2 Giugno, Festa della Repubblica
Il 2 giugno 1946, a poco più di un anno dalla
fine della Seconda guerra mondiale e dalla caduta del regime fascista in Italia,
si votò per scegliere se al vertice dello stato riformato vi dovesse essere la
monarchia dinastica dei Savoia, come nel passato, o una Presidenza repubblicana
e per eleggere l’Assemblea Costituente. Quest’ultima avrebbe dovuto redigere e
approvare una nuova legge fondamentale dello Stato e svolgere, insieme al
Governo, alcune funzioni legislative, fino all’elezione di un nuovo Parlamento.
Furono le prime votazioni politiche nazionali
democratiche dopo quelle del 1924 e le prime nelle quali votarono anche le
donne.
Monarchia o Repubblica, tra i partiti politici
che avevano animato la Resistenza contro il regime fascista c’era l’accordo che
il nuovo Stato sarebbe stato una democrazia, quindi un sistema politico largamente
partecipato e organizzato secondo il principio dello stato di diritto, in cui nessun
potere, pubblico o privato, potesse essere illimitato e ogni potere dovesse
essere esercitato nei limiti normativi.
In questa annuale celebrazione di solito si
pone l’accento sulla scelta tra Monarchia e Repubblica, ma in realtà l’aspetto
più rilevante fu proprio quello dell’esercizio effettivo e largamente
partecipato della democrazia, da parte di una popolazione che per vent’anni era
stata soggetta ad un regime che la democrazia aveva diffamato, contrastato,
vietato e perseguitato, come fonte di disordine e di arbitrio. Fino al 1942 questa
era stata anche la posizione politica del Papato romano, che nel 1929 aveva concluso
con il regime fascista mussoliniano un accordo compromissorio che molti all’epoca
sentirono come disonorevole e che produsse un notevole consolidamento della
dittatura nel decennio che seguì.
Nel 1942, nel mezzo della guerra mondiale che
il Papato aveva tentato inutilmente di scongiurare e dal quale aveva cercato di
tener fuori l’Italia, il papa Pio 12°, con una serie di importantissimi
radiomessaggi natalizi, diede il via libera per la costruzione di una nuova democrazia
ispirata ai valori cristiani, esortando i cattolici democratici a lavoraci
sopra, cosa che fu fatta, anche nell’Assemblea Costituente. Infatti la nostra Costituzione
repubblicana è piena di principi tratti dalla dottrina sociale.
Quella dei Savoia era una delle monarchie sacralizzate
europee, vale a dire di quelle che
venivano presentate come regnanti per volontà divina. Nello Statuto che aveva
concesso nel 1948 quella cattolica era dichiarata l’unica religione dello
Stato, per quanto si dichiarasse anche che veniva ammessa la pratica di
altre religioni. Tale principio, incompatibile con il sistema dei valori
enunciato nella nuova Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1 gennaio
1948, fu dichiarato come superato solo con l’integrale riforma del Concordato Lateranense del 1984, a
seguito di un accordo con la Santa Sede, secondo la procedura prevista dalla nuova
Costituzione repubblicana. Il Concordato Lateranense faceva parte dei Patti
Lateranensi del 1929, insieme ad un Trattato, dal quale la Santa Sede ebbe la
Città del Vaticano, in una porzione di Roma, come entità territoriale sotto la sua
sovranità esclusiva. Così venne considerata
chiusa la Questione romana e per
celebrare l’evento il regime fascista fece costruire lo stradone tra il
Lungotevere e piazza San Pietro che chiamò Via della Conciliazione.
I rapporti tra la Santa Sede e la dinastia
Savoia erano diventati tesissimi dal 1870, quando il nuovo Regno d’Italia dei
Savoia, costituito nel 1861 a seguito del raggiungimento di un’unità nazionale,
aveva invaso militarmente lo Stato Pontificio, il regno territoriale del Papato
romano con capitale Roma, e, dopo una breve e impari guerra, lo aveva soppresso. Il papa Pio 9°, all’epoca
regnante, aveva scomunicato il Re d’Italia Vittorio Emanuele 2°, come anche il
Presidente del Consiglio dei ministri Camillo Benso di Cavour, e aveva vietato alle
persone di fede cattolica di partecipare alle elezioni politiche democratiche
italiane. La pretesa del Papato romano di riavere un regno territoriale a Roma
venne definita Questione Romana. Il divieto della politica nazionale, una
tragedia politica di dimensioni rilevantissime, venne ribadito dai papi Leone
13°, che nel 1901 arrivò a scomunicare il movimento per una democrazia cristiana,
e Pio 10°. Quest’ultimo però lo attenuò in vista delle elezioni del 1913. Sotto
il suo successore, Benedetto 15°, venne considerato superato e questo permise
la costituzione nel 1919 di un partito democratico cristiano che tuttavia, in
base all’interdetto del papa Leone 13°, non si chiamò Democrazia cristiana, ma Partito popolare, e che alle
elezioni del 1919 riportò un notevole successo, essendo risultato il secondo partito
(20% dei voti) dopo quello socialista (32%), mentre il partito dei fascisti
risultò irrilevante (2%).
Nel 1922 il Re Vittorio Emanuele di Savoia nominò
nondimeno Benito Mussolini, uno dei maggiori esponenti del fascismo italiano,
Presidente del Consiglio dei Ministri. Nel primo Governo di quest’ultimo entrarono
anche esponenti del Partito Popolare. Mussolini rimase Presidente del Consiglio
fino al 25 luglio 1943, quando venne costretto alle dimissioni da quello stesso
Re, che lo fece anche catturare e
internare sotto custodia. Il
monarca aveva avallato, fino ad allora, tutte le decisioni politiche del
Mussolini. Il papa Pio 11°, come ricordato, aveva concluso con lui i Patti
Lateranensi, definendolo in un discorso Uomo mandato dalla Provvidenza,
e, nell’enciclica Nel Quarantennale [dalla prima enciclica della dottrina
sociale contemporanea, la Delle Novità – Rerum Novarum promulgata nel 1891
dal papa Leone 13°), aveva esortato le persone italiane di fede a collaborare
nella costruzione del regime corporativo fascista, con il quale il fascismo
mussoliniano intendeva sostituire tutte le precedenti organizzazioni di
partecipazione politica e sindacale. Nel medesimo documento aveva anche
plaudito alla repressione dei socialisti.
Con il senno del poi, bisogna riconoscere che,
almeno fino al 1942, le posizioni politiche
della gerarchia cattolica, controllata dall’assolutismo papale, nei riguardi della
democrazia non furono tanto illuminate. Tuttavia l’Azione Cattolica italiana,
fondata nel 1906, sotto il regno liberticida del papa Pio 10°, per essere il partito
del Papa, fu una delle maggiori scuole di politica italiane, in
particolare tra le donne anche al tempo in cui erano escluse dal voto, e, per quanto
fascistizzatasi negli anni ’30 salvo che nei rami intellettuali degli universitari
e dei laureati, ponendo l’accento sui principi di giustizia sociale della
dottrina sociale, preparò una larga parte della
popolazione italiana alla democrazia. Questo lavoro fu espressamente di
scuola popolare democratica dal 1942, quando il Papato romano rimosse tutti gli
interdetti contro una democrazia cristiana.
Negli anni della Repubblica l’incidenza dell’Azione
cattolica nella formazione di una nuova classe politica e nell’orientamento
democratico della gente fu notevolissima. La cosiddetta scelta religiosa degli
anni ’60, con l’approvazione di un nuovo statuto sotto la presidenza nazionale
di Vittorio Bachelet, non fu un abbandono della politica, ma la conquista di un
sentimento democratico più ampio, ripudiando definitivamente il compito di
braccio politico del papato nella politica italiana, in particolare verso il
partito della Democrazia cristiana. Nel nuovo statuto l’Azione cattolica venne
definita esperienza popolare e democratica.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli