fare politica
ha a che fare con il potere e, di solito, in religione, sebbene il potere lo si
sia sempre esercitato e anche piuttosto disinvoltamente, si ritiene
sconveniente parlarne. Alla fine si cerca di assimilarlo proponendolo come
una forma esigente di carità. Questa espressione viene
attribuita, sbagliando, al papa Montini, mentre è del suo predecessore Achille Ratti
- Pio 11°, il Papa dei Patti lateranensi. La usò nel 1927 in un discorso tenuto ai dirigenti della
Federazione Universitaria Cattolica Italiana, del quale sono riuscito a trovare
uno stralcio sul WEB:
“I giovani talora si chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare
alcuna politica. Ed ecco che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti,
vengono a porre in se stessi le basi della buona, della vera, della grande
politica, quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quello
della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è
la suprema lex a cui devono esser rivolte le attività sociali.
E così facendo essi comprenderanno e compiranno uno dei più grandi doveri
cristiani, giacché quanto più vasto e importante è il campo nel quale si può
lavorare, tanto più doveroso è il lavoro. E tale è il campo della
politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo
riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica,
a cui si potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere
superiore.
È con questo
intendimento che i cattolici e la Chiesa debbono considerare la politica;
poiché la Chiesa e i suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal
rappresentanza, non possono essere un partito politico, né fare la politica di
un partito, il quale per natura sua attende a particolari interessi, o
se pur mira al bene comune, sempre vi mira dietro il prisma di sue vedute
particolari.”
In quegli anni la Santa Sede stava contrattando con il Mussolini quelli
che poi, nel 1929, furono stipulati come Patti Lateranensi.
Parlando dell’uomo con cui aveva concluso quegli accordi che oggi molti in
religione ritengono disonorevoli e di cui si volle assumere la piena
responsabilità, disse, parlando agli universitari della Cattolica di
Milano il 13 febbraio 1929, due giorni dopo l’evento:
“Dobbiamo dire che siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E
forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto
incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per
gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o
piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti
erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e
venerandi quanto più brutti e deformi. E con la grazia di Dio, con molta
pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti,
siamo riusciti « tamquam per medium profundam eundo» a conchiudere
un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo
tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che
crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio.”
Montini, invece, nella lettera apostolica L’Ottantesimo
Anniversario[della prima enciclica sociale Le novità, del
1891] fece un discorso diverso, sollecitando all’azione:
"Significato dell’azione politica
46 […]È vero che
sotto il termine «politica» sono possibili molte confusioni che devono essere
chiarite; ma ciascuno sente che nel settore sociale ed economico, sia nazionale
che internazionale, l'ultima decisione spetta al potere politico.
Questo, in quanto è il vincolo naturale e necessario per assicurare la
coesione del corpo sociale, deve avere per scopo la realizzazione del bene
comune. Esso agisce, nel rispetto delle legittime libertà degli individui,
delle famiglie e dei gruppi sussidiari, al fine di creare, efficacemente e a vantaggio
di tutti, le condizioni richieste per raggiungere il vero e completo bene
dell'uomo, ivi compreso il suo fine spirituale. Esso si muove nei limiti della
sua competenza, che possono essere diversi secondo i paesi e i popoli; e
interviene sempre nella sollecitudine della giustizia e della dedizione al bene
comune, di cui ha la responsabilità ultima. Tuttavia non elimina così il campo
d'azione e le responsabilità degli individui e dei corpi intermedi, onde questi
concorrono alla realizzazione del bene comune. In effetti, «l'oggetto di ogni
intervento in materia è di porgere aiuto ai membri del corpo sociale, non già
di distruggerli o di assorbirli». Conforme alla propria vocazione, il
potere politico deve sapersi disimpegnare dagli interessi particolari per
considerare attentamente la propria responsabilità nei riguardi del bene di
tutti, superando anche i limiti nazionali. Prendere sul serio la
politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale -
significa affermare il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà
concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di
realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità. La
politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno
cristiano al servizio degli altri. Senza certamente risolvere ogni
problema, essa si sforza di dare soluzioni ai rapporti fra gli uomini. La sua
sfera è larga e conglobante, ma non esclusiva. Un atteggiamento invadente,
tendente a farne un assoluto, costituirebbe un grave pericolo. Pur
riconoscendo l'autonomia della realtà politica, i cristiani,
sollecitati a entrare in questo campo di azione, si sforzeranno di raggiungere
una coerenza tra le loro opzioni e l'evangelo e di dare, pur in mezzo a un legittimo
pluralismo, una testimonianza personale e collettiva della serietà della
loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini."
Che
cosa c’è di diverso tra il pensiero del Sarto e quello del Montini sulla
politica? C’è la democrazia, che significa anche considerare la politica non
come inevitabile sviluppo di interessi particolari, ma
come servizio efficiente e disinteressato per realizzare
insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità. E c’è
la mediazione, che significa concepire la politica come ricerca insieme
ad altri, in un clima di pluralismo.
Esercitare
il potere in modo insieme democratico e conforme allo spirito evangelico
non è innato nei fedeli: è cosa che si impara, della quale occorre fare tirocinio.
Negli anni ’80 se ne aveva chiara consapevolezza e infatti fu quella l’epoca in
cui in Italia fiorirono tante scuole di politica.
Ma poi emerse il pluralismo della politica e si lasciò
perdere. Si riprese a fare politica andando dietro a un Papa, come negli anni
bui dell’intransigentismo ottocentesco, quelli della polemica
durissima con il liberalismo democratico, che ancora risalta moltissimo nelle
parole del papa Sarto che ho sopra trascritto. Si è persa una tradizione di
impegno politico, della quale oggi si può avere un’idea solo sui libri. Quindi
poi la rinnovata esortazione all’impegno politico democratico di Bergoglio cade
nel vuoto. Anzi, mi pare che in genere, rispetto agli orientamenti politici della Laudato
sì, la maggioranza dei fedeli sia all’opposizione, diciamo su posizioni
francamente di destra, che oggi significano, ad esempio, posizione dura su
migranti ed emarginati sociali, difesa del tenore di vita degli italiani a
scapito di qualsiasi onere di solidarietà sociale che possa comportare più
tasse, posizione ostile all’integrazione sociale di stranieri residenti e
di fedeli di altre religioni, contrarietà a misure di controllo sociale per
preservare ambiente naturale e territorio dai danni delle attività industriali
e dell’edilizia intensiva.
Ad
essere cittadini di una democrazia avanzata si impara e se la politica
democratica ha un valore anche religioso si tratta di un lavoro che deve essere
impostato anche negli ambienti di fede, come una parrocchia. Si inizia con un
tirocinio, con fare esperienza di democrazia negli affari minuti, nella
gestione di un gruppo, di un servizio, rifuggendo e contrastando il cesarismo dei
capi. Poi ci si ragiona sopra, trovando i riferimenti culturali. E’ cosa che
costa fatica, perché ci si è disabituati. Anche da noi in parrocchia, per lungo
tempo, tutte le sedi di partecipazione democratica sono cadute un po’ in
disuso, a cominciare dal Consiglio pastorale, che mi pare ormai privo di
legittimazione democratica, poiché, a mia memoria, non riesco più a ricordare
quando si svolsero le ultime elezioni di alcuni suoi componenti e alcune delle
stesse persone che vi partecipano, per ciò che mi è stato riferito, non hanno
ben chiaro a che titolo vi partecipino.
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62
Fede e politica: una relazione essenziale
[da: Ludwig
Hertling, Storia della Chiesa - La penetrazione dello spazio umano ad
opera del cristianesimo, Città Nuova, 1974 (ed.originale Morus-Verlag,
Berlin, 1967)]
La nuova
serie di papi sotto l’influenza degli imperatori
Ottone
I (1°) [912-973, duca di Sassonia, re di Germania e imperatore del Sacro Romano
Impero dal 962] e suo figlio Ottone II (2°) [955-983, duca di Sassonia, re di
Germania e imperatore del Sacro Romano Impero dal 973], che morì troppo presto,
erano intervenuti nelle cose di Roma con le migliori intenzioni, ma senza
ottenere veri risultati. E’ strano quindi che ciò sia invece riuscito al terzo
Ottone [Ottone III (3°) di Sassonia, 980-1002, re d’Italia e di Germania,
imperatore del Sacro Romano Impero dal 996], il quale personalmente non
possedeva la qualità dell’uomo forte anche per la sua età ancor giovanile, ma
deve avergli giovato il prestigio che s’era notevolmente accresciuto attorno
alla corona imperiale per merito di suo padre e di suo nonno.
Gregorio V e
Silvestro II
Quando
nell’anno 996 morì Giovanni XV (15°), Ottone III si trovava proprio in viaggio
verso Roma. I romani lo pregarono di designare il nuovo papa. Ottone III
contava allora 16 anni, era profondamente religioso, essendo stato
educato dai migliori maestri del tempo, ed inoltre era un idealista
entusiasta che sognava gli splendori dell’antico Impero romano. Egli designò
come papa il suo cappellano di corte, che era anche un suo parente, Brunone.
Questi, a sua volta molto giovane, perché contava solo 24 anni, in fatto di
idealismo non la cedeva all’imperatore. Eletto papa, assunse il nome di Gregorio
V (5°), ma morì già nel 999, dopo aver iniziato un pontificato assai
promettente. Dopo di lui Ottone III scelse come papa il suo antico maestro
Gerberto. Gerberto, un francese, prima vescovo di Reims e poi di Ravenna, era
molto ammirato per la sua cultura, al punto tale che la leggenda popolare ne ha
fatto un mago. Non meno idealista del suo predecessore, Gerberto si chiamò Silvestro
II (2°), era tuttavia un uomo già maturo. Per la prima volta, dopo un
lungo tempo la Chiesa aveva un nuovo papa che mirava alla cristianità. Silvestro
istituì la gerarchia per la Polonia divenuta ormai quasi completamente
cristiana e le assegnò come metropoli Gnesen. Lo stesso fece per gli
ungari con la metropoli di Gran, A colui che era stato fino allora il
duca degli ungari, santo Stefano, conferì il titolo di re.
Il nuovo
predominio dei signori di Tuscolo
Dopo la morte
prematura dell’imperatore Ottone III (1002) a Roma, a Roma scoppiò nuovamente
un conflitto tra i conti di Tuscolo e i Crescenzi, i quali già sotto Gregorio V
avevano tentato di suscitare disordini e ora giunsero persino a creare un
antipapa. Ma il nuovo imperatore Enrico II (2°) fece accettare ai
romani il legittimo pontefice Benedetto VIII (8°) (1012-1024) della
famiglia di Tuscolo. Benedetto VIII aiutò Pisa e Genova allorché queste due
città vinsero i saraceni presso Luna, strappando così la Sardegna ai musulmani.
Nel 1020 il papa si recò in Germania e consacrò il duomo di Bamberga,
fatto erigere da Enrico II. Poi tenne insieme all’imperatore un sinodo in
Pavia, in cui il celibato del clero veniva ancora inculcato. Inoltre vennero
promulgati fin d’allora decreti contro la simonia, ossia il conferimento degli
ordini sacri in cambio di denaro, o di altri vantaggi. Nel concetto di simonia
si vennero un po’ alla volta a comprendere tutti gli abusi che derivavano dal
sistema delle chiese di proprietà privata e, in genere, dalla dipendenza della
Chiesa dai signori feudali, e che alla fine la condussero a ingaggiare la lotta
delle investiture.
I conti
di Tuscolo tornarono a essere, come cent’anni prima, i padroni di Roma. Il
fratello di Benedetto VIII, Alberico, governava la città col titolo di console.
Dopo la morte di Benedetto VIII, un terzo fratello divenne papa col nome
di Giovanni XIX (19°). Questi incoronò imperatore
Corrado II (2°). Ai festeggiamenti intervennero i re Rodolfo III (3°) di
Borgogna e Canuto di Danimarca e Inghilterra. quanto al resto, egli non si
occupò d’altro che di denaro. L’imperatore Basilio II (2°) di Bisanzio gli
profferse (=offrì) del denaro, qualora avesse riconosciuto al patriarca di
Costantinopoli il titolo di «patriarca ecumenico», che i papi precedenti gli
avevano sempre negato. Giovanni XIX si dichiarò pronto, ma dovette rinunciarvi
a causa della indignazione che questo fatto suscitò tra i monaci cluniacensi
(federazione di abazie benedettine facenti capo a quella di Cluny, in
Francia). Dopo la sua morte, nel 1933, la famiglia dei conti di Tuscolo, che
voleva a tutti i costi occupare la Sede apostolica con uno dei suoi membri,
impose come papa il figlio di Alberico,il tredicenne Teofilatto. Il ragazzo,
che si chiamò Benedetto IX (9°), venne cacciato dopo poco
tempo dai romani; ma l’imperatore Corrado II (2°) ve lo ricondusse, dal momento
che in fin dei conti era pur il legittimo papa. Cacciato un’altra volta, egli
ritornò ancora. Finalmente, per far cessare lo scandalo, il ricco arciprete di
San Giovanni a Porta Latina, Giovanni Graziano, gli promise una notevole
pensione, qualora avesse abdicato, Benedetto IX accettò, tanto più che dal
partito contrario gli si era innalzato contro un antipapa per nome Silvestro
III (3°).
Intervento di
Enrico III (3°)
Giovanni
Graziano aveva agito con le migliori intenzioni. Ma non fu cosa saggia l’aver
ora accettato egli stesso l’elezione a Sommo Pontefice. Gregorio VI (6°),
come egli si chiamò, possedeva tutte le qualità necessarie, e dagli
ecclesiastici più rigidi, come Pier Damiani, fu salutato con entusiasmo. Ma
poiché uno dei principali punti del programma di riforma si riferiva alla
simonia, e cioè al commercio degli uffici ecclesiastici, appariva quanto meno
un’imperfezione che il papa regnante avesse pagato il suo predecessore con lo
scopo di farlo abdicare. Inoltre Benedetto IX si pentì ben presto della sua
abdicazione e ricomparve come papa, cosa che fece pure l’antipapa Silvestro
III. In questo ginepraio senza via di uscita solo l’imperatore poteva essere
d’aiuto. Enrico III (3°), successore di Corrado II, venne chiamato in Italia.
Egli tenne un sinodo a Sutri, una cittadina a settentrione di Roma. Benedetto
IX, che già aveva abdicato, e Silvestro II che non era mai stato legittimo
papa, furono definitivamente deposti. Gregorio VI (6°) acconsentì a lasciare
volontariamente il soglio pontificio e, per non far scoppiare un nuovo scisma,
l’imperatore lo prese con sé in Germania. Lo accompagnava un giovane
chierico romano, Ildebrando,che avrebbe dovuto svolgere in seguito un ruolo
storico di grande importanza. Gregorio VI morì a Colonia nel 1047.
L’imperatore sembrava l’unica personalità in grado di ristabilire l’ordine,
tanto che tutti furono d’accordo che fosse lui stesso a nominare i papi
seguenti. I suoi due primi papi, Clemente II (2°),
precedentemente vescovo di Bamberga, e Damaso II, vescovo di
Bressanone, uomini eccellenti entrambi, morirono dopo pochissimo tempo dopo la
loro elezione. Allora Enrico III nominò un alsaziano, il vescovo di Toul. Il
nuovo papa, però, Leone IX (9°), desiderò un’elezione regolare
da compiersi a Roma. Nel viaggio che doveva condurlo a questa città, prese
con sé il giovane Ildebrando, il quale, dopo la morte di Gregorio VI, s’era
fatto monaco, probabilmente a Cluny. Ildebrando servì lui e i suoi successori,
finché non venne eletto papa egli stesso [con il nome di Gregorio 7°].
[…]
Alessandro
II [papa eletto nel 1061, per l’influsso di Ildebrando e senza
l’ingerenza dell’imperatore] morì il 21 aprile 1073. Ai funerali, che ebbero
luogo il giorno e furono presieduti da Ildebrando nella sua qualità di
arcidiacono, il popolo acclamò Ildebrando stesso come suo successore. I
cardinali si ritirarono immediatamente a San Pietro in Vincoli per eleggerlo
secondo le regole precedentemente stabilite. Ildebrando, prudente, procrastinò
il giorno dell’incoronazione per attendere l’approvazione del re tedesco Enrico
IV. A ricordo del nobile spirito di Gregorio VI, che egli aveva accompagnato
nell’esilio, volle chiamarsi Gregorio VII (7°).
Gregorio VII
appartiene a quegli uomini della storia di cui basta pronunciare il nome perché
suscitino le reazioni più diverse. Non è cosa facile, perciò, dare un giudizio
appropriato sulla sua personalità. Il Gregorovius (storico tedesco studioso del
medioevo, morto nel 1891) solitamente pieno di odio per tutto quanto è
cattolico e papale, trova che, al paragone di Gregorio VII, Napoleone appare un
barbaro. E fa di lui una specie di mago, che, con armi invisibili, incute
spavento al mondo intero. La Chiesa lo annovera tra i suoi santi celebrandone
la festa ogni anno il 25 maggio. Vi sono però anche dei cattolici per i quali
Gregorio VII è il tipo del papa politico anziché religioso. Certo è che
Gregorio VII fece un’impressione enorme anche sui suoi contemporanei. San Pier
Damiani lo chiamava scherzosamente «un santo demonio», volendo con ciò
significare l’instancabilità e la passione che distinguevano Gregorio da ogni
altro. Come già l’apostolo san Paolo, Gregorio VII era piccolo di statura,
mobilissimo, infaticabile, pieno di coraggio personale, d’un’incredibile
vitalità. Lo zelo lo consumava, ma era unicamente lo zelo per la casa di Dio.
Ogni cosa era per lui una realtà da conquistare. In ciò egli assomiglia a
sant’Ignazio di Lojola.
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Quando
da ragazzo lessi le pagine che ho sopra trascritto, da un libro di studio di
mia madre, rimasi meravigliato dello sforzo fatto dal gesuita Ludwig Hertling
di argomentare, contro certe evidenze, una qualche continuità tra la Chiesa in
cui mi ero formato da bambino negli anni Sessanta e poi da ragazzo nel decennio
seguente e quella a cavallo dell’anno Mille. Rimasi anche affascinato dai suoi
racconti sul papa Gregorio VII. Per certi versi il secondo millennio della nostra
fede e, in particolare, la struttura delle nostre istituzioni religiose dipende
dal suo attivismo, è un progetto suo.
Nel
2013 è stato eletto papa un vescovo, un religioso dello stesso ordine di
Hertling, che ha assunto un nome da sovrano senza un numero dietro. Non c’era
mai stato prima un papa di nome Francesco. E’ andato a vivere in un
albergo nella cittadella vaticana di cui è sovrano politico assoluto. Ma non ha
rifiutato le insegne della sovranità religiosa. E ha aperto sicuramente un
nuovo corso politico, con il suoi documenti La gioia del
Vangelo, del 2013, e Laudato si’, del
2015. Un po’ come avvenne intorno all’anno Mille. All’epoca il moto di
cambiamento fu sostenuto dai monaci della federazione di Cluny, oggi dal
movimento conciliare.
Quanto
è importante la politica nella fede?
Una
tesi che si potrebbe tentare di argomentare (ci vorrebbe una vita e tanto,
tanto studio per farlo) è che è tutto, da un punto di vista storico
e sociologico, naturalmente. Non mi riferisco alla teologia e all’ordine
soprannaturale.
Adottando il lessico di Hertling, mi appare, così, a uno sguardo un po’
superficiale come è quello di un ignorante colto come io sono, uno che non è
uno specialista di certi temi e che pure per rendere ragione della propria fede
deve tentare di ragionare su di essi, come se dal Quarto secolo della nostra
era la penetrazione dello spazio umano ad opera del cristianesimo sia
avvenuta per la massima parte per via politica. Una politica che nel primo
millennio fu dominata dai sovrani civili, gli imperatori romani e
poi da quelli che si considerarono loro successori, e che nel secondo
millennio, da Gregorio VII in poi, è stata ancora dominata da essi ma anche dai
sovrani religiosi romani, che strutturarono le istituzioni da loro dipendenti
come un impero religioso a imitazione di quello civile, esercitando una sorta
di condominio su un popolo di sudditi. Questa era dei
papi-imperatori sta volgendo al termine in questi anni ed è questa l’epoca in
cui noi fedeli siamo finiti in mezzo, ma poteva andarci peggio, potevamo
nascere nella Roma dominata dai signori di Tuscolo, che espressero sovrani
religiosi definiti da alcuni storici, spregiativamente, pornocrati.
Se, da
un punto di vista storico, la politica è stata la principale via per l’affermazione
della fede, è evidente che chi propone l’apoliticità della
fede non fa gli interessi della religione. In realtà le divisioni, a volte
durissime non nascondiamocelo, che ci sono oggi tra i fedeli non vertono, a ben
vedere, su temi teologici, ma su temi politici. Come deve cambiare la società
del nostro tempo? Che ruolo, ad esempio, deve avervi la donna? Come deve fare
il pastore chi a questo ruolo è designato in quanto membro del
clero? E poi: come combattere la povertà? Come evitare che l’industria rovini
l’ambiente in cui viviamo? Chi e in base a che criteri deve fare le parti della
ricchezza che si produce? Una fede religiosa che non affronti questi temi
diventa inutile. E la nostra fede non lo è
mai stata storicamente e non lo è. Infatti di questi temi si discute oggi, in
religione.
La
politica contemporanea si fa con metodo e secondo principi democratici, che
significa partecipazione di tutti al governo, elevazione
di tutti alla sovranità. Questo implica un tirocinio,
una formazione che non può limitarsi allo studio dell’imponente
letteratura dei papi. La politica democratica richiede una partecipazione anche
alla elaborazione dei principi e, vista la stretta connessione tra fede e
politica, per cui la nostra mi appare essere stata sempre (questo mi sembra il
suo vero tratto distintivo rispetto ai tanti culti misterici che
le furono coevi nel primi tre secoli della nostra era) una fede
politica, ciò finirà (come del resto è già accaduto con lo sviluppo del
movimento di idee che sfociò negli scorsi anni Sessanta nell’ultimo Concilio
ecumenico) per riflettersi anche sul modo di pensare la
fede. E’ stato osservato, ad esempio, che alcuni dei più importanti movimenti scaturiti
nel post-Concilio hanno sviluppato una propria caratteristica
teologia, anche se leggo che alcuni teologi di professione ne evidenziano in
genere alcuni tratti rudimentali e insufficienti. E sicuramente dietro la
proposta politica del nostro vescovo e padre universale
Bergoglio si scorge una teologia piuttosto ben definita che, mi pare per la
prima volta nella storia della nostra fede, viene ora proposta per la
discussione di tutti, non imposta d’autorità o proposta al vaglio
solo degli specialisti.
Possiamo considerare, sotto l’aspetto politico, i papi Wojtyla,
regnante come Giovanni Paolo 2°, e Ratzinger, regnante col nome di Benedetto
16°, gli ultimi sovrani dell’era apertasi con Gregorio 7°, tanto diversi da
quelli del primo millennio. E Bergoglio-Francesco (senza il numero vicino), il
papa che ci è venuto dal Nuovo Mondo, l'America che non è mai stata dominata
dai sovrani medievali alla cui memoria il Wojtyla era ancora tanto legato,
il capostipite di una nuova schiera di capi religiosi. Probabilmente è un
processo che coinvolgerà anche noi fedeli, e direi che ciò sta già avvenendo.
Un ritorno al passato è impossibile. L’umanità è troppo cambiata. Il
nostro mondo è la Terra intera e non il piccolo universo umano in cui
pensavano di essere signori del mondo i papi intorno all'anno Mille.
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63
La vita di fede come esperienza civile
La fede
può essere alla base di un’esperienza civile? In Italia a lungo si è pensato
che fosse possibile. Questo ha caratterizzato molto la nostra religiosità. Una
storia analoga si è vissuta in Germania. In altre regioni europee la fede
è stata integrata nel nazionalismo: ma questa è un’altra cosa. Mi riferisco, ad
esempio, alla Spagna e alla Polonia. In Italia al centro di tutto ci sono
stati dei valori e il coinvolgimento delle masse mediante processi democratici.
Tutto ciò è durato fino agli anni ’80, poi si è presa un’altra strada. A questo
punto, però, la fede e la vita religiosa possono apparire inutili.
Di
tutto ciò si sono avuti riflessi anche in parrocchia. Ne ho scritto molto in passato.
Ho ricordato i fermenti degli anni ’70. La situazione di oggi, a paragone con
quell’epoca, appare piuttosto impoverita. C’è meno gente, si fanno meno cose.
In passato, e molto a lungo, si è pensato che oltre a catechismo e
famiglia ci fosse poco di buono. In sostanza si sono rifiutati quasi due secoli
di storia, in cui la nostra Azione Cattolica è stata protagonista.
Negli
ultimi vent’anni c’è stato anche un problema di formazione del clero. Sono
venuti a collaborare molti sacerdoti stranieri, che non erano stati parte di
quella storia di esperienza civile di cui dicevo e neanche la conoscevano; non
conoscendola non l’apprezzavano neanche. E i sacerdoti italiani, a parte molte
eccezioni naturalmente, mi pare abbiano avuto una formazione molto ritualistica,
molto centrata sul sacro, sull’incenso e sugli accessori liturgici ad esempio.
Quando ho avuto occasione di avvicinare questi ambienti di seminaristi, mi ha
fatto impressione la grande quantità di incenso utilizzata, per cui me li
ricordo sempre circonfusi di questa nebbia azzurrina e profumata. E con noi
visitatori laici i futuri preti sembravano non avere molta dimestichezza:
certo, eravamo meno disciplinati di loro, introducevamo un elemento di disturbo
in qualche modo, ma, in fondo, non eravamo ilgregge, quelli a cui loro
erano destinati? E’ un po’ quello che accade nelle Messe per le Prime
comunioni, a cui partecipa molta gente che si vede bene non essere abituata
a stare in chiesa. Ma non è proprio questo il nostro
popolo? Quando lo si idealizza nei bei documenti del nostro supremo magistero,
popolo qui, popolo lì … tutto va bene, ma quando
il popolo esce dalla carta e diventa carne e sangue non fa più quella buona
impressione. E’ perché manca un’esperienza civile, di contatto e consuetudine in
cui ognuno sia ammesso veramente con la propria vita, in spirito repubblicano di
eguaglianza, rispetto, amicizia: così si entra in chiesa da estranei. Ma la
liturgia serve appunto anche asuscitare un popolo diverso,
per precorrere un’esperienza civile di quel tipo, per cambiare le cose intorno
a noi, per scoprirci più che fratelli, legati più che altro da una certa
storia biologica per cui abbiamo un po’ le stesse facce, ma anche e
soprattutto amici; non serve solo adeodorare gli
ambienti con questi nugoli di incenso.
Si è
puntato molto al perfezionamento interiore, cercandolo
di sorreggerlo con strutture di gruppo forti, che mi pare abbiano
vissuto un po’ una vicenda analoga a quelle di alcuni ordini religiosi,
le quali da luoghi di libertà personale dove vivere a pieno l’amicizia della
fede si sono trasformati in cupe prigioni, in particolare per le donne.
Ma la vita di fede non sta solo in questo.
Agli
albori del cattolicesimo democratico, nel 1797, scriveva il bolognese Nicolò
Fava Ghisilieri, in Riflessioni politico-morali raccolte da un
solitario ad uso della gioventù libera d’Italia [citato in Vittorio E.
Giuntella, La religione amica della democrazia - i cattolici
democratici del Triennio Rivoluzionario (1976-1799)]:
“Quand’è che
l’uomo può dirsi un buon cittadino? Allorché, rispettando le leggi, e i diritti
de’ suoi fratelli, rende dolce e amabile la società a suoi simili, e rendendola
dolce a se stesso non può non amarla. Come si ottiene ciò, se non co’ principi
della morale? Ma dove vi fu mai morale più precisa, più certa, più dettagliata,
più stabile della morale dell’Evangelo, non abbandonata però alle
interpretazioni in spirito privato de’ protestanti? Ciò si è già dimostrato. Il
più dolce, e il più soave processo, che c’imponga una simile religione, qual
altro è mai, se non quello della Carità? E non è forse nel sistema
repubblicano, che più si cerca di fraternizzare? Or qual religione vi è più
opportuna di questa a un tal uopo, se c’istruisce, e ci obbliga a riguardarci
tutti come fratelli. Le dissensioni civili, che son tanto nemiche della
Libertà, non trovano forse ostacolo, ne’ suoi precetti, che ci rendono rei
dinanzi al Giudice supremo persino dei temerari giudizi e delle maldicenze, che
lacerano l’altrui fama, non che degli odi covati a lungo nel seno?”
Ad uno
spirito religioso può non bastare di distinguersi dalla società, di starsene da
parte in un mondo tutto suo che, man mano che ci si separa, finisce per
diventare tutto fantasia, sogno, o peggio gioco di ruolo. E’ per questo che
siamo stati mandati nel mondo? Da giovane non avrei sopportato questa
prospettiva, che per altro non mi fu mai proposta, ma neanche da anziano mi ci
adatto. Però ci sono pochi posti in cui vivere un’esperienza civile animata
dalla fede. Uno deve fare da sé. Certe cose non te le spiegano in parrocchia e
nemmeno altrove. Viene tra noi uno come don Ciotti e sembra un marziano, una
persona da un altro mondo. Eppure intorno a lui ci sono tante persone di fede
che condividono la sua esperienza civile.
Da dove
ripartire?
Direi
dai più giovani perché in genere hanno più tempo per la formazione: è il loro
lavoro. Il tempo degli adulti è affollato di tanti altri doveri e ne rimane
poco per qualcos’altro. Oggi i più giovani ci sfuggono forse perché il modo in
cui presentiamo la religione la fa apparire inutile per loro, se non peggio. Il
nucleo di spinta di ogni organizzazione, quello che ne consente la costante
rigenerazione, è costituito dai ventenni/trentenni. Ma non basta che ci siano:
occorre che sappiano lavorare in società, che non la temano, che non ne
diffidino, che arrivino anche ad amarla. Spesso in religione prospettiamo loro
le fosche visioni del futuro che hanno i più anziani, e che anche i nostri
ultimi sovrani religiosi ebbero nella loro vecchiaia. L’immagine di una società
in disfacimento, corrotta, preda del peccato e di pulsioni di morte. Ma non c’è
solo questo intorno a noi.
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64
Condominio o repubblica
C’è una bella
differenza tra un condominio e una repubblica, anche se in entrambi si prendono
decisioni seguendo il metodo democratico.
In un
condominio ci si finisce perché si compra un appartamento e si diventa
proprietari anche di parti comuni, come l’ascensore. Si è scelta una cosa, ci
si serve anche di altre cose, però per queste si è obbligati a
farlo insieme agli altri. Se non ci fossero gli altri sarebbe meglio
o peggio? In fondo si pensa che sarebbe meglio. Non li si è scelti, con loro
bisogna solo condividere l’uso di certe cose. Ma chi li conosce veramente e,
soprattutto, chi li vuole conoscere? Fanno sempre un sacco di difficoltà nelle
decisioni comuni. Spesso hanno abitudini fastidiose e non le vogliono
cambiare. E probabilmente di noi pensano lo stesso.
Una
repubblica nasce quando ci si sceglie tra persone. L’obiettivo comune è creare
una società migliore, in cui si viva meglio, ad esempio in cui nessuno sia
abbandonato alla propria sofferenza. Gli altri sono molto importanti, le cose
molto meno. Ci si cerca perché si vive bene insieme. Al centro di una
repubblica ci sono dei valori: questo significa una certa concezione di
società. E poi la fedeltà a quei valori. Si è disposti a dare molto, anche la
vita, per realizzarli. Uno di essi, molto importante, è l’eguaglianza in
dignità, che significa rifiutare ogni tirannia. Si è sovrani in molti e questo
richiede di essere sovrani giusti, come raramente sono i signori della Terra.
Per diventarlo, giusti, perché raramente lo si è dall’inizio, la
giustizia infatti è una conquista culturale, occorre tener conto degli altri e
innanzi tutto mettersi in relazione, discutere, esaminare insieme le questioni,
i problemi, le soluzioni. Il metodo democratico non comincia quando si decide
che vinca la maggioranza, ma quando si attribuiscono ad
ognuno dei diritti fondamentali che nessuna maggioranza
può ledere. E’ questo che faceva degli antichi sovrani quelli che erano, ciò
per cui li si definiva sacri. Nella democrazia repubblicana ogni
persona è sacra, nel senso che ha diritti intangibili.
Questa è una concezione religiosa perché non dipende da ciò che si trova in un
qualche momento in società, dai rapporti di forze al suo interno, non è
qualcosa che oggi c’è e domani potrebbe cambiare. E non dipende nemmeno da come
vanno le cose in genere: religione è ribellarsi alla tirannia dell’esistente,
che certuni pensano eterno e che invece in una fede viene relativizzato, per
cui si scopre che non lo è affatto, che ha un prima in
cui non c’era e che avrà un dopo in cui non ci sarà più.
Ma c’è qualcosa che non passa? C’è. Dopo ogni incidente della storia ci si
ritrova insieme e si scopre che è ancora bello farlo. Come lo chiamiamo questo?
In religione lo si è definito, con un termine del greco antico, agàpe,
che richiama l’idea di un lieto convito in cui ce ne sia per tutti e nessuno
venga escluso. In italiano lo si traduce in tanti modi, con tante parole, che
però sembrano in genere usurate e quindi poco adatte a rendere l’idea. Repubblica potrebbe
anche andare bene, se però le affianchiamo l’aggettivo universale. Nessuno
escluso.
Alcuni dicono che bisogna cominciare a cambiare sé stessi, per cambiare il
mondo. E seguono vie di perfezionamento. Ma vedo che spesso in questa loro
sforzo di perfezione rimangono poi soli con sé stessi.
Gli esseri umani non sono fatti per essere così.
Questi cammini allora dove portano? Ci si perfeziona,
se uno proprio deve dare importanza a un fatto come questo, nell’agàpe,
crescendo con gli altri. E’ soprattutto il lavoro dei giovani, che da realtà
limitate e limitanti, come in genere sono le famiglie, devono aprirsi all’universale,
a tutto quello che c’è intorno.
Anche
in una parrocchia, come in ogni specie di società, si fa la scelta di
essere condominio o repubblica. Dipende
da che cosa pensiamo degli altri. Che cosa è il sacro per
noi: la statua del santo antico o l’essere umano che vive? La statua la
si condivide al modo dell’ascensore in un condominio,
con l’essere umano si entra in relazione.
La
nostra Cena rituale, con le povere cose che condividiamo, alle quali
però diamo un valore infinito perché ci mettono in relazione
benevolente e universale, non è forse la celebrazione dell’agàpe religiosa?
Farne una realtà condominiale sembra impossibile, eppure
è una via che qualche volta si è seguita, fondamentalmente per il fastidio che
certi altri portano nell’allestimento scenografico. Evocare una realtà universale,
in cui nessuno sia escluso, in cui ognuno sia sacro… Ma non è meglio
essere in meno a condividere, in modo che ce ne sia di più per
quelli che ci sono? Questa è fondamentalmente la ragione politica della
crisi della nostra nuova Europa comunitaria. Ecco allora che si fa molto conto
delle cose e non si ragiona nell’ottica della moltiplicazione,
quella per cui nell’agàpe l’inventario contabile di
ciò che c’è non rende l’idea delle possibilità che ci sono nella benevolenza
universale, di come, quando si fa posto agli altri, poi c’è n’è per tutti e ne
avanzano ceste e ceste, come è scritto. Gente di poca fede, e di poca umanità,
stiamo diventando in Europa. Da dove possono venire le risorse per cambiare? La
nostra fede ne ha molte. Molti dei valori repubblicani europei originano
da essa. L'ideologia fondamentale della nostra nuova Europa è piena dei valori
della nostra fede, quindi la nostra fede può essere una risorsa per
rigenerarla. Se però si riesce a viverla con spirito repubblicano.
Può sembrare paradossale con i tanti prìncipi del clero che ci
portiamo dietro e a cui dobbiamo fare spazio. Ma la loro autorità è cambiata:
ci hanno fatto spazio. Ed è questo spazio che noi laici dobbiamo riempire in
spirito repubblicano e non condominiale.
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65
Fedi omicide
Ci sono
nel mondo di oggi persone che manifestano le loro convinzioni religiose
uccidendo e uccidendosi. Il principale loro bersaglio sono quelli della loro
stessa fede: è tra essi che fanno il maggior numero di morti. L’Europa c’entra
perché è la sua cultura che è criticata: infatti vengono colpiti quelli che
vivono all’europea.
Parlando di questioni culturali,
bisogna dire che condividiamo con altre fedi monocratiche un importante
patrimonio culturale e che in quest’ultimo c’è anche l’antico comando di
sterminio degli infedeli e degli apostati,
quelli che hanno rinnegato la propria fede di prima. Leggiamo pagine tremende
in merito negli scritti sacri originati dall’antico ebraismo. Ma anche parti di
quelli formatisi nelle nostre prime collettività di fede sono stati
interpretati in quel senso nel corso della storia.
Di fatto le nazioni che abbracciarono
la nostra religione si resero responsabili di orrende stragi per ragioni
religiose, che nelle Americhe divennero addirittura genocidio. In Europa ebbero
motivazioni religiose i pogrom, le periodiche persecuzioni
antiebraiche, attuati in Polonia e Russia.
Strumentalizzarono la nostra fede
i razzismi nordamericani e sudafricani. L’organizzazione razzista
nordamericana Ku-Klux-Klan celebrava i suoi delitti con croci
infuocate.
La particolarità della religiosità
omicidiaria contemporanea è l’autoannientamento degli stessi omicidi, in un
quadro di martirio religioso, di testimonianza di fede nella
prospettiva di una ricompensa soprannaturale, in un aldilà. E’ qualcosa di
diverso dal cercare la morte in battaglia. Infatti, di solito, sono colpiti
degli inermi e la morte dell’omicida non è solo una eventualità, ma una
sicurezza, come nel caso di quelli che si fanno esplodere in ambienti
affollati. L’autoannientamento ha ragioni politiche e serve a potenziare
l’effetto terroristico di queste azioni stragiste, ma anche a ostacolare le
indagini, eliminando la possibilità di dichiarazioni dei colpevoli.
La fede, e in particolare una
fede basata sulla cultura biblica, può essere stragista? Poiché di fatto lo è
stata, attraverso i secoli, dobbiamo riconoscere che lo può essere. Perché, in
genere, non lo è più? Perché c’è stata una conquista culturale derivata dai
processi democratici originati in Europa e nel Nord America, per cui si è
riusciti a far convivere pacificamente religioni esclusiviste, le
quali quindi in linea di principio escludono la possibilità di altre fedi.
Questi sviluppi hanno coinvolto entrambe le due maggiori fedi monocratiche del
mondo, ma anche, e da tempi molto più antichi, l’ebraismo. Quest’ultimo, dopo
la distruzione della propria entità politica nel Vicino Oriente e la diffusione
in Europa e in altre parti del mondo, si è trovato a dover convivere con popoli
di altri fedi, e ha sviluppato una corrispondente religiosità.
Quello che emerge dalle stragi di
questi anni, commesse con moventi religiosi, è che con la teologia si può
convincere la gente di tutto, veramente di tutto. E che quindi la teologia ha
molte e serie controindicazioni. Naturalmente serve gente che, per qualche sua
ragione, non è più disposta ad esercitare qullo spirito critico che è la base
della convivenza civile.
In Europa non si uccide più per
moventi religiosi tratti dalla nostra fede, ma ancora si discrimina. Ci si
convince, ad esempio, che la donna è inferiore all’uomo e che ha un destino
servile. O che certe famiglie non sono vere famiglie e non vanno riconosciute
come tali. Bergoglio qualche giorno fa ha detto che dobbiamo chiedere perdono
agli omosessuali, e qualche ragione evidentemente c’è. Si tratta di
discriminazioni su basi teologiche che la teologia non riesce ancora a
superare. L’ultima grande persecuzione motivata da ragioni religiose della
nostra fede è stata quella contro i modernisti, attuata all’inizio del secolo
scorso dal papa Giuseppe Melchiorre Sarto. Fu molto dolorosa. Colpì animi buoni
e di grande valore. Qui la teologia è molto cambiata.
Nel mondo contemporaneo, in cui
vive un numero di gente enormemente superiore che nel passato e in cui ci siamo
intensamente legati gli uni con gli altri nei processi economici, è
indispensabile che le religioni convivano pacificamente. Esse sono necessarie
per conservare l’umanità del nostro vivere, ma a condizione che nessuna
pretenda l’esclusività. Altrimenti diventano disumane e fanno vivere male.
Uccidono. La soluzione è di promuovere di generazione in generazione quel
processo culturale per cui in concreto esse possono convivere. Significa
accentuare i processi democratici, secondo i quali la persona umana ha diritti
fondamentali intangibili, che ruotano intorno al diritto alla vita. E’ l’antico
comandamento Non uccidere! che in democrazia viene preso molto sul
serio, tanto che, ad esempio, nella nostra nuova Europa non c’è più la pena di
morte. E poi costruire e sostenere, nella gente, con un’adeguata
formazione e anche in sede religiosa, la capacità critica, per cui, ad esempio,
si riesca a distinguere in eventi come quelli del Bangladesh i loro veri
moventi, al di là della paccottiglia ideologica religiosa che li riveste. E’
quello che facciamo nella nostra fede accostando il tema storico delle Crociate.
Gli assassini vogliono farci
odiare gli uni gli altri, è stato osservato da più parti in questi giorni: la
giusta reazione quindi non è quella di odiare, perché sarebbe fare quello che
quelli vogliono da noi, ma di attuare e intensificare forme di convivenza
pacifica tra genti di fedi diverse. Nel mondo di oggi è possibile e in genere
accade: gli odiatori religiosi sono sparute minoranza, ormai, per nostra buona
sorte.
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66
Le religioni e il tribunale della coscienza e della ragione
(16 luglio 2016)
Solo da quale decennio la nostra
religione ha aderito alla cultura della pace universale, e ora ci sembra
assurdo che potesse essere altrimenti. Ma non lo è.
Storicamente la nostra religione è
stata mortifera quanto, e, al tempo della sua diffusione mondiale, addirittura
molto più delle altre religioni coeve. Condivide un importante patrimonio
culturale con le altre principali religioni monoteistiche e in esso vi è il
germe della violenza stragista. L’ebraismo della nostra era lo ha superato, al
tempo della sua dispersione tra le genti, e ha costituito un buon esempio di
come farlo. Noi ci abbiamo messo molto più tempo, essenzialmente perché
la nostra fede è diventata e rimasta a lungo strumento di potere, e potere
e violenza sono strettamente legati.
I grandi principi umanitari che
costituiscono il nerbo dell’etica sociale e politica dell’Occidente
contemporaneo furono proclamati, a fine Settecento, nel corso di due
rivoluzioni, quella nord americana e quella francese, che espressero una
notevole violenza, in particolare la seconda. Eppure quei principi condussero
alla cultura dei diritti fondamentali della persona e al rifiuto della violenza
pubblica, compresa la pena di morte, della nostra nuova Europa. Occorse però il
bagno di sangue della Seconda guerra mondiale per produrre questo risultato.
Con la laicizzazione delle istituzioni pubbliche le religioni cessarono, in
Occidente, di costituire fattore di ordine pubblico e furono liberate dalla
loro violenza. Nella nostra religione, i teologi ci spiegarono come fare per
vivere la fede in modo molto diverso dal passato e, innanzi tutto, che si
poteva, e anzi si doveva farlo. E’ il processo che venne denominato purificazione
della memoria. E’ pur vero, però, che, anche ai nostri tempi,
dobbiamo riconoscere, come scriveva Aldo Capitini, che solo ieri
eravamo violenti.
Sarebbe bello constatare che il
rifiuto della violenza si sia prodotto storicamente per virtù propria
della nostra religione, ma purtroppo non avvenne così. Gli strumenti della
violenza ci dovettero essere strappati dalle mani, dagli stati liberali, e non
di rado ne esprimiamo anche una certa nostalgia.
Ci stupisce la violenza collettiva
a sfondo religioso espressa nel Vicino Oriente e la pretesa di altre religioni
monoteistiche di monopolizzare le religioni dei popoli, di ridurre tutte le
altre fedi a culti tollerati (nel migliore dei casi) o di
annientarle (nei casi limite): ma questa è stata anche la nostra cultura fino
all’altro ieri e ciò fin dalle origini. Ci vantiamo di essere stati, nei tempi
antichi, distruttori di idoli, ma in realtà questo significa essere stati
persecutori religiosi. La distruzione stragista del soprannaturale altrui fu
eclatante nella colonizzazione europea della Americhe.
La violenza per sottomettere le
donna e quella contro gli omosessuali fanno parte della nostra cultura
religiosa, delle nostre radici bibliche, e infatti ciclicamente si manifestano
ancora tra noi.
Chi oggi prenderebbe alla lettera
il comando biblico di sterminare gli infedeli? Eppure a lungo lo si è fatto, ad
esempio nella distruzione delle culture native americane e nelle guerre di
religione europee.
Sulla via del contrasto della
violenza bellica ebbe i suoi guai il nostro Lorenzo Milani, nella sua polemica
contro i cappellani militari italiani che avevano trattato da vili gli
obiettori di coscienza. Si era, appunto, nell’altro ieri della
nostra storia religiosa.
Per gran parte dei due millenni
della nostra storia religiosa si è stati convinti che in guerra un qualche dio
fosse con noi, nel mentre facevamo a pezzi gli altri. Lo stesso che avrebbe
dato una ricompensa eterna, in un qualche suo paradiso, ai morti sul campo di
battaglia. Questo fu appunto lo spirito penitenziale con cui
si affrontarono storicamente le “crociate”.
Si insegna, in religione, che la
nostra è un fede che ci porta oltre la morte: sicuramente la nostra religione è
stata utilizzata per contenere la paura della morte, specialmente in battaglia.
L’etica del milite europeo è stata, molto a lungo, anche religiosa.
Oggi ci definiscono “crociati”, ma
è solo perché non ci conoscono bene. La nostra buona battaglia religiosa
non è più quella della guerra. Abbiamo imparato la lezione di uno come Immanuel
Kant che consigliava la pace perpetua e invitava a vergognarsi
della vittorie belliche. E allora c’è una vecchia religione
che abbiamo abbandonato e una nuova religione alla quale
e nella quale ci siamo aperti. Nella violenza con pretesti religiosi di questi
giorni vediamo allora noi stessi come eravamo solo l’altro
ieri.
Ad un certo punto abbiamo portato
la nostra religione davanti al tribunale della coscienza e della ragione e ci
siamo ritrovati noi stessi sul banco degli imputati: la religione era solo lo
specchio di noi stessi, di come volevamo essere.
In un’umanità di otto miliardi di
persone, strettamente interconnessa, per cui quasi tutti gli oggetti di nostro
uso quotidiano vengono prodotti dall’altra parte del globo, è ancora
ammissibile poter sostenere lo sterminio degli infedeli, e tante altre
cose della vecchia religione? Ad esempio tutto il
sessismo che troviamo nelle nostre scritture, per cui un certo pluralismo in
questo campo provocherebbe l’ira soprannaturale, lo sterminio, la pioggia di
fuoco e simili. Non è, questa concezione, una bruttura solo degli altri,
è anche nostra. E’ solo l’altro ieri che una donna non poteva
entrare in chiesa senza coprirsi il capo.
Questo portare la religione, e noi
stessi, davanti al tribunale della coscienza e della ragione è il secolarismo.
Benedetto secolarismo se ci ha portato la pace, se ha tolto la violenza alle
religioni, quella che di questi tempi ci si scaglia addosso provenendo da un
medioevo che si manifesta in mezzo a noi e dall’altra parte del nostro piccolo
mare! Ricordiamo che anche noi fummo così, solo l’altro ieri.
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67
La Nazione
Nella
Costituzione vigente si fa riferimento al concetto di nazione in tre punti, e
in due di essi si parla di "Nazione", con l'iniziale maiuscola. È
scritto che i "parlamentari" (deputati e senatori) rappresentano la
"Nazione" (art.67). I pubblici impiegati sono al servizio della
"Nazione" (art.98). Il Presidente della Repubblica rappresenta l'
"unità nazionale" (art.87).
Che cosa è la "Nazione"?
La Costituzione non lo precisa. Non c'entrano lingua, stirpe e religione,
perché esse non possono essere fattori di particolare connotazione della
Repubblica: lo stabilisce L'art.3 della Costituzione. Di ciò che in genere, in
campo culturale, si ritiene definire la nazione, rimane una storia comune, che
significa anche una consuetudine di vita comune, di convivenza pacifica, in
particolare sotto il profilo politico, e solidarietà civile.
La storia della nostra costruzione
nazionale è stata particolarmente travagliata. Si dovettero combattere anche
resistenze politico/religiose, perché essa si fece anche contro il papato,
nell'Ottocento. Fatta l'Italia, si dovettero fare gli italiani, come fu
osservato. Da un certo punto di vista, l'Italia unita, politicamente
organizzata intorno alla monarchia Savoia, era fatta di tante nazioni, ciascuna
con una propria storia particolare, una propria lingua e una propria cultura.
L'Italiano era solo lingua letteraria. I Re Savoia parlavano correntemente
francese e piemontese. La gran parte della gente era analfabeta e quindi
confinata nelle culture particolari. Nella storia d'Italia, quindi, quando ci
riferisce alla Nazione, si intende una realtà che si è venuta costruendo
nell'arco di circa un secolo tra Ottocento e Novecento, in particolare sulla
base dell'ideologia politica di Giuseppe Mazzini. Nazione significa gente che
volle vivere insieme, per non essere "calpesti e derisi", e lo
eravamo perché non eravamo popolo, perché eravamo divisi, proprio come si canta
nell'inno nazionale. L'unità culturale italiana fu conseguita però, veramente,
solo nel secondo dopoguerra, in particolare per le vie dell'istruzione pubblica
di massa e di radio e televisione. È a partire da questa epoca che veramente la
Nazione si manifestò. Ed è significativo l'abbandono dei progetti
secessionistici che ebbero corso negli anni Novanta. Cercarono di parlare ai
popoli ma tra i popoli italiani ebbero un limitato seguito.
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68
Degrado della politica ed eclisse del Parlamento
(3-11 agosto 2016)
68.1. Nel corso dei passati anni '90 si cominciò a presentare il Parlamento
come un'istituzione troppo affollata, inutilmente complicata, troppo lenta nel
decidere, troppo costosa, e i parlamentari come un ceto parassitario. La
ragione può essere individuata nel degrado della politica che si era
manifestato nel corso del decennio precedente. Esso era dipeso fondamentalmente
dalla degenerazione della politica controllata dai partiti, che si presentarono
platealmente, nel corso di inchieste giudiziarie svolte con una certa
sistematicità dal 1992, come minati dalla corruzione. Essi infatti avevano
preso a finanziarsi pretendendo una quota del denaro pubblico erogato per
appalti pubblici da chi aveva assunto gli appalti. E influivano sulla scelta
degli appaltatori, facendo preferire illegalmente quelli che avevano accettato
di versare quel tributo. I partiti avevano preso consapevolezza di questi fatti
molto prima che emergessero in sede giudiziaria: all'inizio degli anni Ottanta
si iniziò a parlare di " questione morale" e si faceva riferimento
proprio al fatto che i partiti avevano iniziato a controllare a proprio
beneficio, non nell'interesse pubblico, ogni settore della vita nazionale in
cui venivano spese risorse pubbliche.
Ma la corruzione pubblica non fu
l'unica ragione del degrado. Un'altra può essere individuata nella dissoluzione
del sistema sovietico, a cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90, e nella
contemporanea metamorfosi del Partito Comunista Italiano, che attenuò le
istanze critiche verso la società di quel tempo. La presenza in Italia del più
forte partito comunista dell'Occidente democratico era stata storicamente un
potente stimolo, nel secondo dopoguerra, alla costituzione e mantenimento di
partiti politici forti e strutturati che gli si opponevano, cercando in
particolare di contendergli l'influsso sui lavoratori. La presenza
dell'opposizione comunista, con la sua ideologia fortemente centrata sui temi
della giustizia sociale e sulla riforma dello stato nel senso della piena
attuazione dei valori e principi costituzionali, con la sua critica politica
irriducibile, colta, perseverante, avevano indotto i partiti che ai comunisti
si opponevano a tener conto di coloro che nella società stavano peggio e a una
più attenta selezione del ceto politico ammesso a occuparsi in Parlamento degli
affari di stato. Il partito originato dalla riforma di quello comunista non
ebbe lo stesso effetto, perché si comincio a pensare che il capitalismo di tipo
statunitense e la società da esso prodotta non avessero alternative. Si scrisse
addirittura di una " fine della storia". In Italia l'idea di
sviluppo sostituì quella di giustizia sociale, che era stata alla base delle
ideologie dei partiti popolari. Lo sviluppo divenne faccenda da tecnocrati e le
basi sociali dei vecchi partiti di massa un ostacolo. I neo-partiti del nuovo
corso tesero a ricostruirle come comitati elettorali e non ne curarono più la
formazione politica. I movimenti laicali cattolici furono tra le poche
formazioni sociali a continuare a occuparsene sulla base dell'esteso corpo
ideologico della dottrina sociale e del pensiero sviluppato nelle università
religiose.
Che c'entrano i partiti con il
Parlamento? La loro occupazione del Parlamento non è all'origine del
progressivo minor credito dell'istituzione tra la gente?
In realtà, nel sistema
istituzionale disegnato nella Costituzione repubblicana entrata in vigore nel
1948, approvata dall'Assemblea Costituente nel 1947 al termine dei suoi lavori
svolti dalla metà del 1946, il nesso tra partiti politici e Parlamento era
fondamentale per realizzare la sovranità popolare, quindi un sistema politico
in cui le masse avessero voce in capitolo sulle sorti dello stato. Infatti il
popolo che i costituenti vollero elevare alla sovranità non era composto da
individui atomizzati, ma da collettività politiche organizzate nei partiti,
attraverso i quali i cittadini avrebbero potuto/dovuto concorrere a determinare
la politica nazionale (come è scritto nell'art.49 della Costituzione). Ed erano
stati infatti i partiti politici a organizzare la guerra di Resistenza contro
l'ultimo fascismo, dal settembre 1943, a riorganizzare le basi collettive e
ideologiche della politica democratica nel corso di quella lotta e, infine, a pretendere
la guida dello stato dopo la caduta del regime e a progettarne la riforma Anche
le basi culturali e giuridiche del nuovo stato democratico erano state ideate e
proposte in seno ai partiti.
Il faticoso processo di
elevazione del popolo alla cittadinanza democratica si era anche prima espresso
nei partiti di popolo, fin dalla seconda metà dell'Ottocento. Per i partiti di
popolo, che si proponevano di organizzare politicamente le masse, il metodo
democratico fu una conquista culturale, da un'iniziale diffidenza, determinata
dal fatto che la democrazia liberale che aveva realizzato l'unità nazionale era
stata un fatto elitario, essenzialmente espressione di una borghesia
illuminata, in una situazione in cui il diritto di voto era attribuito a meno del
10% della popolazione.
Il primo grande partito politico
di massa italiano fu oggettivamente, al di là delle formali prese di distanza,
la Chiesa cattolica e fu inizialmente antidemocratico. Questo segnò profondamente la
storia nazionale. L’accettazione dell’ideologia democratica da parte della
Chiesa cattolica, nella vita civile e, cautamente, anche nelle organizzazioni
laicali, maturò tra il 1941 e il 1991.
68.2. La crisi dei partiti
politici italiani ha portato ad un degrado della politica.
L'affermazione della democrazia
di popolo fu storicamente legata in modo molto stretto all'affermazione dei
partiti di massa e alla conquista culturale, da parte di essi, dei principi
democratici. Quest'ultima si manifestò in particolare nel lavoro parlamentare, che
determinò la formazione di una classe politica di derivazione popolare e al
popolo collegata in maniera vitale.
Il primo partito politico italiano
popolare, di massa, può essere considerato, sotto certi aspetti, la Chiesa cattolica, naturalmente intesa come
realtà di rilevanza sociologica, non nei suoi aspetti soprannaturali descritti
dalla teologia. Questa realtà politica della nostra Chiesa ci interessa
particolarmente come fedeli e cittadini italiani.
Bisogna ricordare che la Chiesa
cattolica ha cominciato a sviluppare un pensiero propriamente politico molto
precocemente, fin dal primo secolo della nostra era. Proprio Clemente romano, a
cui è intitolata la nostra parrocchia, ne fu una delle fonti. Successivamente,
dal Sesto secolo circa, la Chiesa cattolica divenne una attrice propriamente
politica e dall'Undicesimo secolo un soggetto politico sovrano, non più
feudatario di altre entità politiche. Tuttavia, fino alla metà dell'Ottocento,
agì politicamente al modo delle altre monarchie europee, trattando i popoli
solo come un insieme di sudditi e valendosi della sua autorità sacrale per
accreditare le proprie gerarchie in politica. Dall'Undicesimo secolo si
strutturò giuridicamente come un impero politico/religioso e questa
configurazione è quella che fondamentalmente ha e rivendica ancora oggi, pur
dopo le molte riforme che si è data con il Concilio Vaticano secondo
(1962-1965). Ha cominciato ad agire politicamente come un partito di massa in
concomitanza con la conclusione del processo di unificazione nazionale italiano
e più precisamente tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta dell'Ottocento,
quando la gerarchia del clero si rese conto che non avrebbe recuperato il suo
piccolo regno nell'Italia centrale, con capitale Roma, appoggiandosi agli altri
sovrani europei. A quel punto diede il via libera all'attivismo sociale del
laicato di fede italiano, che già si era venuto organizzando spontaneamente per
sostenere le pretese politiche del Papato. Tuttavia i papi accentrarono nelle
loro mani la direzione politica di quello che rapidamente assunse forma di
movimento di massa: essi divennero sostanzialmente i capi del primo partito
politico di massa, diffuso capillarmente sul territorio, che ebbe nell'Opera
dei Congressi, fondata nel 1871, praticamente all'indomani della caduta del
Regno pontificio, la sua centrale di coordinamento nazionale e nel socialismo
molti riferimenti ideali quanto a giustizia sociale e modi di intervento a
favore delle masse. L'enciclica "Le novità", del papa Gioscchino Pecci,
Leone 13°, diffusa nel 1891, fu il suo
manifesto ideologico. Essa è tutta in polemica con il socialismo, ma ne recepì,
dando loro una copertura teologica, molti degli ideali. In particolare diede il
via libera all'attivismo sociale nelle masse con finalità di elevazione
sociale.
Altri partiti di massa furono il
Partito socialista, fondato nel 1892, il Partito Repubblicano, di ideologia
mazziniana, fondato nel 1895, e, più tardi, quando finalmente il Papato rimosse
il divieto per i fedeli cattolici di partecipare alla politica nazionale
nell'attività parlamentare, il Partito Popolare Italiano, fondato dal prete don
Luigi Sturzo e da altri esponenti cattolici nel 1919. Nel 1921 vennero fondati
il Partito Comunista Italiano e il Partito Nazionale Fascista, entrambi collegati
all'esperienza socialista, in quanto il primo originò per scissione dai
socialisti e il secondo ebbe in Benito Mussolini, che era stato uno dei massimi
esponenti del socialismo italiano, il suo "Duce", vale a dire
il capo supremo carismatico. Nel corso della Seconda guerra mondiale, nel 1942,
sulla base dell'esperienza del Partito Popolare e di quella dei giovani
intellettuali cattolici formatisi alla democrazia negli anni del fascismo, in
particolare nella FUCI (gli universitari cattolici), nel Movimento
Laureati e nell'Università Cattolica di Milano, fu fondata la Democrazia
Cristiana, la quale ebbe in Alcide De Gasperi uno dei suoi principali
esponenti. Infine, nel 1946, esponenti del disciolto Partito Nazionale Fascista
fondarono il Movimento Sociale Italiano, partito che ebbe un seguito
popolare significativo, in particolare a Roma dove fu a lungo il terzo partito
cittadino, e che, pur nell'accettazione dei principi istituzionali e dei metodi
della nuova democrazia repubblicana, riproponeva alcuni temi del fascismo
storico, in particolare l'anticomunismo, il nazionalismo, la preferenza per un
Governo nazionale forte e accentratore, un certo militarismo, un'etica sociale
basata sul principio gerarchico, un'etica familiare maschilista e paternalista,
un ordinamento sindacale ispirato al corporativismo, che escludesse quindi il
conflitto sociale tra lavoratori e datori di lavoro.
Ecco dunque descritti i principali
attori dei processi democratici dai quali, dalla metà degli anni Quaranta del
secolo scorso, originò la nostra democrazia repubblicana popolare, centrata sul
Parlamento, quella che bruscamente entrò in crisi all'inizio degli anni
Novanta.
68.3. La politica italiana è entrata in
crisi negli scorsi anni '70.
Nel secondo dopoguerra si era
prodotto in Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta, un lungo periodo di
espansione economica basato su due fattori: il basso costo dell'energia e del
lavoro. Questo aveva favorito il varo di una estesa normativa di carattere
sociale a favore della popolazione meno ricca. Essa rientrava nei programmi sia
del partito egemone, la Democrazia Cristiana, ispirati alla dottrina sociale
della Chiesa, sia in quelli di socialisti e comunisti. Questo produsse anche
movimenti di rivendicazione sociale per ottenere ulteriori miglioramenti. Le
tensioni sociali giunsero al culmine nel corso degli anni '70, quando un
improvviso aumento dei prezzi del petrolio come ritorsione degli stati arabi
per la questione palestinese indusse una lunga crisi economica. Furono anni colpiti
da fatti di terrorismo politico gravi e ripetuti. In questo periodo i partiti
di governo iniziarono a contrattare il consenso sociale a fronte di provvidenze
a varie categorie. Il governo all'epoca aveva un largo margine d'azione in
quanto, direttamente o partecipando al capitale azionario di società d'impresa,
controllava larga parte dell'economia. E non aveva i limiti di bilancio imposti
oggi dalla partecipazione all'Unione Europea. Lo scontro politico si fece meno
ideologico, anche per l'evoluzione in del Partito Comunista Italiani, che
proprio in quegli anni prese una posizione molto più autonoma dai partiti
comunisti dell'Europa orientale. Questo però fece degenerare la politica,
perché le varie categorie cominciarono a ragionare in termini di tornaconto
particolare invece che di interessi nazionali. Si produsse una "crisi di
legittimazione" della politica e una conseguente " crisi di
governabilità". Mio zio Achille, sociologo bolognese, ne trattò in un
libro del 1980 intitolato "Crisi di governabilità e mondi vitali". I
"mondi vitali" sono quelli che forniscono alle persone il senso della
vita, ad esempio le famiglie o le comunità religiose, ma anche alcune
collettività politiche. Mio zio vedeva nella crisi di queste realtà di mondo
vitale la causa della perdita di senso della politica, che quindi doveva
"comprare" il consenso politico a costi crescenti e insostenibili. La
soluzione alla crisi della politica era quindi per lui sostenere quei mondi
vitali, innanzi tutto con un lavoro di formazione e di sostegno. Per altri la
soluzione giusta era invece quella di consentire al governo di non dover più
"contrattare" il consenso politico, attribuendo un maggiore potere a
chi alle elezioni fosse risultato preferito, un potere non più "proporzionale"
al suo "peso" elettorale. Chi vinceva alle elezioni doveva avere
garantita la maggioranza parlamentare che lo sosteneva, fino alla tornata
elettorale successiva. Tutti i progetti di modifica istituzionale della
politica abortiti o approvati dagli anni '80 sono andati in questo senso. La
proposta di mio zio fu seguita dalla Democrazia Cristiana agli inizi degli anni
'80 cercando di coinvolgere in un nuovo progetto di riforma sociale la base
cattolica, ma questa iniziativa non ebbe successo, venendo penalizzata alle
elezioni politiche, per la ragione che nel frattempo il partito aveva virato a
destra, laicizzandosi molto, e le realtà sociali cattoliche faticavano a
riconoscersi in esso.
Negli
anni della Repubblica democratica, caratterizzati da intensi scontri ideologici
e politici, il Parlamento, con le sue due Camere, ha fatto il lavoro che ci si
attendeva, vale a dire ha garantito la stabilità democratica, nella progressiva
attuazione della Costituzione, pur nel veloce mutare dei governi in carica. Il
sistema fu "bloccato" fino all'inizio degli anni Novanta, in quanto i
partiti che si riconoscevano nell'ideologia dell'Occidente democratico e
capitalista avevano convenuto di lasciare il Movimento Sociale Italiano, per i
suoi legami culturali con il fascismo storico, e il Partito Comunista Italiano,
per quelli con l'Unione Sovietica, fuori delle coalizioni di governo.
Tuttavia il lavoro parlamentare aveva consentito di accogliere,
traducendole in norme di legge, alcune istanze di giustizia sociale dell'opposizione
comunista e di dare comunque voce a quella "missina" ( come venivano
chiamati gli aderenti al Movimenti Sociale Italiano). E questo rispondere alle
attese aveva riguardato anche il Senato, che aveva svolto il ruolo di Camera
"alta" che gli era stato proprio di dalla sua istituzione nel Regno
Sabaudo, nel 1848. In una società che non era ancora invecchiata come
l'attuale, il solo fatto che i suoi membri fossero almeno quarantenni aveva
garantito quella maggiore riflessività e ponderazione che ci si aspetta dagli
anziani. Ma non era stato solo questo: i partiti politici, nello scegliere i
candidati, vi avevano mandato le loro persone più autorevoli. La presenza, come
membri di diritto, degli ex Presidenti della Repubblica, e quella dei cittadini
nominati da questi ultimi per avere "illustrato la Patria" aveva
rafforzato questa immagine. Insomma, almeno fino agli inizi degli anni '90, il
Senato non apparì assolutamente come una istituzione inutile, come è stata
presentata dai fautori della riforma costituzionale respinta nel 2016 mediante
un referendum popolare, anche se i
costituzionalisti, fin dai tempi della Costituente, consigliavano di
specializzarne le funzioni in modo che non fosse un puro e semplice
"doppione" della Camera dei deputati. In effetti il Senato non lo fu
mai, almeno fino agli anni Novanta, quando si manifestò la politica come ora la
viviamo, l'epoca di quella che venne chiamata "Seconda Repubblica",
che è quella in cui caddero tutte le preclusioni di un tempo all'accesso al
governo di certe forze politiche e, nel medesimo tempo quella in cui la
politica parlamentare, paradossalmente, iniziò ad essere considerata una perdita di
tempo.
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69
La sfida
della pace
(21 febbraio
2016)
L’idea di una pacifica convivenza
tra i popoli a livello mondiale è recente e origina nelle culture più
fortemente improntate dalla nostra fede religiosa, dal secondo dopoguerra.
Fondamentale fu l’esperienza storica dei totalitarismi politici e ideologici
europei dal primo dopoguerra, diffusisi in popoli di antica civiltà religiosa.
La fede religiosa non sembrò aver costituito un ostacolo insuperabile alle
divisioni e ai conflitti, anzi il più delle volte vi fu coinvolta. Un esempio
spettacolare di ciò si ebbe durante il regime mussoliniano, in Italia, con il
quale la nostra gerarchia religiosa, ma non tutta la gente di fede, accettò di conciliarsi.
Lo stradone in stile cimiteriale che celebra quell’evento, e che fu realizzato
distruggendo un antico quartiere popolare e deportandone gli abitanti, ne è
ancor oggi l’immagine: la larga via che all’epoca fu aperta portava al regime
mussoliniano e la Conciliazione con il papato fu senz’altro uno dei
maggiori successi politici e ideologici del fascismo italiano. Con il senno del
poi dobbiamo riconoscere che può dirsi l’opposto per il papato, anche se la
sistemazione politica che fu data all’epoca vige tutt’oggi. La nuova via della
pace ha avuto anche il senso di una conversione in
senso religioso.
La novità delle concezioni contemporanee
sulla pace diffuse in Occidente è che esse non prevedono l’assimilazione dei
popoli in un’unica fede o in un’unica ideologia, ma si propongono la convivenza
delle diversità. Questo è stato il punto debole della nostra bimillenaria
esperienza di fede.
Se leggiamo storie delle nostre
collettività religiose risalenti ancora alla metà degli anni Sessanta le
troviamo viziate da un’incredibile faziosità, secondo la sensibilità
contemporanea naturalmente. Quelle cattoliche sono in genere veramente ossessionate
dal tentativo, realisticamente piuttosto difficile, di far risalire
l’organizzazione del papato imperiale del secondo millennio ai
primi secoli della vita delle nostre collettività religiose.
Studiando i libri di storia
religiosa si capisce perché la materia in essi trattata non è utilizzata, in
genere, nella formazione religiosa comune, quella rivolta a tutti e non alla
particolare cerchia degli specialisti o dei preti e religiosi. Innanzi tutto è
piena di polemiche durissime delle quali oggi è arduo capire l’importanza per
la vita di fede. E’ poi esprime una violenza ideologica e verbale, ma anche
fisica che è intollerabile con la mentalità di oggi.
A partire dal Quinto secolo
i gerarchi religiosi latini si separarono da quelli di cultura greca, derivati
dalle nostre più antiche collettività religiose, su questioni attinenti alla
persona del Fondatore che vennero presentate in modi oggi (ma anche all’epoca)
accessibili solo agli specialisti. Che riflesso potevano aver avuto sulla vita
della gente comune? Davvero i popoli che aderirono alle concezioni
ritenute errate dai gerarchi romani erano cattivi? Durante diverbi
tra gerarchi religiosi su quelle questioni, nel 449 a Efeso, una città di
civiltà greca sulle coste mediterranee dell’attuale Turchia, il vescovo di
Costantinopoli Flaviano fu picchiato e morì poco dopo.
Ai tempi nostri l’argomentare dei
teologi, almeno quando si rivolgono alla gente comune, è diverso. Si ragiona
sull’esperienza comune per poi spiegarne il senso religioso. Ha maggiore
importanza l’antropologia, la questione di come viene considerato l’essere
umano nelle sistemazioni ideologiche che vengono proposte. Questo modo di
procedere ha portato a un riavvicinamento con culture religiose della nostra
stessa fede dalle quali ci si era separati. Questo è avvenuto con le
collettività religiose che si sono riorganizzate sulla base dei principi
religiosi proposti da Lutero, Calvino e altri riformatori religiosi del secondo
millennio. Con i greci, i popoli di cultura ellenistica dai quali
ci si è separati molto prima, c’è la difficoltà che le loro antiche
collettività in Oriente sono in gran parte finite sommerse, sovrastate,
dall’altra grande fede monoteistica diffusa in quelle regioni a partire dal
Settimo secolo. Si cerca allora di riconciliarsi con
i loro eredi, con l’ortodossia dell’Europa orientale e si scopre che non
ci dividono da essa questioni di fede veramente fondamentali, ma essenzialmente
l’assetto istituzionale imperiale del papato romano che fu dato nel basso
medioevo. Ma è soprattutto la pacifica coesistenza nelle stesse nostre città
con quelli delle altre confessioni a fare la differenza dal passato. Si scopre
che si può vivere insieme, conoscendosi si finisce per stimarsi, e allora tutti
gli arzigogoli teologici si appianano. In Italia molte chiese ortodosse hanno
sede in chiese concesse dai vescovi cattolici perché non più utilizzate.
Anticamente la gente comune
rimaneva a fare da spettatrice a certi azzuffamenti teologici e gerarchici. Era
un po’, ma non sempre, nello stato di gregge. Nel secondo millennio
è stato diverso. Le spiritualità nuove prorompevano dalla gente comune e i capi
religiosi faticavano a venirne a capo. La scoperta, in Occidente nel
Quattrocento, della stampa tipografica mise la cultura religiosa alla portata
delle masse. Stiamo vivendo una rivoluzione analoga con il WEB, il trattamento
telematico delle informazioni consentito dalla rete internet e dalla sua
interfaccia sugli schermi dei nostri computer, organizzata in modo da essere
accessibile anche ai bimbi più piccoli. Questa possibilità di renderci conto
dei problemi ci responsabilizza molto. Siamo spinti ad uscire dallo stato di
gregge e abbiamo gli strumenti per farlo. In un certo senso la nostra nuova
Europa si fonda su questa nuova realtà. Le divisioni che oggi la minacciano
interpellano i suoi popoli. Essi hanno imparato a convivere e a conoscersi. E’
più difficile rinchiudersi nell’egoismo del passato e fondare partiti del Noi
soli. Anche i capi politici nazionalisti, che spingono per la chiusura
della frontiere, paradossalmente creano internazionali politiche. E’
lo stesso anche per le questioni in materia di fede. Certe forme di
spiritualità non soddisfano più e, soprattutto, non servono più.
Parlare di pace, come oggi la
intendiamo, è facile e anche bello, realizzare la pace è molto più difficile,
anche in religione. La vita nelle parrocchie lo dimostra. A volte la
coesistenza tra le loro componenti è piuttosto precaria. A volte si ricade nei
vizi delle origini, nella brutta abitudine di lanciarsi anatemi, vale a dire
scomuniche, senza avere nemmeno, tra l’altro, il potere giuridico. E questo
anche se la gente della nostra fede, dal secondo dopoguerra, ha mostrato molti
modi perfare pace e l’Europa contemporanea, pur con tutti i suoi
attuali problemi, ne è la dimostrazione.
Joseph Ratzinger qualche anno fa
diffuse un’enciclica la Carità nella Verità (2009) in
cui affrontò sostanzialmente la questione se venga prima la carità,
il fare il bene agli altri, o la verità,
il dire cose coerenti con il patrimonio di fede,
entrando in una inedita polemica con il suo predecessore Giovanni Battista
Montini, il quale nell’enciclica Lo sviluppo dei popoli (1967)
aveva lanciato un forte appello a tutte le persone di buona volontà a fare il
bene, affermando che lo sviluppo è il nuovo nome della pace,
anche in senso religioso.
Certe questioni noi laici di fede
possiamo tranquillamente lasciarle ai teologi di professione, come lo stesso
Ratzinger è stato per gran parte della sua vita.
La mia opinione è che ci si
debba concentrare, noi che non siamo teologi, sulla faccenda del fare
il bene, e innanzi tutto nel volersi bene, nel fare
pace come oggi lo si intende, comprendendo in quell’azione anche
lo sviluppo dei popoli e delle singole persone, per poi
cercare il senso religioso del bene che ci è riuscito di fare, quindi non
ragionando sulle sole intenzioni ma sui risultati ottenuti.
Nella questioni di fede, infatti, è vero che, come si dice, tra
il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
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70
Impegno civile come attività religiosa
(3 gennaio 2015)
Claude Lévi-Strauss, il più grande
antropologo culturale dei nostri tempi, ha affermato in “Tristi tropici”, che
in tutta la storia umana, solo due sono state le strategie impiegate allorché
si è dovuto risolvere il problema diversità altrui: una è stata la strategia
“antropoemica”, l’altra la strategia “antropofagica”.
La prima consisteva nel
“vomitare”, nello sputar fuori gli altri, considerati come esseri
incurabilmente estranei e alieni, nel vietare il contatto fisico, il dialogo, i
rapporti sociali e qualsiasi tipo di«commercium» [=relazione di mutuo scambio],
commensalità o«connubium» (=alleanza basata su una relazione
affettiva profonda).Varianti estreme di questa strategia “emica” sono oggi,
come sempre, l’incarcerazione, la deportazione e la soppressione fisica. Sue
forme aggiornate, “raffinate” (modernizzate) sono la separazione spaziale, i
ghetti urbani, l’accesso selettivo agli spazi.
La seconda strategia consiste in
una cosiddetta “disalienazione” delle sostanze estranee:
nell’«ingerire», «divorare» i corpi e gli spiriti estranei in modo
da renderli , attraverso il metabolismo, identici e non più distinguibili dal
corpo che li ingerisce. Tale strategia assunse una parimenti varia gamma di
forme, dal cannibalismo all’assimilazione forzata: crociate culturali, guerre
dichiarate ai costumi, calendari, culti, dialetti e
altri «pregiudizi» e «superstizioni» locali. Se la prima categoria
mirava all’esilio e alla distruzione degli “altri”, la seconda puntava
all’annullamento o distruzione della loro “diversità”.
[da: Zygmunt Bauman, Modernità
liquida, Laterza, 2011 (opera edita per la prima volta in Gran
Bretagna nel 2000]
Sono nato, sono cresciuto e mi
sono formato in un ambiente religioso che dava molto importanza all’impegno
civile, inteso come il partecipare alla collettività politica per costruire
la città dell’uomo(espressione risalente a Giuseppe Lazzati,
1909-1986), vale a dire una società benevola verso tutti gli esseri umani. In
una società pluralistica come quella in cui siamo immersi l’impegno civile
richiede di essere democratico, vale a dire aperto al dialogo e alla
collaborazione con chi su molte cose la pensa diversamente ma è unito a noi
dalla comune umanità.
A volte però, in religione, si ritiene che il metodo del dialogo sia
inutile e anche controproducente, perché potrebbe portare a contaminazione. Per
reagire alla diversità altrui, vengono impiegate entrambe le tecniche sunteggiate
da Lévi-Strauss: l’esclusione e l’assimilazione.
Da un lato si costruiscono
frontiere ideologiche strettamente presidiate e isolate dal contesto sociale
intorno. All’interno, salvo che nel ruolo di semplice consumatore di
servizi religiosi, è ammesso solo chi accetta la conformità di pensiero, o,
almeno, si impegna a non contestarla, per amore di pace, come si dice. D’altro
lato, chi è ammesso all’interno viene esortato a farsi digerire, assimilare,
divenendo parte di una collettività di uguali,
in cui è abolita ogni diversità (e quindi la necessità di un vero e franco
dialogo), e in cui questa uguaglianza è realizzata mediante la pratica
dell’obbedienza verso dei formatori, in cui ogni
pensiero critico non viene accolto tanto bene.
Si tratta di ideologia piuttosto lontana da
quella indicata come preferibile nei documenti del Concilio Vaticano 2°.
In
realtà essa, benché la si voglia riferire alle origini, in realtà proiettando non
del tutto a proposito sul passato nostre attuali concezioni, diverge
marcatamente dai costumi delle nostre collettività religiose di tutti i tempi,
in cui l’impegno civile ha avuto una parte fondamentale: altrimenti non
parleremmo oggi di radici religiose dell’Europa. Essa ha infatti
origine storica piuttosto recente e precisamente in epoca fascista. Fu allora
che, a seguito del compromesso raggiunto all’epoca dai nostri capi religiosi
con il regime fascista, la religione si impegnò a non occuparsi
di politica (in realtà, così facendo, dando un formidabile appoggio al
regime fascista), quindi delle cose della città dell’uomo. Era
scritto nel Concordato che fu stipulato nel 1929 e che fu in
parte superato con l’avvento della Costituzione repubblicana entrata in vigore
del 1948 e, definitivamente, con gli Accordi di revisione di quel Concordato,
stipulati nel 1984.
Bisogna che sia più chiaro
che, nonostante tutte le metafore sociali che utilizziamo a fini propedeutici,
per rendere in termini semplici un’idea di cose molto difficili da capire,
noi partecipiamo a una collettività,
ne siamo anche responsabili; possiamo riconoscere anche di essere
generati alla fede in una collettività,
ma assolutamente non da una collettività: infatti,
come è scritto, noi dobbiamo rinascere dall’alto. Quindi poi nessuno può sentirsi obbligato a
farsi digerire o generare o rigenerare da una
certa collettività, per quanto poi possa decidere liberamente di farlo.
Il metodo di assimilare persone
in una collettività di fede che si vieta l’impegno civile, inteso come
relazioni con chi la pensa diversamente, porta alla progressiva emarginazione delle
persone di fede. Alla situazione, per intenderci che si sviluppò nell’Ottocento
nel conflitto tra il nostro nazionalismo e le pretese politiche del Papato ad
un suo regno intorno a Roma. Sentiamo gli altri come estranei e da loro siamo
sentiti estranei. Per farceli amici chiediamo troppo, chiediamo loro di farsi
digerire; loro non ci stanno e noi li vomitiamo.
L’impegno civile nella nostra
Repubblica, come è configurato nella vigente Costituzione, si basa su una
concezione personalistica che è stata ideata in ambito
cattolico negli anni ’30, sulla base di un filone di pensiero che risale al
Medioevo e che ha basi scritturistiche. Tale concezione si basa sul rispetto
della dignità della persona umana, sia come singola sia nelle formazioni
sociali a cui partecipa. Questo significa che non è ammesso che una formazione
sociale possa digerire una persona. Ma, a ben vedere, questo
principio digestivo è estraneo anche all’ideologia
insegnata dai nostri capi religiosi. Infatti la nostra fede si basa su
una conversione intesa come processo di metamorfosi personale
e libera. In particolare, nei nostri scritti sacri non ci viene mai presentato
il nostro Maestro impegnato in attività propriamente digestive.
La mia formazione religiosa ha
compreso anche insegnamenti su come partecipare a una collettività di fede da
laico. Essa è stata condotta nello spirito del Concilio Vaticano 2°, i cui
principi vennero entusiasticamente accolti nell’ambiente religioso della mia
famiglia. Il laico deve partecipare a una collettività di fede mantenendo
integra la sua dignità di persona umana e rispettando la dignità personale
degli altri fedeli. Si tratta di cosa di cui occorre fare tirocinio.
L’impegno civile è appunto quel
tipo di relazioni con gli altri che ci permette di collaborare con chi la pensa
in modo diverso da noi per costruire qualcosa di comune, in religione o
altrove. Esso, nella nostra fede, ha avuto sempre una forte valenza
religiosa, della quale non sempre, però, si è mantenuta consapevolezza.
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71
Spunti per un dialogo politico su democrazia di popolo e fede cristiana.
(29-1-15)
71.1. Note di metodo
Questa conversazione si propone di
stimolare un franco dibattito politico tra persone di fede.
Non proporrò contenuti eruditi.
Farò invece riferimento ad alcune idee chiave tratte dalla storia delle nostre
collettività permeate dal pensiero religioso.
Perché il dialogo sia veramente
libero non farò riferimento esplicito ad alcun documento di autorità religiose,
né menzionerò queste ultime. Presenterò in forma anonima il pensiero sociale
che storicamente espressero. Esso potrà così essere analizzato e
criticato senza alcuna remora.
Inizierò definendo che cosa intendo
per politica.
Proseguirò tratteggiando alcuni
tratti caratteristici di ciò che ho chiamato democrazia di popolo.
Richiamerò la storia del pensiero
politico espresso nella nostra fede religiosa, con particolare riferimento
all’Italia.
Infine analizzerò i problemi che
oggi in italia si presentano alle persone di fede impegnate nel partecipare
alla democrazia di popolo.
La mia formazione è giuridica, ma
di pratico del diritto, non di teorico. Ho ricevuto una formazione politica dal
lungo contatto con mio zio Achille, persona di fede, professore di sociologia e
politico.
71.2.
La politica
Definisco
politica l’attività di governo delle società umane. Un’attività di questo tipo
si riscontra anche in collettività poco numerose e primitive. E’ stata ritenuta
una caratteristica degli esseri umani come viventi sociali.
Lo studio delle collettività
primitive ci può dare un’idea dello sviluppo delle attività propriamente
politiche. Una delle linee di costituzione di un’autorità politica può
individuarsi, nelle collettività di tipo patriarcale, nell’espansione del
potere monocratico di un maschio dominante su collettività di parenti o
servitori. Nella nostra cultura l’idea di autorità è ancora piuttosto legata a
quella di paternità e ciò per un retaggio storico molto risalente nel tempo e
radicato nelle diverse culture che si sono incontrate, scontrate e ibridate
intorno al bacino del Mediterraneo.
Le nostre concezioni sulla
politica impiegano tuttora schemi di pensiero originati nelle filosofie
dell’antica Grecia. Solo dall’Ottocento si è cominciata a impiegare l’analisi
sociologica per capire i problemi politici. Una particolare chiave
interpretativa della politica è stata proposta dal marxismo a partire dalla
medesima epoca: essa è particolarmente caratterizzata dall’analisi storica
dell’evoluzione delle società umane. Sociologia e marxismo convergono
nell’individuare all’origine del potere politico le dinamiche sociali delle
popolazioni umane. In quest’ottica tutta la storia della politica è stata reinterpretata
utilizzando le acquisizioni di queste discipline. Per capire la politica e per
prevederne gli sviluppi si ritiene necessario capire le società in cui essa si
manifesta.
71.3. La democrazia di popolo
Definisco
democrazia un regime politico in cui l’autorità è legata in misura più o meno
intensa alla volontà collettiva dei governati, sia nella scelta di chi la
esercita sia nei suoi metodi, finalità generali e obiettivi concreti. Non
consiste solo nel metodo maggioritario per adottare decisioni collettive. Si
fonda anche su un sistema ampio di diritti di libertà, per consentire la
partecipazione al dibattito politico e ai processi decisionali collettivi. In
democrazia è essenziale la possibilità di un dialogo fra soggetti liberi. Anche
nel definire concettualmente i caratteri della democrazia si è soliti fare
riferimento a modelli realizzati e teorizzati nell’antica Grecia. Tuttavia la
democrazia come ai tempi nostri la si intende è un’esperienza sociale che non è
mai esistita prima del secondo dopoguerra. E non è mai stata neppure teorizzata
prima degli scorsi anni Venti. Il nostro mondo è veramente un nuovo mondo.
La chiamo democrazia di popolo per distinguerla dalle
precedenti esperienze storiche.
Il suo archetipo è il regime
politico emerso a fine Settecento dalla rivoluzione statunitense, che è stata
espressa anche mediante temi religiosi tratti dalla nostra fede.
Quell’esperienza, anche se in genere non se ne ha consapevolezza, non è stata
solo una secessione dal dominio di una monarchia europea, ma è stata
propriamente una rivoluzione. Ha infatti instaurato un nuovo modello di
società, fondato su un’ideologia egualitaria su basi religiose, secondo
la quale tutti gli essere umani sono stati creati uguali e con
diritti inviolabili.
Crediamo in queste verità che sono
evidenti di per sé stesse, che tutti gli uomini sono creati uguali, dotati dal
loro Creatore di certi inalienabili diritti, e tra questi il diritto alla Vita,
alla Libertà e alla ricerca della Felicità. Per assicurare questi diritti
sono costituiti i Governi tra gli uomini. Essi derivano i loro legittimi poteri
dal consenso dei governati.[Dichiarazione d’Indipendenza
delle Tredici Colonie, costituitesi in Stati Uniti
d’America, 4 luglio 1776].
E’ proprio da questa ideologia,
più che da quella espressa dopo pochi anni dopo dalla Francia rivoluzionaria,
che derivano le democrazie di popolo contemporanee. E ciò innanzi tutto per il
fatto che la democrazia statunitense ha avuto una durata molto più lunga di
quella espressa dalla rivoluzione francese, che fu veramente effimera. Essa ha
potuto quindi costituire un modello duraturo sul quale si sono innestati gli
sviluppi successivi. Poi per il fatto che nel secondo dopoguerra quel modello
fu preso come riferimento per riorganizzare i regimi politici europei. Il più
importante e duraturo contributo della rivoluzione francese alle democrazie di
popolo contemporanee è stata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e
del cittadino del 1789, la base dello stato di diritto:
ogni autorità è soggetta alla legge e quest’ultima deriva dalla volontà
generale alla quale tutti hanno diritto di concorrere; gli esseri
umani nascono liberi e uguali, dotati di diritti inviolabili.
L’uguaglianza nell’ottica di quelle
rivoluzioni è un’uguaglianza in dignità. Essa è affermata
religiosamente, vale a dire in modo pregiudiziale e assoluto, a
prescindere da qualsiasi riscontro effettivo nella realtà (uso il termine religioso in
questo particolare senso, come lo intendeva il filosofo Aldo Capitini).
L’altro fattore da cui sono
scaturite le democrazie di popolo contemporanee è stato l’apporto del
socialismo, dall’Ottocento. In quest’ottica la politica viene concepita come
uno strumento per rendere effettiva l’uguaglianza in
dignità mediante la giustizia sociale. Tra i diritti inviolabili vengono
inclusi anche alcuni diritti sociali, ad esempio quello alla
libertà dal bisogno, all’istruzione, alla salute, al lavoro. Nell’insieme
costituiscono presidi della giustizia sociale e si aggiunsero ai diritti di
libertà proclamati nelle rivoluzioni americane e francese del Settecento.
In merito si ricorda come
archetipo la costituzione tedesca di Weimer del 1919, di cui trascrivo una
norma significativa.
Art.151. L’ordinamento della vita
economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere
a garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo. In questi limiti è da
tutelare la libertà economica dei singoli.
Altro archetipo è considerato la
costituzione sovietica del 1936 (detta di Stalin), in cui erano previsti
il diritto al lavoro e al riposo, all’assistenza materiale nella vecchiaia e
nella malattia o in caso di inabilità al lavoro, all’istruzione,
all’uguaglianza in dignità, oltre ai diritti di libertà previsti delle
costituzioni rivoluzionari settecentesche che ho sopra ricordato.
Trascrivo due articoli particolarmente significativi.
122. Alla donna sono accordati
nell’URSS diritti uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita
economica, statale, culturale e socio-politica. […]
123. L’uguaglianza giuridica dei
cittadini dell’URSS indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti
i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica, è legge
irrevocabile.
Qualsiasi limitazione diretta o
indiretta dei diritti e, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi
diretti o indiretti ai cittadini in dipendenza della razza o della nazionalità
alla quale appartengano, così come qualsiasi propaganda di settarismo razziale
o nazionale, ovvero di odio e disprezzo, è punita dalla legge.
Dalla storia sappiamo che
nell’Unione Sovietica questi diritti rimasero in gran parte solo nelle
costituzioni, non divennero mai realtà. Quella costituzione tratteggiò un mondo
nuovo che rimase però sempre a livello ideale.
Le previsioni costituzionali
relative ai diritti fondamentali e inviolabili delle costituzioni che ho citato
furono presi come riferimento nel secondo dopoguerra dai saggi della nostra
Costituente, nel 1947, i cui lavori precedettero quelli per la redazione
della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite,
approvata nel 1948. Da quest’ultima scaturì la concezione contemporanea della
democrazia a livello planetario, come regime politico universale destinato a
realizzare una reale eguaglianza in dignità degli esseri umani, a
prescindere dalla loro condizione di cittadinanza politica particoare,
mediante l’effettività dei diritti fondamentali e inviolabili, in particolare
di quelli sociali, a livello universale. Riporto un articolo particolarmente
significativo della Costituzione italiana vigente:
Art. 3
Tutti i
cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali.
È compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Il
secondo comma è stato scritto dal socialista Lelio Basso. L’universalità della
concezione politica sottostante, espressa poi anche nella dichiarazione ONU,
risalta dal fatto che vengono ripudiate le discriminazioni su basi etniche e
linguistiche, rendendo la nuova Repubblica una democrazia non solo per gli
italiani e degli italiani. Considerata l’importanza che ebbero
elementi cattolico-democratici nella redazione dei principi fondamentali di
quella Costituzione, la possiamo considerare anche come espressione di una
teologia politica.
L’ultimo
fattore decisivo per la creazione delle democrazie di popolo è stato il
suffragio universale, che in Italia è stato realizzato solo dal 1946.
Una
democrazia di popolo è un regime con amplissima base popolare e basato su
un’idea di uguaglianza molto legata alla giustizia sociale da realizzare
mediante riforme sociali introdotte con l’autorità delle leggi. L’obiettivo
delle democrazie di popolo è la trasformazione delle società per rimuovere le
cause di infelicità e di discriminazione.
71.4. Il
pensiero politico espresso dalla nostra fede religiosa, con particolare
riferimento alla situazione italiana.
Di
solito non si ha sufficiente consapevolezza che i cristiani molto presto
svilupparono un pensiero politico su basi di fede. In caso contrario
l’ideologia politica basata sulla fede cristiana non avrebbe potuto sostituire,
nel giro di quattro secoli quella basata sull’antica religione politeistica. In
particolare non se fa menzione nella formazione religiosa di primo e secondo
livello. Si passa dai cristiani perseguitati dal potere imperiale romano agli
imperatori cristiani.
Un
indizio della precoce partecipazione dei cristiani alla vita politica lo
possiamo trovare nella Lettera a Diogneto, che si fa risalire alla
fine del secondo secolo:
[I
cristiani] abitano ciascuno la propria patria, ma come stranieri
residente; a tutto partecipano attivamente come cittadini, a tutto
assistono passivamente come stranieri; ogni terra straniera è per loro patria,
e ogni patria terra straniera. [V,5].
Conquistato
lo stato romano, l’ideologia politica dei cristiani fu, in genere, quella di
ritenere che lo stato fosse espressione del popolo cristiano e che il monarca
dovesse svolgere anche compiti di guida religiosa. Il politologo Gianni Baget
Bozzo considerò come archetipo di questa mentalità il pensiero del vescovo,
teologo e storico Eusebio di Cesarea (265-340). La dimostrazione di
quanto essa si fosse radicata è che tutti i concili ecumenici del primo
millennio, dal primo di Nicea (325) al settimo di Costantinopoli (879), furono
convocati da imperatori. L’ideologia del monarca come capo civile e religioso
del popolo cristiano fu fondata sulle narrazioni veterotestamentarie adattate
ad una situazione storica molto diversa e rimase latente in Europa fino
all’avvento della secolarizzazione del potere politico, nell’Ottocento. Sempre
su base veterotestamentaria fu fondata, in Occidente, la parallela ideologia
che affermava una supremazia politica del potere religioso su quello
civile. Il popolo cristiano, in Occidente, finì per avere due padri che
pretendevano di governarlo, ma solo nel secondo millennio si produsse una vera
e propria competizione politica tra di essi. Nel quinto secolo le invasioni dal
Nord Europa provocarono il crollo della nuova civiltà cristiana in Occidente:
un evento che fu vissuto come una catastrofe anche religiosa. La storia che
seguì può anche essere interpretata come un tentativo del potere religioso
occidentale di porvi rimedio. In effetti gli invasori erano già venuti a
contatti con la civiltà imperiale mediterranea e la prendevano come modello di
potere politico. Ciò rese possibile assimilare la loro cultura in quella
politico/religiosa formatasi a partire dal quarto secolo. E produsse l’emergere
del patriarcato romano, uno dei cinque del cristianesimo delle origini
(Alessandria, Gerusalemme, Antiochia, Costantinopoli e Roma), come imperatore
religioso e politico. Il processo iniziò nel settimo secolo, sotto dominio
longobardo: al papato fu assegnato un regno territoriale nell’Italia centrale.
Questo dominio fu confermato in epoca carolingia, nel nono secolo, nella quale
il papato si federò con l’impero dei franchi adottandone la struttura feudale
nella sua organizzazione ed iniziando ad agire come sovrano propriamente
politico. Questa struttura di potere politico, fondata su due padri del
popolo, su due imperatori politico/religiosi, fu
rafforzata dalle necessità di difesa dalle travolgenti invasioni islamiche. In
Oriente rimase invece l’organizzazione politico religiosa del passato
imperniata sull’imperatore, con il patriarca religioso, l’ultimo rimasto in
Oriente, in posizione subordinata. Il consolidamento del potere imperiale del
papato avvenne nell’undicesimo e dodicesimo secolo. Fu basato su labili
collegamenti neotestamentari, sull’idea di un impero politico-religioso come
espressione della regalità divina, di cui il papato era manifestazione vicaria
(teologia del papato risalente al tredicesimo secolo). Nel Basso Medioevo, dai
costumi delle città medievali occidentali del secondo millennio, si produsse
l’idea che il mantenimento della pace politica e religiosa fosse
fondamentalmente un problema criminale, da affrontare irrogando pene
efferate. Pace a quell’epoca era una delle denominazione
del diritto criminale. Da ciò l’istituzione di polizie politiche di natura
politica-religiosa la cui manifestazione più eclatante fu l’Inquisizione
cattolica. Ne può essere considerata un’estensione la guerra di crociata,
in particolare quella condotta nel tredicesimo secolo contro i dissenzienti
religiosi albigesi. In un’ottica di fede, fino all’inizio dell’Ottocento, la
politica venne vista come un problema di fedeltà ad un capo politico/religioso;
in Occidente anche come quella ad uno o ad entrambi gli imperatori religiosi
emersi dal primo millennio. I fedeli, in genere, o erano sudditi o capi feudali
assoluti. Nel secondo millennio cominciarono a manifestarsi idealità di
giustizia sociale a base popolare ed evangelica: esse dovettero però venire a
patti con i padri politico-religiosi, con le gerarchie
assolutistiche monarchico-feudali civili e/o religiose, entrambe esercitanti
poteri propriamente politici, o vedersi da essi duramente represse come
espressioni criminali. Esperienze di tipo di tipo tendenzialmente democratico
furono organizzate nell’Europa occidentale fin dagli inizi del secondo
millennio da statuti cittadini e intorno alle corti dei sovrani, ma, a parte il
caso dell’importante influsso del calvinismo politico, la prima
espressione di una teologia politica su base democratica, e quello delle
rivoluzioni parlamentari inglesi del Seicento,
prodottesi in collettività di fede affrancate dal centralismo religioso romano,
l’idea di affidare ai popoli la definizione dei valori supremi delle società,
ciò che definiamo giustizia sociale, ebbe difficoltà ad essere
integrata nelle concezioni di fede. Del resto, nelle Scritture quel tipo di
democrazia semplicemente non c’è, per il contesto storico in cui esse si
formarono, e di ciò ha risentito la teologia su di esse costruita. C’è però
un’idea che è risultata al centro delle ideologie democratiche contemporanee:
l’uguaglianza in dignità. La possiamo trovare sintetizzata in questo
passo della lettera ai Galati: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è né schiavo
né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo
Gesù” (Gal 3,28. Vers.CEI 2008).
I
processi storici e sociali da cui sono emerse le democrazie contemporanee
furono avviati, sostanzialmente, a partire dalla seconda metà del Settecento,
anticipati sul piano ideologico dal pensiero liberale e illuminista. Ma
fu l’Ottocento il secolo del loro crogiolo. In Italia il confronto con le
collettività di fede fu particolarmente drammatico per i prevalere di
fortissime tendenze reazionarie, appoggiate da efficienti organizzazioni di
polizia ideologica. In origine non anti-religiosi, i moti rivoluzionari
espressi nel Risorgimento italiano, divennero anticlericali per le difficoltà
incontrate nel processo di unificazione nazionale ad opera delle organizzazioni
clericali. Il motto del mazzinismo “Dio e popolo” indica che una integrazione
tra tendenze democratiche e fede religiosa era possibile, ma essa fu duramente
repressa. La storia delle collettività di fede italiane dalla metà
dell’Ottocento può essere interpretata come un faticoso processo di
integrazione tra idee religiose, idee di giustizia sociale e idee di
democrazia politica, con uno scontro durissimo su base ideologica tra diverse componenti
sociali religiose, che lasciò importanti tracce, oltre che nella storia
nazionale, anche nelle biografie dei più importanti personaggi di fede di quel
periodo, ad esempio in quelle di Romolo Murri, il fondatore del movimento
democratico-cristiano, e di Giuseppe Toniolo. Fino alla metà degli anni
Quaranta prevalsero tendenze reazionarie, con conseguenze tragiche sul piano
politico. Il ritardo dell’integrazione democratica dei cattolici spianò infatti
la strada al fascismo storico. Si riteneva, da molti, che, al di fuori di
un’organizzazione paternalistica, fortemente accentrata, la fede religiosa si
sarebbe corrotta. La democrazia era vista, secondo un filone dell’antico
pensiero greco, come fonte di disordine culturale e sociale. Il crollo del
fascismo storico e il ruolo dei cattolico-democratici nella lotta antifascista
e nell’organizzazione della nuova Repubblica aprirono un nuovo corso.
L’ideologia di fede sottostante era stata lungamente elaborata in circoli
ristretti a partire dal pensiero dei filosofi francesi Jacques Maritain e
Emmanuel Mounier. Il processo ebbe una tappa importante negli anni Sessanta, ma
l’idea che il regime democratico fosse quello preferibile risale, nella
teologia cattolica, addirittura al 1991. E’ una storia non ancora conclusa, in
particolare nell’Italia di oggi, dove l’influenza clericale in politica è stata
fortissima.
71.5.
Problemi che oggi in Italia si presentano alle persone di fede impegnate nel
partecipare alla democrazia di popolo.
L’idea
che in religione non si debba parlare di politica è un portato del fascismo
storico e in particolare del compromesso, da molti ritenuto disonorevole,
concluso tra la nostra gente di fede e il Mussolini nel 1929. In quel modo il
fascismo chiuse la bocca al cattolicesimo democratico, ma, più in generale, ad
ogni forma di teologia politica.
La scelta
religiosa che fu fatta in alcuni ambienti di fede negli anni scorsi
anni Sessanta, sulla scia dei risultati dell’assemblea di saggi della nostra
confessione religiosa svoltasi all’inizio di quel decennio, fu cosa
profondamente diversa. Liberò la fede dalla politica di partito, aprendola al
pluralismo e proponendosi una formazione e un tirocinio collettivi in merito.
In quell’epoca, infatti, sulla base di un pensiero teologico avviato nel secondo
dopoguerra, i problemi politici vennero concepiti anche come problemi
religiosi, quindi in un’ottica di fede. Fu infatti scritto:
Le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto
e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze
e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che
non trovi eco nel loro cuore. [1965].
E anche:
Noi
scongiuriamo per primi tutti i Nostri figli. Nei paesi in via di sviluppo non
meno che altrove, i laici devono assumere come loro compito specifico il
rinnovamento dell’ordine temporale. Se l’ufficio della gerarchia è quello di
insegnare e interpretare in modo autentico i principi morali da seguire in
questo campo, spetta a loro, attraverso la loro libera iniziativa e senza
attendere passivamente consegne o direttive, di penetrare di spirito cristiano
la mentalità della loro comunità di vita. Sono necessari dei cambiamenti,
indispensabili delle riforme profonde: essi devono impegnarsi risolutamente a
infonder loro il soffio dello spirito evangelico. [1967].
Divenne
quindi centrale e possibile, ma di attuazione piuttosto difficile nelle
nostre collettività di fede, ciò che venne efficacemente sintetizzato, in
queste righe:
“La Chiesa […] con il II Concilio ha
mutato profondamente il suo rapporto con la società e l’umanità. Dalla difesa
del proprio campo di missione spirituale nel temporale (obiettivo della nuova
cristianità elaborato nei confronti dell’età moderna) intende passare
all’apertura evangelizzatrice a tutti gli uomini, al campo della societas
hominum, sul fondamento della sola, comune, natura
umana.
[…]
E’ nella comunità di Chiesa locale che
l’unità nell’essenziale e il pluralismo di partecipazioni politiche e sociale
debbano convivere se non integrarsi nella tensione talora, mai nella dialettica
profana, nella dialogicità spesso, che non esclude, anzi fa crescere la
funzione di guida e di autorità dottrinale e pastorale della gerarchia come la
partecipazione all’ufficio sacerdotale, profetico e regale dei laici, nella
Chiesa e nella
storia. […]
Sotto questo profilo, tutta
l’innovazione della Gaudum et Spes e dell’intero concilio sembra concentrarsi
in quel paragrafo 4 della Octogesima Adveniens di Paolo VI che così fatica a
trovare (ma il convegno ecclesiale del novembre ’76 [Evangelizzazione
e promozione umana] ne è un luminoso esempio) applicazione e sviluppi
pastorali. […] La comunità di Chiesa locale, guidata dal Vescovo, [deve essere]
assunta anche come luogo di confronti tra credenti, pure tra credenti con
scelte politiche diverse, per cercare insieme le vie essenziali di impegno di
tutta la Chiesa locale alla necessaria trasformazione della società in cui la
comunità di Chiesa opera, per l’evangelizzazione e la promozione umana”.[Achille
Ardigò, “Toniolo: il primato della riforma sociale. Per ripartire dalla
società civile”, 1978]
In quest’ottica, in
religione si dovrebbe parlare di politica. Una
importante manifestazione del nuovo corso, per la verità rimasta quasi l’unica,
fu il convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana,
svoltosi a Roma nel 1976. Le difficoltà emerse negli scorsi anni Settanta
portarono, dagli anni ’80 al prevalere di orientamenti paternalistici, in
quello che, nel campo fede/democrazia, può essere visto come un lungo inverno,
nonostante il recepimento della democrazia nel pensiero teologico. La pratica,
quindi, non fu all’altezza della teoria. Significativo di questo sviluppo mi
pare sia stato l’appello all’astensionismo dei cattolici in occasione di un
referendum su tema sensibile per la fede, nel 2005. E anche
la dura repressione delle teologie di liberazione di origine latino-americana.
Oggi siamo autorevolmente invitati a far ripartire quel processo di sviluppo
democratico nella pratica delle nostre collettività di fede, ma sembrano
mancare risorse sufficienti a farlo. Secondo il costume dell’ultimo trentennio,
si attendono ancora, paternalisticamente, istruzioni dettagliate dall’alto,
invece di suscitare un movimento in basso. Quest’ultimo dovrebbe avere come
protagonisti i laici di fede, più coinvolti del clero nei processi sociali
democratici.
71.6. Da quanto ho esposto, emerge la necessità
di fare tirocinio di democrazia anche nelle nostre collettività di fede, in
particolare nella formazione permanente dei laici di fede, impegnati con
primaria responsabilità nel compito collettivo di infondere valori nella
società civile in cui sono immersi, alla quale partecipano con poteri sovrani.
E’ passato ormai mezzo secolo da
quando si prese consapevolezza di questo, ma ancora quel tipo di tirocinio è
piuttosto ostico negli ambienti religiosi. Lo si vede con sospetto, come fonte
di disordine. Ma è proprio per affrontare in modo ordinato il metodo
democratico che esso occorre.
Storicamente le genti di fede sono
state ammaestrate ad obbedire e, in particolare, ad obbedire tacendo. “Obbedir
tacendo” fu un motto dell’Arma dei Carabinieri ed esso ha un senso preciso
negli ambienti militari: significa abnegazione nello sforzo di contribuire a un
risultato comune che richiede compattezza e coordinazione. Si ricorda che anche
il Garibaldi, rivoluzionario repubblicano risorgimentale, obbedì alle
autorità militari sabaude in diverse occasioni, in particolare con un famoso
telegramma spedito durante la Terza guerra d’indipendenza, la cui immagine ho
incollato qui sopra, e poi al termine della stupefacente conquista delle
regioni del regno borbonico dell’Italia meridionale. Ma la sua obbedienza non
fu solo una questione militare: fu prima di tutto frutto di una valutazione
realistica delle prospettive dell’unificazione nazionale e dello sviluppo di
uno stato degli italiani che sostituisse il precedente pluralismo regionale,
creando innanzi tutto un popolo capace di autogoverno, nelle forme democratiche
all’epoca vigenti e concretamente possibili, alle quali egli stesso
partecipò vivacemente nel dibattito politico.
Democrazia significa autogoverno
del popolo: essa richiede la capacità culturale di elevarsi alla sovranità. Nel
momento in cui si è deciso, anche in religione, tra gli anni Sessanta e gli
anni Novanta del secolo scorso, che non solo le persone di fede debbano sentire
il dovere religioso di partecipare all’autogoverno della società in cui sono
immerse, ma anche che i regimi democratici sono quelli preferibili per il
governo delle società, è chiaro che, accanto al tradizionale tema della
disciplina, dell’obbedienza, deve farsi strada quello del tirocinio
all’autogoverno, ad essere sovrani nella società e ad esserlo collettivamente,
secondo il metodo democratico incentrato sul dialogo. Non c’è altro modo,
infatti, per influire efficacemente nello sviluppo di società democratiche. In
quest’ottica, “la politica è la più alta forma di carità”, come insegnava il
beato Giovanni Battista Montini. E, non dimentichiamolo, fu san Karol
Wojtyla a insegnarci, con la sua lettera del 1991 in occasione dei cento
anni dalla lettera del suo predecessore che aveva inaugurato il magistero sociale,
che la democrazia è il regime preferibile, anche in un’ottica di fede.
Nella prospettiva democratica,
come sosteneva Lorenzo Milani, l’obbedienza non è più una virtù, se
significa sottrarsi al compito della sovranità collettiva.
La base del tirocinio democratico
è la coscienza storica. Essa mi pare carente nella formazione religiosa di
primo e secondo livello e anche in quella degli adulti e, in particolare, qui
da noi. Questo significa che, poi, il rapporto della nostra gente di fede con
la democrazia sarà piuttosto problematico. In ogni questione si andrà
ansiosamente alla ricerca di una sorta di padre a cui
sottomettersi, secondo un costume bimillenario in religione. Ma la scelta del
padre, in mancanza di sufficiente memoria storica, avverrà con criteri
superficiali, sulla base di apparenze di autorità, di forme luccicanti, di
sicumere esibite, di conformismo collettivo o di puro legalismo.
In religione ci troviamo a dover
convivere con molti padri i quali pretendono obbedienza paternalistica.
La democrazia però consiste in un certo senso proprio nel sindacare questa
autorità paternalistica e, nella mentalità democratica, si vorrebbe riscoprire,
nell’esercizio dell’autorità, il valore di una certa saggezza. I padri ce li troviamo
davanti per ragioni per così dire di natura, saggi invece si
diventa e si deve essere riconosciuti.
71.7. In genere
nelle nostra collettività di fede non sappiamo parlare efficacemente di
libertà. Mettiamo subito le mani avanti, presentando tutti i guasti che la
libertà produrrebbe. Questo ci impedisce di lasciarci coinvolgere nel pensiero
democratico, che è centrato sull’idea di libertà. Non di rado si finisce per
dire che l’unica vera libertà è nell’obbedienza a ciò che ordinano i nostri
capi religiosi, anche se ciò viene presentato come obbedienza alla volontà
divina. Purtroppo la storia ci insegna che questa soluzione non è stata sempre
soddisfacente. E’ in questo senso che Lorenzo Milani scrisse che l’obbedienza
non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni.
All’inizio ho incollato
un’immagine della Statua della libertà, a New York. Ho ricordato
che sul suo piedistallo sono incisi gli ultimi versi della poesia Il
nuovo colosso, della poetessa americana Emma Lazarus:
“Datemi chi tra voi è esausto e povero,
le vostre masse che si accalcano
nell’anelito di libertà,
i miseri rifiuti della vostre
popolose terre.
Mandatemi quelli che non hanno più
casa e gli sventurati,
innalzando la mia luce mostrerò loro la
porta d’oro!”.
Questa lirica rende bene, con
forte impatto emotivo, il senso dell’azione di liberazione che è propria della
democrazia e dell’idea democratica di libertà, presenti con molta forza nel
pensiero che ispirò la rivoluzione americana del 1776, con esplicite radici di fede.
E spiega perché, anche da cristiani, noi ci dobbiamo innamorare della libertà.
In democrazia libertà
significa libertà di essere giusti. La giustizia sociale
è al centro dell’idea democratica di libertà. Democrazia significa pensare,
tutti insieme, con metodo basato sul dialogo, un mondo nuovo, in cui essere
liberi di essere giusti. E’ questa la politica democratica. Che richiede di
elevarsi dalla soggezione all’ingiustizia alla libertà di essere giusti. Il
disegno preciso di questo mondo nuovo non c'è nelle nostre scritture sacre, che
risalgono a tempi antichi, in cui l'idea di una democrazia di tutti non
era stata ancora prodotta, anche se, in ambiente ellenistico, a cui però
l'ebraismo delle origini cristiane era in genere ostile, la cultura possedeva
varie teorizzazioni sulla democrazia. Nelle scritture sacre possiamo trovare
principi di giustizia sociale e, innanzi tutto, l'idea di pari dignità degli
esseri umani, creati uguali, ma non la democrazia di
tutti come noi oggi la intendiamo. Ciò non significa che democrazia e
fede non possano essere conciliate. La rivoluzione statunitense di fine
Settecento dimostra proprio il contrario.
Libertà di essere giusti. Ma che
cos’è questa giustizia?
Riporto di seguito alcune righe
che ci scrissi anni fa, prendendo spunto da una Giornata della memoria.
“Abbiamo molto sbagliato quando abbiamo
fatto una politica cinica, cattiva, violenta. Questa è la politica dei despoti.
Dobbiamo fare una politica che innanzi tutto rispetti gli infiniti mondi
vitali, mio zio Achille ci scrisse un libro su, che sorreggono la nostra vita.
Non escludere nessuno, non disprezzare nessuno. Ancora con Capitini:
interessarsi sommamente a tutti, sperare che la realtà di tutti arrivi a tutti
gli esclusi per guarirli; scoprire che c'è sempre una non violenza più
autentica e che "ieri eravamo violenti". Capitini definiva questo
come lavoro "religioso" perché ci mette in rapporto con una realtà
sommamente amata e rispettata, una ricerca "sacra" perché comprende
chi soffre e sta peggio di noi. Sulla via della più alta sovranità incontriamo
l'esigenza della più alta giustizia.
Io faccio parte di una genia di
malvagi persecutori. Noi cristiani siamo stati ciechi per millenni. Seguaci di
maestri ebrei, del fariseo Paolo di Tarso, abbiamo perseguitato l'ebraismo,
disprezzato le sue sante tradizioni, i suoi riti, le sue consuetudini; abbiamo
infierito in modo inaudito su quel mondo vitale sul quale nondimeno
continuavamo a invocare benedizioni: "Gerusalemme siano rinforzate le tue
porte e i tuoi bastioni, scorra in te latte e miele, siano salvate le tue
madri, crescano forti i tuoi figli...". Questa la situazione in cui mi
sono ritrovato, da cristiano. Ora che abbiamo finalmente iniziato a
convertirci, noi cristiani, ora capiamo l'infinito amore che c'è dietro ogni
gesto religioso dell'ebraismo, dietro ogni sua tradizione e preghiera, dietro
ogni rito, e ci strazia l'orrore di quello che è stato fatto per tanto tempo.
Il passato non può essere cambiato. Ma almeno per il presente e per il futuro,
nei quali si può essere diversi, vorrei mostrare di aver imparato la lezione
che ho ricevuto dalla storia e agire diversamente. "Teshuvà",
pentimento e conversione. E invitare i miei compagni a fare altrettanto, quando
insieme pensiamo a un mondo nuovo.
Prima di compiere qualsiasi
violenza, prima di cancellare sbrigativamente qualcuno dalla storia, prima di
disprezzare qualsiasi consuetudine o idea delle quali magari non capiamo subito
il senso, pensiamo bene se questa sia veramente la giustizia che ci serve per
elevare "tutti" ad essere re. Tutti i giorni mi pare che non manchino
occasioni per esercitare questa "pazienza", che significa apertura a
tutti, aspirazione alla giustizia somma, lì dove misericordia e verità
finalmente si incontrano e si baciano, come è scritto.”
Una persona che rappresenta bene
questi ideali democratici è il pastore battista statunitense nero Martin Luther
King (1929-1968), il più noto esponente del movimento statunitense dei diritti
civili degli anni Sessanta. Egli, seguace dell’ideologia non violenta
teorizzata dall’indiano Ghandi, fu un disobbediente per amore di giustizia:
questa fu la libertà che si prese.
71.8 L’esperienza
del costituirsi di una collettività è vissuta spesso secondo due modalità:
quella del ritrovare un padre e quella del trovare una persona da amare. Nelle
nostre scritture sacre esse sono entrambe presenti, ma di solito la seconda è
più difficile da vivere, e innanzi tutto da accettare, nelle nostre
collettività di fede, secondo i modi religiosi che ci siamo costruiti. Questo
accade fondamentalmente perché la nostra ideologia religiosa è prodotta da un
ceto di maschi celibi che ambiscono al ruolo di padri e tendono a organizzare
collettività paternalistiche.
Nel tirocinio della democrazia
occorre riscoprire e rivivere quell’altra modalità, dell’amore.
L’esperienza dello stato nascente
è stata paragonata all’innamoramento, all’esperienza emotiva
dell’innamoramento. E c’è molta emotività amorevole nell’esperienza della
democrazia. Innanzi tutto ci si innamora dell’anelito di libertà, quindi della
libertà, non vivendola più come peccato e fonte di disobbedienza. In
democrazia, libertà significa libertà di pensare e costruire un mondo nuovo, in
cui tutti vengano liberati dal bisogno, dall’ignoranza, dalla malattia, dalle
discriminazioni su basi sociali ed economiche, dalla solitudine. E di farlo
come lavoro collettivo, in cui sono coinvolte le moltitudini. Democrazia
significa anche trovare e, innanzi tutto, accettare, moltissimi amici. Uscire
da una condizione di schiavitù, di servaggio, esistenziale per entrare in una
condizione amicale. “Vi ho chiamato amici”: riflettere a fondo sul
senso di questo detto evangelico (Gv 15,15) può essere molto utile in un
ragionamento sulla democrazia e le sue finalità. Esso è inserito in un
brano che tratta dall’agàpe, la forma di benevolenza sociale che è
caratteristica delle nostre concezioni di fede e che ha il senso di accogliere
gli altri in una piacevole convito. Gli amici non ce li troviamo imposti per
natura, come i fratelli, ma ce li scegliamo. Le democrazie contemporanee si
propongono di realizzare un’amicizia universale, di scegliersi come
amica l'intera umanità, secondo una particolare concezione di pace che
ha fatto breccia anche nel pensiero religioso, il quale finalmente è
giunto a riconoscervi le radici di fede.
In democrazia si sogna innanzi
tutto di essere liberi di avere tanti amici, di farsi tanti amici, di farsi
amiche popolazioni di tutta la terra, senza discriminazioni. Un lavoro molto
bello e appassionante, di cui ci si può e ci si deve innamorare. In democrazia
ci si innamora di questa libertà: le catene che vengono simbolicamente infrante
sono quelle della divisione e del pregiudizio verso gli altri.
*********************************************
72
In sintesi
(11-9-17)
Nei paragrafi qui sopra c’è materiale utile per rendere un’idea su che
cos’è e cosa fa l’Azione Cattolica. E’ solo una piccola parte di ciò che si è
scritto su questo tema.
Vorrei ora fornirne una sintesi della storia da cui nacque l’Azione
Cattolica, sufficientemente estesa per venire incontro a chi ha deciso di
accostarsi questa esperienza associativa, o a chi sente il bisogno di
approfondire le ragioni per proseguirla.
Cominciamo con il dire questo:
l’Azione Cattolica non è assimilabile ad alcuna delle altre aggregazioni
ecclesiali correnti in Italia. Questo significa anche che fa un lavoro che
nessun altro fa. Ma che dovrebbe fare?
Per capirlo occorre avere
consapevolezza della sua storia.
Tutto iniziò a metà Ottocento,
quando il Papato sentì la necessità di chiamare a raccolta il popolo a difesa
della sua missione. I moti nazionalistici italiani minacciavano il suo piccolo
stato nell’Italia centrale, con capitale Roma. Si voleva che fosse la capitale
del nuovo stato unitario e indipendente che si andava costituendo in quegli
anni, con sommosse popolari e guerre, sia tra stati e che tra milizie
popolari e stati. Il Papato riteneva di avere bisogno di quel suo stato per
essere indipendente dalla politica degli stati del mondo intorno ed essere
libero di svolgere la sua missione universale.
I moti nazionalistici italiani
erano suscitati da movimenti con ideologia liberale e democratica. Erano tali,
in particolare, i gruppi che si ispiravano al pensiero di Giuseppe Mazzini
(1805-1872). Essi non miravano solo all’unità nazionale e all’indipendenza, ma
anche alla riforma sociale, in particolare all’affermazione di
regimi democratici, da conseguire con il coinvolgimento del popolo non più solo
come concessione delle dinastie sovrane, che all’epoca, dopo la caduta del
regime di Napoleone Bonaparte nel 1815, dominavano nuovamente l’Europa. Il
nazionalismo italiano di quell’epoca non era anti-cristiano: il motto di
Mazzini era “Dio e popolo”. Divenne anticlericale per il rifiuto del Papato di
consentire l’unità nazionale con capitale a Roma.
Perché i nazionalisti ritenevano
indispensabile Roma? Per il suo significato simbolico, derivante dalla sua
storia antica, per la civiltà unificante che dalla sua cultura era scaturita.
Si pensava che così si sarebbe potuta consolidare meglio un’unità politica
ottenuta militarmente tra popoli da molti secoli divisi, combattendo e
sopprimendo i vari stati che all’unificazione si opponevano. Il Papato non
credeva nel liberalismo: pensava che avrebbe condotto il popolo lontano dalla
fede. Non credeva nella democrazia, che non concepiva come un sistema di
valori, ma come politica basata sulla forza del numero, non su quella
della ragione. Intendeva il liberalismo come dissoluzione dei valori e la democrazia
come disordine tra il popolo che avrebbe finito per darsi nelle mani di
demagoghi, di agitatori sociali senza valore e insofferenti dei veri valori (in
linea con il giudizio che della democrazia avevano dato grandi filosofi greci
dell’antichità). E soprattutto, come detto, riteneva l’indipendenza politica
del Papato, da attuare con il possesso di un vero e proprio regno territoriale,
come indispensabile per sottrarsi all’arbitrio e alla volontà di potenza
degli altri capi di stato, quindi a tutela della sua missione universale. Nei
secoli precedenti il Papato, per garantire la sua indipendenza, si era
appoggiato alle dinastie sovrane europee. Da metà Ottocento ebbe sempre più
difficoltà a farlo. I nazionalisti italiani chiamavano a raccolta i popoli dell’Italia
di allora, e così, ad un certo punto, lo fece anch’esso. Come i nazionalisti
parlavano di riforma sociale, di
cambiare in meglio la società civile, anche il Papato elaborò un suo progetto
di riforma sociale, sulla base delle esperienze di solidarietà
sociale che a quell’epoca, in tutta Europa e anche in Italia, si andavano
costituendo a sostegno della parte meno ricca della società. Questo programma
fu espresso solennemente in un’enciclica, un atto con forza di legge per la
Chiesa cattolica, la prima di quelle dell’età moderna con oggetto la riforma della
società, che il papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13° (Papa
dal 1873 al 1903), diffuse nel 1891 con il nome di Rerum Novarum - Le
novità, dalle sue prime parole. Fu il primo documento di una
lunga serie che, nel complesso, si indica con il nome di dottrina
sociale. A quell’epoca il regno pontificio era stato soppresso,
all’esito di una breve guerra nel 1870. Ma il Papato lo rivoleva indietro. Su
questo era intransigente. Spingeva su questa posizione intransigente anche
il popolo che aveva chiamato a difesa delle sue ragioni. Ora ci sembra strano,
ma, a quei tempi, le formazioni cattoliche subivano il rigore delle misure di
polizia contro la sovversione politica. Il prete giornalista Davide Albertario,
direttore del quotidiano milanese L’osservatore cattolico, fu
arrestato nel 1898 e condannato a tre anni di reclusione, per aver criticato
aspramente la sanguinosa repressione, da parte del generale Fiorenzo Bava
Beccaris, dei moti popolari di quell'anno, motivati dalle difficoltà di vita
della gente meno ricca e, in particolare, dall'aumento del prezzo del pane. La
figura di Albertario sintetizza bene le posizioni politiche dell’intransigentismo
cattolico di allora: opposizione dura al nuovo Regno d’Italia
motivata con esigenze di riforma sociale nell'interesse
anzitutto del popolo.
E’ molto importante capire
questo: mentre gli altri sovrani degli stati che nella prima metà
dell’Ottocento dominavano l’Italia opponevano alle pretese di unificazione
nazionale la legittimità storica e giuridica del loro
dominio politico, in sostanza l’assetto politico che, dopo la caduta
dell’imperatore francese Napoleone Bonaparte, era stata data all’Europa nel
Congresso di Vienna (tenutosi a Vienna tra il 1814 e il 1815) dalle potenze
vincitrici, il Papato volle giustificare davanti ai popoli le proprie pretese
di un regno in Italia innanzi tutto sia con esigenze di tutela
dell’indipendenza della sua missione universale, ma anche con la critica della
nuova civiltà che i nazionalisti liberali e democratici volevano attuare in
Italia e la necessità di indipendenza politica per contrastarla, questa seconda
esigenza come parte della prima, della sua missione civilizzatrice.
Sostenne che questa nuova civiltà non era per il bene del popolo, che avrebbe
richiesto altri provvedimenti. Questa esigenza di riforma sociale,
nel periodo dell’intransigentismo, durato fino al 1909, quando il Papato
consentì ai cattolici italiani di partecipare alle elezioni politiche nazionali
(era stato loro vietato dal 1864 con una serie di provvedimenti dell’autorità
religiosa che vanno sotto il nome di non expedit - non conviene[partecipare
alle elezioni), era in fondo strumentale alle pretese del Papato riguardanti la
restaurazione del suo regno con capitale a Roma, ma successivamente, in
particolare in prospettiva delle elezioni politiche del 1913, le prime a
suffragio universale maschile (prima vi erano state limitazioni relative al
reddito e all'istruzione) e, ancor più durante la Prima Guerra Mondiale
(1914-1918), divenne assolutamente prioritaria, finendo addirittura per essere
inquadrata dal Papato nel dovere religioso di carità, a cominciare
da un discorso tenuto agli universitari della FUCI - gli universitari cattolici
- il 18 dicembre 1927 dal papa Achille Ratti, regnante in religione come
Pio 11°, di cui trascrivo il brano fondamentale per il tema che sto trattando:
I giovani talora si
chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco che,
dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se stessi le
basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è diretta al
bene sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a
quel pubblico bene, che è la suprema lex a cui devono esser rivolte
le attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e compieranno uno dei
più grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e importante è il campo
nel quale si può lavorare, tanto più doveroso è il lavoro. E tale è il
campo della politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che
sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica,
a cui si potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere
superiore. È con questo intendimento che i cattolici e la Chiesa debbono
considerare la politica; poiché la Chiesa e i suoi rappresentanti, in tutti i
gradi di tal rappresentanza, non possono essere un partito politico, né fare la
politica di un partito, il quale per natura sua attende a particolari
interessi, o se pur mira al bene comune, sempre vi mira dietro il prisma di sue
vedute particolari. Atteggiamento questo tanto più raccomandabile a giovani
universitari che devono consacrarsi alla propria preparazione, senza la quale
la loro futura attività non può essere né illuminata, né benefica. Come nel
loro presente periodo essi attendono allo studio delle future professioni e non
le esercitano, così anche per ciò che riguarda il viver sociale; essi devono
ora attenersi al loro programma di preparazione, perché, quando prenderanno il
loro posto nella società, possano poi dare a questa anche il contributo della
buona, cristiana politica.
E’ per compiere questo lavoro di carità sociale che
il papa Giuseppe Sarto, regnante come Pio 10° dal 1903 al 1914, decise,
nel 1905 con l’enciclica Fermo proposito - Il
fermo proposito [“che fin dai primordi del Nostro Pontificato abbiamo
concepito, di voler consacrare tutte le forze che la benignità del Signore si
degna concederCi alla restaurazione di ogni cosa in Cristo”], di ridisegnare
l’azione sociale dei cattolici con una nuova organizzazione, che è poi, in
sostanza, la nostra Azione Cattolica, formalmente costituita l’anno seguente
con l’approvazione dei suoi statuti. Essa sostituì una precedente
organizzazione con scopi simili che i laici cattolici avevano costituito di
propria iniziativa nel 1874 e che venne sciolta dal Papato nel 1904, a seguito
di dissidi insanabili tra la componente intransigente e quella democratica,
la quale intendeva iniziare a partecipare alla politica nazionale democratica
del Regno con un proprio progetto politico di democrazia ispirata ai valori di
fede, una democrazia cristiana, come la definivano.
Carità è
la parola italiana con la quale, insieme al termine “amore”, si traduce quella
del greco antico agàpe, che richiama l’idea di un lieto
convito in cui ce n’è per tutti. Agàpe ha un significato
teologico molto importante, su base evangelica. Collegare l’azione sociale all’agàpe significò
farne un valore di grande rilievo e, in particolare, riempirla di tanti
valori religiosi. E’ appunto questo che hanno fatto i laici cattolici di Azione
Cattolica nell’accostare i problemi della democrazia. La democrazia, come
oggi la si intende, e non la si è sempre intesa in questo modo, è frutto anche
del loro lavoro e comprende molti più valori che alle origini e, ad esempio
quello della pace, che non è sempre stata un valore democratico. Le
democrazie, storicamente, non sono state sempre pacifiche. Oggi si dà per
scontato che lo siano. E’ una conquista cultura che è stata mediata nelle
culture contemporanee anche con la collaborazione dei laici di Azione
Cattolica.
Man mano
che la democrazia si riempiva di valori, in particolare di quelli che rientrano
nel concetto di giustizia sociale e di tutela della persona
umana, cominciarono a cadere le riserve che storicamente il Papato aveva
avuto verso quel regime politico. Si è imparò molto dall’esperienza, in
particolare da quella dei totalitarismi europei del secolo scorso. Il lavoro
culturale del pensiero sociale cristiano, e in particolare cattolico,
precedette le modifiche della dottrina, dell’insegnamento impartito con
autorità dal magistero, innanzi tutto dal Papa. Anche in seguito fu così. La
prima grande svolta verso una democrazia piena di valori umanitari si ebbe con
una serie di importantissimi radiomessaggi natalizi, rilevanti quanto
un’enciclica sociale, diffusi dal papa Eugenio Pacelli, Pio 12°,
regnante dal 1939 al 1958, durante la Seconda Guerra Mondiale, tra il
1941 e il 1944.
In Italia
laici di fede in gran parte provenienti dall'Azione Cattolica si
riunirono nel 1943 nella foresteria di Camaldoli dei monaci camaldolesi, in
provincia di Arezzo, sull’Appennino Tosco - Romagnolo, per scrivere un progetto
di nuova costituzione, denominato Codice di Camaldoli. Tra il
1946 e il 1947 laici dell'Azione Cattolica furono tra i
protagonisti della scrittura della nuova Costituzione repubblicana, entrata in
vigore il 1 gennaio 1948, che disegnava una democrazia di popolo piena di
valori, tra i quali quello della pace. Leggiamo infatti nell’art.11:
L'Italia ripudia la
guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di
parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e
favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
L’idea
della democrazia come strumento per l’affermazione dei valori, in primo luogo
quella della persona, ebbe sempre più credito nella dottrina sociale, il
complesso delle pronunce del magistero per organizzare la società secondo i
valori indicati dalla fede, attraverso le norme contenute nei documenti del
Concilio Vaticano 2° (1962-1965) e molti altri documenti del Papato, fino ad
arrivare, a cento anni dalla prima enciclica sociale,
all’enciclica Centesimus annus - Il centenario, diffusa
nel 1991 dal papa Karol Wojtyla, regnante come Giovanni Paolo 2°, in cui
troviamo l’affermazione del valore di una democrazia piena di valori:
45. La cultura e la prassi del
totalitarismo comportano anche la negazione della Chiesa. Lo Stato, oppure il
partito, che ritiene di poter realizzare nella storia il bene assoluto e si
erge al di sopra di tutti i valori, non può tollerare che sia affermato
un criterio oggettivo del bene e del male oltre la volontà dei
governanti, il quale, in determinate circostanze, può servire a giudicare il loro
comportamento. Ciò spiega perché il totalitarismo cerca di distruggere la
Chiesa o, almeno, di assoggettarla, facendola strumento del proprio apparato
ideologico.92
Lo Stato totalitario, inoltre, tende ad
assorbire in se stesso la Nazione, la società, la famiglia, le comunità
religiose e le stesse persone. Difendendo la propria libertà, la Chiesa difende
la persona, che deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini
(cf At 5,29), la famiglia, le diverse organizzazioni sociali e le
Nazioni, realtà tutte che godono di una propria sfera di autonomia e di
sovranità.
46. La Chiesa apprezza il sistema della
democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte
politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e
controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò
risulti opportuno.93 Essa,
pertanto, non può favorire la formazione di gruppi dirigenti ristretti, i quali
per interessi particolari o per fini ideologici usurpano il potere dello Stato.
[…]
un'autentica democrazia
è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione
della persona umana.
[…]
Una democrazia
senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo,
come dimostra la storia.
[…]
47. Dopo il crollo del totalitarismo
comunista e di molti altri regimi totalitari e «di sicurezza nazionale», si
assiste oggi al prevalere, non senza contrasti, dell'ideale democratico,
unitamente ad una viva attenzione e preoccupazione per i diritti umani. Ma
proprio per questo è necessario che i popoli che stanno riformando i loro
ordinamenti diano alla democrazia un autentico e solido fondamento mediante
l'esplicito riconoscimento di questi diritti. Tra i principali sono da
ricordare: il diritto alla vita, di cui è parte integrante il diritto a
crescere sotto il cuore della madre dopo essere stati generati; il diritto a
vivere in una famiglia unita e in un ambiente morale, favorevole allo sviluppo
della propria personalità; il diritto a maturare la propria intelligenza e la
propria libertà nella ricerca e nella conoscenza della verità; il diritto a
partecipare al lavoro per valorizzare i beni della terra ed a ricavare da esso
il sostentamento proprio e dei propri cari; il diritto a fondare liberamente una
famiglia ed a accogliere e educare i figli, esercitando responsabilmente la
propria sessualità. Fonte e sintesi di questi diritti è, in un certo senso, la
libertà religiosa, intesa come diritto a vivere nella verità della propria fede
ed in conformità alla trascendente dignità della propria persona.
Anche nei Paesi dove vigono forme di
governo democratico non sempre questi diritti sono del tutto rispettati.
[…]
La Chiesa rispetta la legittima
autonomia dell'ordine democratico e non ha titolo per esprimere preferenze
per l'una o l'altra soluzione istituzionale o costituzionale. Il contributo,
che essa offre a tale ordine, è proprio quella visione della dignità della
persona, la quale si manifesta in tutta la sua pienezza nel mistero del Verbo
incarnato.
Nel 1969 l’Azione Cattolica, con
il suo nuovo statuto elaborato sotto la presidenza nazionale di Vittorio
Bachelet (1926-1980), fece dell’attuazione dei principi deliberati dai saggi
del Concilio Vaticano 2° uno dei suoi principali campi di azione sociale e si
propose come palestra di democrazia per l’attuazione sociale dei
valori nel quadro di una democrazia piena di valori, per riempire sempre meglio
la democrazia di valori e per salvaguardare il valore di quel tipo di
democrazia.
Fin dal suo sorgere, perché
negarlo?, l’Azione Cattolica ebbe struttura organizzativa simile a quella di un
partito politico. Del resto essa, storicamente, difese, più o meno al modo di
un partito, posizioni politiche del Papato, in primo luogo, alle origini,
quelle relative alla questione di Roma, la questione romana,
la quale fu chiusa, in modo che molti criticarono nel mondo cattolico, con
i Patti Lateranensi, conclusi nel 1929 con il Regno d’Italia
rappresentato in quella occasione del Capo del governo di allora Benito Mussolini,
fondatore e capo del fascismo. L’Azione Cattolica, ad esempio, ogni anno
distribuisce delle tessere. Oggi non sempre i partiti lo fanno. Ha
un’organizzazione democratica, e non tutti i partiti politici l’hanno avuta e
l’hanno. In Azione Cattolica si tengono elezioni per nominare le cariche
associative. Si deliberano documenti in varie assemblee, come si fa nei
parlamenti. E diversi laici di Azione Cattolica hanno rivestito importanti
cariche istituzionali in Italia. Ricordo per tutti il Presidente della
Repubblica Oscar Luigi Scalfaro (1918-2012), che tenne sempre al bavero il
distintivo dell’Azione Cattolica. Che cosa differenzia, però, l’Azione
Cattolica da un partito?
L’obiettivo dell’Azione Cattolica
è molto più vasto di quello di un partito, che serve per concorrere
all’esercizio dell’autorità pubblica, nello Stato, nelle Regioni, nei Comuni e
via dicendo. Lo scopo dell’Azione Cattolica è quello stesso della
dottrina sociale: la riforma sociale dell'intera società secondo
valori, per riempire la società e la democrazia di valori. L’Azione
Cattolica è pensiero, innanzi tutto formazione, e, appunto,
azione, che significa azione sociale, in ogni ambito in cui la
persona è inserita, a partire dalla famiglia e fin da molto piccoli.
Per trasformare secondo valori ogni società, lì dove le persone si
organizzano, e allora c'è chi comanda e chi segue, e quindi anche la
possibilità di agire per il bene comune, la felicità di tutti, o
approfittandosi a danno degli altri, facendoli soffrire. Famiglia,
scuola, lavoro, economia, politica istituzionale, solidarietà, arte, sport,
cultura… sono tutti campi di azione sociale di un
laico di Azione Cattolica per l’affermazione dei valori, per organizzare tutte
le società in cui è inserito, collaborando con tutti democraticamente, secondo
i valori. Ora il compito che ci è assegnato è molto più vasto di un tempo, non
riguarda più la sola Italia o l’Europa, ma il mondo intero: è questa la
prospettiva dell’enciclica Laudato si’, diffusa
nel 2015 dal papa Jorge Mario Bergoglio, regnante come Francesco dal 2013.
Non è un lavoro che si può affrontare da soli. Serve essere in tanti per
fare azione sociale, e innanzi tutto per capire realisticamente
il proprio tempo. Ma occorre essere in tanti per persuadere tanta altra gente
dei valori che occorre realizzare e, innanzi tutto, per mediare i
valori di fede in modo che possano essere condivisi da quante più persone
possibile. Bisogna prepararsi bene e fare tirocinio di
azione, come in tutte le attività umane. L’azione sociale si impara, non è
innata: anche a questo serve l’Azione Cattolica. Ma poi c’è da agire insieme,
ciascuno secondo quello che sa fare. Io, ad esempio, agisco anche
scrivendo cose come questa che state leggendo. Confrontandosi però con gli altri,
perché da soli spesso si smarrisce la strada. E’ come quando si va in montagna
in cordata, ciascuno legato ad altri:
se si cade, gli altri fanno sicurezza. I più esperti indicano
agli altri come fare per non rischiare. Spesso sanno come fare perché hanno
sbagliato e si sono corretti. La saggezza dei più anziani non di rado si
basa proprio su questo. Così progredisce l’umanità. Senza questa azione collettiva
i valori e la democrazia come valore sono a rischio. Di certi valori ci si deve
persuadere di generazione in generazione, a cominciare dai più giovani, per
parlar loro dei grandi
valori e iniziarli al tirocinio dell'azione sociale ad essi ispirata.
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FINE