INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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sabato 17 maggio 2025

Organizzare la pace-agàpe

Organizzare la pace-agàpe

 

  A volte pare che organizzare la pace sembri troppo poco come attività specificamente religiosa.

  Ricordo che una volta, in parrocchia, mi si obiettò che questo erano capaci di farlo tutte le persone anche a prescindere dal soprannaturale. Ma è davvero così?

   L’etica cristiana è basata sull’agàpe, che possiamo tradurre come pace solidale, sollecita e misericordiosa. Non ogni pace lo è, come credo sia chiaro a tutte e tutti. Ci sono diverse gradazioni della pace, alle quali corrispondono varie qualità.

  In natura la pace non c’è. Pensare a una convivenza pacifica è dunque andare oltre la natura: il soprannaturale, appunto. Se poi la si immagina stabile e di alta qualità come quella che si insegna nel vangelo, questo è ancora più chiaro.

  Fare  pace non è solo un mezzo per conquistarsi la vita eterna, ma ne è già manifestazione, almeno di quella prefigurato nell’immaginario cristiano.  Dico immaginario perché riguarda una realtà, quella dell’altro mondo, di cui sappiamo poco, veramente poco, e allora si cerca di prefigurarselo lavorando di fantasia. Nulla di male, purché si mantenga la consapevolezza che di immaginario si tratta. Il comandamento nuovo  cristiano è l’agàpe, ciò che dura e che è più  grande anche di fede e speranza, secondo l’autore della prima Lettera ai Corinzi

 

Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità [agàpe]. Ma la più grande di tutte è la carità!

[νυνὶ δὲ μένει πίστις, ἐλπίς, ἀγάπη· τὰ τρία ταῦτα, μείζων δὲ τούτων ἡ ἀγάπη  - nunì dè mènei pistis, elpìs, agàpe: ta tria tàuta mèizon de tuton e agàpe] [dalla prima Lettera ai Corinzi, capitolo 13, versetti 12 e 13 – 1Cor 13, 12-13 – versione in italiano CEI 2018]

  Il soprannaturale ci è dato solo di immaginarlo, salvo l’agàpe. Quest’ultima va organizzata, non ci si deve immaginarsela discendere solo dal Cielo: questo è l’insegnamento evangelico.  Ma, nella misura in cui l’operazione riesce, essa manifesta il Cielo.

  Per il fatto che ci possono riuscire anche non battezzati non significa che il risultato da loro prodotto non sia cristiano se realizza l’agàpe evangelica.

  E’ necessario che lo si faccia dichiarando una certa dottrina? Alcuni pensano che sia così. Ma, in realtà, l’insegnamento evangelico non mi pare che vada in quella direzione. In particolare ci venne la parabola del Samaritano misericordioso, tanto ricordata negli anni passati, dov’è il farsi prossimi, quindi il non dogmatico darsi da fare, verso uno sconosciuto sofferente incontrato per caso sulla via che viene proposto come parametro dell’agape cristiana.

  Nei secoli passati, questo aspetto pratico  della realizzazione dell’agàpe   è stato non di rado messo in secondo piano, in particolare quando si cominciò ad occuparsi di costruire società su grande scala, e non solo delle relazioni di prossimità, alle quali si riferiscono gli episodi e la gran parte degli insegnamenti narrati nei Vangeli.

  Un grandioso esempio di questo è nell’opera La città di Dio – De civitate dei  di Agostino d’Ippona, vissuto in quel Quarto secolo in cui i vescovi divennero funzionari pubblici e avevano moglie e in cui venne progettata la riforma dell’antico Impero romano, trasferendone il centro in Tracia, a Bisanzio, dove lo rimase fino al 1453, alle soglie dell’età moderna. Nel Quarto secolo prevalevano gli autori orientali, che si esprimevano in greco. La teologia politica  di Agostino tornò particolarmente utile nel millennio successivo.  

 

Dalla voce  “Agostino di Ippona” di Enciclopedia Treccani on line – tratta da Storia della civiltà europea diretta da Umberto Eco (2014)

https://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-di-ippona_(Storia-della-civilt%C3%A0-europea-a-cura-di-Umberto-Eco)/

 

  Agostino è sempre molto sensibile ai segni dei tempi, alla storia e alle condizioni in cui si trova a operare come responsabile della propria comunità. Per comprendere quale potesse essere la percezione che in quegli anni si ha della situazione complessiva dell’impero, si può ricordare una data che ebbe un impatto devastante sui contemporanei: il 24 agosto 410 un’armata gotica al comando di Alarico per tre giorni mette a sacco la città di Roma, che è il centro di una civiltà millenaria e il cui impero si è venuto di fatto identificando con l’idea stessa di civiltà, di ordine, di storia. “Se Roma può perire, che cosa può esservi di sicuro?” chiede Girolamo in una delle sue lettere. Agostino reagisce con forza a questa situazione, sapendo perfettamente di essere riferimento importante sia dal punto di vista religioso sia da quello istituzionale e politico, e sapendo anche che proprio in questo momento si gioca una partita decisiva per il futuro del cristianesimo, accusato di essere causa dell’indebolimento di Roma e della sua cultura.

  Agostino capovolge il ragionamento, presentando il cristianesimo come la novità che anzi può dare nuovo vigore all’Impero romano, la cui decadenza si deve piuttosto ai suoi vizi, alle sue ipocrisie, alla sua incapacità di essere fedele a quelle grandi virtù descritte dai suoi letterati. Questo impegno di difesa del cristianesimo si colloca entro un’opera grandiosa, il De civitate Dei, in cui viene ripercorsa la storia di Roma che si trasfigura quasi nella storia dell’umanità. In essa convivono, mescolati in modo inestricabile, gli uomini che mettono al primo posto la ricerca di Dio, cioè dell’assoluto e della virtù, e gli uomini che mettono l’amore per se stessi davanti a ogni altra cosa, cercando solo di soddisfare i propri desideri terreni.

  Si tratta delle famose due città – quella di Dio e quella terrena – che mai vengono identificate con Stato e Chiesa, ma rappresentano due modelli di vita che in ogni caso sulla terra sono destinati a convivere. I grandi valori della tradizione romana sono fondati su quelli della città terrena, sulla sete di dominio – libido dominandi – e sull’arrogante ricerca dell’ammirazione e della lode. Il De civitate Dei è una lunga e articolata riflessione sui rapporti fra cristianesimo e cultura pagana e sulla funzione anche provvidenziale della storia di Roma per l’affermarsi e il diffondersi della religione cristiana. È il primo complesso tentativo di proporre entro la nuova cultura una filosofia della storia, che Agostino riesce a costruire grazie alla capacità di pensare l’umanità come un unico organismo vivente sulla base di una propria legge di sviluppo e l’intero corso della storia come dotato di significati comprensibili e governato da un’ordinata successione di età. In ogni epoca gli uomini si orientano intorno alle due città, in una tensione presente fin dall’inizio nello scontro fra Caino e Abele, che si ripropone in circostanze diverse, alle origini della civiltà romana, nello scontro emblematico fra Romolo e Remo.

 

  La città di Dio è un’opera di teologia politica, ma anche propriamente di politologia, di riflessione colta sull’organizzazione della politica, su come governare il mondo. Città  in quell’opera sta per civiltà e la prospettiva in cui scrisse Agostino era quella del mondo governato dall’Impero romano, nel quale, in un processo che è ancora piuttosto misterioso per carenza di fonti, ad un certo punto allignarono i cristianesimi. Ma è scritta da un filosofo come lo erano gli antichi e vi si fa molto conto sul ragionamento, sulla ragionevolezza dell’argomentare. Oggi, con lo sviluppo di antropologia e sociologia dall’Ottocento, ci si dedica molto di più all’osservazione della società com’è realmente.

  La città di Dio  è un’opera complessa, scritta nel latino del Quarto secolo. E’ incredibile quanto fossero prolifici gli antichi autori. Quelli che vennero considerati padri  della nostra fede ebbero le loro opere preservate con maggiore cura. Io ho quel testo nella versione italiana di Luigi Alici, pubblicata da Bompiani nel 2001. E’ un progetto di rifondazione della civiltà su basi cristiane: essa sarebbe dovuta avvenire mediante l’impegno della gente cristiana negli organismi pubblici di governo, in modo da riorientarli verso la Città di Dio. Fin da allora si aveva chiara consapevolezza che il lavoro nel mondo, per trasformarlo nel senso evangelico, richiedeva la conversione personale al bene,  e anzi partiva da lì. Nei secoli successivi, ad un certo punto si fece più conto sull’argomentare. Accanto alle virtù della fede, della speranza e della carità-agàpe si affermò, anche come criterio organizzativo, la verità, che però non conseguiva solo dal ragionevole argomentare ma alla decisione di un’autorità ecclesiastica sempre più accentrata in una gerarchia, nella quale il potere discendeva dal vertice, e quest’ultimo era sacralizzato, impersonando il Cristo in Terra.

   L’argomentare teologico che fu molto sviluppato dall’epoca della Scolastica, dal Dodicesimo secolo, che coincise con una epocale riforma del mondo europeo ormai cristianizzato. Fu caratterizzata, appunto, dall’argomentare secondo verità, mutuando il metodo dalla pratica giuridica, e dal tradurre in pratica ciò che si era progettato argomentando, riformando la società, imponendole leggi,  e cercando di renderla coerente in tutte le sue componenti.

 Agostino, secondo un costume che ancor oggi connota le teologie cristiane, argomenta principalmente sulla base delle narrazioni bibliche, senza però la profondità di comprensione consentita ai tempi nostri dagli sviluppi delle scienze bibliche e  utilizzando  anche altre fonti e l’osservazione della realtà, in un modo che però oggi non si usa più tanto con quell’intensità, nella teologia politica, perché si preferisce essere più aderenti alla realtà nello stabilire i principi dell’azione sociale, distinguendo mitologia e simbolismi dai dati ricavati dall’osservazione sul campo. Ai tempi nostri ne sappiamo molto di più di come va il mondo, la società, le stesse persone umane. A differenza dell’era in cui scrisse Agostino, dai tempi della Scolastica, dal Dodicesimo secolo, quell’argomentare di teologia e diritto per riorganizzare la società argomentare si fece in modo dialogico in ambito universitario, coinvolgendo tante menti. E’ ancora così. La disciplina divenne una scienza e il latino la sua lingua, perché era il linguaggio delle scienze, e lo rimase fino a metà Ottocento. Questo tagliò fuori gli incolti, la maggior parte della gente, che non intendeva più il latino scientifico né il gergo specialistico di teologia e diritto. E questo sebbene dal Duecento le società cristianizzate europee manifestassero chiari fermenti di popolo animati dalla riflessione evangelica. Essi furono repressi con ferocia incredibile secondo la sensibilità contemporanea.

  Dal Cinquecento progressivamente la situazione iniziò a cambiare. Sempre più la società tese a riappropriarsi del vangelo. Le fonti bibliche vennero rese progressivamente disponibili in traduzioni nelle lingue parlate dalla gente. E questo anche tra le comunità cattoliche nonostante la pervicace e violenta resistenza delle gerarchie ecclesiastiche, motivata dal timore che ne uscisse lesa la verità.

  Il dibattito è ancora vivo nella nostra Chiesa, nonostante che il Concilio Vaticano 2º (1962-1965), ribaltando le precedenti posizioni, avesse deliberato di aprire al popolo di fede le fonti bibliche, rendendole disponibili integralmente in traduzioni nelle lingue realmente parlate e dai testi originali, interpretati secondo il metodo delle scienze bibliche, non più solo dal latino ecclesiastico.

  Nel 2009, nell’enciclica Carità nella verità – Caritas in veritate, si concluse che la cosa più grande fosse la verità. La carità-agàpe non doveva essere considerata un criterio veritativo, ma era la verità, nel senso sopra precisato, che doveva definire ciò che era realmente agàpe. Questo rimetteva tutto nelle mani dei dotti in linea con la gerarchia e tagliava fuori l’altra gente.

  L’agàpe evangelica è un linguaggio universale perché ogni persona lo intende. Il metodo sinodale esteso a tutte le componenti della comunità ecclesiale vorrebbe darle spazio, ma finora non si è riusciti a trovare come fare in pratica. C’è di mezzo l’idea della verità e si teme che attenuando l’autoritarismo gerarchico che vi è connaturato l’organizzazione ecclesiastica di sfaldi. Di fatto la pressione autoritaria non è più forte in società come un tempo, per lo sviluppo dei processi democratici e per la sempre più elevata scolarizzazione delle masse, che le rende insofferenti alla mera sudditanza.

  Di fatto, e a prescindere dagli sviluppi della sinodalità, la voce della gente si è fatta sentire. Contemporaneamente però si sono manifestate crescenti difficoltà, nelle società europee, le più evolute del mondo sotto questo profilo, nella pratica della democrazia, vale a dire nel governo della società partecipato. Le società europee sono molto più popolate di un tempo e la composizione culturale ed etnica è mutata sia l’evoluzione generazionale dei costumi, sia per fenomeni migratori interni ed esterni, con molta più gente che va e che viene, che insomma si sposta, portandosi dietro le culture di riferimento.

  Il degradarsi dei processi democratici ha dato più potere alle oligarchie sociali, le quali, come sempre accade, cercano di diffondere culture per legittimarsi, riproponendo ideologie e liturgie  autoritarie che solo due decenni fa sembravano obsolete. La cosa ha interessato anche la nostra Chiesa, ad esempio con la papolatria di questi giorni, con la gente che accetta di farsi massa plaudente, semplice comparsa nelle liturgie di un potere sovrano.

   Se si pensa sia utile aver qualche parte nell’organizzazione della società, bisognerebbe prendere consapevolezza che, nel farlo, non si deve pensare di poter fare da soli, e di potersi limitare a ciò che è già stato scritto e osservato. E’ indispensabile incontrarsi  e argomentare dialetticamente, vale a dire dialogando, quindi anche affrontando le divergenze, rifiutando però di tagliar corto cercando di prevaricare o escludere. E’ necessario far convergere diversi punti di vista, perché nessuno, da solo, anche se sorretto da una grande mente, può avere una visione sufficientemente completa del mondo. Ne manifestarono consapevolezza i saggi del Concilio Vaticano 2º, che invitarono il popolo di fede a manifestare il proprio apporto ai pastori. Ma se poi non si riesce ad intendersi, a raggiungere una decisione condivisa?

  Nelle questioni che riguardano l’immaginario, e tipicamente lo sono quelle che riguardano le fantasie costruite  sul soprannaturale, si può anche mantenersi divisi, praticando ognuno a modo proprio, se non ci si accorda. Sul resto, su ciò che riguarda la vita reale, in genere un accordo si trova sempre sulla soluzione in cui la maggior parte ottiene un beneficio e l’altra parte non ne è troppo danneggiata. Allora il criterio maggioritario soccorre, perché in queste condizioni, raggiunto un punto di equilibrio, la decisione a maggioranza viene accettata. È la pratica democratica, della quale quella sinodale è una specie, che rende sempre più abili nel raggiungere quel risultato. È ciò che sperimentiamo in Azione Cattolica, ma non in parrocchia, dove la sinodalità esiste ancora in ambiti limitatissimi. Questo non comporta che le decisioni non sinodali siano accettate da tutti, ma che le persone a cui non vanno bene se ne allontanano, votando con i piedi, come si dice. Certo, non si manifestano conflitti, perché ci va chi ci sta, ma questa agàpe è di mediocre qualità.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

 


venerdì 16 maggio 2025

Dottrina cattolica sulla “guerra giusta”.Sintesi mediante ChatGPT

Ricerca ChatGPT 16MAG25

 

Prompt: origini, sviluppo e autori principali della dottrina della Chiesa cattolica sulla “guerra giusta”

 

Risultato:

 

La dottrina della “guerra giusta” nella Chiesa Cattolica ha una lunga evoluzione che riflette i cambiamenti storici, teologici e morali nel corso dei secoli.


Origini: Agostino di Ippona e la prima formulazione

 

Le prime riflessioni cristiane sulla guerra erano fortemente pacifiste, considerando ogni conflitto armato incompatibile con l’insegnamento evangelico. Tuttavia, Agostino di Ippona (354–430) elaborò una teoria più articolata, sostenendo che una guerra poteva essere moralmente giustificata se ordinata da un’autorità legittima, per una causa giusta e con retta intenzione. Per Agostino, la guerra era un male necessario in un mondo segnato dal peccato originale, ma poteva essere tollerata per ristabilire la giustizia e l’ordine .


Sviluppo scolastico:  Tommaso d’Aquino

 

Nel XIII secolo, Tommaso d’Aquino sistematizzò la dottrina della guerra giusta nella sua “Summa Theologiae”, delineando tre criteri fondamentali:

1.  Legittima autorità (legitima auctoritas): solo l’autorità pubblica competente può dichiarare guerra.

2.  Giusta causa (iusta causa): la guerra deve mirare a correggere un torto subito.

3.  Rettitudine d’intenzione (recta intentio): l’obiettivo deve essere il bene e la pace, non la vendetta o il potere.

 

Questi principi sono stati fondamentali per la teologia morale cattolica successiva .


Approfondimenti nella Scuola di Salamanca

 

Nel XVI secolo, teologi come Francisco de Vitoria, Domingo de Soto, Luis de Molina e Francisco Suárez, appartenenti alla Scuola di Salamanca, approfondirono la dottrina della guerra giusta nel contesto delle scoperte e conquiste coloniali. Vitoria, in particolare, introdusse il principio di proporzionalità, sostenendo che i mali causati dalla guerra non devono superare i benefici attesi. Egli affermò anche che la guerra è giustificata solo come ultima risorsa, dopo aver esaurito tutte le vie pacifiche .


Revisione contemporanea: dal Concilio Vaticano II a Papa Francesco

 

Nel XX secolo, la Chiesa ha progressivamente rivisto la dottrina della guerra giusta, soprattutto alla luce delle devastazioni delle due guerre mondiali e della minaccia nucleare. Papa Benedetto XV definì la Prima Guerra Mondiale come un’“inutile strage”, mettendo in discussione la giustificazione morale dei conflitti armati. L’enciclica “Pacem in Terris” di Giovanni XXIII (1963) e la costituzione pastorale “Gaudium et Spes” del Concilio Vaticano II (1965) hanno ulteriormente enfatizzato la necessità di risolvere le controversie internazionali attraverso il dialogo e la negoziazione, riducendo drasticamente le condizioni per considerare una guerra come giusta .

 

Papa Francesco ha continuato su questa linea, criticando l’uso dell’espressione “guerra giusta” e sottolineando che la guerra è sempre un fallimento dell’umanità. Egli ha affermato che, nel mondo moderno, con armi di distruzione di massa e conflitti asimmetrici, è difficile soddisfare i criteri tradizionali della guerra giusta, rendendo tale concetto quasi inapplicabile .


Conclusione

 

La dottrina della guerra giusta nella Chiesa Cattolica è passata da una giustificazione condizionata del conflitto armato a una posizione sempre più restrittiva e critica nei confronti della guerra. Oggi, la Chiesa promuove la pace, il dialogo e la risoluzione non violenta dei conflitti, considerando la guerra come un male da evitare in ogni modo possibile.

 


giovedì 15 maggio 2025

La pace “giusta”

La pace “giusta”

 

  Potrebbe essere interessante programmare in parrocchia un laboratorio sinodale per dialogare sulla pace, se solo lo si potesse fare prescindendo dal teologhese, vale a dire il confuso chiacchiericcio che spesso si fa negli ambienti ecclesiali storpiando il gergo teologico.

  La teologia, cioè la riflessione colta sulla fede comunitaria, è una cosa seria, ma solo se, appunto, è colta, vale a dire sufficientemente informata e consapevole del preciso senso delle espressioni che usa e dell’evoluzione storica dei concetti. Altrimenti è meglio metterla da parte. In materia di pace, poi, non si è dimostrata particolarmente utile, tutt’altro purtroppo. Quando ci si affanna su assunti indimostrabili, come tipicamente sono quelli che riguardano il soprannaturale, si finisce sempre per menare le mani: è andata sempre così e non c’è ragione di pensare che le cose cambino.

  Il problema di far pace, vale a dire di costruirla, riguarda tutte le persone da vicino, fin nei loro ambienti sociali di prossimità e fin da quando sono piccole. Nei giochi di gruppo infantili possiamo osservare messe in scena tutte le dinamiche di conflittualità e di pacificazione che caratterizzano le società delle persone adulte.

  Tuttavia le persone adulte hanno poca fiducia nella capacità di bimbe e bimbi di autoorganizzarsi pacificamente e hanno torto, perché ci si riesce anche a quell’età, pur tra ricorrenti drammi di conflittualità,  che tuttavia durano poco. Da un giorno all’altro si può ricominciare da capo, cosa che non riesce più tra le persone adulte. D’altra parte, così, le forme di organizzazione che si affermano rimangono precarie, ma in definitiva non occorre che durino di più, perché da piccoli si cambia profondamente e velocemente e ogni assetto sociale dura solo finché serve. Questa è una lezione che da persone adulte si tende a dimenticare e allora si immaginano società eterne, che non possono esistere se non nella fantasia.

  Ora di solito si dice che il nostro Dio vuole la pace. Ma per gran parte della storia dei cristianesimi non la si è pensata così. Si pensava che la pace non fosse alla portata degli umani e che dovesse discendere dal Cielo, ma alla fine dei tempi. Il libro dell’Apocalisse, nella Bibbia cristiana, si conclude con una visione simile.

  In alcune parti della Bibbia si plaude allo sterminio dei nemici. In altre la guerra è presentata come una punizione divina. Nei Vangeli se ne parla, di sfuggita,  come di un flagello in qualche modo collegato alla cattiveria degli esseri umani e, in particolare, al rifiuto del vangelo e del Cristo. In questi contesti scritturistici c’è un’idea di giustizia come obbedienza ai comandamenti divini. La disubbidienza turba la pace tra Cielo e terra, il patto santo, e di conseguenza quella tra gli esseri umani. In altre parti se ne propone un’idea più legata all’esperienza comune, dove per giustizia si intende una certa proporzionalità negli scambi. In altre ancora la persona giusta è quella che si lascia guidare dalla pietà.

  Le Scritture sono molto utili per discutere di pacificazione, perché propongono una serie di situazioni conflittuali, con le relative conseguenze, sulle quali si può provare ad argomentare come far pace. Ma non contengono soluzioni definitive, altrimenti le società animate dalla religiosità biblica sarebbero state pacifiche, mentre sono state storicamente molto bellicose.

  A tutti piace pensare di poter vivere in situazioni di pace, che generano sicurezza e, rendendo possibile dinamiche collaborative, maggiore ricchezza. Ma si vorrebbe la pace alle proprie condizioni e questa è quella che, da chi ne parla, è definita pace giusta. Ma naturalmente non lo è se non nella misura in cui un’idea di giustizia sia realmente condivisa tra i gruppi potenzialmente o realmente in conflitto. Così, per perpetuare all’infinito i conflitti non mi pare che vi sia via migliore che quella di mirare a una pace giusta.

  Una situazione di pace, caratterizzata dall’impiego più contenuto della violenza, è in genere più vantaggiosa di una situazione conflittuale, con produzione di violenza anarchica, in cui ogni persona pensa solo o prevalentemente al proprio interesse, o istituzionalizzata, in cui ci si organizza per darsi addosso gli uni gli altri. Questo perché le dinamiche sociali collaborative, favorite in condizione di pace sociale,  producono ricchezza. Anche la predazione a spese degli altri arricchisce, certo, ma è un arricchimento di breve momento se non produce poi anche nuove dinamiche collaborative mediante le quali si crei nuova ricchezza.

  Tuttavia non ogni situazione di pace è equivalente. Vi sono varie qualità della pace sociale, che non dipendono da una qualche giustizia, ma dall’intensità ed estensione della violenza necessaria per mantenerle, dopo che si sono affermate in società. Maggiore è l’intensità ed estensione delle dinamiche collaborative, minore è la violenza necessaria per mantenere una situazione di pace e, di conseguenza, più alta è la qualità della pace organizzata.

   La pace diventa precaria quando una o più componenti sociali trovano conveniente aprire un conflitto per superare un certo ordinamento. Questo può accadere sempre, anche in situazioni di pace di alta qualità, ma la situazione in cui più frequentemente si produce è quando strati sempre più vasti  di popolazione vengono emarginati o esclusi dalle dinamiche collaborative,  che si realizzano come scambio, partecipazione e distribuzione di utilità socialmente prodotte, e allora, contandosi, sentendosi forti,  e facendo il bilancio delle sofferenze presenti rispetto a quelle di un conflitto, in rapporto anche con i benefici conseguibili da un rovesciamento del sistema di potere, si decide che vale la pena di rischiare.

  Una delle vie di pacificazione è dunque quella di rendere nuovamente possibili, di mantenere ed estendere dinamiche sociali collaborative, includendovi sempre più gente. Trattandosi di fatti sociali, occorre anche indurre una corrispondente cultura, che le renda socialmente plausibili. In questo anche le religioni possono, in astratto, essere utili, anche se storicamente sono state impiegate maggiormente per sacralizzare situazioni conflittuali. Ora può dispiacere, ma è andata così.

  C’è chi pensa che la pace si costruisca meglio rovesciando in un colpo solo ordinamenti considerati ingiusti in una certa prospettiva, ma in realtà l’esperienza storica dimostra, al contrario, che è più efficace lavorare di fino sull’esistente, provando a cambiarlo poco a poco. È la via che è stata definita come riformismo.

  Tutte le società umane cambiano nel tempo perché si succedono le generazioni e nessuna è mai uguale alla precedente. Ma cambiano anche perché le popolazioni e le relative culture si ibridano, avvicinandosi. Questo è il clima sociale favorevole al riformismo, come anche alle dinamiche collaborative. Di solito, invece, le società resistono ai cambiamenti rivoluzionari, perché il loro esito è meno prevedibile e, così, generano insicurezza. Una volta che si comincia a rovesciare, non si sa mai bene come finirà. È anche il caso delle guerre. Chi le ordina assicura che saranno sicuramente vinte in breve, ma questo raramente accade. Questo fu il contesto in cui gli italiani furono trascinati nelle due guerre mondiali (che iniziarono e rimasero però sostanzialmente europee, mentre la guerra con il Giappone, che si inserì nella seconda, fu sostanzialmente un processo indipendente) da chi le ordinò.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

 


mercoledì 14 maggio 2025

Spiritualità spiritistica e agàpe cristiana

Spiritualità spiritistica e agàpe cristiana

 

 Nella nostra Chiesa si praticano le spiritualità più diverse. Alcune di esse mi sono particolarmente aliene, ma non per questo solo critico chi vi si affida.

  Una è la spiritualità papolatrica, basata sul culto del Papa regnante costruito intorno a una sua leggenda. Nei giorni passati è dilagata. L’altra è quella spiritistica che consiste nel confidare che le cose cambino per azione di potenze soprannaturali evocata mediante rituali e orazioni. Lo spiritismo può essere  legato a potenti fattori emotivi, ma fondamentalmente è illusorio e, nella misura in cui estranea dalla realtà, serve poco nella costruzione sociale, che deve farsi su basi più solide. Purtroppo, spesso, al termine della formazione religiosa di base che si fa per le persone cattoliche, le spiritualità papolatriche e spiritistiche sono quelle che vengono proposte a fondamento della vita di fede.

  Dal Seicento, vi è chi, nelle cose del mondo, consiglia di affrontarle “come se Dio non ci fosse” ed è un principio d’azione che durante il Concilio Vaticano 2º (1962-1965) è stato declinato come il riconoscere l’autonomia delle cose della natura e della società, senza pensare di far dipendere la risoluzione delle relative questioni facendo riferimento solo al soprannaturale. Bisogna capire realisticamente le dinamiche naturali e sociali. Questo non accade quando si fanno entrare in campo gli spiriti.

  A me quel come se urta. Preferisco pensare che il mio Dio agisca in modo imperscrutabile. Mi basta pensarlo come agàpe e fonte di agàpe. Non è una potenza soprannaturale malvagia e ostile e non ci vuole così. L’agàpe è lo specifico cristiano e il comandamento nuovo. Il cristianesimo è il movimento che religiosamente, quindi a prescindere da come vanno le cose nella natura e nella società, vuole salvare inducendo l’agàpe. Il Cristo è il suo salvatore e ci si propone di mettersi alla sua sequela.

  La parola italiana amore non traduce bene il greco antico agàpe, che può essere reso meglio con pace universale, solidale e misericordiosa. È il senso pasquale che leggiamo nell’inno, familiare a chi pratica la Liturgia delle Ore:

 

Il Signore risorto

promulga per i secoli

l’editto della pace.

 

Pace tra Cielo e Terra,

pace fra tutti i popoli

pace nei nostri cuori.

 

L’alleluia pasquale

risuoni nella Chiesa

pellegrina nel mondo;

 

e si unisca alla lode

armoniosa e perenne

dell’assemblea dei santi.

 

  L’agàpe è importante perché manifesta le realtà soprannaturali. Infatti essa non c’è in natura, che è organizzata come lotta di tutti contro tutti, con una solidarietà che, in queste dinamiche di lotta, svanisce allontanandosi dai gruppi di prossimità perché è finalizzata solo alla sopravvivenza in quella lotta a spese di altri. La differenza rispetto all’agàpe cristiana è notevole ed è stata recentemente ricordata ai sovranisti statunitensi, che propongono gradi nellagàpe da un massimo per i parenti a livelli minori andando verso i lontani, in una lettera che papa Francesco ha inviato ai vescovi statunitensi il 10 febbraio di quest’anno 2025, su suggerimento dell’allora cardinale Robert Francis Prevost

 

6. I cristiani sanno molto bene che è solo affermando la dignità infinita di tutti che la nostra identità di persone e di comunità giunge a maturazione. L’amore cristiano non è un’espansione concentrica di interessi che poco a poco si estendono ad altre persone e gruppi. In altre parole: la persona umana non è un mero individuo, relativamente espansivo, con qualche sentimento filantropico! La persona umana è un soggetto dotato di dignità che, attraverso la relazione costitutiva con tutti, specialmente con i più poveri, un po’ alla volta può maturare nella sua identità e vocazione. Il vero ordo amoris che occorre promuovere è quello che scopriamo meditando costantemente la parabola del “Buon Samaritano” (cfr. Lc 10, 25-37), ovvero meditando sull’amore che costruisce una fratellanza aperta a tutti, senza eccezioni. 

 

  Nell’agàpe sovranista,  che ricalca quella naturale delle belve dalle quali biologicamente discendiamo, la solidarietà è massima nei gruppi di prossimità, nellagàpe cristiana invece ci si fa prossimi ai sofferenti, anche oltre quei gruppi e con la medesima intensità, come il Samaritano della parabola.

  Per quanto l’agàpe cristiana manifesti realtà soprannaturali, non ci si può limitare ad attenderla per virtù prodigiosa, bisogna darsi da fare. Questo fu l’esempio del Cristo stesso e l’insegnamento della parabola del Samaritano misericordioso.

  Quando si comincia a intervenire, con quei fini, sull’organizzazione della società, le cose si complicano. Occorre conquistare una sapienza nelle cose umane che non è solo religiosa. Nei racconti evangelici si era ancora in una fase prodromica. Il Maestro non ci lasciò un ordinamento, con istituzioni e norme ad esse relative. Ci impartì solo il comandamento nuovo, vale a dire di costruire l’agàpe facendosi prossimi gli uni agli altri, mettendolo in atto nella propria missione terrena, fino alla fine.

  Nello sviluppo delle Chiese cristiane si procedette per tentativi, ragionandoci sopra. Con il senno del poi, gran parte di ciò che s’è fatto lascia a desiderare. Ci fu tanta violenza. Quest’ultima è il contrario dell’agàpe. Ma, in genere, si ritenne di non poterne prescindere, e ancor oggi, in fondo, è così. Ma, sulla via dell’agàpe, che è il comandamento soprannaturale, il Cielo che accosta la Terra, ci si può migliorare, se solo si decide di non rimanere fermi ai costumi violenti, per costruire convivenze meno violente, per poi scoprire, come scriveva il filosofo Aldo Capitini che ieri si era violenti.

  La scuola di agàpe potrebbe essere utilmente al centro della formazione delle persone di fede che si propongono di operare nelle istituzioni e nelle professioni. Non si tratta tanto e solo di chiarire i contesti teologici, che di questo lavoro sono solo il presupposto, ma di apprendere come costruire la società incidendovi sulla via dell’agàpe, e questo fin da molto giovani, fin da quando, da bambini, si comincia ad interagire con una certa autonomia nei gruppi di coetanei.

Mario Ardigò- Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli