Organizzare la pace-agàpe
A volte pare che organizzare la pace sembri troppo poco come attività specificamente religiosa.
Ricordo che una volta, in parrocchia, mi si obiettò che questo erano capaci di farlo tutte le persone anche a prescindere dal soprannaturale. Ma è davvero così?
L’etica cristiana è basata sull’agàpe, che possiamo tradurre come pace solidale, sollecita e misericordiosa. Non ogni pace lo è, come credo sia chiaro a tutte e tutti. Ci sono diverse gradazioni della pace, alle quali corrispondono varie qualità.
In natura la pace non c’è. Pensare a una convivenza pacifica è dunque andare oltre la natura: il soprannaturale, appunto. Se poi la si immagina stabile e di alta qualità come quella che si insegna nel vangelo, questo è ancora più chiaro.
Fare pace non è solo un mezzo per conquistarsi la vita eterna, ma ne è già manifestazione, almeno di quella prefigurato nell’immaginario cristiano. Dico immaginario perché riguarda una realtà, quella dell’altro mondo, di cui sappiamo poco, veramente poco, e allora si cerca di prefigurarselo lavorando di fantasia. Nulla di male, purché si mantenga la consapevolezza che di immaginario si tratta. Il comandamento nuovo cristiano è l’agàpe, ciò che dura e che è più grande anche di fede e speranza, secondo l’autore della prima Lettera ai Corinzi
Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità [agàpe]. Ma la più grande di tutte è la carità!
[νυνὶ δὲ μένει πίστις, ἐλπίς, ἀγάπη· τὰ τρία ταῦτα, μείζων δὲ τούτων ἡ ἀγάπη - nunì dè mènei pistis, elpìs, agàpe: ta tria tàuta mèizon de tuton e agàpe] [dalla prima Lettera ai Corinzi, capitolo 13, versetti 12 e 13 – 1Cor 13, 12-13 – versione in italiano CEI 2018]
Il soprannaturale ci è dato solo di immaginarlo, salvo l’agàpe. Quest’ultima va organizzata, non ci si deve immaginarsela discendere solo dal Cielo: questo è l’insegnamento evangelico. Ma, nella misura in cui l’operazione riesce, essa manifesta il Cielo.
Per il fatto che ci possono riuscire anche non battezzati non significa che il risultato da loro prodotto non sia cristiano se realizza l’agàpe evangelica.
E’ necessario che lo si faccia dichiarando una certa dottrina? Alcuni pensano che sia così. Ma, in realtà, l’insegnamento evangelico non mi pare che vada in quella direzione. In particolare ci venne la parabola del Samaritano misericordioso, tanto ricordata negli anni passati, dov’è il farsi prossimi, quindi il non dogmatico darsi da fare, verso uno sconosciuto sofferente incontrato per caso sulla via che viene proposto come parametro dell’agape cristiana.
Nei secoli passati, questo aspetto pratico della realizzazione dell’agàpe è stato non di rado messo in secondo piano, in particolare quando si cominciò ad occuparsi di costruire società su grande scala, e non solo delle relazioni di prossimità, alle quali si riferiscono gli episodi e la gran parte degli insegnamenti narrati nei Vangeli.
Un grandioso esempio di questo è nell’opera La città di Dio – De civitate dei di Agostino d’Ippona, vissuto in quel Quarto secolo in cui i vescovi divennero funzionari pubblici e avevano moglie e in cui venne progettata la riforma dell’antico Impero romano, trasferendone il centro in Tracia, a Bisanzio, dove lo rimase fino al 1453, alle soglie dell’età moderna. Nel Quarto secolo prevalevano gli autori orientali, che si esprimevano in greco. La teologia politica di Agostino tornò particolarmente utile nel millennio successivo.
Dalla voce “Agostino di Ippona” di Enciclopedia Treccani on line – tratta da Storia della civiltà europea diretta da Umberto Eco (2014)
https://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-di-ippona_(Storia-della-civilt%C3%A0-europea-a-cura-di-Umberto-Eco)/
Agostino è sempre molto sensibile ai segni dei tempi, alla storia e alle condizioni in cui si trova a operare come responsabile della propria comunità. Per comprendere quale potesse essere la percezione che in quegli anni si ha della situazione complessiva dell’impero, si può ricordare una data che ebbe un impatto devastante sui contemporanei: il 24 agosto 410 un’armata gotica al comando di Alarico per tre giorni mette a sacco la città di Roma, che è il centro di una civiltà millenaria e il cui impero si è venuto di fatto identificando con l’idea stessa di civiltà, di ordine, di storia. “Se Roma può perire, che cosa può esservi di sicuro?” chiede Girolamo in una delle sue lettere. Agostino reagisce con forza a questa situazione, sapendo perfettamente di essere riferimento importante sia dal punto di vista religioso sia da quello istituzionale e politico, e sapendo anche che proprio in questo momento si gioca una partita decisiva per il futuro del cristianesimo, accusato di essere causa dell’indebolimento di Roma e della sua cultura.
Agostino capovolge il ragionamento, presentando il cristianesimo come la novità che anzi può dare nuovo vigore all’Impero romano, la cui decadenza si deve piuttosto ai suoi vizi, alle sue ipocrisie, alla sua incapacità di essere fedele a quelle grandi virtù descritte dai suoi letterati. Questo impegno di difesa del cristianesimo si colloca entro un’opera grandiosa, il De civitate Dei, in cui viene ripercorsa la storia di Roma che si trasfigura quasi nella storia dell’umanità. In essa convivono, mescolati in modo inestricabile, gli uomini che mettono al primo posto la ricerca di Dio, cioè dell’assoluto e della virtù, e gli uomini che mettono l’amore per se stessi davanti a ogni altra cosa, cercando solo di soddisfare i propri desideri terreni.
Si tratta delle famose due città – quella di Dio e quella terrena – che mai vengono identificate con Stato e Chiesa, ma rappresentano due modelli di vita che in ogni caso sulla terra sono destinati a convivere. I grandi valori della tradizione romana sono fondati su quelli della città terrena, sulla sete di dominio – libido dominandi – e sull’arrogante ricerca dell’ammirazione e della lode. Il De civitate Dei è una lunga e articolata riflessione sui rapporti fra cristianesimo e cultura pagana e sulla funzione anche provvidenziale della storia di Roma per l’affermarsi e il diffondersi della religione cristiana. È il primo complesso tentativo di proporre entro la nuova cultura una filosofia della storia, che Agostino riesce a costruire grazie alla capacità di pensare l’umanità come un unico organismo vivente sulla base di una propria legge di sviluppo e l’intero corso della storia come dotato di significati comprensibili e governato da un’ordinata successione di età. In ogni epoca gli uomini si orientano intorno alle due città, in una tensione presente fin dall’inizio nello scontro fra Caino e Abele, che si ripropone in circostanze diverse, alle origini della civiltà romana, nello scontro emblematico fra Romolo e Remo.
La città di Dio è un’opera di teologia politica, ma anche propriamente di politologia, di riflessione colta sull’organizzazione della politica, su come governare il mondo. Città in quell’opera sta per civiltà e la prospettiva in cui scrisse Agostino era quella del mondo governato dall’Impero romano, nel quale, in un processo che è ancora piuttosto misterioso per carenza di fonti, ad un certo punto allignarono i cristianesimi. Ma è scritta da un filosofo come lo erano gli antichi e vi si fa molto conto sul ragionamento, sulla ragionevolezza dell’argomentare. Oggi, con lo sviluppo di antropologia e sociologia dall’Ottocento, ci si dedica molto di più all’osservazione della società com’è realmente.
La città di Dio è un’opera complessa, scritta nel latino del Quarto secolo. E’ incredibile quanto fossero prolifici gli antichi autori. Quelli che vennero considerati padri della nostra fede ebbero le loro opere preservate con maggiore cura. Io ho quel testo nella versione italiana di Luigi Alici, pubblicata da Bompiani nel 2001. E’ un progetto di rifondazione della civiltà su basi cristiane: essa sarebbe dovuta avvenire mediante l’impegno della gente cristiana negli organismi pubblici di governo, in modo da riorientarli verso la Città di Dio. Fin da allora si aveva chiara consapevolezza che il lavoro nel mondo, per trasformarlo nel senso evangelico, richiedeva la conversione personale al bene, e anzi partiva da lì. Nei secoli successivi, ad un certo punto si fece più conto sull’argomentare. Accanto alle virtù della fede, della speranza e della carità-agàpe si affermò, anche come criterio organizzativo, la verità, che però non conseguiva solo dal ragionevole argomentare ma alla decisione di un’autorità ecclesiastica sempre più accentrata in una gerarchia, nella quale il potere discendeva dal vertice, e quest’ultimo era sacralizzato, impersonando il Cristo in Terra.
L’argomentare teologico che fu molto sviluppato dall’epoca della Scolastica, dal Dodicesimo secolo, che coincise con una epocale riforma del mondo europeo ormai cristianizzato. Fu caratterizzata, appunto, dall’argomentare secondo verità, mutuando il metodo dalla pratica giuridica, e dal tradurre in pratica ciò che si era progettato argomentando, riformando la società, imponendole leggi, e cercando di renderla coerente in tutte le sue componenti.
Agostino, secondo un costume che ancor oggi connota le teologie cristiane, argomenta principalmente sulla base delle narrazioni bibliche, senza però la profondità di comprensione consentita ai tempi nostri dagli sviluppi delle scienze bibliche e utilizzando anche altre fonti e l’osservazione della realtà, in un modo che però oggi non si usa più tanto con quell’intensità, nella teologia politica, perché si preferisce essere più aderenti alla realtà nello stabilire i principi dell’azione sociale, distinguendo mitologia e simbolismi dai dati ricavati dall’osservazione sul campo. Ai tempi nostri ne sappiamo molto di più di come va il mondo, la società, le stesse persone umane. A differenza dell’era in cui scrisse Agostino, dai tempi della Scolastica, dal Dodicesimo secolo, quell’argomentare di teologia e diritto per riorganizzare la società argomentare si fece in modo dialogico in ambito universitario, coinvolgendo tante menti. E’ ancora così. La disciplina divenne una scienza e il latino la sua lingua, perché era il linguaggio delle scienze, e lo rimase fino a metà Ottocento. Questo tagliò fuori gli incolti, la maggior parte della gente, che non intendeva più il latino scientifico né il gergo specialistico di teologia e diritto. E questo sebbene dal Duecento le società cristianizzate europee manifestassero chiari fermenti di popolo animati dalla riflessione evangelica. Essi furono repressi con ferocia incredibile secondo la sensibilità contemporanea.
Dal Cinquecento progressivamente la situazione iniziò a cambiare. Sempre più la società tese a riappropriarsi del vangelo. Le fonti bibliche vennero rese progressivamente disponibili in traduzioni nelle lingue parlate dalla gente. E questo anche tra le comunità cattoliche nonostante la pervicace e violenta resistenza delle gerarchie ecclesiastiche, motivata dal timore che ne uscisse lesa la verità.
Il dibattito è ancora vivo nella nostra Chiesa, nonostante che il Concilio Vaticano 2º (1962-1965), ribaltando le precedenti posizioni, avesse deliberato di aprire al popolo di fede le fonti bibliche, rendendole disponibili integralmente in traduzioni nelle lingue realmente parlate e dai testi originali, interpretati secondo il metodo delle scienze bibliche, non più solo dal latino ecclesiastico.
Nel 2009, nell’enciclica Carità nella verità – Caritas in veritate, si concluse che la cosa più grande fosse la verità. La carità-agàpe non doveva essere considerata un criterio veritativo, ma era la verità, nel senso sopra precisato, che doveva definire ciò che era realmente agàpe. Questo rimetteva tutto nelle mani dei dotti in linea con la gerarchia e tagliava fuori l’altra gente.
L’agàpe evangelica è un linguaggio universale perché ogni persona lo intende. Il metodo sinodale esteso a tutte le componenti della comunità ecclesiale vorrebbe darle spazio, ma finora non si è riusciti a trovare come fare in pratica. C’è di mezzo l’idea della verità e si teme che attenuando l’autoritarismo gerarchico che vi è connaturato l’organizzazione ecclesiastica di sfaldi. Di fatto la pressione autoritaria non è più forte in società come un tempo, per lo sviluppo dei processi democratici e per la sempre più elevata scolarizzazione delle masse, che le rende insofferenti alla mera sudditanza.
Di fatto, e a prescindere dagli sviluppi della sinodalità, la voce della gente si è fatta sentire. Contemporaneamente però si sono manifestate crescenti difficoltà, nelle società europee, le più evolute del mondo sotto questo profilo, nella pratica della democrazia, vale a dire nel governo della società partecipato. Le società europee sono molto più popolate di un tempo e la composizione culturale ed etnica è mutata sia l’evoluzione generazionale dei costumi, sia per fenomeni migratori interni ed esterni, con molta più gente che va e che viene, che insomma si sposta, portandosi dietro le culture di riferimento.
Il degradarsi dei processi democratici ha dato più potere alle oligarchie sociali, le quali, come sempre accade, cercano di diffondere culture per legittimarsi, riproponendo ideologie e liturgie autoritarie che solo due decenni fa sembravano obsolete. La cosa ha interessato anche la nostra Chiesa, ad esempio con la papolatria di questi giorni, con la gente che accetta di farsi massa plaudente, semplice comparsa nelle liturgie di un potere sovrano.
Se si pensa sia utile aver qualche parte nell’organizzazione della società, bisognerebbe prendere consapevolezza che, nel farlo, non si deve pensare di poter fare da soli, e di potersi limitare a ciò che è già stato scritto e osservato. E’ indispensabile incontrarsi e argomentare dialetticamente, vale a dire dialogando, quindi anche affrontando le divergenze, rifiutando però di tagliar corto cercando di prevaricare o escludere. E’ necessario far convergere diversi punti di vista, perché nessuno, da solo, anche se sorretto da una grande mente, può avere una visione sufficientemente completa del mondo. Ne manifestarono consapevolezza i saggi del Concilio Vaticano 2º, che invitarono il popolo di fede a manifestare il proprio apporto ai pastori. Ma se poi non si riesce ad intendersi, a raggiungere una decisione condivisa?
Nelle questioni che riguardano l’immaginario, e tipicamente lo sono quelle che riguardano le fantasie costruite sul soprannaturale, si può anche mantenersi divisi, praticando ognuno a modo proprio, se non ci si accorda. Sul resto, su ciò che riguarda la vita reale, in genere un accordo si trova sempre sulla soluzione in cui la maggior parte ottiene un beneficio e l’altra parte non ne è troppo danneggiata. Allora il criterio maggioritario soccorre, perché in queste condizioni, raggiunto un punto di equilibrio, la decisione a maggioranza viene accettata. È la pratica democratica, della quale quella sinodale è una specie, che rende sempre più abili nel raggiungere quel risultato. È ciò che sperimentiamo in Azione Cattolica, ma non in parrocchia, dove la sinodalità esiste ancora in ambiti limitatissimi. Questo non comporta che le decisioni non sinodali siano accettate da tutti, ma che le persone a cui non vanno bene se ne allontanano, votando con i piedi, come si dice. Certo, non si manifestano conflitti, perché ci va chi ci sta, ma questa agàpe è di mediocre qualità.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli