Ragione e organizzazione comunitaria
La ragione è l’attività della mente
umana che consiste nel costruire concetti che possano essere socialmente condivisi sulla realtà e le sue dinamiche, descrivendole, facendone memoria e
prevedendone gli sviluppi, e sui progetti di azione. Definiamo concetto un pensiero che può essere socialmente
condiviso esprimendolo in un linguaggio, verbale o non verbale, e, in
particolare, simbolico. Un pensiero può essere socialmente condiviso se
costruito secondo una logica, vale a dire secondo un metodo che dia coerenza
al suo sviluppo. Ho molto
semplificato, a fini argomentativi, la materia, ma, a un primo livello di riflessione in queste
spiegazioni c’è quello che mi serve per procedere oltre secondo il mio programma.
Gran parte della teologia che, attraverso la
catechesi e la predicazione, giunge fino a tutte le persone di fede, in
particolare nelle loro comunità di prossimità, è stata organizzata nel Basso
Medioevo, dal Duecento, dall’epoca che viene definita Scolastica perché
caratterizzata dal lavoro intellettuale collettivo, nelle scuole, vale a
dire nei centri comunitari di studi intorno a maestri riconosciuti, che si
organizzarono nei monasteri, nelle cattedrali e nelle prime università. A
quell’epoca ebbero un ruolo molto importante la teologia, il diritto canonico e
il diritto romano: furono alla base della nuova struttura data nei secoli
seguenti al Papato romano e alla gerarchia ecclesiastica da esso controllata,
una riforma epocale della quale, in genere, nella formazione di base non viene
data consapevolezza, presentando le nostre comunità ecclesiali come scaturite
direttamente dalle origini. Si trattò di un processo che, durato fino alla fine
del Cinquecento, ci diede il Papato romano come il vertice di un impero
religioso assolutistico, organizzato in periferia secondo criteri feudali. Bisogna
avere chiara consapevolezza che questa costruzione istituzionale e ideologia
non risale alle origini: ne furono artefici le comunità monastiche, in
particolare quelle dei monaci cluniacensi e cistercensi, e le scuole universitarie medievali di teologia e diritto.
Purtroppo ne seguì la costruzione del laico, vale a dire della persona
non inquadrata nel clero o negli ordini religiosi, e come tale obbligato semplicemente
a seguire quello che gli viene ordinato
dalla gerarchia ecclesiastica, senza poter interloquire ponendo obiezioni,
anche ragionevoli, in modo da poter partecipare.
Questa riforma medievale, che ai tempi nostri
si cerca in qualche modo di correggere introducendo una nuova sinodalità popolare
coinvolgente tutte le persone, si basò sull’idea che organizzare una
comunità pubblica richieda l’esercizio della ragione. E’ un’idea
centrale nel pensiero di Tommaso d’Aquino, frate domenicano vissuto nel
Duecento che fu professore nell’Università di Parigi. Essa fu alla base anche
del pensiero politico dei papi Giovanni Paolo 2° (Enciclica Fede e ragione –
Fides et ratio del 1998) e Benedetto 16° (enciclica Carità nella verità
– Caritas in veritate del 2009). Ma si
sostiene anche che esercitando correttamente la ragione si deve concludere che
l’assolutismo ecclesiastico è la sola via legittima. In questo la ragione
confermerebbe gli enunciati della teologia fondati sulla fede religiosa.
L’organizzazione assolutistica del Papato
romano venne progettata per reagire all’incredibile corruzione in cui era
caduto, in particolare nel corso del
Decimo secolo, nel tempo in cui era divenuto una signoria territoriale
variamente collegata con l’impero di riferimento.
L’accentramento, tuttavia, non gli fece tanto
bene, intensificando le lotte politiche per ottenerne il controllo tra i vari
partiti che riuscivano ad avere voce nelle procedure di successione. E’ una
storia che è descritta, con competenza di storico professionista, da Alberto
Melloni nel libro, uscito da poco, Il conclave e l’elezione del Papa. Una
storia dal I al XXI secolo, Marietti1820 2025, anche in eBook e Kindle. Dall’11° al 14° secolo furono contemporaneamente
in carica diversi Papi. Vengono definiti antipapi quelli che, al dunque,
soccombettero. Durante il Concilio di Costanza (1414-1418), convocato dal
tedesco Sigismondo, imperatore del Sacro romano impero e dal Papa che
sedeva a Pisa, furono deposti tutti e tre i Papi che si contendevano
il potere, uno a Roma, uno ad Avignone e
uno appunto a Pisa, e ne venne nominato un altro, Martino 5°. Con un decreto il
Concilio sancì la propria supremazia sul Papato. In prosieguo, tuttavia, il Papato
revocò questo principio.
Le ragioni del Papato romano assolutistico
furono tutelate non solo nella dialettica universitaria ma anche con un
efferato sistema di polizia ideologica e
politica durato dal Duecento all’inizio dell’Ottocento, al quale posero fine i
processi democratici affermatisi in Europa dal Settecento. Nel 1600 ne fece le
spese il filosofo Giordano Bruno, grande anima, frate domenicano giustiziato qui a Roma sul
rogo, in piazza Campo dei Fiori, per delitti di pensiero, per aver esercitato
la ragione in maniera difforme da quella imposta dall’autorità ecclesiastica. Poco
dopo ne subì la sferza Galileo Galilei, primo enunciatore del metodo
scientifico moderno, che si salvò la vita piegando la testa al dispotismo. Morì
agli arresti domiciliari. Di questi crimini contro la libertà di pensiero il Papato
contemporaneo si è scusato con forza del tutto insufficiente rispetto all’enormità
dell’accaduto. E il Seicento non è poi così lontano da noi.
Gli enunciati che l’autorità ecclesiastica
ritiene criterio di discriminazione per
l’appartenenza ecclesiale, nel senso che o li si condivide o si è fuori,
vengono definiti verità, e il processo logico per arrivarvi è l’unica
via ragionevole ammessa. E’ una concezione dispotica della ragione che
ha fatto scrivere, nell’enciclica Carità nella verità, che la verità, in quel senso, è criterio
di valutazione dell’agàpe cristiana, il comandamento nuovo. Significa
che non può esservi pace se non sulla base di quella verità. Nella prima
lettera ai Corinzi si legge che tre sono le cose che rimangono, la fede, la
speranza e l’agàpe, ma che delle tre la più grande è quest’ultima [1Cor 13,13].
Ma la verità, intesa in quel senso, verrebbe prima.
Oltre che nell’enciclica Carità nella verità,
il papa Benedetto 16° sviluppò questa idea anche in un discorso tenuto a Ratisbona
nel 2006, nel quale polemizzò con l’Islam, accusandolo di aver praticato la
violenza per diffondere la propria fede perché non aveva confidato nella
ragione, che era dalla parte del cristianesimo. Tuttavia va ricordato che è realtà
storica indubitabile che i cristianesimi abbiano praticato la violenza, anche
in forme efferate, estese, stragiste e addirittura genocide (nella conquista europea
delle Americhe), per diffondere le fede, e che ciò venne ordinato anche dal
Papato romano, in particolare dal tempo in cui si organizzò in impero religioso
affermando che la ragione era dalla sua parte. Così come che l’Islam abbia espresso un
pensiero di elevata razionalità in vari campi, in particolare all’epoca delle
sue più splendide civiltà.
Il principale problema, sulla via di una nuova
reale sinodalità, è proprio questo della ragione dispotica, per cui non
è ammessa libertà di pensiero e dunque è impedito il dialogo ragionevole,
unica via per esercitare la ragione, quindi per condividere socialmente
il pensiero e, condividendolo, modificandolo sulla base delle argomentazioni
altrui.
La costruzione sociale, nelle organizzazioni
politiche e in quelle ecclesiali, richiede l’esercizio di una ragione dialogica
e dialogante, vale a dire disponibile a essere posta in discussione, e la
democrazia si crea quando a tutte le persone viene riconosciuto un ruolo in
questo dialogo, in modo che possano portarvi le proprie ragioni. In
democrazia la politica non è solo cosa da persone dotte, perché riguarda tutte
le persone e, come recita un principio escogitato nelle scuole medievali
di diritto canonico, deve quindi avere il consenso di tutte le persone che vi
sono coinvolte. Ma non deve essere, in fondo, così anche nelle cose della religione? Di fatto le
popolazioni di fede hanno inciso in molti modi nello sviluppo delle teologie cristiane,
a prescindere dalla riflessione colta, ragionevole.
Dal
Seicento, in Europa, si è cominciato ad utilizzare la dialettica razionale come
strumento rivoluzionario, per cambiare l’organizzazione politica delle società
che non corrispondeva più alle esigenze delle popolazioni. Ne sono scaturiti i
processi democratici dai quali abbiamo ricevuto le nostre democrazie avanzate. Non
si tratta di una ragione dispotica, ma di una ragione che accetta di essere
messa in discussione e che, soprattutto, accetta di confrontarsi in maniera obiettiva
con la realtà del mondo e delle società, senza scambiare per realtà le fantasiose
mitologie religiose, che hanno un ruolo nell’organizzazione sociale, ma diverso.
Il principio fondamentale, che è un cardine del liberalismo, è che sono
affidabili solo gli enunciati che ammettano di essere contraddetti nel
dibattito pubblico.
La storia delle teologie cristiane dimostra
chiaramente, con la sua incredibile violenza, che nulla è rimasto tale e
quale dalle origini e ciò nonostante il tentativo di sottomettere le coscienze
con persecuzioni e stragi e che, sempre, di fronte ad autorità che
pretendevano la soggezione acritica, la gente alla fine è insorta e ha cambiato
le cose.
Questo sarebbe il tanto deprecato relativismo?
Questa è la realtà dell’umanità di oggi e di sempre, che evolve nelle dinamiche
sociali e nel confronto con la natura e cerca di rappresentarsi una via d’azione
ragionevole.
Se nella costruzione sociale non ne teniamo
conto, rischiamo di confrontarci con le altre persone sicuri di avere già la
via giusta da seguire, quella in particolare che l’immaginazione dei teologi ha
ricavato per una qualche loro via ragionevole e che è stata assentita dall’assolutismo
gerarchico, e che quindi è presentata come indiscutibile. Ma la ragione non porta
mai ad un’unica soluzione: è come in certe classi di equazioni algebriche
(a proposito: la parola algebra, viene dall’arabo, come anche la parola algoritmo).
Incontrandosi tra gente diversa, senza un
sufficiente contesto culturale di collaborazione, all’inizio scoccano scintille,
che possono degenerare in conflitti. E’ allora che occorre iniziare a lavorare
con la ragione per cercare di creare un contesto plausibile di interazione
collaborativa e bisogna tentare di farlo coinvolgendo le parti in conflitto. Per
quanto si usino discorsi ragionevoli, confrontandosi su concetti, la soluzione
non scaturirà mai solo dalla mera logica, dal metodo, che comunque è
indispensabile per poter comunicare. In queste cose è importante
procedere per gradi, cercando di apprendere dagli effettivi tentativi di collaborazione
con risultati positivi e di creare regole di interazione condivise. Successivamente
ci si potrà continuare a lavorare per costruire un discorso ragionevole che
comunichi il senso di queste nuove forme di convivenza collaborativa. Il tirocinio
precede la sistemazione definitiva e la istituzionalizzazione.
Questo
è un modo di procedere che è raccomandabile fin dalle esperienze di
base, nelle comunità di prossimità, ad esempio nella vita di una parrocchia. Anzi,
ciò che si sperimenta su piccola scala può fornire elementi importantissimi per
costruire su scala più grande.
Questo di promuovere la ragionevolezza
dialogica nella costruzione sociale può essere visto come un vero e proprio ministero
quando si applica alla vita di una comunità ecclesiale. Naturalmente siamo
molto lontani da questo obiettivo. Da qui una certa condizione di estraneità
reciproca quando ci si incontra in parrocchia, salvo che nei piccoli gruppi nei
quali si è emotivamente più coinvolti.
La ragione dispotica crea una falsa sicurezza
nelle gerarchie ecclesiastiche che la promuovono: poi però si trovano di fronte
all’irrilevanza, perché la gente si determina diversamente. La ragione critica è invece una grande ricchezza perché consente
la vera costruzione sociale, quella che coinvolge in modo profondo e non per
timore di sanzioni. Ma vi ci si deve abituare: di solito, al di fuori degli ambiti
scientifici, e talvolta anche in quelli,
la gente non sa argomentare ragionevolmente a chi la contraddice portando
argomenti. Si adombra, soffre, cerca l’appoggio del prete, e, in definitiva,
tutto viene risolto da chi se lo riesce ad accattivare. Questo però non fa
crescere la comunità, perché umilia, sia chi soccombe, ma anche chi prevale, perché
prevale solo valendosi di un’autorità dispotica, che è quella che non accetta
di essere messa in discussione.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli